Anne Holt Anne Holt (1958) vive ad Oslo con la compagna Anne Christine Kjær e la figlia Iohanne, ed è uno degli autori di libri gialli più amati della Scandinavia. Laureata in Legge all'Università di Bergen, dopo aver lavorato per la Norwegian Broadcasting Corporation (NRK), l'azienda radiotelevisiva di stato norvegese, e per due anni al dipartimento di polizia di Oslo, ha intrapreso la carriera di avvocato. Nel 1990 è tornata alla NRK come giornalista ed anchor woman per il notiziario Dagsrevyen, occupandosi anche di calcio, di cui è una grande appassionata. È stata Ministro della Giustizia dal 1996 al 1997. La sua carriera di scrittrice inizia nel 1993 con la pubblicazione di Blind gudinne la cui protagonista è l'ufficiale di polizia Hanne Wilhelmsen. I personaggi centrali dei suoi romanzi diventano poi (incontrandosi anche con Wilhelmsen) Johanne Vik e Yngvar Stubø, rispettivamente criminologa e poliziotto: i due sono marito e moglie, ma non ci si aspetti un placido ménage familiare, perchè le vicende di cui si occupano sono di una durezza impressionante, con affondi nella realtà che talvolta diventano quasi insopportabili (ti rapiscono e uccidono la figlioletta e sul cadavere, a pezzi, c'è un simpatico bigliettino: "Ecco quello che ti meriti"...). Gli amanti del dolce mystery all'inglese sono avvisati.
D'accordo, forse non è proprio un paradiso in terra: in aprile fa ancora un freddo cane, le strade sono mezze sconvolte dalla manutenzione indispensabile dopo ogni lungo inverno e al mattino c'è un nebbione gelato come a Milano in novembre. A chi ama i libri e la buona letteratura gialla, però, Oslo, per quasi tutto il resto scalda il cuore: dagli indici di lettura (un norvegese su quattro apre un libro tutti i giorni e gli dedica circa cinquanta minuti) al "Påskekrimbok", la tradizione che (dal 1923) ogni anno nelle settimane di Pasqua riempie le librerie di nuove storie criminali e accaniti lettori del genere letterario nazionale. Soprattutto, può capitare solo qui che una scrittrice diventata bestseller dopo aver fatto la giornalista, la poliziotta, l'avvocato e il ministro di Grazia e giustizia, consideri il suo attuale mestiere il migliore perché la lascia libera di intervenire nel dibattito politico e le lascia comunque il tempo di occuparsi personalmente della figlia, "portandola a scuola tutte le mattine senza doverla affidare a qualcuno che ha dovuto lasciare soli i propri figli per occuparsi di quelli degli altri." Mettiamoci anche che Anne Holt, cinquantun anni, dodici libri pubblicati in patria e due di prossima uscita, quattro milioni di lettori in 25 lingue, è felicemente e regolarmente sposata dal gennaio del Duemila con Tine Kjær, l'altra mamma della sua amatissima bambina Johanna, e ti aspetti di incontrare un monumento nazionale della "norvegesità" alternativa. Invece ti viene incontro, sorridente, una scrittrice che prende molto sul serio i suoi argomenti, ma scherza volentieri sulla sua immagine: "Lo so, chi viene da un altro paese si lascia sempre impressionare dalla biografia. Ma guardi, siamo una piccola nazione, da noi quando si fa un governo c'è sempre uno che dice "chi vuol fare il ministro della Giustizia alzi la mano". Quella volta l'ho alzata io...". È stata ministro di Giustizia e Polizia una decina di anni fa, si dice con buoni risultati, prima di dimettersi per questioni di salute (una delicata operazione). Lo rifarebbe? "Basta una volta. Ho imparato che il vero potere non è nelle leggi ma nei soldi. Così un politico deve sapere soprattutto come gira il denaro, e il ministro delle Finanze ha sempre l'ultima parola. Ma partecipo con convinzione al dibattito pubblico." A modo suo lo fa anche scrivendo di delitti: nel suo secondo romanzo appena uscito in Italia, Non deve accadere (Einaudi, pagg. 426, euro 19), una delle vittime del killer seriale che dà filo da torcere alla coppia di investigatori Johanne Vik e Yngvar Stubø è la bionda leader di un partito politico conservatore-populista con tentazioni razziste che sembra proprio l'astro dell'antipolitica norvegese Siv Jensen... "Il razzismo da noi sta molto crescendo. "Mi preoccupano tutti questi islamici in giro" è una frase che la gente non si vergogna più di dire alle cene. Però considero più politico il libro precedente, Quello che ti meriti, uscito l'anno scorso da voi. Lì il tema è la famiglia disfunzionale, il fatto che abbiamo distrutto la famiglia nucleare tradizionale - ed è un bene perché era un posto orribile per la maggior parte delle donne e per molti uomini - ma spesso non abbiamo costruito una famiglia post-tradizionale come un buon posto per vivere e nascere." Una famiglia discretamente innovativa è anche quella che mettono inseme Vik e Stubø in Non deve accadere: li avevamo