Ken Follett Centinaia di milioni di copie vendute in tutto il mondo, e quindi ci si chiede: un grande romanziere o un abile costruttore di best seller? Tutt'e due, in questo caso. Qui i thriller, spesso in una cornice storica:
Intervista a Ken Follett - realizzata da Giuseppe D'Emilio, Luca Crovi, e da Sebastiano Pezzani - che è stata messa in onda a Tutti i colori del giallo il 16 e 17 ottobre 2004. Follett era per l’occasione ospite del Festival della Letteratura di Mantova.
È vero che ha iniziato la sua carriera letteraria come giornalista musicale? Molto tempo fa. Nei primi anni ’70 facevo il giornalista per conto del South Wales Echo e, fra le altre cose, mi occupavo anche di musica Pop. Parlavo di concerti, scrivevo recensioni sui dischi, ecc. La cosa più eclatante credo sia stata un’intervista a Stevie Wonder - credo fosse il 1972. Le piaceva scrivere di musica? Sì, molto. La musica era molto importante per me. Lo è ancora? Sì, come molte persone della mia età sono un appassionato soprattutto della musica degli anni ’60 e degli anni ’70. Oggi ascolto molti generi musicali ma al pari di molti miei coetanei la musica che preferisco è quella che andava di moda nella mia adolescenza. Io stesso suono in una blues band. Davvero? E che strumento suona? Il basso. E cantiamo tutti. Gli altri membri del gruppo sono più giovani di me e dunque tramite loro ho conosciuto la musica che andava di moda quando loro erano adolescenti. Il gruppo è ancora in attività? Sì. Facciamo le prove tutti i lunedì e di quando in quando suoniamo in qualche festa di amici, ai matrimoni, e così discorrendo. Insomma, occasioni segrete? Come si chiama la band? Si chiama Damn right, I’ve got the Blues! È il titolo di una canzone di Buddy Guy. In realtà non è nemmeno una canzone particolarmente bella. Ma è un bel nome. Pensa che il suo stile abbia un ritmo che in qualche misura riecheggia la musica che ascolta? Molto tempo fa la mia vita ha preso un corso ben preciso. La musica io l’ho sempre suonata per divertimento. Ma è stata la letteratura ad ossessionarmi. Credo di aver preso certe decisioni quando ancora ero giovanissimo. Credo che se non si è ossessionati dalla musica all’età di dodici o tredici anni sia troppo tardi. La mia fiamma è stata la letteratura. Dunque si è trattato di parole, non di note. Si è laureato in filosofia. Crede che la filosofia continui ad eserciti su di lei e sulla sua scrittura una certa influenza? La filosofia mi ha interessato da giovane perché la mia era una famiglia religiosa. Da adolescente, mi ponevo quesiti molto importanti come, per esempio: credo in Dio? E se non credo in Dio, in cosa credo? Lo studio della filosofia mi ha fornito delle risposte. Ho lasciato l’università da persona serena, una persona consapevole delle cose in cui credeva. Quegli interrogativi non erano più motivo di turbamento per me. Non voglio dire che fossi riuscito ad avere tutte le risposte ma almeno quegli interrogativi non mi tormentavano più. Per lo meno ero riuscito a dare un senso alle cose. In un certo senso le cose che in precedenza avevano rappresentato per me motivo di preoccupazione, ora non mi angosciavano più. Ancor oggi, di quando in quando, vado a sentire delle conferenze tenute da filosofi. Crede che i terribili fatti di cronaca internazionale forniscano a scrittori come lei spunti per scrivere nuovi romanzi oppure pensa che gli scrittori siano talmente indignati di fronte a ciò che è avvenuto da sentire il bisogno di distaccarsene? In un thriller c’è sempre il pericolo che qualcosa di terribile succeda ma quel pericolo, nelle mie storie, viene sempre sviato. Prendiamo Nel bianco, il mio ultimo romanzo. Qualcuno cerca di trafugare un virus ma non ci riesce. Il virus non si allontanerà mai dal suo contenitore. Nella vita reale, invece, quando succede qualcosa e non si riesce a prevenire un disastro, per noi scrittori non c’è più nulla di interessante in quella storia. Ci risulta impossibile parlarne. Per esempio, credo che nessuno possa più scrivere una storia sul sequestro di ostaggi. Sono stati scritti molti buoni romanzi, molte storie elettrizzanti su tale argomento ma credo che oggi quella stagione sia giunta al termine. Infatti, chiunque decidesse di scrivere una storia del genere finirebbe per confrontarsi con un pubblico che avrebbe in mente gli eventi che si sono davvero verificati a Beslan e che non riuscirebbe a concentrarsi sulla storia. Quando succede