inizio rosso e giallo

George P. Pelecanos

 

Un classico: prima di diventare scrittore a tempo pieno ha fatto innumerevoli lavori tra cui il barista, il cuoco, il venditore di scarpe ed elettrodomestici.
Di origine greca, è nato (1957) e cresciuto a Washington, D.C., la città in cui ha ambientato tutti i suoi romanzi.

Fa anche lo sceneggiatore (l'ottima serie tv The Wire, e una serie prodotta da Steven Spielberg, The Pacific, ambientata durante la seconda guerra mondiale) e il giornalista.

 

  • Shoedog (1994)
  • Il guardiano del buio (Drama City, 2005), Piemme, 2009
  • Il giardiniere notturno (The Night Gardener, 2006), Piemme, 2007
  • Il sognatore (The Turnaround, 2008), Piemme, 2011
  • La strada di casa (The Way Home, 2009), Piemme, 2012
  • È la notte che vince (The Cut, 2011), Piemme, 2015
  • The Double (2013)
  • L'uomo che amava i libri (The man who came uptown, 2019) SEM, 2020

  • Serie con Nick Stefanos

  • A Firing Offense (1992)
  • Nick's Trip (1993)
  • Down by the River Where the Dead Men Go (1995)

  • Serie Quartetto di D.C.

  • The Big Blowdown (1996)
  • King Suckerman (King Suckerman, 1997), Shake, 2002
  • Non temerò alcun male (The Sweet Forever, 1998), Piemme, 2013; o Una dolce eternità, Mondadori, 2000
  • Vendetta (Shame the Devil, 2000), Piemme, 2001

  • Serie con Derek Strange e Terry Quinn

  • Strade di sangue (Right as Rain, 2001), Piemme, 2004
  • Angeli neri (Hell to Pay, 2002) Piemme, 2002
  • Il circo delle anime (Soul Circus, 2003), Piemme, 2005
  • Fuoco nero (Hard Revolution, 2004), Piemme, 2006
  • What It Was (2012)

seguendo quest'ordine:

Guido Caldiron

«Non c’è pace per le strade. E io scrivo per i perdenti»

 

«Non vorrei passare per un selvaggio, ma la sola cosa che so di Émile Zola è che Paul Muni ne ha interpretato il ruolo in un vecchio film». Il suo territorio è sempre stato la strada. Non lo ha scelto, ma è ciò che racconta la sua vita e le storie che scrive. Per questo, quando un critico, vista la sua capacità di descrivere la realtà sociale della propria città, lo ha definito «lo Zola di Washington», ha tenuto a chiarire, con ironia, come il suo percorso fosse stato tutt’altro rispetto a quello dell’autore de L’Assommoir. Figlio di immigrati greci, nato e cresciuto a Washington, ma non nella zona che ospita i simboli del potere politico statunitense, bensì nei quartieri popolari abitati in larga parte da afroamericani, a 63 anni George Pelecanos è considerato uno dei protagonisti del noir americano. Dopo anni di lavoro per il cinema e la tv – è stato tra gli sceneggiatori della serie The Wire, sul «sistema» del traffico di droga a Baltimora, di The Deuce, sulla nascita dell’industria del porno nella New York degli anni Settanta, di The Pacific, diario di un gruppo di soldati impegnati contro i giapponesi e di Treme che racconta la vita degli abitanti dell’omonimo quartiere di New Orleans, a maggioranza afroamericano, all’indomani dell’uragano Katrina del 2005 – Pelecanos torna ora al romanzo con L’uomo che amava i libri (Sem, pp. 224, euro 18), il suo ventunesimo titolo che racconta una possibile storia di redenzione che inizia nella biblioteca di un carcere.

The Wire

Michael, il protagonista del suo nuovo romanzo, scopre l’amore per i libri mentre sta scontando una lunga pena e immagina che questa sia una «seconda chance», una via per la redenzione. Davvero i libri possono cambiare la vita? Certo. E parlo per esperienza personale: i libri mi hanno tirato fuori da un percorso che mi avrebbe creato parecchie difficoltà. Mi hanno tolto dalla strada, senza però farmi dimenticare da dove vengo. C’è però anche dell’altro. Leggere apre la mente e dispone all’empatia anche con chi è diverso da te. Nel romanzo cito una frase di Steinbeck che diceva: «La scrittura onesta parla sempre dell’incontro e conoscere bene una persona non porta mai all’odio e quasi sempre all’amore». E ho visto accadere la stessa cosa in carcere, tra i giovani detenuti come tra i criminali incalliti.

