Daniel Pennac
Amatissimo in Francia (ma non da tutti), su di lui, e sullo straordinario successo avuto dai suoi folli libri, si è detto molto.
Qui ci si limita a rendere omaggio ad uno scrittore formidabile, discreto e funambolico, realista e metafisico, caotico e precisissimo.
Qualche anno fa, alla presentazione italiana di un suo libro, gli chiesero: "Ma lei scrive gialli?"
Un attimo di esitazione, dato che "giallo" in francese è solo un colore, e poi: "Ma certo, e anche verdi, e a pois."
Appunto.
Ciclo di Malaussène
- Il paradiso degli orchi (Au bonheur des ogres, 1985), Feltrinelli, 1991, 2016
- La fata carabina (La Fée Carabine, 1987), Feltrinelli, 1992, 2015
- La prosivendola (La Petite Marchande de prose, 1989), Feltrinelli, 1990, 2015
- Signor Malaussène (Monsieur Malaussène, 1995), Feltrinelli, 1995, 2014
- Ultime notizie dalla famiglia, Feltrinelli, 1997, 2015 - comprende: Signor Malaussène a teatro (Monsieur Malaussène au théâtre, 1995) e Cristiani e Mori (Des Chrétiens et des maures, Le Monde, 1996)
- La passione secondo Thérèse (Aux fruits de la passion, Le Nouvel Observateur, 1998) Feltrinelli, 1999, 2009
- Il caso Malaussène. MI hanno mentito (Ils m'ont menti, Gallimard 2017), Feltrinelli, 2017
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Alessia Liparoti
Intervista a Daniel Pennac |
In Francia non sono un intellettuale omologato. E non ho nessuna voglia di esserlo.
Dopo 18 anni di attesa, è tornata la saga di Belleville, e per l'occasione ilLibraio.it ha incontrato Daniel Pennac (che nel corso dell'intervista ha realizzato anche un disegno): "Credo che le ragioni del successo della saga siano nell’aver raccontato un’idea di comunità oggi messa particolarmente in discussione, fondata su giustizia, solidarietà e sull’autorità morale di Benjamin". Tra i tanti temi toccati, anche decalogo dei “diritti dei lettori”, che per l'occasione lo scrittore francese (che confessa l'apprezzamento per autori italiani come Silvia Avallone e Antonio Moresco) ha aggiornato...
Mentre ascolta e risponde alle domande Daniel Pennac disegna. Parte da un minimo dettaglio, la forma di una bocca atipica, per poi creare, in meno di mezz’ora, un personaggio dalle labbra carnose e il naso importante con in testa una specie di lampada-fungo, una voluminosa collana a cerchi concentrici, le braccia aperte, un’ampia gonna che svela i polpacci e i piedi scalzi di una ballerina sulle punte. Questo è il disegno che mi ha donato al termine della nostra intervista. Non so se possa essersi ispirato a me nel realizzarlo (e in tal caso scatterebbe una seconda intervista sul significato) ma sicuramente è l’ennesima riprova che il suo estro non si limita alla parola scritta.
Grazie all’agognato ritorno, dopo 18 anni, alla saga di Belleville, con il primo di due volumi, Il caso Malaussène. Mi hanno mentito (Feltrinelli) il professore francese ha appagato il desiderio di generazioni di lettori di ritrovare una delle famiglie più strampalate e amate della narrativa contemporanea. Ed è infatti tra gli ospiti più attesi dell’imminente Salone Internazionale del Libro di Torino. In questi 18 anni però non si è fermato: ha pubblicato testi per bambini, fumetti, saggi, il romanzo Storia di un corpo (tutti editi da Feltrinelli) e si è dedicato al teatro. Eppure, quando a una presentazione quattro anni fa, tre generazioni di donne – nonna, mamma e figlia – gli hanno chiesto a gran voce una nuova storia sulla tribù Malaussène, lui ha pensato fosse venuto il tempo per accontentarle.