lasciati sul piano inclinato di una relazione complicata appena avviata e li ritroviamo accasati, con un figlio appena nato, la problematica prima bimba di Vik un po' turbata dal cambiamento e il solido Stubø in via di superare il lutto per la morte di moglie e figlia. Chi volesse sapere se Holt è "la risposta norvegese a Larsson", ha la sua risposta: no, è un'altra cosa. Larsson cita e complica felicemente alla svedese un manga, Holt declina il giallo con sottigliezze interiori scandinave sullo sfondo di questioni sociali di rilievo. "Al centro del secondo romanzo di Vik e Stubø c'è la noia come ricerca di esperienze estreme, al limite l'assassinio. So di un asilo dove hanno tagliato gli alberi per non correre il rischio che i bambini, arrampicandosi, si potessero rompere una gamba. Vogliamo proteggere i bambini da tutto e così creiamo gente estremamente annoiata e refrattaria a qualunque impegno "pericoloso", come crescere, uscire di casa, arrischiarsi in un rapporto. Ma prontissimi, per reazione, a rischiare la pelle negli sport estremi, pur di sentirsi vivi. Ho pensato che il massimo brivido per qualcuno sarebbe uccidere e rischiare di essere presi." Il terzo Vik & Stubø, La signora Presidente, appena uscito negli Usa e già nei programmi einaudiani, è invece un complotto internazionale contro la prima donna eletta alla Casa Bianca, in visita a Oslo (strano, dice un personaggio, pensavo prima avrebbero avuto un presidente nero...). "E nel prossimo libro si tratta di omicidio per odio." Quasi un catalogo dei moventi per uccidere. "Io non credo che un autore di crime story dovrebbe ripetersi. Perfino una delle mie scrittrici preferite, la scozzese Val Dermit, mi annoia un po' coi suoi delitti tutti con movente sessuale. Non si ammazza solo per sesso, soldi o odio, purtroppo. E variando la tensione narrativa non ci rimette, perché la popolarità delle storie criminali non deriva dal movente, ma dal fatto che pone questioni bibliche, la colpa, la punizione, il peccato." Sarà per questa consapevolezza che l'ultima notizia su Holt è che la serie Vik & Stubø sta per diventare un sequel di sei film (casting in corso, produttori svedesi e forse vicende trasferite da Oslo a Stoccolma perché costa meno girare lì). Qualche recensore americano ha perfino scritto che deve aver inventato Vik e Stubø apposta, perché la sua precedente eroina, la dolente e arrogante poliziotta lesbica Hanne Wilhelmsen, che in Italia ha debuttato senza seguiti nel 1999 con Sete di giustizia dal piccolo editore Hobby&Work, era meno adatta: c'è del vero? "Non direi proprio. Al contrario, ho creato Vik & Stubø perché c'erano delle storie che volevo scrivere e che non erano adatte a Hanne. E viceversa: recentemente sono tornata a Hanne con 1222, una storia di delitti in un albergo isolato da una tempesta di neve a 1222 metri di quota a Finse, in montagna, dove non avrebbe avuto senso usare Vik & Stubø. E comunque già in La signora Presidente tutti e tre si incontrano collaborando per risolvere il mistero. Voglio dire che a certi personaggi non riesci proprio a far fare tutto quel che vuoi."
C'è sempre un senso di smarrimento quando ti sei affezionato ad un personaggio - o ad una coppia di personaggi - e l'autore, all'improvviso, te ne propone un altro. Non importa quando siano stati scritti i libri, se prima o dopo, conta la sequenza con cui li hai conosciuti, e dato che Anne Holt in Italia ci ha raccontato le sue storie soprattutto attraverso i coniugi Vik e Stube, profiler e poliziotto, quando arriva questa Hanne, detective alla omicidi della centrale di polizia di Oslo, ecco che la cosa ti spiazza. Non ti spaventa, no, bisogna avere fiducia negli autori e la Holt è una scrittrice che ci ha sempre proposto belle storie a metà tra il poliziesco e il noir politico, con quella fredda efferatezza, quell'esotismo da capo nord e quella spietata critica sociale da paradiso maledetto a cui ci hanno abituati gli autori scandinavi. Inoltre ha una capacità di descrivere i personaggi, soprattutto quelli secondari, che fa in modo che i suoi romanzi siano quasi corali. Quindi, massima fiducia in questo La Dea Cieca (esce oggi da Einaudi Stile libero, pagg. 350, euro 18,50), sapendo che uno scrittore affida ad ogni personaggio la storia che questi è meglio in grado di raccontare. Non rivelo niente che non sia rivelabile: due morti che sembrano non avere niente a che fare l'uno con l'altro e che invece sono collegati in un disegno molto inquietante ed efficacemente complesso; personaggi che ci si trovano invischiati rischiando la pelle e invece vorresti che non gli succedesse niente; poliziotti che cercano di fare il proprio dovere nonostante tutto, e in questo tutto ci sono anche le istituzioni a cui appartengono, come