"E in quella pianura, da Valle Re ai Campi Rossi, noi ci passammo un giorno,
e in mezzo alla nebbia, ci scoprimmo ... commossi"
Ai Campi Rossi ci sono andata, invece, quando c’era la neve. Una giornata gelida. Varcata la soglia mi accolgono le parole di papà Alcide "dopo un raccolto ne viene un altro". Un monito che sintetizza la passione e la forza di questa straordinaria famiglia emiliana. Così comincia il mio viaggio nella triste favola della famiglia Cervi, una delle storie più belle e più crude della nostra Resistenza, che pochi raccontano, che ancora meno conoscono. Entro nella cucina, ancora intatta, come allora. Sento i passi degli squadristi che rastrellano gli 8 uomini, nonostante alcuni di loro, come Ettore, poco più che ventenne, fossero ancora dei ragazzi. Una fitta alla bocca dello stomaco. E poi si sale. Le stanze da letto. Li vedi ancora alla finestra che sorridono verso i campi e poi che sparano, nel buio, per difendersi. L’altra ala della casa è piena di oggetti, ricordi, lettere dei figli alla madre , dal carcere, per rassicurarla. C’è anche una poesia di Salvatore Quasimodo dedicata a quei 7 eroi che probabilmente tali non si sono mai sentiti, parola, oggi, troppo spesso sprecata.
Alcide Cervi con la moglie Genoveffa Cocconi, alleva, nella prima metà del secolo, 9 figli: 7 maschi e 2 femmine. Li educano ai valori semplici della giustizia, della carità cristiana, quella vera, concreta, che si misura in un immenso amore per l’umanità tutta, senza risparmio, del lavoro nei campi, della cultura, quello dei libri che mamma Genoveffa leggeva nell’aia la sera, mentre mangiavano pane e verza, i Promessi Sposi o la Divina Commedia, mica storielle da ridere. Alcide Cervi è un mezzadro che si ribella alla voce grossa dei padroni che non sanno distinguere il granoturco dal trifoglio, ma sono puntuali a riscuotere i loro soldi "pochi, maledetti e subito". Lui, invece, è un progressista e ama quella terra come fosse sua. Con i figli studia libri di agronomia, si informa sulle novità tecnologiche, vuole migliorare il terreno e la produttività, anche a costo di grandi sacrifici. Nessuno lo ascolta e con la numerosa famiglia, che nel frattempo si allarga con nuore e nipotini, fa San Martino, come dice lui, trasloca in diversi fondi fino a prenderne uno tutto suo: i Campi Rossi. Il terreno emiliano è tutto una montagna russa di buche e collinette. Gli 8 Cervi, padre e figli, riescono livellarlo, a nutrirlo, a farlo germogliare, ad aumentare la produzione. Da pazzi incoscienti, per i vicini diventano un esempio da seguire ... e non solo in agricoltura.
GELINDO, ANTENORE, ALDO, FERDINANDO, AGOSTINO, OVIDIO ed ETTORE sono cresciuti. Vanno in balera, amoreggiano nei paesi vicini, partono per il militare ... e si scontrano con il potere fascista. Un po’ per indole, un po’ per educazione, stanno sulla riva opposta. Aldo fa propaganda antifascista con i suoi commilitoni. Gli ufficiali ubbidiscono al duce e il ragazzo si fa qualche anno a Gaeta. Per lui è come essere andato all’università, un ateneo un po’ particolare, l’università del carcere: lì capisce, comprende, si istruisce e passa all’azione. E si trascina dietro tutta la famiglia. Così una famiglia di contadini come tante passa dalla religione cristiana a quella civile del socialismo prampoliniano prima (Alcide in gioventù aveva assistito a dei comizi che l’avevano scosso nel profondo), che predica l’organizzazione di tanti nel rispetto di tutti contro lo strapotere di uno nel rispetto di nessuno, al comunismo della Resistenza e della liberazione dal fascismo poi, nel sogno di un’Italia libera e democratica dove l’unico monito è quello di costruire.
