Arturo Pérez-Reverte
Pronunciate il nome di Pérez-Reverte in Spagna, o in qualsiasi paese dell’America Latina, ed otterrete immediatamente, in risposta, uno sguardo affermativo. Non sarebbe esagerato definirlo il più importante (oltre che il più famoso) romanziere spagnolo vivente. Considerando poi che proprio la Spagna ha dato i natali al romanzo moderno (ed, ovviamente, mi riferisco al Don Quijote), non è cosa da poco. È forse anche per questo, ma non solo per questo, che confesso senza esitazioni di aver provato una certa emozione quando, nella confortevole e lussuosa reception dell’Hotel Colonna, nel cuore della Roma papalina, ho avuto l’occasione di stringergli la mano. Tra l’altro, amici spagnoli mi avevano messo in guardia nei confronti di una certa, supposta... “spigolosità” del suo carattere. Devo invece dire di essermi trovato di fronte un professionista estremamente cortese senza, tuttavia, essere per questo freddo o distaccato. Un uomo abituato a mettersi in discussione ed difendere le proprie opinioni, indubbiamente. E si tratta di opinioni molto forti, frutto di profonde riflessioni e dell’esperienza di una vita. Un grande costruttore di storie, costantemente consapevole della transitorietà dell’esistenza e determinato a lasciare traccia del suo passaggio. Perchè alla fine, lo sappiamo, vincerà lei: la morte, ma Reverte non mi sembra deciso a darle partita vinta o a facilitarle il compito. Una visione della vita da vecchio soldato che, in buona misura, mi sento di condividere e questo, forse, spiega perchè l’intervista si sia, lentamente, trasformata in una conversazione non strettamente letteraria. Anche senza divisa - cantava Fiorella Mannoia - il ragazzo è pur sempre un soldato... La verità è che essendo, come sono, un suo ammiratore, avrei moltissime domande da rivolgerle... ma, visto che sono un dilettante che tenta di apparire quanto più professionale possibile, credo dovremmo iniziare parlando del suo nuovo libro: “Il pittore di battaglie”. Fin dalle prime pagine ci si rende conto di come sia un romanzo molto diverso dai precedenti, sia come stile che come struttura. È stata una decisione cosciente quella di lavorare ad un libro tanto diverso dai diciotto che lo hanno preceduto oppure, piuttosto, una sorta di necessità? Si percepisce chiaramente, leggendo queste pagine, che c’è molto di personale (senza per questo che ci sia qualcosa di autobiografico). La verità è che ci sono cose che non si possono nè raccontare nè comprendere davvero, se non le si è vissute. Per questo motivo mi chiedo se questo libro non sia, in certa misura, difficile da capire per il lettore italiano, per il quale la guerra (per fortuna) è generalmente qualcosa di lontano, o almeno così ci piace pensare... Ci piacerebbe dimenticarlo, perchè non è un pensiero piacevole... Questo libro sarà un colpo allo stomaco per tutti quelli che, quando l’orrore della vita cerca di afferrarli attraverso l’occhio azzurro della televisione, cambiano canale come se questo bastasse a cancellarlo, a renderlo ireale. Concetto interessante… un’umanità ormai resa maggiorenne dall’arrivo dell’età dell’informazione che però si rifiuta di assumere le responsabilità che a questa maggiore età sono collegate. Il chè anticipa la mia prossima domanda. In tutti i suoi libri, o quasi, si nota un forte interesse per il passato. Quasi una forma di nostalgia, o di amore nostalgico. Però il passato non era migliore del presente, anche se possedeva questa forma di innocenza che, possiamo dire, giustificava quelle che erano le azioni degli uomini. Questo è molto americano… E per lei, scrivere questo romanzo, è stato un modo per dimenticare le cose che ha vissuto o, al contrario, di accettarle? Chiaro, tutti moriamo a poco a poco, giorno per giorno… Sempre, sfortunatamente, ci tocca di accettare quel che non possiamo cambiare… Parliamo del romanzo, allora, in chi si identifica di più Pérez-Réverte: Faulques o Markovic? La parte contemplativa e la parte attiva? E Olvido? Però Olvido è anche un simbolo: Olvido come olvidar (dimenticare). E quando, alla fine, muore la capacità di dimenticare, non rimane nulla. Non c’è più nessuna consolazione. Una consolazione molto terrena. C’è un punto, nel romanzo, in cui Faulques dice: “Lasciamo Dio fuori da tutto questo…”. C’è un’altra considerazione molto interessante nel libro: vivimos en un mundo que tiene leyes pero nunca podremos saber quales son (Viviamo in un mondo che ha le sue leggi, ma non ci è dato sapere quali siano). Come a dire, in fondo, che non ha senso chiedersi “Perché a me?”, visto che ci si potrebbe chiedere, con la medesima valenza logica, “Perché non a me?”