E così riecco lo sguardo di Benjamin-Pennac, quello sguardo sul mondo in cui convivono joie de vivre e scettico disincanto. Un doppio registro che si riflette nella scrittura frizzante, attraversata però dalla consapevolezza del carattere effimero del reale. Questa volta la tribù ha a che fare con i nuovi dettami di affari ed economia, polizia e giustizia. “La sai la più bella?”, questo l’esergo e titolo del primo capitolo (citazione di Gullit) introduce l’episodio scatenante: il rapimento di Georges Lapietà, imprenditore ex ministro, e la richiesta di un riscatto destinato in beneficienza. E poi c’è l’autore di autofiction, Alceste con i suoi adepti, romanzieri cultori della verità vera, quando a dominare, anche nelle loro opere, sono finzione e menzogna. Non può mancare il “repertorio” iniziale con oltre 90 voci tra luoghi e personaggi: dalla nipote È un Angelo alla città della Resistenza Vercors. E il protagonista, il capro espiatorio Benjamin? È sempre lui. Un po’ invecchiato, certo. Si barcamena con il mondo di internet e dei «soscial» - come li chiama lui - per stare in contatto con figli e nipoti tramite Skype. Eppure è come se non se ne fosse mai andato.
In molti hanno salutato questo suo nuovo romanzo sui Malaussène come il ritorno di un amico. Quali sono secondo lei le ragioni di un tale affetto?
Innanzitutto mi fa molto piacere questa accoglienza. Credo che le ragioni del successo di questa saga siano nell’aver raccontato un’idea di comunità tribal-familiare fondata su giustizia, solidarietà e l’autorità morale di Benjamin. Un’idea di comunità oggi messa particolarmente in discussione.
Errico Buonanno su Rivista Studio ha scritto che l’attesa di questo suo nuovo capitolo della saga di Belleville risieda anche nel fatto che negli Anni Novanta lei è stato uno degli autori di riferimento, in un’epoca in cui la narrativa aveva sostituito l’ideologia.
Sì, è vero che c’è qualcosa nei romanzi di Malaussène che sostituisce il pensiero ideologico. Benjamin tuttavia non è un personaggio ideologico, sebbene sia di sinistra. È una cosa che riguarda il mio comportamento: dal punto di vista ideologico io ho sempre preferito le azioni ai discorsi. Siamo responsabili e possiamo essere ritenuti tali solo di ciò che facciamo. Mentre molto spesso ci capita di enunciare principi molto rigidi e rigorosi, senza avere minimamente un comportamento che li giustifichi.
A tale proposito, tra opinion leader, guru e influencer, il ruolo dell’intellettuale oggi qual è?
Io non sono un intellettuale, nel senso analitico del termine. Io sono un romanziere, un narratore di storie, un produttore di metafore. Tuttavia non sono un analista concettuale della società. Da questo punto di vista in Francia non sono un intellettuale omologato. E non ho nessuna voglia di esserlo.
Tra le nuove leve di scrittori, chi sta seguendo?
Seguo molto gli italiani. Amo la potenza narrativa di Silvia Avallone. Ho adorato Acciaio. Ha una forza di produzione simbolica incredibile. E poi un altro autore, che però non ha la stessa età della Avallone, è Antonio Moresco, che ho scoperto di recente con i brevi racconti come La lucina e Favola d’amore. È uno scrittore interessante, perché non c’è un recinto nel suo lavoro. Si passa di peripezia in peripezia senza steccati, come se fossimo seduti in una diligenza del sogno, però con dei sogni molto incarnati. È stata una delle letture che mi ha più stupito nei tempi recenti.
A proposito di autori italiani, nella dedica cita Stefano Benni, suo grande amico. Su Robinson Benni ha recensito questo suo nuovo romanzo attraverso un dialogo immaginario tra lei, “il Pennacchioni” e il suo personaggio, Benjamin Malaussène…
L’ho trovato molto divertente perché Stefano ha deliberatamente scritto il genere di articolo che fa sì che un qualsiasi autore di un romanzo giallo dovrebbe suicidarsi. Ha infatti raccontato tutta la storia. E io sono morto, sì. Ma dalle risate.
Anche in questo capitolo della saga dei Malaussène si intrecciano varie avventure, dalla favola al noir. Tra i temi, il rapporto tra polizia e giustizia e, attraverso la figura di Georges Lapietà, il ruolo di politica, affari, economia. Cosa l’ha spinto a trattare proprio questi temi?
Per me l’unica cosa urgente è la scrittura. E in questo libro sui Malaussène, non avevo alcuna intenzione narrativa preliminare. Ho cominciato a scrivere e ho fatto dei ritratti, come quelli di Lapietà e di Alceste, l’autore di autofiction. Tutti questi sono dei tipi sociali contemporanei. Ad esempio la figura del capo dell’azienda che fa fallire la propria società a beneficio di un fondo internazionale. Oppure lo scrittore di autofiction che si mette a scrivere perché scopre che i suoi genitori gli hanno mentito. E questi personaggi nascono dalla scrittura.
