inizio rosso e giallo

 

Claudio Carabba

Dalla leggenda di Spade al sorriso di Nick e Nora

La vecchia auto procede lentamente, dall'aereoporto di Los Angeles verso i viali di Hollywood. E l'occhio della macchina da presa indugia per un istante sulla targa, «Sam Sp 8», che si legge Sam Spade. Così nel magnifico prefìnale dello Stato delle cose, Wim Wenders, rendendo diretto omaggio al più mitico investigatore inventato da Dashiell Hammett, cita con autoironia anche il suo film maledetto, quell'Hammett appunto per cui ha furiosamente discusso per anni con Francis Ford Coppola, produttore troppo intraprendente.

Presentato al festival di Cannes '82 (ma ancora inedito per gli spettatori italiani che non hanno l'abitudine di andare a vedere il cinema all'estero) Hammett di Wenders, tratto da un fortunato romanzo d iJoe Gores che porta il medesimo titolo, non è certo il primo film dedicato alla leggenda del romanziere («il capo della scuola dei dur » dicono di solito i risvolti di copertina dei suoi gialli); neppure l'ultimo sarà. Non è mica facile riassumere con la memoria tutti i volti di e da Hammett che sono passati attraverso i decenni sullo schermo, bianco-nero e colorato. La storia dell'autore si intreccia a quella dei suoi personaggi.
L'immagine classica di Bogey, irresistibile Sam Spade, rischia di fondersi nella nebbia dei ricordi al profilo più dolce di Jason Robards che in Giulia nella parte del caro Dashiell insegna le regole della buona scrittura, nella tranquilla villetta in riva all'oceano, alla giovane Fonda Hellman, narratrice che diventerà famosa. Dash Hamm ha insomma prestato un lungo servizio sia come gentile fornitore di soggetti (non solo romanzi da ridurre ma anche sceneggiature appositamente fabbricate) sia come eroe di una biografia che ben si prestava alle leggende dell'epica moderna.

«Con un improvviso scatto dì impazienza, Dashiell Hammett mise da parte il numero di Black Mask del dicembre 1927. Aveva bisogno di aggiungere qualcosa, una scena più corposa per mostrare come il suo investigatore privato fosse in grado di smuovere le acque a Poinsonville e per poter fondere i quattro racconti pubblicati in un romanzo. E dato che l' editore aveva già programmato la pubblicazione di Piombo e sangue come vero e proprio romanzo, era il caso che si desse un po' da fare per scrivere la scena da inserire. Si mise a camminare su e giù, misurando la scarsa metratura quadrata del soggiorno. E se?... No, non funzionava... Forse però. Ma sì, perché no? Una scena di pugilato, ambientata in un palazzetto dello sport, un'arena o qualcosa del genere, fuori cìttà. il problema, a questo punto, diventava quello di come farci arrivare il detective..

Joe Gores presenta così il suo Hammett, come uno scrittore alle prime armi alle prese con problemi di creazione (anche se un pericoloso incarico, da accettare per fatto personale e questione di amicizia, lo coinvolgerà di nuovo nell'azione). Ma con una differenza capitale rispetto ai suoi onorevoli colleghi di penna. Qui non siamo davanti all'esordio di uno scrittore che deve imparare i segreti dell'indagine poliziesca, ma di fronte a un detective privato, che impara a scrivere. Il suo passato di investigatore (otto anni alle dipendenze della celeberrima «Pinkerton Detective Agency») è fondamentale: perché da romanziere «non fece altro che sfruttare le sue innate attitudini di cacciatore di uomini.»

«Ho voluto scrivere un romanzo su Hammett detective - precisa Gores - proprio perché la sua esperienza di poliziotto privato risulta alla fine decisiva per la sua opera letteraria. Ma non è il detective quello che affascina i lettori: è Hammett il detective che inventa Hammett lo scrittore.»