Lei ha preso parte a diversi programmi sulla scrittura organizzati in carcere, che tipo di rapporto si è creato con i detenuti? Funziona così. I detenuti leggono un libro. A volte è uno dei miei, a volte è un libro di qualcun altro. Quando arrivo io, ci sediamo in cerchio e discutiamo di ciò che hanno letto. Come scrittore cerco di proporre il mio approccio al testo, ma non sono lì come insegnante, ma come un altro partecipante all’incontro, non poi così diverso da loro. Le discussioni sono spesso vivaci. Vogliono sapere della mia vita, cosa significa essere uno scrittore professionista. Spero di ispirarli in qualche modo, ma la verità è che il più delle volte sono io che traggo ispirazione da quello che mi raccontano. Come mostra questo romanzo. Evidentemente non sono sempre mosso dall’altruismo…

The Wire

La Washington che Michael trova quando esce di prigione è molto diversa da quella che conosceva negli anni Novanta, divenuta «la capitale» del crimine e della droga, e raccontata in molti suoi libri. Si ha però l’impressione che la polvere sia stata «nascosta sotto il tappeto» e che le condizioni sociali alla base di quell’esplosione di violenza non siano state risolte. In effetti, a prima vista si direbbe che la città sia migliorata, ma è chiaro che il miglioramento non ha riguardato tutti. Molte persone sono state costrette ad abbandonare le loro case a causa della gentrificazione di interi quartieri. Ci sono più posti di lavoro, ma spesso non per i lavoratori manuali. Quelli si sono ormai persi o, come dice lei, sono finiti per sempre sotto al tappeto. Con i salari da fame che ci sono in giro, molte persone non riescono più a permettersi una vita decente, degna di questo nome. Il divario tra ricchi e poveri non è mai stato così profondo come è oggi. E questo nell’intera storia di questo Paese.

Una costante del suo lavoro, nei romanzi, come nei testi per il cinema e la tv, è lo stretto rapporto che lega i personaggi, non solo i criminali, ai luoghi e alle città in particolare. Scrivere è una sorta di esplorazione urbana? Credo proprio di si. Gran parte di ciò che scrivo riguarda la condizione delle città americane. Ne sono sempre stato affascinato. Forse addirittura ossessionato. E tutto il resto è venuto da sé, come conseguenza di questo interesse. Sono cresciuto a Washington, una città a maggioranza nera, in un quartiere abitato al 99,9% da neri, dove mio padre, che era arrivato dalla Grecia, aveva messo su una piccola tavola calda. Credo che fossimo la sola famiglia bianca di tutta la zona. Per questo conosco bene la sottocultura delle gang black, ma anche il soul o il cinema della Blaxploitation. Anche se non mi sono mai sentito un etnologo: osservo ciò che accade intorno a me e scrivo attingendo ai miei ricordi. Tutto qui.

The Deuce

In questo senso, il suo lavoro intorno al noir, e non solo, finisce per ricordare la «storia orale». È a questo che assomiglia oggi la cultura pop? Personalmente ho scoperto il noir da adulto, dopo aver fatto ogni genere di lavoro e avendo puntato all’inizio soprattutto sul cinema. Mi sono formato con «i classici», Chandler, Hammett, Goodis e quando ho cominciato a scrivere ho sempre attinto alle mie fonti da «entrambi i lati della strada»: gli agenti come i criminali. Ma in ciò che scrivo c’è l’eco della musica degli anni Settanta, della mia passione per le vecchie auto, del gusto che ho per come cambiano i quartieri. Sono un ragazzo di città, quindi scrivo di questo. Ma c’è anche dell’altro. La letteratura, in generale, parla spesso dei vincitori, il romanzo noir invece si interessa soprattutto ai perdenti. Prendete David Goodis, il mio scrittore preferito, il «poeta dei perdenti». Ho cominciato a scrivere per questo: perché volevo raccontare storie come le sue, su persone della working class, sui proletari, gente comunque che non ha mai troppi soldi per le mani. Cosa c’entra con la cultura pop? Beh, credo che per essere tale, questa debba parlare un linguaggio che dice qualcosa a ciascuno di noi.

A un certo punto del libro, Gerard, il postino, un nero come Michael racconta a quest’ultimo di come siano cambiate le condizioni di vita degli afroamericani a Washington e gli dice: «Vedi di conoscere il passato, giovanotto». Sembra il genere di monito che accompagna il suo lavoro di scrittore. Perché è così importante ricordare? Lo spiega bene il clima che si respira oggi in America. Metà del Paese non sembra preoccupato dall’ascesa del razzismo e questo perché quelle persone non conoscono la nostra storia, il fatto che siamo tutti immigrati, tutti siamo venuti prima o poi da «un altro posto». Loro hanno dimenticato. Ma non possiamo mai permetterci di dimenticare. Non mi rassegno a minimizzare i rischi di un ritorno del fascismo o dell’ideologia razzista: oggi nel mio Paese stiamo correndo un rischio davvero molto serio. E qualcosa di simile sta avvenendo anche da voi, in Europa. La gente ha un bel dire «non succederà più» o «da noi non può avvenire». Sta già accadendo e prima ce ne rendiamo conto e meglio sarà. Con l’elezione di Trump è accaduto qualcosa: è suonato un campanello d’allarme che ci ha messo in guardia sul fatto che quella malattia stava tornando. Significa che dobbiamo essere ancora più vigili. Che dobbiamo essere pronti a lottare.