All’origine ci sono dunque i personaggi.
Sì, e in modo naturale vanno a iscriversi in una realtà che è quella della società in cui vivo. Quindi è inevitabile che parli della giustizia, della polizia, dell’editoria. Ma non sono mai spinto dal desiderio di dire qualcosa in relazione ad argomenti prestabiliti. È un po’ come se nel momento in cui ne scrivo, io mi accorgessi del funzionamento della polizia, della giustizia, dei conflitti. E naturalmente queste constatazioni sono nutrite dall’attualità.
Ma quanto la scrittura può rappresentare la realtà? Accanto al personaggio di Alceste c’è il manipolo di romanzieri vevé, gli adepti della verità vera che praticano però la finzione.
È a loro che bisogna porre questa domanda. (ride).
E invece, riguardo al suo stile inconfondibile, come definisce il suo lavoro di artigiano della scrittura?
Difficile. In realtà in letteratura sono bipolare. Alterno momenti di eccitazione intensa ad altri di paralisi assoluta. E quando si fa la somma di questi momenti, si ottiene un lungo periodo prima della stesura. Ad esempio: ci ho messo quattro anni a scrivere quest’ultimo romanzo. Ma quando uno scrittore come me le dice che ci ha impiegato cinque anni a scrivere il suo libro, vuol dire che ce ne sono voluti almeno altri quattro per non scriverlo. E il periodo della non scrittura è quello in cui ci si interroga.
Oppure ci si dedica ad altro. In questi 18 anni dall’ultimo capitolo della saga, lei ha sperimentato varie forme letterarie: dal teatro al saggio fino ai libri per bambini e ai fumetti trasposti di recente in scena a Napoli.
Queste esperienze nascono dal desiderio di incontrare delle persone e di lavorare con persone che stimo. Se io faccio teatro è perché la troupe di gente che formiamo mi piace. E in generale perché la vita del teatro, gli aspetti tecnici, le persone e l’atmosfera mi appagano. E mi tirano fuori dalla mia solitudine di romanziere, che a volte mi stanca.
A proposito della notizia “La sai la più bella?” che troviamo all’inizio e che ripetono i personaggi, se lei dovesse scegliere tre fatti di oggi che rispettano queste caratteristiche, quali citerebbe?
Non è semplice. Beh, citerei l’elezione di Jocker (alias Donald Trump, ndr) negli Stati Uniti che non è divertente per niente, anzi, è molto impressionante. E forse anche la Brexit. Poi, tornando più indietro, ci sono i miei amici di Charlie Hebdo che sono stati uccisi. Ed è stato un trauma molto forte da cui sembra essersi scatenata una guerra ai confini dei Paesi del Sud.
In Come un romanzo scriveva: “Il piacere di leggere non ha nulla da temere dall’immagine, anche televisiva, e anche sotto forma di massicce dosi quotidiane”. Ma oggi come la mettiamo con i social network?
La cosa interessante è che questo mondo dematerializzato rappresentato dalla rete, è un universo concepito da intelligenze giovani. Steve Jobs e tutti gli altri come Zuckerberg avevano solo 16 o 17 anni quando hanno creato. Tutte queste invenzioni sono germogliate nella testa di adolescenti e sono esplose quando avevano 20 anni o giù di lì. Guardare le foto di questi creatori poco più che ventenni che hanno dato vita a imprese che ora sono potenze mondiali mi fa una certa impressione.
Eppure lei ha affermato di avere fiducia nei giovani, che guardandoli si sente tranquillo…
È una domanda che mi hanno posto, ma in realtà né la domanda né la risposta hanno senso. Certo, se a proposito di questi esempi, la fiducia c’è, ma bisognerà vedere se queste generazioni riusciranno a mantenere il controllo etico su tali creazioni.
E se dovesse aggiornare il suo celebre decalogo dei “diritti dei lettori” ai tempi dei social, quale nuovo diritto aggiungerebbe?