Aldo apre una biblioteca a Campegine, poco distante da Gattatico, dove si trova il fondo dei Campi Rossi: qui spaccia libri "sovversivi" in barba ai fascisti, i sonnacchioni come li chiama papà Alcide, e tiene riunioni clandestine con chi, attraverso la sua paziente propaganda fatta di chiacchiere informali e discussioni accese, è passato dall’altra parte. Qualcuno ha i genitori fascisti, qualcun altro ci rimetterà la vita. I contatti si allargano, la rete si espande. Volantini e giornali clandestini. Aldo non lascia in giro copie, va direttamente dalle famiglie a leggere e commentare i fatti, come faceva la sua mamma con i Promessi Sposi, cha da tempo non legge più. Imbrogliano l’Annonaria sulle quote dell’ammasso. Il paese li segue.
v25 luglio 1943: cade il governo fascista. L’incubo è finito. La famiglia Cervi offre pastasciutta a tutta Gattatico. Ci sono anche i carabinieri e i soldati fascisti di stanza nel paese, che si sono tolti la camicia nera. Ma l’8 settembre arriva presto. I campi Rossi diventano il quartier generale delle azioni partigiane nella zona. Ospitano soldati alleati dispersi, ex prigionieri, disertori: li lavano, li nutrono, li vestono, li rimettono in piedi. Russi, inglesi, neozelandesi, francesi ... Aldo va in montagna, gli altri continuano ad agire in pianuea. Collaborano con i GAP (Gruppi di azione patriottica), recuperano armi, producono cibo...
Il 25 novembre 1943, alle 6.30 del mattino un plotone di 150 camicie nere circonda la casa dei Cervi e dà fuoco al fienile. Combattono per un po’ poi la famiglia si arrende. Alcide e i suoi 7 figli vengono arrestati. Torturati e interrogati i ragazzi non rispondono. Gelindo e Aldo si assumono la responsabilità di tutto nell’estremo tentativo di salvare il padre e gli altri fratelli. Gli offrono di salvarsi la vita entrando nella Guardia Repubblicana di Salò. Il rifiuto è netto: "crederemmo di sporcarci". Simpatizzano con una guardia e programmano la loro evasione. Vengono tradotti al carcere di San Tommaso e il piano sfuma. I compagni preparano una nuova evasione. La notte di Natale. Ci sono degli intoppi e viene rimandata alla notte di Capodanno, quando i secondini in servizio scarseggiano. Il 27 dicembre, un’azione mai rivendicata, porta alla morte del segretario fascista di Bagnolo in Piano. Gli altri maggiorenti del posto giurano vendetta. All’alba del 28 dicembre vengono prelevati i 7 fratelli più Quarto Cimurri, loro compagno di battaglia: devono andare a Parma per il processo. Per molto tempo il padre crederà, o vorrà credere, a questa bugia. I ragazzi sono in fila al Poligono di tiro di Reggio Emilia. Molti i volontari che ambiscono all’onore di farli fuori. Una scarica e li seppelliscono clandestinamente senza firmarne i certificati di morte. Nemmeno i caporioni fascisti hanno il coraggio di prendersi la responsabilità di quell’eccidio. GELINDO, ANTENORE, ALDO, FERDINANDO, AGOSTINO, OVIDIO ed ETTORE CERVI fanno paura anche da morti.
Il carcere di San Tommaso viene bombardato il 7 gennaio 1944. Alcide scappa tra le mura che crollano e le guardie che gridano. A casa, in preda a un ulcera terribile, viene assistito dalla moglie e dalle nuore. Loro sanno la verità ma la tacciono per lungo tempo nonostante il vecchio padre continui a credere di riabbracciare i figli da un giorno all’altro. Ristabilitosi Genoveffa gli racconta la verità. Alcide non si rassegna: "i nostri morti ispirino i vivi". Al posto di 7 figli ci sono 11 nipoti. Si ricomincia da capo un’altra volta. Le attività partigiane della famiglia continuano. A ottobre i fascisti appiccano un nuovo incendio ai Campi Rossi. Il ricordo doloroso di quello precedente e lo strazio per la morte dei figli è troppo forte e Genoveffa Cocconi muore di crepacuore il 10 ottobre 1944.
L’8 maggio 1945 la Germania firma la resa. La guerra è finita. Questa volta sul serio. Nell’ottobre dello stesso anno vengono riesumate le spoglie dei 7 fratelli Cervi: funerali solenni a Reggio Emilia il 28 ottobre 1945, tumulazione accanto alla madre nel cimitero di Campegine.