grazie a: il Manifesto, 29.02.2020

Guido Caldiron

George Pelecanos, l’empatia più forte delle pallottole

Qualche anno fa il Guardian lo definì «Street writing man», ma George Pelecanos non è soltanto uno degli autori statunitensi che meglio ha saputo tradurre il linguaggio e la vita della strada prima in una lunga serie di importanti romanzi e quindi in serie tv di enorme successo. A sessantaquattro anni questo figlio di immigrati greci cresciuto nei quartieri afroamericani di Washington, è forse lo scrittore che ha affrontato con maggiore coinvolgimento personale e profonda e reale umanità non solo il mondo del crimine e tutti i suoi protagonisti, ma lo spaccato terribile della società americana che questo rivela implacabilmente. La traccia di Pelecanos nel profondo rinnovamento della narrativa noir è da questo punto di vista imprescindibile, anche se spesso sottaciuta. Mentre è sotto gli occhi di tutti il suo contributo, da sceneggiatore, al nuovo racconto urbano che si sta incarnando nelle serie tv, dalla celebre The Wire, a The Deuce, sull’industria del porno nella New York degli anni ’70, e Treme, sulla vita degli abitanti dell’omonimo quartiere nero di New Orleans dopo l’uragano Katrina.

La profonda empatia che caratterizza da sempre l’approccio dello scrittore alla crime novel è ora riaffermata dai racconti riuniti nella raccolta Martini shot (Sem, pp. 262, euro 18, traduzione di Giovanni Zucca), pubblicati in una pausa del lavoro per la tv, dove con la scusa del noir è un intero catalogo di sconfitte e speranze tradite, di ricerca dell’amore e di sogni infranti che scorre davanti ai nostri occhi. Ma se i personaggi che popolano queste pagine possono essere descritti come dei perdenti, lo sono senza rinunciare fino all’ultimo minuto alla loro irriducibile umanità. E forse non a caso in mezzo alle loro storie Pelecanos stesso sceglie di raccontare qualcosa di sé.

Si ha l’impressione che questi racconti indaghino prima di tutto il ruolo che il destino, la voglia di redenzione e i molti rimpianti che gli individui si portano dietro possono giocare nelle vite di ciascuno. Qual è il filo che li lega? Credo che a fare da filo conduttore tra i diversi racconti sia il desiderio di appartenere a qualcosa. Anche per gli outsider e i «freaks» ciò è possibile. Penso a cose come la ricerca dell’amicizia o dell’amore. Da questo punto di vista, in ogni scena che scrivo, c’è qualcuno in qualche modo impegnato in questa ricerca. Così, ne «L’informatore» è il bisogno universale di un figlio di ottenere l’affetto di suo padre che suggella il destino del protagonista, mentre per l’immigrato che è al centro della vicenda narrata ne «La morte negli occhi» è l’incontro e poi la perdita di un amico a determinare tutto: siamo negli anni Trenta e lui è un greco arrivato in America tra mille difficoltà ed è completamente solo. Quando l’unico amico che si era fatto viene ucciso, anche lui sarà disposto a commettere un atto violento per vendicarlo.

In uno dei racconti, «Scelto», si coglie l’eco di qualcosa che la riguarda da vicino: il protagonista è figlio di immigrati greci e adotta diversi bambini, proprio come ha fatto lei. Uno di questi, Spero (Lucas), diventerà detective e sarà protagonista del romanzo «The Cut» (2011). La relazione con i suoi personaggi è tale che diventano delle figure famigliari? Senza alcun dubbio. Credo profondamente nel mondo che ho creato e che i miei personaggi siano sempre vivi in quel mondo. Ho scritto «Scelto» per cercare di approfondire le radici del personaggio di Spero Lucas che in altre occasioni ho raccontato ma quando era già entrato nell’età adulta. In questo caso mi interessava invece capire lo sviluppo della sua personalità fin da piccolo, ciò che lo avrebbe portato a diventare quello che abbiamo conosciuto in seguito. «Scelto» è il racconto più personale dell’intera raccolta ed è attraversato da molte emozioni intime, il che è insolito per me, almeno in una forma così diretta. Penso di averlo scritto soprattutto per i miei figli.