Il diritto di spegnere il telefonino per leggere tranquillamente.
grazie a: http://www.illibraio.it/ 17.05.2017
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Luisa Gerini Intervista a Daniel Pennac |
Una lezione di ignoranza si apre con il ricordo degli “indimenticati”, quei professori che hanno saputo fare la differenza nel suo travagliato percorso scolastico perché capaci di trasmettere curiosità e conoscenza. Perché i passeur sono così importanti nella trasmissione della cultura?
La nozione di passeur è intimamente connessa alla nozione di proprietà, di possesso della cultura. Esistono due modi distinti di relazionarsi con la cultura. Alcune persone, che chiameremo i “guardiani del tempio”, pensano che il proprio bagaglio culturale costituisca una proprietà privata, da condividere unicamente con una cerchia ristretta di persone e considerata sacra al punto da decidere di escludere chi non ne reputano degno. Altre, i passeur, si vedono invece come vettori di cultura. Non si tratta di un principio etico, ma piuttosto di una questione di mentalità, di atteggiamento. Personalmente non ho mai ritenuto di possedere quello che so, mi sento piuttosto simile a un fusibile dentro un circuito elettrico. Non essendoci l’idea di possesso, siamo oltre il principio della condivisione: tutto quello che imparo, tutto quello che scopro, se mi piace e mi dà emozioni, ecco che scelgo di fartelo conoscere perché possa incantare e arricchire anche te.
Come è possibile conciliare l’esperienza della lettura, che è intima e individuale, con lo stimolo a diventare a nostra volta un passeur?
Quando si parla di lettura, ognuno di noi ha il suo “giardino segreto”. Ci sono emozioni che ho provato leggendo un brano che non ho mai raccontato a nessuno, perché era qualcosa di troppo sottile, di troppo personale. Non un bene posseduto, ma un momento di intensa felicità, profondamente intimo. Ecco perché non sono un accanito sostenitore della trasmissione fine a se stessa: comprendo infatti perfettamente che si possa instaurare una certa intimità filosofica con determinati libri, e che si provi al tempo stesso il bisogno di tenere per sé alcune emozioni. Siamo i guardiani del nostro tempio. Il mio non è la cultura, ma certe briciole di sensazioni difficilmente descrivibili, appena percettibili, che posso anche scegliere di non raccontare. Anche se, in linea generale, tutto quello che mi tocca, che mi stimola culturalmente, lo trasmetto immediatamente.
Essere passeur: è un’attitudine innata o che si può acquisire? Quanto è importante che gli insegnanti sappiano svolgere questo ruolo?
È una questione complessa: essere passeur non è una vera e propria professione. In ambito culturale il vero passeur è la sfera affettiva. Il flusso della cultura scorre allora grazie al flusso della sfera affettiva: ti do da leggere quello che leggo io perché siamo amici. Per quanto riguarda gli insegnanti, molti di loro considerano la scuola non tanto come un luogo di trasmissione bensì come un luogo di valutazione. Sezionano un testo eseguendo una sorta di autopsia medico-legale, ma mai leggeranno in classe ad alta voce un brano che li ha colpiti dicendo “Ecco, ho letto questo ieri, ditemi cosa ne pensate”. La pedagogia francese, in modo particolare, ha plasmato gli insegnanti sul modello del “guardiano del tempio”: questo studente può entrare, quest’altro no.
Nelle prime pagine di Una lezione d’ignoranza lei afferma che i professori migliori sono quelli che sanno incarnare la materia che insegnano. Quali effetti ha sull’attenzione degli studenti la capacità di un professore di essere davvero “presente” in classe?
La pedagogia è una branca della drammaturgia: la materia insegnata deve essere incarnata, personificata. Se invece di fare una lezione ex cathedra, sicuramente molto interessante ma rivolta agli studenti migliori che non hanno certo bisogno che si catturi la loro attenzione perché dotati di una attitudine naturale all’astrazione, il professore sceglie di essere presente fisicamente in classe e guarda negli occhi lo studente a cui si rivolge, scherza con lui in virtù dell’intesa che si è creata, allora i concetti prenderanno corpo per effetto di questa teatralità. E sarà riuscito a coinvolgere tutta la classe, anche quegli studenti che hanno bisogno di passare attraverso una “fase di seduzione”. Su quanto questa fase debba essere di natura ludica, i pareri divergono. Alain (Émile-Auguste Chartier), grande filosofo e pedagogo dell’inizio del XX secolo, era assolutamente contrario, pur essendo lui stesso un personaggio singolare. Penso però anche a Vladimir Jankélévitch, un fiume in piena che trascinava con la sua corrente gli studenti. Poteva dire tutto e il contrario di tutto, le sue lezioni erano assolutamente travolgenti.