i servizi segreti. Fine, non ho detto niente ma non c'è bisogno di dire altro. Le trame non si raccontano, si scoprono. A mano a mano che si procede nel romanzo ci si accorge che la Holt ha affidato la sua storia alla persona giusta. Hanne è una prima della classe. Buona famiglia borghese che la vorrebbe fare un lavoro più nobile che avere a che fare con il peggio della società. Studentessa modello all'accademia di polizia, collega modello amata da tutti, funzionario modello ossessionato dalle pratiche inevase e dall'orrendo codice 58 - caso archiviato per mancanza di prove. Bella come una modella. È perfetta, Hanne, a parte il problema di essere omosessuale. Che non è un problema in sé, naturalmente, lo è per la società in cui vive, per quanto evoluta, soprattutto in un microcosmo sempre un po' più antiquato com'è quello della polizia. Ma non importa, non lo sa nessuno e comunque lei è così bella che nessun uomo è disposto a crederlo. Con il suo lavoro Hanne ha un rapporto che la Holt - con una metafora ancora inedita in un poliziesco - paragona a quello che un pescatore ha col mare, parole della stessa Hanne. Neanche il commissario Maigret - tra i personaggi letterari più integrati ed organici al lavoro del poliziotto - era arrivato a tali punte di romanticismo. Ecco, un personaggio così è perfetto per raccontare una storia come questa, che dimostra come la società, anche quella norvegese e scandinava, non sia perfetta per niente, anzi. Un mondo che avvolge la nostra Hanne lasciandole addosso proprio quella puzza di interiora di pesce dei pescatori, che per lei è l'odore della morte. Così alla fine ti accorgi che hai fatto bene a dare fiducia alla Holt anche per questo romanzo, nonostante l'assenza di Vik e Stube. Ora, succede anche un'altra cosa. Hanne Wilhelmsen non è sola in questo romanzo. C'è anche Hakon Sand, un collega di Hanne, che lavora con lei e sembra essere l'altra metà di una coppia. Ma alla fine della storia la protagonista è lei, la detective perfetta (quasi), e quella di Hakon sembra più una storia parallela. Perché succede questo? Perché Hanne è un bellissimo personaggio naturalmente ma anche, io credo, perché è una donna. Nel noir i protagonisti femminili hanno sempre avuto una particolare forza, se calati nella storia giusta, naturalmente: non è un valore assoluto. Non è una cosa di oggi, è dai tempi del giallo classico di Agatha Christie che succede, per esempio con miss Marple, ma è soprattutto col noir e col police procedural, con le storie poliziesche. Escluso l'hard boiled degli anni di Raymond Chandler - dove sarebbe stato storicamente molto difficile vedere davvero una donna condurre credibilmente un'indagine criminale - subito dopo arrivano una serie di detectives pubbliche o private di grande forza, che fanno la differenza. Pensiamo alla giovane allieva dell'F.B.I. Clarice Starling ne Il silenzio degli innocenti, di Harris. Oppure alla anatomopatologa Kay Scarpetta dei romanzi di Patricia Cornwell. O alla detective privata Giorgia Cantini di Quo vadis, baby e degli altri romanzi di Grazia Verasani, solo per citarne qualcuna. Ma anche ai personaggi apparentemente secondari, come l'agente Amelia Sachs, che diventa le braccia e le gambe del grande criminologo Lincoln Ryme, tetraplegico bloccato a letto, ne Il collezionista d'ossa di Jeffrey Deaver. Succede, io credo, perché nel nostro immaginario narrativo e anche nel nostro modo di ricordare la realtà una donna poliziotto è ancora una strana intrusa. Fa un mestiere che ancora - nonostante le varie Angelina Jolie, Jodie Foster e Sandra Bullock, ma soprattutto nonostante questori, ispettori e agenti donna che vediamo al telegiornale - viene considerato un mestiere da uomini e questo dà ai personaggi una carica estraniante che dal punto di vista narrativo è come un trampolino che ti permette, scivolando sulla curiosità del lettore, di andare più a fondo nel personaggio. Permette di temere più realisticamente per le sorti del personaggio in un universo narrativo in cui l'eroe, il detective, l'uomo con la pistola sembra sapersi difendere di più di una donna, per quanto armata e addestrata. Permette di cambiare il punto di vista e di inserire elementi della vita quotidiana che una donna, di solito, si trova costretta a portarsi dietro più di un uomo, che può scordarsi dei figli, per esempio, o della casa, per essere solo un poliziotto. Permette di farcela stare male, in quel mondo di uomini, anche se le piace il suo mestiere come il mare ai pescatori, sempre comunque un po' emarginata, un po' strana, un po' sbagliata. Può essere, insomma, quello che serve in un noir: un personaggio complesso, nuovo e contraddittorio. Anche quando è perfetto come Hanne Wilhelmsen. la Repubblica, 11 maggio 2010
|