L'avvertenza didascalica fa capire perché Wim Wenders abbia scelto (e seguito fedelmente) il libro di Gores come biografìa esemplare di Hammett. Nonostante che lavorasse per la prima volta su commissione e su un'idea non sua, a Wenders deve essere piaciuta questa storia che vive aldilà dell'azione stessa, questo personaggio che con lo spazio che occupa diventa di per sé intreccio narrativo: gli avvenimenti, che pure ci sono, restano per così dire complementari. E la scelta dell'attore protagonista (il più discreto e anonimo Frederic Forrest preferito al divo De Niro proposto da Coppola) conferma una linea stilistica che esclude il fascino del sensazionale.

Quello di Gores-Wenders è naturalmente soltanto uno degli Hammett possibili da raccontare. Ce ne sono almeno altri due:

Lillian Hellman, appassionata compagna di vita, fornisce in Pentimento, il materiale giusto per il Dash intimo e familiare poi trasportato sullo schermo dal vecchio Fred Zinnemann nel già ricordato Giulia.
Qui c'è l'Hammett della piena maturità, adottato ma non integrato dalla costa di Hollywood, tutto scrittura, amore e impegno; l'azione è semmai riservata (il viaggio alla ricerca dell'amica perduta nella Germania nazista) alla più giovane compagna. E Jason Robards, con il barbone brizzolato e il sorriso paterno, sembra in alcuni momenti il fantasma di Bogey tornato dall'eternità, senza più le durezze della caccia al «Falcone.»

Tutto azione e poco pensiero è al contrario il Dash Hamm (appena mascherato con lo pseudonimo Ham Nash) proposto dal magnifico James Coburn, agente invincibile che non butta mai giù la testa. Coburn è il protagonista di un lungo film televisivo tratto dal Bacio della violenza (il secondo romanzo di Hammett) che fu presentato in anteprima italiana nel 1980 al Festival del giallo di Cattolica ed è stato poi mandato in onda a puntate dalla Rai.
L'idea chiave dello sceneggiatore Robert Lenski e del regista Swackhamer fu appunto quella di contaminare il personaggio con l'autore. Per cui l'investigatore immaginario diventa nel film Hammett medesimo. A conferma che i due sentieri erano e sono ormai definitivamente intrecciati.
Anzi con un clamoroso ribaltamento di valori, già notato qualche anno fa da Oreste Del Buono, il più autorevole padrino del rilancio di Hammett in Italia: Insomma, ormai Dash piace quasi di più come personaggio di romanzi che come autore di romanzi.»
E forse protagonista Dash lo era sempre stato anche quando i personaggi si chiamavano Sam Spade o Nick Charles.

«La mascella di Samuel Spade era ossuta e pronunciata, il suo mento era una V appuntita sotto la mobile V della bocca. Le narici disegnavano un'altra V, più piccola, Aveva occhi giallo grigi, orizzontali, il motivo della V era ripreso dalle spesse sopracciglia che si diramavano da due rughe gemelle al disopra del naso aquilino e l'attaccatura dei capelli castano chiari scendeva a punta sulla fronte partendo da un'ampia stempiatura.
Somigliava, in modo abbastanza attraente, a un diavolo biondo.
»

