P. D. James
Phyllis Dorothy James White (Oxford, 1920 - 2014), già membro permanente della Camera dei Lord per il Partito Conservatore, è naturalmente stata salutata come l'erede della Christie, ma di Dame Agatha ha preso soprattutto i lati negativi - scrittura non particolarmente brillante, riferimenti culturali piuttosto convenzionali - senza tuttavia quella straordinaria capacità di Christie di tessere trame
aggrovigliate e avvincenti.
P. D. James ripropone i glialli "all'inglese" quando questa impostazione era stata ormai superata da decenni: certo, lo fa più che dignitosamente, e anche con alcuni guizzi di originalità (il thriller fantascientifico I figli degli uomini), ma i suoi romanzi lasciano come una sensazione di déja vu ed è difficile trovarvi le situazioni memorabili create sia dalla vecchia scuola sia da scrittrici come F. Vargas, E. George, A. Holt, C. O' Connell, A. Gimenez Bartlett.
Dai suoi libri (molti dei quali premiati dalla critica) sono stati tratti numerosi film per la tv (anni '80) ed il grande schermo (inediti in Italia, tranne I figli degli uomini, 2006, di Alfonso Cuaròn, notevole film di fantascienza).
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Luca Crovi & Sebastiano Pezzani
Intervista a P. D. James |
Si ha la sensazione che la scelta dell’ambientazione dei suoi romanzi sia fondamentale e che le sue storie prendano le mosse proprio dal luogo in cui si svolgono.
Verissimo. Il luogo fa parte della mia immaginazione creativa. Si può trattare di un posto nuovo oppure di un posto che ho avuto modo di conoscere benissimo. E mi dico, “Ecco dove è successo tutto.” La storia parte proprio da lì.
È vero che il mare è uno dei suoi luoghi preferiti, forse perché le trasmette delle immagini cupe?
Sì, adoro trovarmi nei pressi del mare, soprattutto in località dove ci sia pochissima gente. Molti dei miei libri sono ambientati sulle coste orientali dell’Inghilterra, coste piatte, ricche di canneti, di paludi e di uccelli. Cieli a perdita d’occhio. Credo che vi prevalga un senso di solitudine e anche un po’ di desolazione. Ci sono, inoltre, molte splendide chiese antiche e delle abbazie in rovina. Insomma, si tratta di un’area dell’Inghilterra che è estremamente romantica, forse non tanto bella agli occhi di qualcuno, ma per la sottoscritta vi regna un’atmosfera che si sposa benissimo con la letteratura di genere.
Solitamente, ogni autore scrive dei posti che conosce meglio, ma quale pensa sia l’immagine dell’Inghilterra che si sono fatti i suoi lettori leggendo i suoi libri?
Suppongo che si tratti della visione dell’Inghilterra che, almeno fino a un certo punto, può dare una persona della mia età, una persona che ha osservato molti cambiamenti, anche se i miei libri hanno a che fare soprattutto con i problemi della contemporaneità, in cui sono in buona parte ambientati.
Non che l’Inghilterra di oggi venga vista necessariamente attraverso i miei occhi, piuttosto attraverso gli occhi dei personaggi. E dunque le vedute dei personaggi sull’Inghilterra di oggi e i suoi problemi sono le più disparate e non coincidono necessariamente con le mie. Ma, per quel che mi riguarda, è fondamentale che i miei libri siano ambientati ai giorni nostri.
Secondo taluni, il romanzo poliziesco è il vero romanzo sociale dei giorni nostri. Lei è d’accordo?
Assolutamente. Non solo oggi. Lo è sempre stato perché si occupa dei problemi di tutti i giorni della gente. Spesso, è più facile farsi un’idea di com’era l’Inghilterra di un certo periodo, attraverso la narrativa di genere, rispetto ai romanzi cosiddetti mainstream. Credo che valga soprattutto per una scrittrice di gialli come Dorothy L. Sayers, grazie alla quale sappiamo esattamente come fosse lavorare in un ufficio londinese prima della guerra oppure lavorare nelle aree paludose prima della guerra. Se i miei libri sopravvivranno - spero davvero che lo facciano - mi auguro che possano fornire alla gente un’idea di come fosse vivere tra la fine di un millennio e l’inizio di quello successivo, nell’Inghilterra del Ventesimo Secolo, con tutti i suoi problemi. Brividi di morte per l’Ispettore Dalgliesh certamente è un romanzo di questo tipo perché si occupa di una delle controversie che agitano il mio paese in questo momento, ovvero fino a che punto sia moralmente giustificabile sottoporre a esperimenti molto dolorosi i primati allo scopo di far progredire le nostre conoscenze mediche. Non a caso, uno dei protagonisti di questo mio romanzo è uno scienziato che ha proprio in mente di svolgere quel tipo di lavoro e il libro analizza la validità di una scelta simile. Si tratta senza dubbio di un problema contemporaneo, anche se probabilmente, tra venti, trenta o quarant’anni, sarà un problema storico.
