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Enzo Ungari
Le ombre di un sogno da Huston a Wenders |
Non c'è bisogno di scomodare Goethe, e le teorie dei colori, per
arrendersi, semplicemente, all'evidenza del viraggio che rischiara
oppure oscura ogni letteratura - gialla, nera, rosa - quando diventa cinema: Hammett che si stinge, con le movenze rarefatte di
William Powell e di Myrna Loy, in un rosa pallidissimo, o Agatha Christie che si colora, secondo la formula Frank Tashiin oppure un treatment inglese, di azzurro intenso o giallo canarino.
Eppure un'ottusità oscura e irriducibile acceca non solo i pedanti, ma addirittura gli «specialisti», che sbandano, si smarriscono
e infine, sentendosi intimamente e grossolanamente traditi, protestano quando Woolrich-Irish si rovescia in John Farrow (The Night has 1000 Eyes) in François Truffaut (La Siréne du Missisipi), Ross McDonaId in Jack Smight (Harper), Raymond Chandler
in Howard Hawks (The Big Sleep) oppure in Robert Altman (The Long Good-bye), Lionel White in Godard (Pierrot le fou), James Hadley Chase in Patrice Chéreau (La chair de l'orchidée), Patricia Highsmith, via Chandler, in Hitchcock (Strangers on a Train) oppure,
passando dall'Europa, in René Clement (En plein soleil) e in Wim
Wenders (Der Amerikanische freund).
E infine, quasi mai ereditò, come il campione di una scrittura
anonima che aspiri al plagio, al furto e al tradimento, il più saccheggiato di tutti, l'ispiratore di decine di film classici, moderni
post-moderni, Dashiell Hammett, con i suoi testi capaci di
fare da pretesto all'ultimo maquillage della sophisticated comedy sul viale del tramonto (la serie di The Thin Man), di far nascere ufficialmente il film noir moderno (The Maltese Falcon di John Huston) e infine, via Joe Gores e Francis Coppola, di farlo morire
(Hammett di Wim Wenders).
È un po' difficile pretendere ordine, rispetto, fedeltà e ricevute
quando ci si muove in un universo che si nutre di infrazioni, crimini e delitti. I libri gialli e i film neri ci tengono, qualche volta,
al loro stile ma si abbeverano, tutti quanti, come le belve di notte, a una stessa sorgente di ispirazione, torbida e iridescente come l'immaginario che la nutre alimentandola con i fumetti di Chester Gouid e di Alex Raymond, le pagine di «Black Mask», le fotografie di Weegee, le luci degli espressionisti emigrati a Hollywood, la cronaca nera di Al Capone e il mito romantico di Gatsby.
La forza di James Cain, la stessa che gli permette di suggestionare, simultaneamente, Billy Wilder (Double Indemnity) e Luchino
Visconti (Ossessione) è, probabilmente, il controcanto della sua
debolezza letteraria. Ma forza e debolezza, come del resto la stessa idea di letteratura, non sono dei concetti un po' troppo idealistici per un immaginario eminentemente tecnico, tutto effetti e
congegni, cambi di marcia e salti di tensione?
Quando un genere del cinema americano - che possiamo far risalire a Underworid di Josef von Sternberg, se non addirittura a Griffìth e a Porter (The Great Train Robbery), nel momento in cui è stato girato, era un western o un film noir?) - si tinge così di
nero finisce per assumere, inevitabilmente, da quest'ultimo la sua
stessa infinita possibilità di assorbimento, e perciò di metamorfosi,
dell'intero spettro dei colori.
Il film noir, evoluzione moderna del gangster film, perversione
metropolitana del western, non è stato soltanto il genere che, più di tutti, ha attratto, come una Circe irresistibile, gli emigrati di
ieri e di oggi (Edgar G. Ulmer, Jacques Tourneur, Robert Siodmak, Fritz Lang, Alfred Hitchcock, Roman Polanski, Wim Wenders): si è offerto, nella sua plasticità criminale e perversa, come
doppio del western e della sua rigidità puritana (è impossibile immaginare un film noir di John Ford, o un western di Hitchcock).