Alcide Cervi, nel 1954, ormai ottantenne, raccoglie le sue memorie in un libro, con l’aiuto di Renato Nicolai, I miei sette figli. Racconta la storia di una famiglia di fedi diverse (cattolici, socialisti, comunisti) pieni di forza, di passione, di senso della giustizia e di rispetto verso il prossimo. Valori semplici, valori contadini, come li definisce lui, ma patrimonio di tutti, o quasi. Non pensa che la sua famiglia sia straordinaria, non più di Clara Cecchini, bimba di otto anni, che messa in fila dai tedeschi con la famiglia, con l’orribile bugia di una foto, riceve una sventagliata di mitra e lei, solo ferita, si finge morta, con la mano stretta al suo papà, già cadavere, finchè non arrivano i partigiani a salvarla. Non più della mamma di Bettola (nell’Appennino Reggiano) dove i tedeschi bruciarono persone e cose e le strapparono dalle braccia il figlioletto infante per gettarlo nel fuoco. "Questi sono i dolori grandi che offendono la vita", sentenzia Alcide Cervi. Lui aveva 7 figli e 7 ne ha dati alla patria, altri ne avevano uno e quello hanno dato. Non c’è differenza.
Alcide Cervi muore a 95 anni, nel 1970. I suoi nipoti oggi sono nonni come lo è stato lui ma non vivono più ai Campi Rossi, li hanno aperti a tutti i nipoti d’Italia, perché possano capire e ricordare, perché dopo 7 figli ci sono 11 nipoti, perchè "dopo un raccolto ne viene un altro."
grazie anche a: socialpress 25 aprile 2005
il sito Istituto Fratelli Cervi
Alcide Cervi
I miei sette figli |
I miei figli hanno sempre saputo che c'era da morire per quello che facevano, e l'hanno continuato a fare, come anche il sole fa l'arco suo e non si ferma davanti alla notte. Così lo sapevano i tanti partigiani morti, e non si sono fermati davanti alla morte.
E ora essi sono con noi in questa terra di Emilia dove le viti si abbracciano alle tombe, dove un lume e un marmo è la semente di ogni campo, la luce di ogni strada». (In Emilia le pietre funerarie, che indicano il luogo ove fu fucilato un partigiano, sono situate in mezzo ai campi)
Nella vita eravamo così: otto eravamo uno e uno tutti e otto.
Uno che conosce l'agricoltura emiliana, sa che la maggiore produzione sta nel latte, che il “capitale” sono le vacche. Ma tutto dipende dal foraggio, che dev’essere parecchio e di buona qualità. Così il latte viene abbondante, grasso e saporoso
...
Nei dintorni di Campegine c’eran tutte gobbe e buche, e con una terra così il foraggio non viene bene, perché l'irrigazione è difettosa, l'acqua stagna nelle buche e fa il marcio. Il foraggio viene poco e cattivo, il latte magro e misero, il contadino povero e disperato.
Aldo studiava sempre come si poteva fare per cambiare metodo e leggeva libri. Era abbonato a riviste di agricoltura e alla Riforma Sociale che era diretta da Einaudi.
Lì c’era un articolo che parlava dei terreni come i nostri, a gobbe e buche, e spiegava come si poteva livellare.
Cercano un nuovo terreno non più a mezzadria ma in affitto: lo trovano ai «Campi rossi» di Gattatico.
E così facemmo San Martino (significava fare trasferimento) in una giornata di novembre, il mese di San Martino.
Il primo carro prese il cammino, e dietro gli altri. lo e Genoveffa avanti sul biroccio, poi i carri con le donne e i bambini in cima, dietro le bestie, e intorno, avanti e sempre cambiando posto, i sette figli in bicicletta.
La sera ci mettemmo tutti a studiare il piano per lo sterro. Aldo dirigeva l'impianto vagoni e binari, Gelindo doveva fare con gli altri fratelli le squadre sterratori e i turni, Agostino e io pensavamo ai picchetti per il livello.
E tutto il giorno si lavorava e si cantava. La sera,ci riunivamo nella stalla e si faceva il bilancio del giorno e si fissavano i metodi di scavo per l’indomani.