A proposito di Dorothy L. Sayers e dell’Inghilterra orientale, mi viene in mente un bellissimo libro di questa autrice, Il Segreto delle Campane, avente per protagonista Lord Peter Wimsey e ambientato in East Anglia.
Sono d’accordo con te. Si tratta di uno dei più bei gialli mai scritti e rappresenta esattamente quello che volevo dire. Se leggi quel libro oggi, riesci a entrare in un mondo che se n’è andato per sempre, un mondo in cui la gente era completamente isolata e la chiesa, con i suoi alti prelati, godeva di un potere di primo ordine. Quella era una comunità molto chiusa. Oggi, ovviamente, i villaggi nelle aree paludose continuano a esistere, ma i giovani vanno a cercarsi un lavoro da un’altra parte, tutti dispongono di un’automobile, mentre in quel libro praticamente non ne aveva nessuno. La vita ha subito dei cambiamenti radicali, la guerra ha portato dei cambiamenti radicali. In un certo senso, dunque, quel libro si è trasformato in un interessantissimo romanzo storico.
Lei ha spesso dichiarato di essere stata un’appassionata lettrice di libri di Jane Austen, Graham Green, la stessa Dorothy Sayers. Pensa che la lettura di quei libri abbia fatto scattare la scintilla che ha dato il via alla sua carriera di scrittrice?
No. Non posso dire che abbiano esercitato su di me un’influenza così forte perché ho capito fin da bambina che avrei voluto fare la scrittrice, ma certo mi hanno influenzato perché mi hanno fatto capire delle cose importanti sulla scrittura.
Per esempio, Dorothy L. Sayers, in Gaudy Night, mi ha fatto vedere che si può utilizzare un impianto poliziesco per dire qualcosa di importante non solo sulla vita umana ma anche sulle condizioni sociali di un determinato periodo - ovviamente quello che in quel libro le stava a cuore era l’importanza estrema della vita intellettuale. Da Graham Greene, ho appreso l’altra dimensione della vita, la dimensione religiosa della vita che è presente nei suoi libri e, in maniera meno importante, anche nei miei. Di certo, ho imparato molto sullo stile da Evelyn Waugh, uno degli scrittori più eleganti della sua generazione, e sull’uso dei dialoghi per descrivere i personaggi. E, ovviamente, Jane Austen, la maestra dell’impianto narrativo. E l’impianto narrativo è così importante in una detective story. Ecco quale è stata la loro influenza su di me. Li ho letti e ho cercato di applicare la loro lezione alla mia scrittura, forse più a livello inconscio che consapevole. Si è trattato, dunque, di una influenza profonda ma che non ha avuto nessun ruolo nella mia scelta di scrivere perché credo che la decisione fosse nella mia testa da sempre.
Potrebbe scrivere un buon romanzo giallo senza partire da un cadavere oppure crede che la presenza di una morte violenta sia fondamentale per lo sviluppo di questo tipo di letteratura?
Beh, Dorothy L. Sayers l’ha fatto, proprio in Gaudy Night. C’era stato un tentativo di omicidio senza il morto, ma si trattava pur sempre di un giallo con sotto un mistero. Dunque, penso che lo si possa fare e credo che qualche scrittore lo abbia fatto. L’importanza di avere un cadavere sta nel fatto che l’omicidio rimane il crimine per eccellenza, quello che ancor oggi viene considerato il peggiore. A ragione, si considera tuttora l’omicidio come il gesto di chi toglie a qualcun altro qualcosa che nessuno di noi ha avuto il potere di dare, ovvero la vita stessa, qualcosa che non potremo mai restituire e per la quale non ci sarà mai nessuna riparazione. Non nei confronti della vittima, quanto meno. Dunque, l’omicidio è un po’ il cuore di questi romanzi perché concentra le emozioni più forti in un momento. E poi ci interessa maggiormente sapere chi ha ammazzato la vittima che non chi ha rubato una collana di diamanti, per esempio. Dunque, è importantissimo portare la realtà fondamentale della morte nel cuore di un romanzo.