Prima che Paul Schrader scrivesse le sue «Notes on the Film Noir» e che Raymond Durgnat, Carles Clarens, i «Cahiers du Cinema» e
altri moderni investigatori lo privilegiassero, come terreno di
indagine generoso, fino all'imprudenza, nel disseminare indizi e
tracce, il film noir - in tutte le sue varianti, dagli script metallici
di DeWitt Boden materializzati in B-movies da Val Lewton (Cat People di Jacques Tourneur) alle prodezze stilistiche 'on the border' di Orson Welles (Touch of Evil) - ha disegnato una linea maligna e perversa, disseminata di piccole 'variabili impazzite' che raccontano la vera storia, non ufficiale, delle paure e dei desideri
del cinema americano, da Freaks di Tod Browning a Detour di Edgar G. Ulmer, da Dead Reckoning di John Cromwell a The Enforcer di Raoul Walsh, da Gun Crazy di Joseph H. Lewis a The Night of the Hunter di Charles Laughton, da Leave Her to Heaven di
John Stahl a The Lady from Shangai di Orson Welles, da Pick-Up on
South Street di Samuel Fuller a The Honeymoon Killers di Leonard
Kastle, da Eraserhead di David Lynch a Gloria di John Cassavetes.
Il film noir si è offerto, fìn dall'inizio, come una radiografia piuttosto che come un ritratto - la X di Scarface che diventa luce,
raggio, lettura; il bianco di Gordon Pym e di Moby Dick che rovesciandosi in nero mostra, in negativo, stagliate contro un chiarore quasi bioelettrico, tutto quello che avremmo voluto sapere
su un mondo, un comportamento e uno stile che avevano mosso
con decisione il tempo dell'azione prima di quello della riflessione. Se il film noir e il suo antidoto diurno, il western, costituiscono la notte e il giorno del cinema americano, bisogna anche aggiungere che mentre Randolph Scott e John Wayne ci parlano
soltanto dell'America, Scarface è anche un Nosferatu di massa.
L'enorme ambizione di Hammett, praticamente cancellata dalla
versione finale del film, si manifesta pienamente nell'inquadratura iniziale, quella che fa da sfondo ai titoli di testa, e che potremmo battezzare, parafrasando uno dei due film realizzati da Wenders durante il suo lunghissimo addio a Hammett, «No Lightning
over Water». Lo spettatore ignaro delle incredibili vicissitudini
che hanno fatto durare quattro anni il compimento di Hammett
può credere, davanti ai riflessi torbidi che increspano lo specchio
dell'acqua che apre e chiude il film, che l'originaria speranza di
Wenders di girarlo in bianco e nero sia stata mantenuta. Solo un
occhio attento si accorge che anche la prima inquadratura di
Hammett è a colori, e questo inganno non è che la prima delle
molte promesse non mantenute che lo costellano. Ci aspettiamo,
dopo averne a lungo contemplata la torbida superfìcie, di immergerci vorticosamente nell'immaginario del film noir americano,
attraverso un utopico remake di The Maltese Falcon, come Wenders aveva a più riprese promesso, raccontando così la trama del
film che si accingeva a girare:
«A un certo punto della sua vita
in cui ha deciso di dedicarsi esclusivamente alla scrittura, Hammett riceve la visita di uno dei suoi vecchi colleghi dell'agenzia
Pinkerton, che gli chiede di aiutarlo a risolvere il mistero della
scomparsa di una ragazza. Lo scrittore ripiomba così, malgrado
la sua decisione, nel vecchio mestiere di detective, e si imbarca in
un'inchiesta estremamente complicata. Nel frattempo fa ogni
sforzo per continuare a scrivere, ma perde progressivamente il
filo del suo romanzo, comincia a confondere la sua finzione con
la realtà in cui è precipitato e poco a poco si rende conto che un
certo numero di persone che incontra nel corso della sua inchiesta sono i prototipi dei personaggi del suo romanzo, The Maltese
Falcon, che pubblicherà pochi anni dopo.»