. E la prima domanda non ha più valore della seconda. È per questo che ha abbandonato la professione di inviato di guerra? Perché non ne poteva più di battaglie, morte, tragedie? La Guerra di Bosnia, già. È incredibile come la gente abbia potuto restare così indifferente. La Bosnia è qui a lato. Cento chilometri di un mare che è praticamente un lago. Quasi si poteva sentire il rumore degli aerei e delle bombe. Quanti anni sono passati? Dieci? Dodici? Nessuno parla della Bosnia. Nessuno si ricorda di Sarajevo. È come se cercassimo di dimenticare per non ricordarci del male che abbiamo dentro. E questa guerra, qui, alle porte di casa, ha dimostrato che il male non si è estinto con la caduta di Hitler o con la fine del nazismo. Che il male non è sempre qualcosa di lontano, che riguarda gli altri. Il male è nel cuore degli uomini. Tutti. Incluso il nostro vicino di casa. Inclusi noi stessi. Quindi, quello che è successo in Bosnia, quello che è successo fra Hutu e Tutsi in Ruanda (quasi un milione di morti, per lo più fatti a pezzi all’arma bianca) non sono cose lontane, aberrazioni della natura umana, si tratta di qualcosa che dorme nel cuore di tutti gli uomini, attendendo le giuste condizioni per mostrarsi. Stiamo divagando, lo so. Ma è molto difficile parlare di questo libro limitandosi a parlare di letteratura. No, non lo è infatti. Ed è una buona cosa. Perché questo libro è qualcosa di più di un semplice romanzo. È un’occasione per riflettere. Anche in questo senso, si tratta di un libro differente dagli altri suoi romanzi. Com’è stata la reazione del suo pubblico abituale, abituato a romanzi più avventurosi e più “classici” nella forma e nei contenuti? Si, è vero. Si tratta di un libro molto più complesso… e forse non lo consiglierei ad un lettore che non avesse mai letto nulla di Arturo Pérez Reverte. Ci sono però punti di contatto con gli altri suoi libri. Per esempio con il ciclo di Alatriste. Alatriste potrebbe essere visto come la fusione di Faulques e Makovic... Anche lui è un veterano, ed ha elementi in comune con tutti e due i personaggi del Pintor de batallas. Anche Olvido... premetto che sono assolutamente affascinato dai suoi personaggi femminili. Perché hanno… beh, sono difficili da spiegare, esattamente come le donne vere! Sono donne affascinanti, misteriose, passionali e… pericolose. Ed ovviamente quasi incomprensibili per gli uomini che stanno loro intorno. In Olvido vedo un riflesso di Nikon (da El club Dumas – n.d.) e molti elementi in comune anche con Tanjer Soto (da La carta esferica - n.d.), che per me è una delle meglio riuscite tra le sue “donne di carta”. La migliore, ed anche la peggiore, se vogliamo, perché è davvero … cattiva! No, non ancora. In America Meridionale, oltre che in Spagna (e non solo!) i suoi libri sono molto popolari. Fatico invece a capire come mai, nonostante tutto, in Italia non siano ancora conosciuti come meriterebbero. Le nostre librerie sono stracolme di spazzatura nordamericana, con tutto il rispetto per gli autori, che ci viene presentata come se fosse letteratura immortale, mentre, invece, avremmo molti più punti di contatto con la cultura spagnola. Molto vero, d’altra parte capita la stessa cosa con gli autori italiani, spesso più famosi all’estero che qui da noi (uno per tutti, il caso di Valerio Evangelisti che in Francia è un autore “cult”). È qualcosa su cui dovremmo lavorare, tutti noi che ci occupiamo di libri... Però, con le mie chiacchiere, sto davvero abusando della sua pazienza (e dagli sguardi che vedo attorno direi anche di aver sforato il tempo previsto!). La verità è che è stato anche troppo cortese… Diciamo allora che proseguiremo questa interessante conversazione quando tornerà in Italia per presentare il suo prossimo romanzo? grazie a: progettobabele.it/