Com’è nato il personaggio dell’Ispettore Dalgliesh e come ne ha sviluppato il carattere nel tempo?
Una delle primissime decisioni che presi quando scelsi di scrivere questo tipo di romanzi fu se utilizzare come mio personaggio un detective professionista o meno.
Optai per un professionista perché mi parve che fosse più credibile, perché non credo davvero che i dilettanti si imbattano in cadaveri nella vita reale e, anche se così fosse, gli mancherebbe l’autorità e il supporto tecnico per svolgere le indagini. Ecco che ho deciso che a investigare fosse un poliziotto, membro di New Scotland Yard, nei ranghi della polizia metropolitana, perché era mia intenzione descrivere Londra, per lo meno in alcuni romanzi, e la polizia metropolitana è la forza di polizia più grande e più importante e l’area metropolitana era molto ampia. Poi decisi di dargli un carattere e gli diedi le qualità che apprezzo in qualsiasi essere umano: coraggio e umanità, senza sentimentalismi, intelligenza, riservatezza e onestà, ovviamente. Gli attribuii anche un talento artistico e ne feci un poeta. Insomma, fu una scelta molto consapevole. Sapevo esattamente che razza di uomo sarebbe stato ma, ovviamente, con gli anni Dalgliesh è cambiato notevolmente o, per lo meno, spero che lo sia.
È piuttosto inusuale avere due personaggi protagonisti di due serie distinte che intrattengano dei rapporti piuttosto stretti. A cosa si deve questa scelta?
Con il dovuto rispetto, non credo che il rapporto sia stretto. Si incontrano in un libro e Cordelia viene menzionata in un altro, ma non lavorano mai insieme. Non potrebbero lavorare insieme perché lei è una dilettante e lui non lavorerebbe mai con un dilettante. Sarebbe sbagliato se lo facesse. Dunque, non credo che ci sia mai stato un vero legame. E poi ho smesso di scrivere libri che vedano Cordelia protagonista. È apparsa solo in due libri, se non sbaglio, almeno come vera protagonista. Un lavoro inadatto a una donna e Un indizio per Cordelia Gray.
Dalgliesh ce l’ha davvero in testa, penso e ho la sensazione che si siano incontrati prima. Se si sono incontrati prima non me lo ricordo, perché Bernie Pride, l’uomo per cui lavorava, aveva lavorato insieme a Dalgliesh e aveva serbato per lui un tremendo rispetto. Pertanto, Dalgliesh era una specie di modello di riferimento per Cordelia, il detective che lei avrebbe voluto essere. Tuttavia, non penso che fra loro due ci sia mai stato un legame fisico, personale molto forte. E Cordelia è rimasta confinata a quei due libri e dunque non si può realmente parlare di personaggio seriale.
A proposito della sua detective privata Cordelia Gray, quanto crede che sia vicina ai suoi colleghi maschi come Marlowe e Sam Spade?
Credo di essere una scrittrice molto diversa. Ammiro la scuola americana. Credo che abbia saputo produrre della scrittura molto intensa, creativa. Credo che alcuni di quegli scrittori, gente come Hammett e Chandler, abbia avuto un grande impatto sulla narrativa in genere, ma si tratta di romanzi polizieschi molto diversi dai polizieschi inglesi. E poi il paese in cui si svolgono quelle storie è molto diverso dal mio. Da un lato, in America i detective privati devono munirsi di una licenza per esercitare, per portare armi da fuoco. Hanno un rapporto molto stretto - talvolta antagonistico - con le forze di polizia.
In Inghilterra è tutto diverso. Gli investigatori privati non devono ottenere una licenza. Di conseguenza, l’attività svolta e i protagonisti sono molto diversi. Insomma, si tratta di romanzi molto diversi. Ammiro quella scuola ma sento di non appartenerle.
Il suo ultimo libro edito in Italia da Mondatori è Brividi di morte per l’Ispettore Dalgliesh. Può raccontare in breve ai nostri ascoltatori la trama del romanzo, senza fornire troppi dettagli ovviamente, e dirci se ci sono state particolari suggestioni che l’hanno portata a scriverlo?