Da allora tutti i contadini della zona impararono a livellare. E oggi nel reggiano non si trovano più appezzamenti a gobbe e buche.
Intanto Aldo fa sempre attività politica, e adesso ha trovato un altro sistema per organizzare la gente. Ci sono i confinati politici, tanti in quella epoca, che là dove stavano gli davano poco da mangiare, così Aldo va nelle case dei contadini, a Campegine, e chiede se vogliono mandare un pacco a persone bisognose che lottano anche per loro, e lì approfittava per fare la predica.
Gli emiliani sono stati sempre di cuore per queste cose, anche gente non politica, e quasi sempre il pacco veniva fuori. Così la popolazione si affezionava e veniva all'antifascismo. Poi Aldo faceva le collette, le sottoscrizioni, e tutti volevano che andasse alla casa loro, perché gli piaceva sentirlo parlare.
In quel tempo tenemmo nascosti anche molti ricercati politici.
Certi contadini, ormai, ci guardavano preoccupati e qualcuno aveva persino paura a parlare con noi, ma i più ci seguivano nella lotta.
Così Aldo pensò che bisognava incoraggiare, far capire che il fascismo non ci fermava nel progresso e che noi eravamo sempre in testa nel lavoro e nella tecnica.
A quel tempo, di trattori quasi non ce n'erano nella bassa, i contadini aravano ciascuno per proprio conto e a fatica. Invece se avessimo comperato un trattore, lo si sarebbe prestato anche agli altri, sarebbe stato un modo per rinvigorire l'amicizia con i contadini più sospettosi. Così Aldo andò a Reggio e comprò un trattore Landini, con quello venne fino a casa, e imboccò la strada nostra tra gli sguardi di tutti i vicini.
Molti andavano appresso, altri correvano per rivederlo passare e guardare bene i cingoli e gli ingranaggi, per avere cognizione. Aldo salutava tutti in cima al trattore, e teneva vicino un mappamondo, che girava e rigirava, secondo le buche. - Porto a spasso il mondo, - diceva allegro, - e voleva far capire che il progresso tecnico si può fare se si guarda anche fuori dal campo, se si hanno gli occhi sul mondo.
Intanto si arriva al 1940, e l'Italia entra in guerra.
Aldo andava in giro per le case di sera a leggere e spiegare L'Unità, l’Avanti, e qualche quaderno di Giustizia e Libertà.
Diceva di Hitler che invadeva l'Europa e spiegava che cos'è l'imperialismo.
Faceva l'esempio degli industriali che ci sono in Italia, di quanto rubano al contadino e all' operaio, sulla forza lavoro, sulla luce elettrica, sui concimi chimici, sui prezzi dei prodotti agricoli, sugli attrezzi industriali, e spiegava la concorrenza tra i monopoli, italiani ed esteri, così i contadini capivano la ragione della guerra come se leggessero sul libro dei conti.
Un bel giorno la Lucia portò nella nostra casa una macchina a inchiostro per stampare i manifestini antifascisti. Aldo li scriveva, per i mezzadri, gli affittuari, gli artigiani, con una parola buona per ciascuno, e poi Gelindo faceva funzionare la macchina, che era divenuto un lavoro di casa come gli altri.
Per il socialismo i miei figli avevano una venerazione grande, perché ci vedevano la giustizia sociale e l'uomo emancipato. Ci vedevano i sogni fatti dai padri, dai primi predicatori reggiani dell'emancipazione, il vangelo che diventa terra, ferro, e leggi per la contentezza dell'uomo, contro i prepotenti e i ladri.
Tutta la mia famiglia ha sempre sentito che gli uomini sono uguali e che devono essere uniti per il progresso.
Ferdinando aveva passione per le api perché ci vedeva la società giusta, organizzata nel lavoro, come quella socialista, diceva.
Intanto l'Annona (L'Annona era un servizio comunale preposto al razionamento dei generi alimentari durante la guerra), per dare grano e carne ai banditi fascisti, tortura i contadini con le spiate, le persecuzioni, i ricatti. Tutto all'ammasso, grida il fascio, e invece l'organizzazione clandestina diceva: niente all'ammasso! (Conferire all'ammasso era un obbligo sancito dal governo fascista per cui tutti i prodotti alimentari venivano contingentati).