Che cosa ti ha portato a scrivere romanzi gialli? In realtà non scrivo gialli in senso stretto, anche se mi servo delle tecniche del poliziesco. Se ho intenzione di comunicare al lettore un messaggio, qualsiasi messaggio, scelgo il giallo e la sua struttura per catturare la sua attenzione e raccontare una storia. In ogni caso, il giallo ha avuto una parte importante nella tua formazione. Sopra la mia scrivania ho tre ritratti: uno di Stendhal, uno di Dumas e uno di Basil Rathbone, che per me ha incarnato il vero Sherlock Holmes. Sir Arthur Conan Doyle è stato uno dei primi autori di gialli che ho letto ed è ancora un importante punto di riferimento. Ho amato molto sia Maurice Leblanc che Allain e Souvestre... Arsenio Lupin e Fantomas. Una predilezione per i grandi ladri? Può essere, visto che un altro autore a cui mi sono molto appassionato è stato Leslie Charteris Quando negli anni sessanta, furono trasmessi i telefilm di Simon Templar con Roger Moore, il successo fu tale che anche in Spagna vennero pubblicati tutti i libri del Santo. A comprarli era una mia vecchia zia, da cui poi li ho ereditati. Leslie Charteris aveva cominciato scrivendo libri di intrattenimento di massa, ma nel corso del tempo si è raffinato. Le sue storie erano piene di humour e gusto dell'avventura. In Italia non è mai arrivato nemmeno il primo film tratto dai tuoi romanzi, La tavola fiamminga... Meglio, molto meglio che non sia arrivato Devo supporre che la tua opinione in proposito non sia molto favorevole? La tavola fiamminga era una pellicola realizzata da un regista americano, Jim Mc Bride, e destinata a un mercato americano. Non aveva niente a che vedere col libro. Quindi il tuo rapporto col cinema non è dei più felici. Sono stati tratti quattro film dai miei libri. Oltre a La tavola fiamminga, sono usciti Cachito, Territorio comanche e El maestro de esgrima. Quest'ultimo era un buon film, interpretato da Omero Antonutti. Anche Territorio comanche era un film piuttosto riuscito. Ma mi sono state necessarie quattro versioni cinematografiche di miei libri per capire che la letteratura e il cinema avevano due linguaggi diversi. Certo, il cinema ha due vantaggi. Il primo è che l'autore guadagna denaro dalla realizzazione di un film, il che non fa mai male. Il secondo è che il cinema attrae nuovi lettori: una persona che non avrebbe mai preso in mano un tuo romanzo, dopo aver visto un film può esserne incuriosito e leggerlo, dicendo "Vediamo un po' com'è." In ogni caso, si tratta sempre di due opere differenti e sono giunto alla conclusione che lo scrittore si deve distaccare dal film e cercare di non intervenire nella sua realizzazione. Per questo rifiuto sempre la richiesta di collaborare alla sceneggiatura dei film tratti dai miei libri. Fra non molto (l’intervista è del 1998, N.d.R.) uscirà il film di Roman Polanski tratto da Il Club Dumas, con protagonista un “cacciatore di libri” il cui nome, in omaggio alle tue ascendenze napoleoniche, è Lucas Corso. Che cosa ti aspetti? Sono sicuro che quello di Polanski sarà un bel film. Invece posso anticipare che la sceneggiatura tratta de La pelle del tamburo è una cosa infame. Che il giudizio dell'autore sia molto severo con gli sceneggiatori che mettono mano ai suoi romanzi lo vediamo da quello che scrisse tempo fa proprio sul film La tavola fiamminga: "La sceneggiatura di Michael Hirst convertiva la storia della mia restauratrice d'arte, dell'antiquario César e dello scacchista Muñoz in un fumetto da quattro soldi, con una trama infantile, tipica dei telefilm americani trasmessi all'ora di pranzo." Non meno tormentata è la storia della realizzazione di Cachito, basata sul romanzo breve Un asunto de honor (letteralmente: "Una questione d'onore") che l'autore aveva scritto su richiesta di un amico produttore. Il regista-sceneggiatore Imanol Uribe, reduce dal successo di Dias contados (dal romanzo di Juan Madrid) aveva stravolto completamente la storia originale, scatenando le ire di Pérez-Reverte, che voleva togliere il proprio nome dai titoli del film. Quando Uribe decise di abbandonare la pellicola al suo destino, subentrò il giovane regista Enrique Urbizu, che insieme a Pérez-Reverte si mise a percorrere le strade dell'Andalusia, seguendo il tragitto dei personaggi della storia. Solo così il risultato finale, a metà tra il thriller e il "road movie", tornò ad avvicinarsi allo spirito originale del romanzo. C'è un paragone che Arturo Pérez-Reverte ama ripetere, da qualche tempo a questa parte: "Vendere i diritti cinematografici di un romanzo è come sposare una figlia. La cresci, la educhi, la vizi, le comperi le scarpette Nike... poi, quando compie diciassette anni arriva un figlio di puttana qualunque che te la porta via." Un paragone molto sentito, dal momento che lo scrittore ha, appunto, una figlia, Carlota Pérez-Reverte, che con lui ha firmato il primo dei sei romanzi del ciclo del Capitano Alatriste. Quanti anni ha tua figlia? Quattordici. E a quattordici anni tua figlia è già coautrice di un