inizio rosso e giallo


Fabio Cavalera

L'italiano che ha ispirato le Carré

La nuova spy story costruita con l'aiuto del criminologo Federico Varese

LONDRA - Era a Perm, la città sotto i Monti Urali. «Non ricordo bene la data: il 1995 o forse il 1996». Non c'è scienza che non ti obblighi a sperimentare e a documentarti sul campo. E il giovane sociologo Federico Varese, preso dalla curiosità e dalla passione, aveva tirato su armi e bagagli per trasferirsi in quella città, a ridosso della Siberia. Voleva scandagliare i segreti della mafia russa, il suo potere e le sue ricchezze, i canali del riciclaggio, le fortune immense accumulate dagli oligarchi spuntati dalle ceneri del comunismo sovietico e la loro riconversione nella economia mondiale di mercato. Missione di ricerca per niente facile e scontata, «ma fra le tante cose ero riuscito ad avere la testimonianza del boss di una confraternita criminale», la Cosa nostra della Russia. Ferrarese, uscito dall' ateneo di Bologna, come molti giovani cervelli italiani, era emigrato negli Stati Uniti e in Inghilterra per ottenere un dottorato e proseguire gli studi accademici postlaurea: prima un anno a Yale poi a Oxford, due fra le cinque università più prestigiose al mondo.
Si trovava, dunque, a Perm, per le sue indagini e, di tanto in tanto, Federico Varese riceveva un pacco di posta accumulato nel dipartimento di Oxford. Un bel giorno una lettera lo lasciò col dubbio: forse era uno scherzo o forse no. John le Carré, proprio il maestro della letteratura spionistica, gli aveva scritto chiedendogli un incontro. «Ma è davvero le Carré? Al telefono contattai il mio professore di Oxford il quale confermò che non era una burla. Lui, il grande le Carré, aveva bisogno di approfondire alcune tematiche sulla mafia e il docente gli aveva suggerito di rivolgersi a me».
Da quel giorno, e si parla di una quindicina di anni fa, la coppia le Carré-Varese, lo scrittore e il sociologo-criminologo (perché nel frattempo Federico si è guadagnato la cattedra a Oxford, ha firmato bellissimi saggi sulla mafia e ha svolto consulenze per i governi), si è trasformata in un binomio di ferro: è un rapporto di lavoro e di amicizia profonda, vera. Federico Varese chiama le Carré col suo vero nome, David (ovvero David Cornwell), va spesso a trovarlo nella bellissima casa di campagna (ma ne ha una anche nella quieta zona londinese di Hampstead), il rudere comperato per 9 mila sterline, a picco sulle scogliere della Cornovaglia, un luogo incantato dove l' ex spia dei servizi segreti britannici ha scritto 22 romanzi.