I miei si mettono subito a convincere i contadini, che non sapevano come difendere il «capitale» dalla requisizione. Aldo ha un'idea strategica. Ai contadini che avevano dato tutto il bestiame all'ammasso e non avevano carne per sfamarsi, dà carne a volontà, ma a prestiti di breve scadenza, così quei contadini dovevano salvare qualche capo dalla requisizione per restituire il dato. E quando si presentavano operai di Reggio, e spesso operai delle officine meccaniche Le Reggiane, dove si riparavano aerei tedeschi e si fabbricavano aeroplani italiani, Aldo dava carne e farina, purché gli portassero pezzi di motore degli aeroplani.
Così la resistenza alla guerra non era più fatta solo sulla propaganda, ma sulla lotta per vivere. Una volta un operaio delle Reggiane portò la testa di un cilindro di uno Stukas e Aldo disse che il sistema cominciava a funzionare.
Insieme alla carne e alla farina, Aldo ci metteva in sovrappiù la stampa clandestina, così i contadini capivano il perché di quel baratto. Noi non davamo un grammo all'ammasso.
Il 25 luglio eravamo sui campi e non avevamo sentito la radio. Vengono degli amici e ci dicono che il fascismo è caduto, che Mussolini è in galera. È festa per tutti. La notte canti e balli sull'aia.
Facciamo subito un gruppo di contadini e andiamo a Reggio, per la strada tutti si aggiungono e la colonna diventa un popolo.
Aldo propone:
- Papà, offriamo una pastasciutta a tutto il paese.
Facciamo vari quintali di pastasciutta insieme alle altre famiglie.
A Campegine, chi in piedi e chi seduto, il pranzo ha riempito la piazza grande, e tutti fanno onore alla pastasciutta celebrativa.
Ma si avvicinano i carabinieri, e vogliono disperdere l'assembramento. Gelindo si fa avanti e dice:
- Maresciallo, rispondo io di tutta questa gente. Accomodatevi anche voi.
E i carabinieri si mettono a mangiare.
Intanto i fascisti erano spariti come scarafaggi nei buchi.
A Reggio il governo Badoglio si fece capire nemico del popolo, più che in tutte le altre zone d'Italia. Erano nove i morti, nove operai che volevano la pace. Era il 28 luglio 1943.
Le Reggiane diventarono un centro di lotta contro la guerra. Se ne accorsero poi i tedeschi quando facevano riparare i loro Stukas che non si riparavano mai, o quando sparivano casse di proiettili, o pezzi di mitraglia, che finivano in montagna per i partigiani.
Arriva l'8 settembre.
La notte del 9 le divisioni corazzate delle SS occupano la città. Alla mattina i tedeschi fanatici sfilano per le vie del centro cantando.
La popolazione faceva come le sabbie mobili e inghiottiva i soldati per salvarli dai tedeschi. Venivano fatti entrare per le finestre, dai balconcini si calavano le corde, carri di fieno portavano soldati nascosti, donne si mettevano a braccetto con uomini mai visti, cosi che al distretto di Reggio su 200 soldati i nazisti ne trovarono solo tre.
Lo stesso si faceva per i prigionieri anglo-americani scappati. Anche la nostra casa diventò una stazione di smistamento. Ma noi facevamo in modo diverso. Non soltanto volevamo che i soldati ci dessero le armi, e in cambio gli davamo i vestiti, ma a quelli che si presentavano senza armi gli dicevamo di andarne a trovare una e portarla.
Così dopo qualche giorno i fienili sono diventati arsenali, e abbiamo finanche una mitragliatrice. La casa è piena di soldati e le donne la sera preparano il rancio. Intanto i ragazzi sono in giro per cercare abiti civili, perché quelli che abbiamo non bastano. Alla notte c'è il trasferimento. I soldati, vestiti da contadini, se ne partono a gruppi, con biciclette che ci siamo fatti dare in prestito.
Intanto in tutto il reggiano i contadini e gli operai cominciano a muoversi e ci arrivano le direttive contro l'invasore tedesco.
Cominciano gli atti di sabotaggio, e i contadini assaltano gli uffici dell'ammasso per non lasciare il grano ai tedeschi.
Nascono i GAP (Gruppi di azione patriottica).