Il romanzo si svolge su un’isola immaginaria, davanti alle coste della Cornovaglia, in Inghilterra. L’isola è una sorta di luogo sicuro per una serie di uomini e donne che rivestono ruoli di grande autorità, nel governo, nella gerarchia militare oppure nel mondo dell’arte o degli affari, uomini e donne che hanno bisogno di un periodo di assoluta pace e tranquillità. Su quest’isola non possono portarsi guardie del corpo, telefoni cellulari e non dispongono di televisori. Vivono in un edificio principale oppure in isolate casette di pietra. Ma si tratta di un posto sicuro, l’unico posto in cui gente di quel calibro può permettersi di dormire con porte e finestre aperte. Ma uno degli ospiti è un illustrissimo ma egoista e assolutamente poco amato romanziere. lui la vittima. Sono in molti sull’isola ad avere dei seri motivi per detestarlo. Viene assassinato barbaramente. Dalgliesh viene coinvolto perché il Primo Ministro, che sa bene che quest’isola è sicurissima e che c’è un solo modo per arrivarci dal mare, con il suo angusto porticciolo, pensa che possa essere un luogo ideale per incontri ai massimi livelli tra uomini politici, incontri internazionali molto confidenziali. Quando quell’orribile morte si verifica, vuole scoprire immediatamente se si tratti di suicidio o di omicidio. Perché chiaramente, se si tratta di omicidio, non si potrà sfruttare l’isola nel modo previsto. Nessuno vuole che se ne occupi la polizia locale per evitare che la notizia si diffonda prima che la verità sia venuta a galla. Dunque Dalgliesh e la sua piccola squadra vengono mandati sul posto per svolgere le indagini e scoprono che ovviamente si tratta di omicidio, a cui fa seguito un altro omicidio, come in molte mie storie.
Ci sono altri due ospiti sull’isola. Uno è un illustre cittadino tedesco, un ex-diplomatico alla ricerca di un po’ di tranquillità e l’altro è il direttore di un laboratorio scientifico in cui si fanno esperimenti sugli animali per scopi medici. Quest’uomo ha una vita piena di stress, dato che il movimento animalista minaccia sua moglie, i suoi figli e anche lui. Pertanto, fugge dalla realtà del lavoro che svolge, il che fa di questo libro un libro contemporaneo.
Si è divertita ad ammazzare uno scrittore?
No, non credo che sia divertente ammazzare uno scrittore! È stato divertente parlare di un illustre scrittore, Nathan Oliver, anche se si tratta di un uomo davvero poco simpatico. È un ottimo scrittore, non ci sono dubbi, ma quest’uomo era convinto del suo talento fin dall’infanzia e per tutta la vita non ha fatto altro che cercare di migliorare il suo talento, sacrificando tutto il resto, compreso sua moglie e suo figlio e persino l’uomo che gli fa da segretario ed editor. Tutto viene sacrificato al suo talento. Una volta giunto sull’isola, si rende conto che il suo talento si sta sbiadendo. Non è molto vecchio, 70-75 anni, ma sa di essere invecchiato precocemente, di non ricordarsi più le parole giuste ed è terrorizzato perché non ha nient’altro. Il talento lo definisce. È stato davvero interessante scrivere di lui, nonostante io non abbia quel timore.
Qualche anno fa, lei ha pubblicato una sorta di autobiografia intitolata Il tempo dell’onestà. Che cosa ha cercato di raccontare ai suoi lettori con quel libro?
Pare che un sacco di gente avesse ricevuto l’incarico di scrivere la mia biografia. da qualche casa editrice La cosa sicura è che non mi andava per niente l’idea che qualcuno scrivesse la mia biografia anche se, dopo la mia morte, immagino di non poterci fare niente.
Ma ai miei figli non piaceva per niente l’idea che qualcuno potesse scrivere una mia biografia e, comunque, non avrebbero collaborato, così ho pensato che forse avrei fatto bene a scrivere qualcosa sulla mia vita, qualcosa su come avevo vissuto, sugli eventi importanti della mia vita, sul mio lavoro. Insomma, qualcosa che fosse sufficiente o che potesse esserlo. Io penso che si conosca uno scrittore dai suoi libri più che da qualunque altra cosa. Mi sono messa in testa di tenere una specie di diario per un anno e di esplorare i titoli principali, collegandoli ai ricordi del passato: la guerra, la nascita dei miei figli, gli inizi della mia carriera di scrittrice, viaggi in America, cose molo diverse. Il libro ha avuto successo e sono felice di averlo scritto, anche se non ho intenzione di ripetere l’esperimento. Non credo che ce ne sia bisogno.