Ma una volta tuffati sotto la superficie del film noir, ci ritroviamo in uno studio quasi da soap-opera, dove il bravissimo Fred
Forrest da l'impressione di essere stato spedito lì direttamente dal
reparto costumi per dei provini che esegue impeccabilmente fino
a che, quando il film dovrebbe finalmente iniziare, finisce, con un totale dello stesso specchio d'acqua con cui aveva fatto fìnta di
cominciare.
Nei novanta minuti di questo vuoto prossimamente (non c'è da meravigliarsi che Godard abbia paragonato Hammett a Passion, altro
geniale trailer di un film che un giorno forse avremo la fortuna di
vedere) non solo non troviamo alcuna traccia delle intenzioni del
regista (nessuna traccia perfino di The Maltese Falcon, benché il taxista che fa a Hammett da Virgilio nei suoi vagabondaggi per una
Chinatown fastidiosamente fiammeggiante sia proprio l'Elisha
Cook Jr. del film di John Huston, orrendamente invecchiato,
come tutto, del resto) ma nemmeno l'eco del cinema nero a cui
Hammett avrebbe dovuto, a torto o a ragione, ispirarsi.
Viene il sospetto che Wim Wenders, credendo di identificarsi in
Humphrey Bogart, sia stato spinto dal suo produttore a vivere il ruolo di un Peter Lorre, convinto di tenere in mano le regole del
gioco quando ne è solo la vittima, condannata, fin dall'inizio, a
vedersi sfuggire di mano quella preziosa statuetta (il Falcone, il
film) così a lungo e inutilmente ricercata. Un esame anche sommario delle condizioni di produzione di Hammett sembra accreditare l'ipotesi che il suo vero autore, il responsabile del rovesciamento di un certificato di nascita (di un genere, di un immaginario, di uno stile) in un atto di morte sia proprio Francis Coppola e
la sua cieca vanità.
Dopo una lunga pausa dovuta a mancanza di soldi ma anche alle
perplessità di Coppola davanti al materiale già girato, il 23 novembre 1981, dopo aver già realizzato Lightghtning over Water e girato interamente The State of Things, Wenders è finalmente autorizzato a terminare il film, che aveva già girato al 90% con il vecchio Joseph Biroc come direttore della fotografia, a San Francisco, soprattutto in esterni. Questa volta si tratta però di chiudersi
in uno studio - gli ormai famosi Zoetrope Studios appena battezzati dalle riprese di One from the Heart - e di girare, di nuovo, il 75% del film, in solo quattro settimane, con Philip Lathrop al posto di Joe Biroc che si è ritirato, Eugene Lee invece di Dean Tavoularis per le scenografie, e un nuovo montatore.
Lo spettro del manierismo, che aveva proiettato, fin dall'inizio,
un'ombra catastrofica su questo film (nessun manierista, nemmeno il più colpevole, potrà mai realizzare un buon film noir, genere «forte» perché amorale, e amorale perché profondamente innocente) avvolge dunque le riprese e le ingarbuglia. Wenders,
che era partito con l'idea di ritrovare, facendone un impossibile
remake, The Maltese Falcon, si ritrova, senza rendersene conto, a
fare invece il remake del suo stesso Hammett, cioè il remake di un
remake, dove tutto è cambiato a parte gli attori principali e il regista. È agghiacciante, se riascoltiamo oggi le parole dette da
Wenders a Lise Bloch-Merhange, durante la seconda fase delle
riprese, l'ingenuità con cui il regista-detective si fa rubare il suo
film sotto gli occhi e scambia quel furto per una collaborazione.
«Girare 90 pagine di sceneggiatura in 4 settimane è... molto
inabituale. Credo che Francis si sia detto che era interessante costringermi a girare esattamente nelle stesse condizioni di un vero
film noir degli anni '30 e '40, come The Maltese Falcon, a cui non
abbiamo mai smesso di pensare: riprese molto rapide e budget
molto ridotto. E anche spazio molto limitato: sto girando praticamente tutto il film all'interno di un unico studio.»