Nel corso del tempo le sue storie hanno assunto spesso l’aspetto di «reportage urbani», dove ad emergere sono non solo i crimini, ma le condizioni sociali degli abitanti, la vita stessa di un quartiere o di una città. Basti pensare alla zona occidentale di Baltimora nella serie The Wire… In effetti, all’apparenza quella serie sembra essere il classico show poliziesco: poliziotti contro spacciatori di droga in un quartiere di Baltimora. Ma in realtà ad essere descritto è il modo in cui funzionano le cose. Ad ogni stagione abbiamo aggiunto sempre più elementi e personaggi: politici, insegnanti, ragazzi, avvocati, giudici, giornalisti. Alla fine, il risultato è una sorta di visione panoramica di una città americana e un’ipotesi sul perché abbiamo fallito e così tante persone sono scivolate giù attraverso le crepe della società.

L’altro elemento che ritorna nelle sue storie è l’empatia verso i personaggi. La letteratura poliziesca che è spesso accompagnata da una nota di cinismo diventa qui il luogo delle occasioni perdute, dove si è prima di tutto vittime (per condizioni sociali, razzismo, mancanza di stimoli), ma dove non è mai troppo tardi per tentare di cambiare le cose. Molti romanzi polizieschi e la maggior parte delle serie tv del genere sono fascisti. Dicono al lettore o allo spettatore che se commetti un crimine verrai catturato e rinchiuso. Questo tipo di narrativa segue quasi sempre la medesima formula: un crimine, di solito un omicidio, si verifica nel primo capitolo e viene risolto nell’ultimo. Alla fine il mondo si rimette in piedi, rassicurando il lettore che tutto potrà tornare come prima. Ma è solo un inganno. Un omicidio non è mai «risolto» perché la vittima è morta, per sempre, e coloro che ha lasciato dietro di sé saranno altrettanto coinvolti, per sempre. Quando ci pensi, se sei abbastanza coraggioso da pensarci, capisci che non potrà mai esserci alcun lieto fine. Nonostante questo, le persone continuano a lottare, ad andare avanti, come un artista che cerca invano di sconfiggere la morte con le sue opere. Un giorno chiesero a Telly Savalas (il tenente Kojak dell’omonima serie televisiva, ndr) cosa significasse per lui essere greco. Lui rispose: «Sputare in faccia a ciò che è inevitabile». D’accordo, non è Aristotele ma è comunque fantastico.

Lei è stato tra i produttori del documentario «Baltimora Rising» che racconta le proteste seguite all’assoluzione degli agenti coinvolti nella morte di un ragazzo nero, Freddie Gray, nel 2015. Un caso tragicamente simile a tanti altri. Con la recente condanna del poliziotto che ha ucciso George Floyd l’America ha voltato pagina? Credo che le cose stiano iniziando a cambiare. È in atto una sorta di rivoluzione all’interno delle polizia, ma poiché ci troviamo ancora nel bel mezzo di questo processo è difficile coglierne fino in fondo i progressi. La condanna dell’assassino di George Floyd è stato un piccolo passo nella giusta direzione. Cinque anni fa non sarebbe mai successo nulla del genere. Quindi è il segnale che stiamo andando avanti.

«Martini shot», il racconto che dà il titolo alla raccolta, parla di un autore e produttore di serie tv che si trova a dover affrontare nella vita reale una di quelle storie crime che è abituato a scrivere. Finirà per trasformarsi in una sorta di detective per risolvere un «caso», annotando però nel frattempo lo slang della strada che ascolta. Viene da pensare che scrivendolo lei abbia giocato un po’ con il suo lavoro che si divide da tempo tra i romanzi, le serie e il cinema. In effetti quel racconto è stato un po’ il mio modo di provare a fare i conti con tutto questo. I tropi della fiction poliziesca e di un programma televisivo dello stesso genere contro la realtà della strada. Tutte le cose che scrivo si basano su un’accurata documentazione. Sto per iniziare a girare una miniserie per l’Hbo chiamata We Own This City, che si occupa di polizia e corruzione a Baltimora dopo il caso di Freddie Gray e che, per estensione, cerca di rispondere ad alcune domande sulla polizia americana in generale. È un progetto a cui lavoro già da due anni. Una volta iniziato, non sono più soltanto uno scrittore, ma seguo la realizzazione concreta del lavoro ogni giorno. Con una troupe di centinaia di membri ci sono ogni giorno da risolvere un’infinità di questioni. È un po’ più difficile che stare seduto in una stanza da solo a scrivere. Ma mi piace lavorare a stretto contatto con tutta quella gente. E non sto ancora pensando alla pensione.

grazie a: il Manifesto, 06.08.2021