I miei figli organizzano un piano per far scappare i prigionieri del campo di Fossoli. Di notte vanno ai lati del campo, tagliano il filo spinato. I prigionieri scappano e trovano sulla strada donne in bicicletta che li portano a casa mia.
Così se prima la casa sembrava una caserma, adesso somigliava alla Società delle Nazioni. Ci sono diverse nazionalità, inglesi, americani, russi, neozelandesi, e parlano ognuno la propria lingua.
C'erano tutti gli alleati. Una sera dopo cena, ci mettiamo a cantare canzoni ognuno del proprio paese e d'improvviso viene fuori il canto dell'Internazionale. La sapevano tutti e la cantavano nella loro lingua, ma quella sera c'era una lingua sola e un cuore solo: l'Internazionale.
Tutti vogliono partire tranne i russi che chiedono di combattere.
Aldo si mise poi in contatto con i compagni che già lavoravano in montagna.
Veniva l'inverno, difettavano i collegamenti, così dal Comitato di Liberazione di Reggio viene l'ordine di ritirarsi dalla montagna.
Ormai, però, i prigionieri erano diventati troppi a casa mia, allora erano trenta.
Ai primi di novembre, il Comitato di Liberazione vuole sfollati i prigionieri, ché il rischio è troppo grande. L'ultimo scaglione deve partire il giorno 25.
Così viene la notte, quella notte del 25 novembre, quando i fascisti, sicuri di trovare i prigionieri, perché avevano avuto la spiata, circondano la casa nostra.
Non era ancora l'alba, pioveva a dirotto, e noi dormivamo tutti. A un certo punto ci svegliano i lamenti del bestiame e colpi di fuoco ... Sparano dai campi intorno alla casa ... - Cervi, arrendetevi!
Non diciamo parola e prendiamo subito le armi. Le donne trascinano nelle stanze le cassette delle munizioni ...
Intanto noi abbiamo infilato le pistole tra gli scuri, Aldo ha un mitra e apre il fuoco. Anche gli stranieri sparano con noi. Ci rispondono altri colpi e il fuoco dura qualche minuto. Poi noi cominciamo a scarseggiare nei tiri finché ci guardiamo tutti e ci parliamo nelle stanze, le munizioni sono finite. Aldo guarda dalla finestra verso il fienile, vede un bagliore, e dice: brucia, non c'è più niente da fare.
Io dico: non mi arrendo a quei cani, andiamo giù tutti quanti, è meglio morti che vivi. Aldo mi ferma e dice: no, papà, che ci sono le donne e i bambini. Meglio arrendersi.
Aldo ci riunisce e dice: - Sentitemi bene. Quando ci interrogheranno, solo io e Gelindo ci prenderemo la responsabilità. Gli altri non sanno niente, è chiaro?
Entrarono nell'aia due autocarri, poi ho saputo che erano venuti in 150 uomini per prenderci. La casa bruciava, e ora si vedevano i fascisti armati fino ai denti ...
La madre li abbracciava tutti come poteva, e se li stringeva al petto, e li carezzava sul capo, e piangeva e diceva: meglio morire, meglio morire ... Ci portano via, mentre le donne e i bambini restano soli nella casa che brucia.
Continua a piovere, così forse l'incendio finirà presto.
Ma poi ho risaputo che sì, l'incendio è finito presto, ma che i fascisti, appena andati via noi, si sono messi a rubare e a saccheggiare tutto, mobili, macchine, copertoni, e poi bruciarono i libri, li strapparono e se li misero sotto i piedi.
In carcere vengono interrogati e pestati. I sette fratelli pensano un piano di fuga.
I fascisti aprono la porta della nostra cella e gridano: Famiglia Cervi, fuori! Io esco in testa, ma mi dicono: - Tu che vuoi, sei vecchio, torna indietro.
- Sono il capo famiglia, e voglio stare insieme ai miei figli. Ma intanto viene un contrordine, tutti di nuovo nella cella, ancora non è pronto.
Ci dicono: tornate a dormire, sarà per domattina.
All'alba nuova chiamata, ed escono i miei sette figli. Chiedo dove li portano.
- A Parma, per il processo, - mi rispondono. E li portano via alla svelta, faccio in tempo appena a salutarli.
Il 7 gennaio 1944 il carcere viene bombardato.