Ma sarebbe stupido limitarsi a registrare questa professione di
candore imperdonabile in un ladro di cinema e individuarvi la ragione profonda del fallimento del film.
Wenders, come tutti i registi veramente moderni, ha la virtù di
usare sempre, che lo voglia o no, una sorta di metalinguaggio,
che gli consente di raccontare una storia e simultaneamente di riflettere sui modi e sul senso del racconto. Questa virtù diventa un vizio quando il racconto, rinunciando al rischio e all'invenzione, si snoda "à la manière de', mimando manieristicamente un universo stilistico sublime proprio perché obsoleto, che può essere ammirato e goduto indefinitivamente perché storicamente esaurito e perciò irriproducibile.
Hammett, indipendentemente
dalle sue fosche vicissitudini (a ben vedere il film noir c'è, ma è il contesto del film invece del suo testo), è marchiato fin dall'inizio
dal codice di una missione impossibile: raccontare modernamente la genesi creativa di The Maltese Falcon e, insieme, riprodurne
gli esiti, le emozioni e la catarsi. È un po' come pretendere di
mettersi alla guida di una Ferrari, senza patente, e di decifrarne, a
tutta velocità e fino all'ultimo respiro, il libretto di istruzioni. È ancora una volta Wenders a individuare, senza rendersene conto,
l'orrore dell'operazione, ostinandosi a circoscrivere, in un ridicolo problema di script, un'assenza di fuoco che presiede l'intero progetto di Hammett: «II grande problema del film era la sceneggiatura, non ce n'erano altri.
La difficoltà era intrinseca al progetto: volevamo che il film fosse contemporaneamente una biografìa di Hammett, un film su uno scrittore, e un poliziesco classico. Ma è stato molto difficile trovare un equilibrio fra queste diverse aspirazioni». Per capire il senso di questo 'plurale majestatis' dobbiamo ascoltare ancora una volta il regista quando dice
(sempre a Lise Bloch-Merhange): «Se lo confronto ai 9 film che
ho realizzato prima, Hammett è un film a parte: lo considero, prima di tutto, come il frutto di uno sforzo collettivo e come un
'prodotto Zoetrope' piuttosto che come un oggetto completamente mio, capace di riflettere la mia visione personale. Da questo punto di vista è stato spesso una grande frustrazione. Naturalmente, essendone io il regista, mi assumo il ruolo di artigiano
principale e mi ritrovo nello stile del film, nel suo look, e anche
nella descrizione del suo personaggio, nel suo comportamento,
nei suoi valori, nel suo senso dell'onestà e nella sua integrità.»
È lecito immaginare che le 'rushes' delle riprese iniziali (che erano, non va dimenticato, il 90% del film), quelle più conformi alla soggettività di Wenders, tenendo fede a un numero probabilmente minore di promesse, centrassero il loro obbiettivo, quello dimettere in scena il dramma di un uomo di azione che scopre,
pigiando i tasti della sua macchina da scrivere, una vertigine
maggiore di quella che gli procurava l'esperienza reale delle sue
pericolose investigazioni. Non a caso le immagini più belle di Hammett, insieme all'inquadratura che apre e chiude il film, sono
quelle - tanto ripetute da costituirne quasi il refrain - della macchina da scrivere, filmata genialmente come un oggetto maligno
e metafìsico, come la pistola di un killer o il mitra di un gangster, suggerendo in modo potente e stringato che Dashiell Hammett correva più pericolo scivolando sulle frasi che componeva
nella sua camera d'albergo che non nei vicoli di Chinatown nel
corso delle sue inchieste vissute.
A ben vedere Hammett è davvero una riflessione su The Maltese
Falcon: come nel film di John Huston c'è qualcuno che corre
dietro a un sogno, ipnotico e immateriale, e che si ritrova, da inseguitore, inseguito, e da cacciatore preda: un'altra vittima, una
delle tante, che popolano l'immenso cimitero del film noir americano.
da: Cult Movie, n. 15/16, aprile-luglio 1983 (speciale Mystfest '83) |