qualcosa di terribile nella vita reale, diventa impossibile raccontare una storia che abbia uno sviluppo simile. Gli eventi reali uccidono la finzione. Sul piano personale, invece, queste cose mi fanno capire che oggi non è più sufficiente, a livello di politica internazionale, disporre di una grande forza militare per sentirsi protetti. L’unico modo per proteggerci è di instaurare buoni rapporti con i nostri vicini di casa. Credo che si tratti di una verità politica molto difficile da accettare per certa gente. Qual è la sua opera più riuscita? Ci può dire come concepisce i suoi romanzi? Sono costantemente in caccia di idee per le mie storie quando leggo saggi storici, articoli di giornale, romanzi di altri autori, oppure quando vado al cinema. Una buona idea per una storia è un’idea in grado di generare almeno cinquanta scene drammatiche. Di idee che siano in grado di fornire lo spunto per una o due scene ce ne possono essere tantissime ma solitamente per scrivere un romanzo servono cinquanta scene. Pertanto, quando si cerca l’idea di partenza di un romanzo, serve un’idea in grado di generare una cinquantina di scene. Prendiamo per esempio Nel bianco. L’idea che qualcuno trafughi un campione di un virus pericoloso da un laboratorio. Quest’idea fornisce un sacco di scene, le scene base, le scene di apertura. C’è la paura di essere sorpresi, la paura di essere infettati dal virus stesso; e poi c’è la fuga che ovviamente rappresenta il fulcro di questo libro perché i protagonisti vengono sorpresi da una tempesta di neve. Da un’idea molto semplice, cioè trafugare un campione di un virus da un laboratorio, discendono tantissime altre scene drammatiche. Da quest’idea di base risulta facile pensare a tantissime cose elettrizzanti che potrebbero succedere. Ecco ciò che cerco di trovare: una storia che mi dia tutta questa eccitazione. C’è un romanzo che le sarebbe piaciuto scrivere e che invece è stato qualcun altro a scrivere? Il silenzio degli innocenti. Credo sia un thriller eccezionale e che abbia per protagonista il miglior cattivo di tutti i tempi. Mi piace anche la protagonista positiva ma Hannibal Lecter è il cattivo più impressionante che ci sia mai stato. Un personaggio straordinario. Credo di poter dire che l’eroina del romanzo sia stato io a inventarla, in un certo senso, perché io sono stato il primo a utilizzare una donna come protagonista positiva di un romanzo thrilling. La cruna dell’ago rappresenta una prima volta assoluta. Così quando Thomas Harris, una decina d’anni dopo, ha fatto altrettanto utilizzando una investigatrice della FBI, mi sono detto che quella era fondamentalmente una mia invenzione. Beh, certo non percepisco dei diritti, non ho nessun copyright su questa idea. Ma certamente adoro il cattivo di quella storia. Lo adoro. Non ho mai letto un thriller il cui cattivo incutesse più timore di quello. Un personaggio semplicemente perfetto. Tutto è straordinario, a partire dalla struttura della storia. La risposta, dunque, è sì. Quel libro avrei voluto scriverlo io! Quali sono allora gli scrittori che hanno infestato i suoi sogni giovanili? Il più importante è stato Ian Fleming, l’autore delle storie di James Bond. Ho letto la prima storia di James Bond all’età di dodici anni. Sono rimasto sconvolto: mi sembrava la cosa più straordinaria mai scritta. Il suo eroe era un vero duro, era elegantissimo, era esperto di tutte le cose che intrigavano un adolescente come me, ovvero armi da fuoco, cocktail, sigarette e donne. Insomma, sono rimasto basito. Naturalmente, oltre ad avere un protagonista straordinario, le sue storie erano scritte meravigliosamente bene, avevano un ritmo forsennato. Quando io stesso ho iniziato a scrivere e mi sono messo a scrivere dei thriller, avrei voluto ricreare nei miei lettori lo stesso tipo di entusiasmo che avevo sperimentato attraverso la lettura delle storie di James Bond. Era quello il mio vero obiettivo. Mentre leggevo Ian Fleming, negli anni dell’adolescenza, leggevo anche William Shakespeare. E lo leggevo per il piacere di farlo e non perché fossi costretto per motivi scolastici. In effetti, la scuola ha fatto di tutto per farmelo detestare ma io prendevo a prestito i suoi libri e li leggevo per conto mio. Purtroppo non posso dire di essere stato influenzato da Shakespeare ma leggere i suoi drammi e assistere alle rappresentazioni dei suoi drammi ha rappresentato per me uno dei grandi piaceri della vita.