Sta lavorando a qualche progetto nuovo?
Ho in mente una nuova storia di Dalgliesh, ma siamo ancora in una fase decisamente preliminare.
Se pensa al suo primo romanzo, Copritele il volto, che emozioni prova?
Credo che qualsiasi scrittore resti legato al suo primo libro.
Non c’è dubbio che quando ricevetti la telefonata che mi informava che Faber & Faber, l’editore che tuttora pubblica i miei libri, aveva accettato il libro, fu davvero uno dei più bei momenti della mia vita. Non mi vergogno affatto di quel libro, però è un romanzo che si pone in un certo senso nel solco di Agatha Christie più di ogni altro mio libro. C’è un delitto in un villaggio di campagna, in una casa di campagna, un omicidio domestico, insomma. Ha davvero molto in comune con Agatha Christie e poco con i libri che scrivo ora, ma sembra che sia tuttora molto amato dai miei lettori. A quanto sembra, ai miei lettori continuano a piacere gli omicidi della campagna inglese.
A proposito di Agatha Christie, è quasi inevitabile confrontarsi con il suo spettro. Pensa che il suo stile e le sue storie siano ancora al passo coi tempi?
No. Però la gente continua a leggere i suoi libri e mi pare un fatto straordinario. Continua a esserci, ad avere i suoi libri sugli scaffali. E se ne trovano pure tanti dei suoi libri. Non era una grande scrittrice. Nemmeno una brava scrittrice. Il suo stile era adatto alle storie che scriveva. Però qualcosa di discreto c’è. I dialoghi fanno filare bene la storia. Lei era straordinaria nella costruzione ingegnosa della storia. Non ce n’è neppure una che si possa verificare nella realtà, ma questo non conta, perché i libri non li leggiamo per cercare il realismo, bensì per entrare in un mondo di fantasia che ci consenta di prenderci una pausa dai traumi della realtà, per farci un giro in un mondo gradevole nel quale nemmeno un omicidio ci può turbare. Se il parroco scopre un cadavere sul pavimento della chiesa non gli impedirà certo di dire messa la domenica o di fare qualunque altra cosa e alla fine la pace viene ripristinata. Agatha Christie ha dato sollievo e intrattenimento a milioni di persone in tutto il mondo. L’universalità della sua popolarità è interessante, nei momenti belli e in quelli brutti. Direi che è un risultato davvero ragguardevole.
Lei ha vissuto gli anni della Seconda Guerra. E il periodo in cui viviamo è davvero difficile per tutto il mondo, soprattutto per l’occidente…
Assolutamente.
Da scrittrice, lei pensa che sia giusto trarre spunto dalla contemporaneità per creare scenari nuovi oppure pensa che sia meglio concentrarsi sulla propria interiorità?
Credo che i sentimenti siano molto importanti, ma certo dipende dal tipo di libri che scrivi.
Per esempio, a me non interesserebbe scrivere un romanzo interamente dedicato agli eventi del 7 luglio dello scorso anno, quando una cinquantina di persone furono assassinate, e alcune di loro in maniera atroce, nella metropolitana [di Londra]. Un libro del genere non lo scriverei. È una storia vera, per giunta successa da poco. Si tratta di veri esseri umani. Ci sono amici, non miei… ma ci sono amici e familiari e non mi sembrerebbe una cosa giusta. Però altri scrittori hanno idee molto diverse dalle mie. C’è una realtà e la domanda è: ha senso e può avere successo trasformarla in una finzione narrativa? Quello che posso dire è che, se dovessi ambientare una storia di Dalgliesh a Londra, farei qualche riferimento a quei fatti.
Nessuno dei miei personaggi principali si troverebbe a viaggiare in metropolitana senza avvertire una certa trepidazione, perché comunque vorrei parlare dei nostri tempi. E così un riferimento a quei fatti ci sarebbe, ma si tratta di una cosa davvero enorme. C’è gente convinta di poter trasformare in finzione narrativa questi grandi problemi internazionali, giusto? Solo che non credo di avere il talento per farlo con successo e non penso nemmeno di volerlo realmente fare. Ricordo che qualcuno, qualche tempo fa, mi chiese se ci fosse un tipo di morte che io non avrei mai voluto utilizzare nei miei libri. Io risposi con decisione che non avrei utilizzato l’assassinio, soprattutto se sadico, di un bambino. Non mi sarebbe interessato affatto. E poi che nessuno dei miei personaggi sarebbe rimasto ucciso in una esplosione della metropolitana, perché la morte in quella metropolitana infestata dai ratti sarebbe stata particolarmente orribile
E ora, invece, è successo veramente, ma io continuo a non volermene occupare. Oggi non ambienterei una storia, qualunque storia, a Londra, senza fornire al lettore l’idea che si tratta della Londra del 2006, una Londra diversa da quella che era prima del 7 luglio.