Quanto conta allora la capacità di seduzione di un professore? Si può parlare di un metodo Pennac?
È limitativo ridurre tutto alla capacità di seduzione. Nel corso degli anni, facendo tesoro anche dei miei errori, ho messo a punto delle tecniche che si possono replicare. Prendiamo l’appello, che per la maggior parte degli insegnanti non è che una formalità amministrativa eseguita senza neppure sollevare lo sguardo dal registro. Uno sguardo che invece può servire a creare una relazione personale con ogni studente, può essere il pretesto per un breve momento di complicità. Sembra una cosa da nulla, ma dà il tono a tutta la giornata, è il diapason che dà il la all’orchestra.
Cos’è per lei l’ignoranza? È l’espressione del malessere di uno studente che non corrisponde ai canoni richiesti dalla scuola o ha un significato più ampio?
L’espressione “lezione di ignoranza” è di un poeta, Georges Perros, diventato professore per sopravvivere perché come tutti i poeti moriva di fame. Arrivando in classe, era solito svuotare sulla cattedra la borsa piena di libri (Pascal, Cartesio, Rabelais, Montaigne) dicendo: “Ecco qui, una piccola lezione d’ignoranza”. Quindi cominciava a leggere ad alta voce e i suoi studenti non erano mai sazi di questa sorta di travaso in loro di tutto ciò che amava. Si tratta di un’ignoranza che vuole scoprire, che è alla ricerca. Che cos’è in realtà l’ignoranza? Semplicemente un altro tipo di conoscenza. Un giorno, all’inizio della mia carriera di insegnante, ho chiesto a un ragazzo di parlarmi della proposizione subordinata relativa. Mi ha risposto: “Questo non lo so, ma posso smontare e rimontare un motorino in meno di dieci minuti”. Ho poi scoperto che viveva così, rubando motorini. Allora abbiamo fatto un patto: la meccanica in cambio della grammatica. Perché se insegni a questo ragazzo che quella che chiamiamo grammatica è la strutturazione del suo pensiero, si appassiona immediatamente. Oppure prendiamo i modi del verbo. Nel film La classe (Palma d’oro a Cannes nel 2008) un professore dice del congiuntivo: “È così che si parlava un tempo”. Da fucilare immediatamente. Perché anche se pensano di vivere all’imperativo, anche se si esprimono solo all’imperativo, gli adolescenti sono paralizzati dal dubbio. Il congiuntivo è il modo verbale dell’adolescenza per eccellenza: è importante che sappiano che esiste un modo che sembra fatto apposta per loro, per esprimere l’indecisione, la crisi, il passaggio da uno stato all’altro.
Libri di carta e e-book: come cambierà la lettura?
Un giorno lo schermo prenderà il posto della carta e questo cambierà il modo di leggere, il modo di percepire il libro, perché ogni parola potrà essere contestualizzata. È il cinema in 3D rispetto al cinema tradizionale. La mia generazione ha una sorta di sensualità legata al libro, al suo odore (che non è quello dell’inchiostro come molti pensano, ma della colla). Si dimentica che i più giovani hanno già sviluppato un altro modo di rapportarsi all’oggetto tecnologico, desiderabile, le immagini brillanti, lo schermo su cui far scorrere il dito. Noi continuiamo a pensare che le librerie abbiano più fascino di quei piccoli rettangoli, ma in futuro sembrerà incredibile pensare alle nostre case piene di carta. Sono rimasto senza parole il giorno che ho letto uno studio sulle probabilità che ha un libro riposto su uno scaffale di essere ripreso in mano per essere riletto: molto vicine allo zero. Tenuto conto che generalmente presto sempre i libri che mi sono piaciuti e che raramente tornano indietro, so già che quelli rimasti non li guarderò più. A rifletterci bene è come se vivessi in un cimitero.
Lei ha scritto che la lettura è un antidoto alla solitudine metafisica dell’uomo. Perché leggiamo?