"Lo scrittore deve porre dei limiti alla fantasia. Solo così può creare un mondo immaginario credibile". Ken Follett è un uomo pratico. Ha iniziato a scrivere romanzi quando era un giornalista a corto di soldi, lavorava di sera e durante i weekend. I primi libri non funzionavano granché, lui dice "che erano troppo brevi", risentivano del suo stile da cronista. Ma Follett ha imparato in fretta e così, nel 1978 ecco "La cruna dell'ago", spy story ambientata durante la seconda guerra mondiale. Un successo folgorante, a cui ne sono seguiti molti altri. Oggi Follett, che domenica sarà a Genova per il festival "La storia in piazza" dedicato ai consumi culturali, è a capo di un impero letterario: i suoi libri, pubblicati in Italia da Mondadori, hanno venduto 150 milioni di copie nel mondo, dodici persone tra esperti di comunicazione, tecnologia, contabilità e marketing lavorano a tempo pieno per lui. Ogni mattina si siede di fronte al computer e non si alza mai prima delle 16. Non sbaglia un titolo, non lascia nulla al caso. Prima la trama, con un colpo di scena "ogni quattro o sei pagine". Poi i personaggi, in cui immedesimarsi. Infine la scrittura, limpida "come una lastra di vetro". E soprattutto, nessun passo falso. La politica - è un convinto laburista - non entra mai in pagina. Per evitare errori che rendano fragile l'impalcatura delle sue storie si affida a degli esperti: storici, poliziotti, ex spie. Lo aiutano a rendere credibile il contesto. Ma ovviamente questo non è sufficiente. Non è il rispetto della verità storica ad avere reso I pilastri della terra uno dei libri più venduti di ogni tempo. Mr Follett, qual è dunque il segreto per scrivere un bestseller? Come ci riesce? E la suspence? Come si trova il ritmo giusto per non annoiare il lettore? Una volta ha detto che le parole dovrebbero essere come una lastra di vetro attraverso cui guardare: prosa elementare, mai scrivere difficile, mai costringere chi legge ad aprire il vocabolario... Prima di scrivere romanzi, quando pensava di diventare un cronista investigativo, ha lavorato per il South Wales Echo di Cardiff e per The Evening News di Londra. Queste esperienze hanno influenzato il suo stile? Sul suo sito Internet ha pubblicato le regole del successo, un decalogo per aiutare gli aspiranti romanzieri a scrivere un libro avvincente. Dall'importanza del primo capitolo al lavoro di lima necessario per dare coerenza alle azioni dei personaggi. Chiarissimo, ma quali sono gli errori da evitare? Nel farlo, deve porre un limite alla fantasia? Gli scrittori sono spesso tentati di forzare le convenzioni dei generi letterari, offrendo qualcosa di unico. Come è possibile raggiungere questo risultato? Più volte ha spiegato che non ci può essere un buon libro senza un conflitto forte. Oggi viviamo una situazione drammatica, alcuni parlano di scontro tra civiltà. Non sarebbe un buon argomento per un bestseller? E infatti il suo prossimo libro sarà ambientato durante il regno di Elisabetta I d'Inghilterra a Kingsbridge, la città immaginaria de I pilastri della terra. Un romanzo di spionaggio nel XVI secolo. Perché? grazie a: Repubblica, 7.04.2016 il suo sito |