La sorprendente rivelazione è il frutto di una lunga intervista a Rod Liddle, un giornalista del Sunday Times che è andato a trovare lo scrittore nella sua casa in Cornovaglia, isolata su una collina a strapiombo sul mare, dove vive da molti anni. L'atmosfera potrebbe essere quella di uno dei suoi romanzi. È il crespuscolo, ma le Carré preferisce non accendere la luce dello studio: i due uomini rimangono a parlare nella semi oscurità, centellinando Calvados. Lo scenario si adatta a una confessione. Quando le Carrè glielo dice, il giornalista è quasi incredulo: "Lei ebbe veramente questa tentazione?", gli domanda. "Sì, c'è stato un tempo in cui l'ho avuta, è così", risponde lo scrittore. "Per ragioni ideologiche, come gli altri che lo fecero, Philby, Blunt, Maclean?", lo incalza il cronista, snocciolando i nomi dei tre più celebri agenti segreti britannici che tradirono la patria per defezionare in Urss. "Oddio, no, non l'avrei mai fatto per ragioni ideologiche", risponde le Carrè. "Allora perché", chiede e si chiede il suo interlocutore, "non certo per denaro, immagino". Ed ecco la spiegazione: "Ebbene, è che quando fai la spia scruti intensamente ciò che accade nel campo avverso e così facendo ti avvicini sempre di più al confine. Sembra che ci voglia soltanto un piccolo passo per passare di là e, in tal modo, scoprire com'è davvero". Laureato a Oxford nel 1956, poi insegnante per due anni a Eton, la scuola dei re e dei premier, le Carré era entrato nel corpo diplomatico nel 1959 e fu inviato in Germania e in altri paesi del continente, appunto lungo la "cortina di ferro". Ben presto smise di fare semplicemente il diplomatico e venne reclutato dal servizio segreto, di cui faceva ancora parte quando, nel 1961, scrisse il suo primo romanzo. A quel punto un altro 007 britannico, Kim Philby, defezionò sul serio, accolto con tutti gli onori a Mosca, dove rivelò una lunga lista di agenti britannici in Europa, trai quali anche le Carré, che ebbe una ragione di più per lasciare il servizio. Nell'intervista al Sunday Times, lo scrittore fa in proposito un'altra rivelazione: nel 1987, tramite un intermediario russo, gli fu offerto di incontrare Philby. Sarebbe stata un'occasione unica per uno scrittore di spionaggio. Ma le Carrè rifiutò. "Dissi di no. Non avrei potuto farlo. Philby era responsabile di avere fatto uccidere innumerevoli agenti britannici, una quarantina soltanto in Albania. Non potevo andarci a cena come niente fosse". Tuttavia, nel colloquio col giornalista del Times, lo scrittore si lascia sfuggire che, ripensandoci ora, forse avrebbe fatto meglio ad accettare l'invito: l'opportunità di incontrare Philby (morto nel 1988) avrebbe potuto far passare in second'ordine le ragioni morali. Chissà se, in modo analogo, l'autore de "La spia che venne dal freddo" si interroga se avrebbe fatto bene a seguire la tentazione di fare come Philby e fuggire anche lui a Mosca. Il successo mondiale che ha ottenuto con i suoi romanzi, la fama, la ricchezza, inducono a dubitarne. Ma nella vita come nei suoi libri, le Carré raramente divide la realtà in bianco e nero, verità e menzogna, giusto e ingiusto: è più attratto dalla zona grigia intermedia, dove azioni e decisioni hanno contorni più complicati, imprecisi. Non a caso, nella bella intervista che Irene Bignardi gli ha fatto qualche giorno fa per Repubblica, in occasione dell'uscita del suo ultimo romanzo "Yssa il buono", lo scrittore riconosce di avere nostalgia della guerra fredda: "Perché a quei tempi avevamo delle speranze per quando sarebbe finita e perché i contendenti si muovevano grosso modo all'interno dello stesso sistema culturale". Di sicuro, uscito dalla sua penna, anche "La spia che venne dal caldo" sarebbe stato un romanzo straordinario: ma difficilmente gli zar del Cremlino glielo avrebbero lasciato scrivere. la Repubblica, 15.09.2008 |