Le mura del carcere crollano in mezzo a un iradiddio di schianto e di polvere. Io mi infilo dentro il buco che serviva per l'accettazione dei pacchi, e salto nella strada, altri nascosti dalla polvere passano attraverso il crollo ... io prendo la Via Emilia ... mi volto verso Reggio: vedo fiamme e fumo, nel cielo arancio ... una famiglia che conoscevo mi dà una bicicletta ... Arrivo a casa alle 23 e tutti dormivano.
Entro, guardo l'attaccapanni, i figli non erano tornati ... - Si sa niente dei figli?
La moglie risponde come distratta: - Se non lo sai tu, noi non sappiamo niente ... - Li hanno portati a Parma per il processo ... - E se non li avessero portati a Parma, se fosse una bugia? - diceva la moglie ... - Se non li hanno portati a Parma li avranno deportati in Polonia a lavorare ...
Per un mese e mezzo non mi disse parola sui figli. Aspettava sempre che mi rimettessi dall'ulcera e dalla prigione, e così ogni sera andava a letto con il segreto nel cuore e in più con me che non capivo e parlavo di loro come se fossero vivi ...
- I nostri figli non torneranno più. Sono stati fucilati tutti e sette. Le nuore mi si avvicinarono, e io piansi i figli miei.
Poi, dopo il pianto, dissi: - Dopo un raccolto ne viene un altro. Andiamo avanti.
Dopo che avevo saputo, mi venne un grande rimorso ... li avevo salutati con la mano, l'ultima volta, speranzoso ... invece andavano a morire. Loro sapevano, ma hanno voluto lasciarmi l'illusione, e mi hanno salutato sorridendo; con quel sorriso mi davano l'ultimo addio.
Che ne sa la morte dei nostri sacrifici, dei baci che mi avete dati fino a grandi, delle veglie che ho fatto io sui vostri letti, sette figli, che prendono tutta una vita.
Maledetta la pietà e maledetto chi dal cielo mi ha chiuso le orecchie e velati gli occhi, perché io non capissi, e restassi vivo, al vostro posto!
La certezza della loro causa, i partigiani, le donne, i compagni, gli operai, i fiori, le lapidi, gli affetti, che da tutte le parti abbracciano i miei figli, mi hanno dato una forza enorme che mi fa resistere alla tragedia.
Così si erano svolti i fatti che avevano portato all'uccisione: un gappista, il 27 dicembre, fece giustizia del segretario fascista di Bagnolo in Piano. I gerarconi della provincia si riunirono funebremente la notte stessa davanti al morto, e giurarono vendetta: - Uno contro dieci, - gridavano quelli che avevano imparato dai tedeschi. Ma qualcuno suggerisce l'idea: - Fuciliamo, i sette fratelli Cervi...
Infatti li portano al Poligono di tiro ...
A casa, Genoveffa aveva lasciato la direzione dei lavori alla nuora più anziana ... gli occhi suoi non erano più di questa terra e la mente era lontano, coi figli suoi ...
I fascisti ci avevano bruciato la casa quando ci arrestarono, poi ci ammazzarono i figli, ma non gli bastava e vennero a bruciarci ancora il 10 ottobre del 1944.
A quella data eravamo solo due vecchi, quattro donne e undici bambini ... Così vennero di notte e diedero fuoco al fienile, poi scapparono via.
Usciamo dalla casa e ci mettiamo a gettar acqua, con i bambini e tutti. Genoveffa quando vide le fiamme, risentì quella notte, quegli spari, quei figli con le mani alzate nel cortile, e gli addii, e il furgone che parte.
Cosi cadde di colpo e il cuore non resse, gli era venuto l'infarto. Rimase a letto per un mese ... Morì il 14 novembre del 1944, senza avere conoscenza...
(Siamo nel 1955, quando è uscito il libro) Io l'ho detto al Presidente: bisogna cambiare, è il sistema che non va, e io riunirei la Camera poi metterei insieme le buone proposte di tutte le parti come si è fatto per la Costituzione e chiamerei tutti gli italiani a stare uniti per salvare lo Stato e la nazione ...
Che il cielo si schiarisca, che sull'Italia torni la pace e la concordia, che i nostri morti ispirino i vivi, che il loro sacrificio scavi profondo nel cuore della terra e degli uomini.
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