Quando ha scritto il suo primo romanzo, lo ha fatto per semplice passione oppure aveva già in mente di poter fare la scrittrice a tempo pieno?
Non credo di aver pensato di poter fare la scrittrice perché a quel tempo avevo un marito malato da curare.
Sono nata nel 1920 e a quei tempi c’era molta disoccupazione e ho sempre avuto un forte senso di responsabilità, specie nel momento in cui mi sono ritrovato un marito malato da curare e dei figli da crescere. Insomma, la sicurezza finanziaria, che io non ho mai associato alla scrittura. Così, per buona parte della mia vita di scrittrice, ho lavorato nella pubblica amministrazione. Ho continuato a farlo quando ho iniziato a scrivere e ho smesso solo sei mesi prima di compiere sessant’anni, inizio ufficiale della mia pensione. Quindi, non credo di aver mai pensato di poter scrivere a tempo pieno, ma ero certamente convinta che avrei continuato a scrivere. Ne avevo una specie di bisogno interiore. Non avrei mai immaginato di poter diventare una scrittrice di bestseller internazionali. L’idea non mi ha mai neppure sfiorato il cervello, però ho certamente sperato di essere considerata una brava scrittrice. Ho sempre avuto delle ambizioni artistiche notevoli e la cosa mi ha aiutato tanto. Ho bisogno di scrivere. Se non lo avessi fatto, ora sarei una donna molto meno felice. Ma immagino che tu mi capisca.
Molto interessante e, in un certo senso, commovente. Un’ultima domanda. Se la sente di dare ai nostri lettori che magari abbiano in mente di mettersi a scrivere dei noir qualche consiglio spirituale o pratico?
Sostanzialmente, darei loro lo stesso consiglio che se dovessero accingersi a scrivere un romanzo non di genere. Una buona detective story deve essere prima di tutto un buon romanzo. Se volete scrivere un buon romanzo, se volete fare gli scrittori, prima di tutto dovete imparare a dare maggior forza alle parole perché le parole sono l’impalcatura, la materia prima del nostro lavoro. Non è importante disporre di un vocabolario più ampio, tanto per utilizzare delle parole insolite, ma più ne avete meglio è. E leggete molto e, soprattutto, leggete gli scrittori migliori. Non per copiarli, ma per vedere come scrivono e per imparare da loro come io ho imparato da Jane Austen, Graham Greene e Evelyn Waugh. E poi scrivete, esercitatevi. Non si diventa scrittori solo col pensiero. Li si diventa imparando a scrivere. Non credo che faccia nessuna differenza iniziare con dei racconti o persino tenere un diario, descrivere semplicemente quello che ci è successo oppure provare a scrivere un romanzo. Scrivete! E poi dovrete essere davvero aperti alle esperienze. Dovrete mostrare empatia con la gente, essere in contatto con altre persone, parlare con altre persone e imparare quel che c’è da imparare su di loro e non solo su voi stessi.
È importantissimo ma, ovviamente, se volete scrivere dei gialli dovrete tenere in grande considerazione la struttura e pensare se siete in grado di creare un nuovo detective che risulti interessante, che sia un professionista o meno, cercare di farsi venire in mente un detective che sia davvero diverso da tutti quelli che già esistono. Dovrete condurre le vostre ricerche, dovrete studiare il lavoro della polizia, scoprire come opera la polizia. Per esempio, se nella vostra storia viene commesso un omicidio, dovete sapere chi interviene, quali sono i suoi doveri, cosa fa. Dovrete informarvi sui metodi della polizia scientifica. Insomma, dovrete informarvi sui dettagli tecnici. Tutte cose in più che dovrete fare se intendete scrivere un giallo, ma ovviamente la detective story è anche questo. Se invece la storia che scrivete è diversa, pur rimanendo nell’ambito del noir, potrebbe non esserci l’intervento della polizia. Però, soprattutto se scrivete un giallo, dovrete fare ricerca. Per il resto, vale tutto quello che vale per ogni altro tipo di romanzo.
grazie a: thrillermagazine.it/
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