Perché siamo animali mitologici. Perché non ci limitiamo ai saggi e invece scegliamo di leggere romanzi? Perché abbiamo bisogno di metafore, la razionalità da sola non basta. In Francia, un bel giorno, lo strutturalismo ha decretato la morte del romanzo, al punto che era malvisto sia scrivere che leggere romanzi. Uno snobismo culturale da cui erano esenti i romanzi stranieri e questo ha permesso di scoprire il realismo magico e tutta la letteratura sud-americana. O Il profumo di Patrick Süskind, tre milioni di copie vendute. O i polizieschi come la saga Malaussène, considerati come letteratura underground. Questo bisogno di romanzi, insomma, non è solo intrattenimento: traduce un bisogno metafisico, va a colmare un vuoto.
In realtà (sorride) leggiamo per un’infinità di motivi: per non lavorare, o perché fuori piove.
grazie a: http://www.lindiceonline.com/ 01.12.2015
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Daniel Pennac
I diritti dei lettori |
In Come un romanzo Daniel Pennac ha formulato i dieci diritti imprescriptibles del lettore:
1. Il diritto di non leggere
(…) la maggior parte dei lettori si concede quotidianamente il diritto di non leggere. (…) tra un buon libro e un brutto telefilm, il secondo ha, più spesso di quanto vorremmo confessare, la meglio sul primo. Inoltre, non leggiamo sempre. I nostri periodi di lettura si alternano sovente a lunghi digiuni (…) se possiamo tranquillamente ammettere che un singolo individuo rifiuti la lettura, è intollerabile che egli sia – o si ritenga – rifiutato da essa.
2. Il diritto di saltare le pagine
Ho saltato delle pagine (…) E tutti i ragazzini dovrebbero fare altrettanto. In questo modo potrebbero buttarsi prestissimo su tutte le meraviglie ritenute inaccessibili per la loro età. (…) Un grave pericolo li minaccia se non decidono da soli quel che è alla loro portata saltando le pagine che vogliono: altri lo faranno al posto loro.
3. Il diritto di non finire il libro
Ci sono mille ragioni per abbandonare un romanzo prima della fine: la sensazione del già letto, una storia che non ci prende, il nostro totale dissenso rispetto alle tesi dell’autore, uno stile che ci fa venire la pelle d’oca (…) Inutile enumerare le 995 altre ragioni, fra le quali si debbono tuttavia annoverare la carie dentale, le angherie del capoufficio o un terremoto del cuore che ci paralizza la mente. (…)
4. Il diritto di rileggere
Rileggere quel che una prima volta ci aveva respinti, rileggere senza saltare nessun passaggio, rileggere da un’altra angolazione, rileggere per verificare (…). Ma rileggiamo soprattutto in modo gratuito, per piacere della ripetizione, la gioia di un nuovo incontro (…)
5. Il diritto di leggere qualsiasi cosa
(…) ci sono “buoni” e “cattivi” romanzi.
Molto spesso sono i secondi che incontriamo per primi sulla nostra strada.
E, parola mia, quanto toccò a me, ricordo di averli trovati “belli un casino”. Ma sono stato fortunato: nessuno mi ha preso in giro … Qualcuno ha solo lasciato sul mio passaggio qualche “buon” romanzo guardandosi bene dal proibirmi gli altri.
6. Il diritto al bovarismo
È questo, a grandi linee, il “bovarismo”: la soddisfazione immediata ed esclusiva delle nostre sensazione: l’immaginazione che si dilata, i nervi che vibrano, il cuore che si accende, l’adrenalina che sprizza, l’identificazione che diventa totale e il cervello che prende (…)
7. Il diritto di leggere ovunque
C'è un soldato che ama leggere Gogol durante l’esecuzione di un servizio, considerato dai più, poco onorevole: pulire le latrine.
8. Il diritto di spizzicare
È la libertà che ci concediamo di prendere un volume a caso della nostra biblioteca, di aprirlo, dove capita e di immergercisi un istante, proprio perché solo di quell’istante disponiamo.
9. Il diritto di leggere a voce alta
L’uomo che legge a viva voce si espone completamente agli occhi che lo ascoltano.(…)
10. Il diritto di tacere
L’uomo costruisce case perché è vivo ma scrive libri perché si sa mortale. Vive in gruppo perché è gregario, ma legge perché si sa solo. La lettura è per lui una compagnia che non prende il posto di nessun’altra, ma che nessun’altra potrebbe sostituire. (…) (…) le nostre ragioni di leggere sono strane quanto le nostre ragioni di vivere.
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