libro di enorme successo come El capitan Alatriste? Carlota ha compiuto tutto il lavoro di ricerca storica, dalle ambientazioni all'abbigliamento, necessari per scrivere i romanzi della serie di Alatriste. Era doveroso riconoscerla come coautrice. Anche tua figlia è un'appassionata lettrice di gialli? Le piacciono moltissimo i romanzi di Flanagan, il personaggio di Andreu Martín e Jaume Ribera. Ma il giallo o la lettura di Stendhal e Dumas non sono gli unici elementi che hanno formato Pérez-Reverte come scrittore. Conta molto il fatto che, giovanissimo, abbia cominciato a lavorare come giornalista, scrivendo per El pueblo, e specializzandosi nel ruolo di corrispondente di guerra. In questa veste ha lavorato a lungo per la TVE, la televisione spagnola, acquistando una notevole fama. Il pubblico lo vedeva come un intrepido reporter, anche se lui ha sempre cercato di sfuggire a questa immagine "eroica". Afferma di non avere mai conosciuto eroi con la E maiuscola, un concetto che si riflette nei suoi personaggi. Più che un detective dei libri, il Lucas Corso de Il club Dumas è un mercenario della cultura, un professionista che lavora su commissione. Quanto a padre Lorenzo Quart, l'investigatore de La pelle del tamburo, è un prete che ha perso la fede, o che forse non l'ha mai avuta. Tutti i miei personaggi sono così, privi di fede e di ideali. Credo sia un effetto del lavoro che ho fatto per oltre vent'anni. Ho lavorato come giornalista dal 1974, scrivendo reportage di guerra da ogni parte del mondo. Nicaragua, Salvador, Libano... fino al recente conflitto in Bosnia. Nel mio lavoro di corrispondente di guerra ho visto da vicino l'orrore assoluto e il risultato è che i miei personaggi hanno finito col perdere ogni possibile fede negli ideali. Sono diventati degli "eroi stanchi". Ci sono altre contaminazioni tra il tuo lavoro di reporter e quello di scrittore? Hai mai usato materiale di origine giornalistica all'interno dei tuoi romanzi? Nella maggior parte dei casi, ho sempre tenuto separate le due attività. E quando mi sono stancato di fare il reporter sono passato alla letteratura, per potermi dedicare a cose di cui come giornalista non avevo tempo di occuparmi. Certo, le mie esperienze hanno comunque influenzato il carattere dei miei personaggi. Non si vive impunemente. Tuttavia è stato proprio quando facevo il corrispondente di guerra che la letteratura, sia per un lettore che per uno scrittore, è un potente analgesico. Ovunque andassi, a Beirut o a Sarajevo, portavo con me dei libri e, alla luce di una candela mi immergevo completamente nel mondo di Sherlock Holmes, o in quello di Hans Castorp ne La montagna incantata. La lettura rappresentava una forma di consolazione in mezzo all'orrore. Un analgesico, sia chiaro, non un anestetico, perché ti consente di sopravvivere senza farti voltare le spalle alla realtà. In effetti, sono prima di tutto un lettore. Mi considero uno scrittore accidentale. Fare il romanziere mi permette di vivere le vite che non ho vissuto, amare le donne che non ho amato, uccidere la gente che avrei voluto ammazzare. Il guaio è che ogni tanto qualcuno si riconosce. In ogni caso, scrivo le storie che ho voglia di raccontare. Per questo non ho mai il problema della pagina bianca. Negli ultimi anni ti sei dedicato alla saga El capitan Alatriste, vicenda di cappa e spada ambientata nella Spagna del XVII secolo, premiata da un enorme successo. Il primo è arrivato a quattrocentomila copie nell'arco di alcuni mesi, il secondo ha raggiunto la stessa quantità già nelle prime settimane. I dati delle tue vendite sono sempre impressionanti. Devo confessare che il primo a sorprendersi sono io. Non sorprende invece che tra i lettori di Arturo Pérez-Reverte ci sia una notevole percentuale di donne. In parte questo può essere dovuto al suo fascino personale, che le lettrici inevitabilmente proiettano sui suoi personaggi. Ma lo scrittore ha una teoria diversa in proposito, in un incontro tenuto nella sede milanese dell'Instituto Cervantes: le donne sono le lettrici migliori, perché sono più complesse. Occorrono pochi minuti per capire come è fatto un uomo, mentre una donna richiede molto più tempo e si può vivere insieme a lei per anni senza riuscire a comprenderla. Le donne nascono con un numero maggiore di informazioni nel loro corredo genetico e per questo, dice Pérez-Reverte, riescono ad appassionarsi a personaggi come i suoi: spadaccini, assassini ed eroi stanchi. grazie a: borderfiction.com/ |