Samuele Spade, in arte Sam, entra in scena molto bene, la faccia dura dell'America. Gli uomini di Hollywood notano subito il personaggio. Del resto già il primo romanzo di Hammett, Piombo e sangue, era stato saccheggiato nel 1930 da Ben Hecht e Garrett Fort, autori del soggetto e della sceneggiatura di Roadhouse Nights, un film di vaghissima memoria diretto da Hobart Henley. E nel 1931 quando The Maltese F'alcon è da pochi mesi in libreria, arriva la prima versione cinematografica. In tutto, escludendo le varianti comiche, i «Falconi» dello schermo saranno tre. Un'adeguata lettura comparata è sul momento impossibile, considerato che conosco per visione diretta solo il terzo «Falcone», quello «vero» di Huston e Bogey.
Del primo ho visto soltanto una fotografìa virata in color seppia.
C'è Ricardo Cortez (Sam Spade) che con posa da amante latino (capello scuro e impomatato, basetta ben scolpita) accende una sigaretta a Bebe Danieis, (Brigid O' Shaughnessy), la misteriosa e affascinante cliente, la donna del destino. A giudicare dalla vecchia immagine siamo molto lontani dal mondo duro e scattante di Hammett. Si possono intuire le ragioni dell'insuccesso che fu alquanto clamoroso.
Non andò bene neppure il secondo tentativo di riduzione. Stavolta è il più stimato William Dieterle a intervenire sul romanzo che è trasformato anche nel titolo: non più «II falcone Maltese» ma Satan met a Lady. La variante è indicativa: l'attenzione è spostata sull'eroina femminile, interpretata per l'occasione da Bette Davis, diva perfida ed emergente. Eppure nonostante la sua forte presenza (in ombra, assicurano gli annali, il dimenticato Warren Williams nei panni di Spade) il fiasco si ripete.
L'idea di rifare a distanza ravvicinata una terza versione del «Falcone » pareva sulla carta alquanto azzardata, se non proprio suicida. Jack Warner investì nel progetto trecentomila dollari, che era una cifra ragionevolmente bassa da buon film di serie B.
Sceneggiatura e regia sono del debuttante John Huston. George Raft, duro d'eccellenza della old Hollywood d'anteguerra, declina l'invito. Non se la sente di rischiare la sua popolarità. Accetta invece Humphrey Bogart, che dopo un faticoso tirocinio da comprimario cattivo (quasi sempre destinato a morte violenta) si è fatto finalmente un nome l'anno prima con Una pallottola per Roy.
Huston segue fedelmente lo schema narrativo di Hammett. E questa è la sua prima mossa vincente. I testi storici assicurano che i suoi predecessori avevano invece stravolto insensatamente il tessuto narrativo originale. In ogni caso il meccanismo funziona a meraviglia e anche i comprimari sono destinati a restare nel mito: l'enigmatica Mary Astor come Brigid, Sydney Greenstreet (il più subdolo grassone di Hollywood) in quelli dell'ineffabile mister Gutman, Peter Lorre strisciante Joel Cairo. E via via tutti gli altri. Siamo di fronte ad un oggetto di culto: non è il caso di insistere troppo. Semmai era proprio Bogart tisicamente parlando l'infedeltà più grave, così poco «diavolo biondo», fino a quel punto della brillante carriera persino non troppo attraente. E solo in questo momento che nasce il suo fascino erotico-sentimentale che il Rick di Casablanca eleverà a mito. E il fatto che qualche anno più tardi Bogey incarni il detective più privato della nostra vita, il dolcissimo Marlowe in un altro cult movie, II grande sonno, favorisce l'allargarsi di una disputa che già esisteva a livello letterario. È meglio il duro Sam o il romantico Philip, siete dalla parte del maestro Hammett o dell'allievo Chandler? Chi è il vero numero uno della « hard-boiled schoo » americana? Il dibattito ancora continua ...

«Stavo appoggiato al banco di un bar della Cinquantaduesima strada, aspettando che Nora terminasse le sue commissioni natalizie, quando una ragazza si alzò dal tavolo dove stava seduta con altre persone, per avvicinarsi a me. Era piccola di statura, bionda, e sia che se ne si considerasse il viso o la figura nell'abito sportivo azzurro-polvere, il risultato era comunque soddisfacente. «Lei non è Nick Charles?» domandò. Risposi: «Sì». Tese la mano... Il mio bicchiere era vuoto. Le chiesi che cosa volesse bere, ordinai due Scotch, poi continuai...»

