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                |  | Alessandra 
                Kersevan 
 Campi 
                di concentramento in Friuli
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 Durante la 
                 visita di Ciampi in Friuli-Venezia Giulia un emissario 
                del Presidente ha avuto l’incarico di portare una corona 
                al monumento ai morti nel campo di concentramento di Gonars. È 
                stata la prima volta, probabilmente per insistenza dell’ANPI 
                regionale, che un alto esponente dello Stato italiano ha ricordato 
                l’esistenza dei campi di concentramento fascisti (il monumento 
                di Gonars era stato costruito nell’83 per volontà 
                della Repubblica Jugoslava). È un gesto fra l’altro 
                che avviene in controtendenza rispetto a una campagna revisionista 
                e antislava sempre più ossessionante. Comunque, qualsiasi 
                sia stata la motivazione di Ciampi, per la gran parte della gente, 
                non solo nel resto d’Italia, ma anche in Friuli, quel gesto 
                è stato occasione di scoprire qualcosa di terribile del 
                nostro passato. 
 La tragedia 
                dei campi di concentramento fascisti è stata infatti in 
                tutti questi anni nascosta o minimizzata, così come i crimini 
                dell’esercito italiano nei paesi aggrediti, per alimentare 
                invece il mito dell’"italiano buono e amato" anche 
                se aggressore e vittima a sua volta degli aggrediti infoibatori. 
                È un mito continuamente alimentato che oggi serve a puntellare 
                una politica neoirredentista nei confronti dei paesi dell’ex 
                Jugoslavia, che si basa su un rinascente razzismo antislavo, che 
                si va diffondendo anche a sinistra (sintomatico e sconvolgente 
                a questo proposito l’Espresso del 16/3/2000, che 
                ha in copertina il titolo "Sicurezza: slavi maledetti", 
                e poi nelle pagine centrali il reportage "Fortezza Italia", 
                sulla situazione dell’Istria, dove i croati vengono definiti 
                da un intervistato - con molta condiscendenza da parte dell’intervistatore 
                - "i "drusi", i maiali, i comunisti titini").
 
 Quando si 
                va ad analizzare invece sui documenti ciò che ha fatto 
                l’esercito fascista italiano nei paesi aggrediti, il quadro 
                che ne esce è quello di un comportamento criminale. Qualche 
                tempo fa inoltre sono stati trovati da chi scrive, durante una 
                ricerca nell’Archivio di Stato di Udine, dei documenti della 
                Commissione Censura della Provincia di Udine, da cui la situazione 
                degli internati di Gonars e di Visco, i due campi di concentramente 
                del Friuli, risulta semplicemente sconvolgente. Una breve premessa 
                storica permetterà a tutti di inquadrare i fatti e comprendere 
                appieno i documenti.
 
 
 1941: l’invasione della Jugoslavia
 
 
 Il 6 aprile 1941 Hitler e Mussolini invadono la Yugoslavia. C’è 
                una immediata reazione e l’inizio della resistenza jugoslava.
 
 La Slovenia 
                viene smembrata fra Italia (il territorio che diventa provincia 
                di Lubiana) e Germania. Per quanto riguarda la Croazia il 18 maggio 
                Aimone di Savoia, diventa re di Croazia, con il collaborazionista 
                Ante Pavelic come primo ministro.
 
 In Slovenia 
                già dall’ottobre del 1941 il tribunale speciale pronuncia 
                le prime condanne a morte, il mese dopo entra in funzione il tribunale 
                di guerra. La lotta contro i partigiani, che diventano una realtà 
                in continua espansione, si sviluppa nel quadro di una strategia 
                politico-operativa rivolta alla colonizzazione di quei territori. 
                Con l’intervento diretto dei comandi militari italiani la 
                politica della violenza si esercita nelle più svariate 
                forme: iniziano le esecuzioni sommarie sul posto, incendi di paesi, 
                deportazioni di massa, esecuzioni di ostaggi, rappresaglie sulle 
                popolazioni a scopo intimidatorio e punitivo, saccheggiamento 
                dei beni, setacciamento sistematico delle città, rastrellamenti… 
                prende corpo il progetto di deportazione totale della popolazione, 
                con il trasferimento forzato degli abitanti della Slovenia, progetto 
                che i comandi discutono con Mussolini in un incontro a Gorizia 
                il 31 luglio 1942 e che non si realizza solo per l’impossibilità 
                di domare la ribellione e il movimento partigiano. Nel clima di 
                repressione instauratosi con l’occupazione militare nel 
                territorio jugoslavo, per il regime fascista nasce inevitabilmente 
                l’esigenza di creare delle strutture per il concentramento 
                di un gran numero di civili, deportati da quelle regioni.
 
 I campi di 
                concentramento e deportazione italiani furono almeno 31, di cui 
                26 in Italia, e vi morirono oltre 7.000 persone. Vi furono internati 
                soprattutto sloveni e croati (ma anche "zingari" ed 
                ebrei), famiglie intere, vecchi, donne, bambini.
 