La vita di le Carré, si sa, è un thriller.
Lui non andava ancora a scuola e la madre, di notte, scappò con un altro uomo. Invece, il padre si specializzò e si dilettò nelle truffe di alto livello e fu anche incarcerato. Comunque gli permise di studiare. In Svizzera, John le Carré fu reclutato dagli 007 inglesi. «Mi agganciarono casualmente all'Università di Berna che avevo 18 anni. È come l'amore, all' improvviso capita d'incontrare la persona giusta. Fra il 1959 e il 1965, operai a Berlino poi però il tradimento di Kim Philby, il doppiogiochista al soldo del Kgb, mi costrinse a lasciare l'agenzia», il SIS, il Secret intelligence service, quello che è chiamato MI6.
Non c'è dubbio: la fortuna lo ricompensò. Perché le Carré sarebbe diventato, coi libri e con il personaggio di George Smiley, ricco e famoso.
Scrive a mano e la moglie Jane batte a macchina i testi per poi farglieli ricorreggere, ancora a mano, tagliare con le forbici e incollare.
All'indomani della caduta del muro di Berlino non furono pochi a dire che «il povero le Carré» aveva chiuso. Sbriciolati l'impero comunista e la cortina di ferro, che senso avrebbero avuto quelle trame da Guerra fredda?
«Forse i critici si erano dimenticati di leggere una delle ultime raccomandazioni di George Smiley, il quale ricordava che, finito di occuparci dei problemi creati dal comunismo, ci saremmo interessati agli eccessi del capitalismo» ha sorriso John le Carré in una recentissima presentazione a Londra del suo ultimo libro Our kind of traitor (edito in Italia da per Mondadori con il titolo Il nostro traditore tipo).
Ecco, proprio l'ultimo libro, pensato e finito in Cornovaglia nell'ottobre del 2009. Se leggiamo e divoriamo il racconto si capisce quale sia il tributo che le Carré - 79 anni tra pochi giorni - deve a Federico Varese e perché lo ringrazi (primo fra tutti) «per il suo paziente e creativo consiglio». C'è più di una spiegazione. I protagonisti del romanzo sono tre: Perry l'accademico di letteratura a Oxford, la moglie Gail (trentenni) e Dima, il gangster-oligarca russo, calvo, cinquantenne muscoloso, ricchissimo, un Rolex incastonato di diamanti al polso, proprietario di una penisola ad Antigua. Cinico e spregiudicato, «carismatico», Dima, nel mezzo della bufera finanziaria che si abbatte sui mercati, cerca un contatto coi servizi segreti inglesi, si serve di Perry e di Gail al suo scopo, li manipola. Vuole rivelare le coperture di cui gode nella City e a Westminster, svelare le fonti e i canali del riciclaggio, le protezioni di Lord e parlamentari dei Comuni che ha comperato e lavorano per lui, gli 007 e i banchieri collusi. Lo fa perché è venuto il momento di ripulirsi e di godersi il patrimonio, senza rimorsi. Così incastra la giovane coppia. Da dove viene questo Dima, il mafioso?
John le Carré il 31 agosto scorso ha dichiarato al «Daily Telegraph» che il vero Dima lo conobbe tempo fa in un night club di Mosca, «un mostro circondato da donne, somigliava a Terry Savalas». Gli chiese a muso duro: lei è un criminale? «E lui rispose con un cenno di assenso». Le Carré insistette, quasi una sfida: quanto vale lei, dieci, venti, cinquanta milioni di dollari? «Mi guardò, si avvicinò all'orecchio dell'interprete che con imbarazzo e a bassa voce mi comunicò: sono davvero desolato ma Mr Dima le dice vaffa...». Sprezzante e bugiardo ma anche intelligente. «Proprio come l'ho descritto nel libro».
Con diversi particolari in più. Suggeriti (possiamo dirlo noi) dal sociologo-criminologo Federico Varese. Guarda caso, l'oligarca Dima viene da Perm. E nel romanzo, Dima si pavoneggia arrogante: «Sì, Perm. Pasternak ha scritto della mia città... quel pazzo bastardo l'ha chiamata Yuriatin, ma è Perm».
Sotto gli Urali dove Federico Varese aveva studiato la mafia russa. Nel ventiduesimo romanzo, John le Carré si muove nei suoi ambienti (e di Federico Varese), affresca le connivenze delle «immacolate» stanze di Westminster con i nababbi dell'ex Unione Sovietica, le complicità della City, le deviazioni di alcuni 007. Fantasie? È una spy story che accusa le istituzioni finanziarie e la politica. «È incredibile che nessuno si occupi di come certi oligarchi abbiano accumulato e investito, qui nel Regno Unito, i loro patrimoni» ha candidamente ammesso John le Carré davanti alle telecamere di Channel 4. E ha rivelato: «Ho parlato con un paio di top bankers i quali mi hanno spiegato che cosa avviene». Semplicissimo: «Io, grazie alle buone parole di un Lord, mi presento dal direttore o dall' amministratore delegato di un istituto di credito e dico che ho 100 milioni da investire. Mi rispondono che, non essendo detective, non hanno il dovere di controllare da dove provengono quei soldi. Mi chiedono un documento, aprono un conto e ci pensano loro. Se sono denari sporchi diventano magicamente denari legali. Alla banca non interessa».
La tesi dell'ultimo John le Carré è chiara: un reticolo di interessi e di amicizie importanti, che si dirama dalla City a Westminster, protegge gli oligarchi e la mafia russa. È davvero solo immaginazione, professore? Federico Varese di dubbi non ne ha: «È una sua convinzione ma non credo proprio che David sia lontano dalla realtà».


Corriere della Sera, 9.10.2010