Anche Nick Charles protagonista dell'Uomo ombra, si presenta in apertura di libro come un duro, dall'occhio pronto e svelto nel giudizio, il bicchiere sempre da riempire. È un detective giovane ma pensionato, o meglio reticente. Sposato a Nora, bella e ricca ereditiera, ha lasciato l'avventurosa professione. Non ha perso però né il fìuto né il gusto della caccia. E quando l'occasione si presenta, non sa resistere. La proiezione autobiografica di Hammett si ferma comunque alla situazione di ex poliziotto: per il resto Dash e Nick non sembrano assomigliarsi troppo. Ma il Nick scritto è alquanto diverso anche da quello che il brillante William Powell porta sullo schermo. La versione cinematografica dell'Uomo ombra è del 1934, e sotto l'accorta direzione di W.S. Van Dyke siamo in pieno territorio «giallo-rosa», assai lontano dallo stile hard tipico di Hammett. Già sfalsato in fase di sceneggiatura (Hackett e Goodrich sono gli autori della riduzione; Dashiell non partecipa ai lavori) il film, nonostante l'intreccio con misteri e cadaveri, ha un tipico andamento da commedia. Quando è sbronzo Nick assomiglia vagamente al miliardario dal cuore doppio di Luci della città. Myrna Loy, con le sue mossette da signora elegante e il cagnolino Asta, accentuano l'atmosfera.
Contrariamente alle sue abitudini, spinto dal forte successo, Hammett riproporrà le avventure di Nick e Nora altre due volte, in Dopo l'uomo ombra ('36) e Si riparla dell'Uomo Ombra, ('39). Per i dirigenti della Metro Goldwyn Mayer comunque non sarà abbastanza. William Powell - Myrna Loy e Asta torneranno infatti altre tre volte insieme (soggetto su personaggi creati da Dashiell Hammett è scritto nei titoli di testa). La serie si concluderà definitivamente solo nel 1947 con Il canto dell'Uomo ombra e resta una delle più lunghe e resistenti nella storia di Hollywood.

Altri eroi inventati da Dashiell resterebbero da raccontare; e difatti Hollywood li ha raccontati. L'agente segreto X9 ad esempio, il quale per la verità ha avuto miglior vita nei fumetti di Alex Raymond (sì, proprio l'inventore del biondo Gordon). O ancora Ned Beaumont, cavaliere di fortuna, elegante e un po' ambiguo che cammina senza farsi mordere nel groviglio di vipere avvelenate della Chiave di vetro. Gran romanzo di miseria e corruzione (con una visione apocalittica della famiglia, specie se ricca e potente, che influenzerà Chandler) The Glass Key ha offerto lo spunto per due film. Uno del '35 con George Raft come protagonista, che non mi risulta sia mai arrivato in Italia. L'altro del '42 con il biondo Alan Ladd stretto fra il fascino pericoloso di Veronica Lake, irresistibile strega amorosa, e l'aggressiva amicizia del massiccio Brian Donlevy. Tutte cose da rivedere e da ristudiare, il thriller classico è un genere ancora assai trascurato nonostante le recenti rivisitazioni critiche. I lavori di scavo si fermano di solito ai medesimi titoli, resta il buio oltre la siepe dei più verdi successi.

Il nome di Hammett scompare dai cartelloni di Hollywood nel decennio cinquanta; e certo influisce oltre alla stanchezza dello scrittore, l'atmosfera maccartista che stringe gli studios. Forse il vecchio Dash in questi suoi ultimi anni ha qualche rimpianto per il suo passato di cacciatore. Sicuramente (basta leggere la HelIman) la sua lotta continua. È l'ultima storia possibile ancora da raccontare intorno alla sua vita di uomo.

E stranamente anche questo ultimo capitolo potrebbe essere raccontato da un tipo come Wenders: «Non mi piacciono le storie che costringono a una tensione, a far attendere qualche cosa, preferisco che le storie o le azioni si addizionino e formino alla fine una storia - disse una volta Wim. Penso che si possa guardare più tranquillamente i miei film, che si possa essere vicini ai miei personaggi perché fanno la storia.» È una dichiarazione del 1976, quando il corso del tempo non aveva fatto ancora incontrare Wenders e Hammett. Eppure sembra già la premessa a un giallo biografico che superi lo schema del genere».

La possibilità di una storia che nasce non dalla vita ma all'interno della storia stessa. Come nel caso di Dashiell Hammett appunto.

da: Cult Movie, n. 15/16, aprile-luglio 1983 (speciale Mystfest '83)