 
 Il campo di concentramento di Gonars
 
 
 Il campo di concentramento di Gonars, in provincia di Udine, quindi 
                vicinissimo alle zone slovene e alle zone in cui era già 
                iniziata la guerra di liberazione, fu uno dei luoghi in cui si 
                svolse la grande tragedia di questi deportati. Venne istituito 
                già nel dicembre del 1941, costituito da tre settori, circondato 
                da filo spinato, controllato dai carabinieri e da circa 600 soldati 
                con 36 ufficiali. Ai lati nord e sud del vasto spazio recintato 
                da due torri alte sei metri, armate con mitragliatrici puntate 
                verso il campo, con riflettori che di notte illuminavano a intervalli 
                di pochi minuti il campo e il circondario. Tutto intorno una "cintura" 
                larga due metri, in cui le sentinelle avevano l’ordine di 
                sparare senza preavviso a tutti quelli che la oltrepassavano.
 
 All’arrivo 
                i nuovi internati venivano denudati, "disinfestati", 
                rapati a zero. Ma nonostante la pulizia quotidiana delle baracche 
                tenuta dagli stessi internati, i parassiti si moltiplicavano. 
                Essi si diffondevano in prevalenza addosso agli internati che, 
                a causa dell’indebolimento fisico, giacevano sempre a letto 
                e si lasciavano andare all’apatia.
 
 Il 25 febbraio 
                1943 ci sono a Gonars 5.343 internati di cui 1.643 bambini. Ci 
                sono intere famiglie provenienti da Lubiana o dai campi di Arbe 
                (Rab) o di Monigo (Treviso); due terzi croati e un terzo sloveni. 
                Baracche strette e lunghe, da 80 a 130 prigionieri per baracca; 
                baracche praticamente senza riscaldamento o con stufe mal funzionanti, 
                ma molti (specialmente uomini adulti) dormivano in tenda; igiene 
                impossibile per mancanza di tutto; pidocchi, scabbia erpete e 
                altre malattie contagiose; per quanto riguarda le donne incinte, 
                l’80% dei nati erano morti. Mangiare del tutto insufficiente, 
                minestrone mezzogiorno e sera, praticamente acqua, + 200g di pane. 
                "La gente è affamata. Ma forse è meglio dire 
                che muore di fame", scriveva il salesiano padre Tomec, come 
                risulta da una sua lettera in data 6 febbraio 1943. "Queste 
                famiglie non hanno nessuno che possa mandargli i pacchi, perché 
                le loro case sono state bruciate e i parenti sparpagliati. (…) 
                Una grande maggioranza di internati è venuta da Arbe (Rab) 
                e sono giunti già esausti, simili a scheletri. (…) 
                Dal 15 dicembre 1942 al 15 gennaio 1943 ne sono morti 161. In 
                media muoiono 5 persone al giorno. (…) Il maggiore medico 
                Betti mi ha detto che in due mesi il 60% di questa gente morirà, 
                se prima non vengono liberati. (…) Una scena triste viene 
                offerta dalla baracca nella quale ci sono soltanto bambini orfani 
                che hanno perso i genitori ad Arbe o a Gonars". "Dio 
                ci guardi da qualche epidemia nel campo. Le persone cadrebbero 
                una dopo l’altra come mosche." Così scriveva 
                ancora padre Tomec. E di una epidemia, si ha proprio notizia dai 
                documenti della censura che si trovano nell’Archivio di 
                Stato di Udine (fascicolo Prefettura). Infatti se in febbraio 
                i problemi erano soprattutto la fame e il freddo, si ebbe anche 
                un’epidemia di tifo petecchiale, non sappiamo con quali 
                esiti. Di un’altra, nel giugno del ‘43, si sa anche 
                per il campo di internamento di Visco (a 3 chilometri da Palmanova, 
                a 10 dall’altro campo, quello di Gonars). C’erano 
                in questo campo 4000 persone, che in maggio, come risulta sempre 
                da questi documenti della Censura, erano stati picchiati dai carabinieri 
                con "botte da orbi" perché "quando hanno 
                saputo che abbiamo perso la Tunisia, si sono messi tutti a gridare 
                "Viva la Russia"".
 
 Mentre sul 
                campo di concentramento di Gonars ci sono stati degli studi che, 
                seppur conosciuti solo localmente, hanno messo in luce questa 
                tragedia, del campo di concentramento di Visco si sa poco e niente, 
                ma la grande tragedia che vi si svolse emerge dai documenti che 
                affiorano oggi dall’Archivio di Stato di Udine. Nel monumento 
                ossario del cimitero di Gonars sono sepolti 453 corpi.
 
 I prigionieri 
                vengono liberati nel settembre del ‘43.
 
 
 
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