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Lorenzo Filipaz
Foibe o esodo? |
Lorenzo è triestino e figlio di un esule istriano. Dal ramo materno è di ascendenza slovena. Fa parte del gruppo di inchiesta su Wikipedia «Nicoletta Bourbaki». Appassionato delle storie della sua terra di confine, da anni ha intrapreso un percorso di ricerca e autoanalisi sul cosiddetto «Esodo giuliano-dalmata». L’intento è quello di capire cosa sia andato storto, per quali ragioni l’esodo da Istria e Dalmazia sia diventato una narrazione così platealmente assurda e antistorica, e come mai i figli di una terra meticcia siano diventati i pasdaran del nazionalismo.
L’approccio è quello di una seduta psicoanalitica, una sorta di terapia post-traumatica. Terapia in ritardo di sessant’anni, ma più che mai utile agli odierni discendenti di esuli, per disinnescare certi meccanismi difensivi che favoriscono reticenze e strumentalizzazioni.
Qui sotto trovate ventiquattro risposte ad altrettante domande sull’esodo istriano. Domande basate su quell’insieme di stereotipi e omissioni che ci piace chiamare «l’ideologia del Giorno del ricordo». Ventiquattro chiarimenti, uno per ogni ora del 10 febbraio. Diverse fotografie sono “finestre” aperte su interessanti approfondimenti, ma consigliamo di aprirle solo dopo aver letto le FAQ preparate da Lorenzo.
«Il vero guaio è che gli sciocchi la violentano, la vita, specie quella altrui, illusi di togliere la complicazione.»
Giulio Angioni, Gabbiani sul Carso
Febbraio: Come ogni anno mi preparo alla valanga di imposture che si accompagna al cosiddetto Giorno del Ricordo. Capi di stato, di governo e di partito di qualsivoglia colore faranno a gara a chi la spara più grossa o a chi intona più forte la solita solfa. Vediamo quest’anno a che altezza arriva l’asta degli infoibati, e se è un’annata buona possiamo contare su un bell’incidente diplomatico.
Per un giorno tutti si riempiranno la bocca di confine orientale per poi dimenticarsene per gli altri 364 giorni. È l’effetto bagnasciuga: un’alternanza che favorisce le panzane più pindariche e taglia le gambe a qualsiasi reale approfondimento. Sulla battigia chiunque può deporre ciò che vuole, tracciare nella sabbia le sparate più inaudite, tanto la risacca cancellerà tutto e la spiaggia sarà pronta all’uso per l’anno successivo.
Il 4 febbraio 2015, durante una puntata di «Porta a porta» dedicata alle foibe, viene mostrata quest’immagine proprio mentre si parla di «esecuzioni sommarie» compiute a Trieste dai partigiani di Tito. La foto, però, mostra un’esecuzione sommaria compiuta dai nazisti il 29 maggio 1944. Gli impiccati sono ventisei giovanissimi di Premariacco e di S. Giovanni al Natisone. Dell’accostamento truffaldino si è accorto Marco Barone, clicca per leggere il suo post, che a sua volta linka a una scheda storica su quell’eccidio.
Non sono mai riuscito ad abituarmi: ogni 10 febbraio una sgradevole sensazione mi corre giù per la schiena. Sarà perché uno dei miei genitori viene da lì, da quell’Istria piccola e povera che spesso si contrae e diventa enorme e ricchissima, sarà perché quel genitore non c’è più, sarà perché vivo a Trieste, città rimasta ferma al ‘54, dove di foibe ed esuli si parla 400 giorni all’anno.
Ma questa celebrazione parla veramente della nostra storia? Questa è la domanda che faccio sempre agli esuli rimasti, che ormai sono perlopiù i figli, quelli emigrati con la famiglia prima di aver raggiunto l’età della ragione. Quelli per cui l’infanzia è stata una baracca in un campo profughi, con i suoi gelidi spifferi di Bora, i giochi e le amicizie con la muleria (= gioventù) di paesi lontani, improvvisamente divenuti vicini. Figli di un popolo bombardato di propaganda nazionale, di italianità millenaria e altre carabattole vuote a sommergere una ben più complessa realtà, dove magari una nonna o un nonno parlava dialetto croato che guardacaso mamma e papà non parlavano più…
Il fatto è che di esuli fin da subito sono stati altri a parlarne, altri hanno deciso quale fosse la loro storia fin da prima di diventare esuli. La ricchezza del meticciato in questa terra mistilingue è stata negata ai suoi abitanti ai quali è stata imposta dall’alto una narrazione unitaria di purezza. Chi ha dissentito o anche solo “diversificato” questa verità ufficiale ha perduto il diritto di rappresentanza, per le associazioni i “dissidenti” cessano di essere “esuli” e persino “istriani” (o giuliano-dalmati). Oggi a parlare sono spesso i nipoti che con la scusa dei drammi familiari giustificano la loro adesione alla destra xenofoba e ultranazionalista, magari ignorando che quello stesso nonno esule a cui ascrivono il loro credo nazionale se ha rischiato di crepare è stato davanti ad un mitra nazista piuttosto che sul ciglio di una foiba “rossa”.
Quando si inizia a parlare di esodo si finisce sempre col parlare di qualcos’altro. Queste Frequently Asked Questions - cantieri aperti più che risposte definitive - si propongono di neutralizzare quel qualcos’altro, i depistaggi che deviano l’approfondimento e impediscono di affrontare il passato.
Iniziamo a parlare veramente di esodo, come se fossimo tutti sul lettino di uno psicoterapeuta, perché è proprio questo che è mancato alla mia gente: una grande terapia di gruppo per superare il trauma dello sradicamento e la vergogna della profuganza. Una reale guarigione si ottiene però affrontando il proprio passato in maniera matura, analizzandolo nelle adeguate proporzioni, per esempio iniziando a parlare di “esodi”, perché furono diverse ondate da diversi luoghi, in diversi anni e con diverse motivazioni. Ogni esperienza dolorosa è unica nel suo genere, prendere coscienza della peculiarità della propria sofferenza permette poi di empatizzare con il dolore altrui smantellando l’insana idea di essere stati gli unici a soffrire: abbiamo abbandonato case, terre - è vero - molti hanno abbandonato terre in colonato e case in comodato a dirla tutta, ma altrove in Italia ci sono state intere città rase al suolo con centinaia di migliaia di sfollati, oppure interi paesi sono stati cancellati dalla faccia della terra con tutti i suoi abitanti, e non occorre andare a Marzabotto o a Sant’Anna di Stazzema, basta andare poco lontano dall’Istria, a Lipa o a Podhum per esempio.
Prima di ogni cosa dobbiamo ripulire questa storia da quei pensieri ricorrenti nocivi, vecchi e ambigui che parlano di purezza attraverso metafore agricole rimettendo in circolo sotto mentite spoglie vittimarie la religione del blut und boden, sangue e suolo, una retorica che prima ha amputato la nostra identità e poi ci ha trascinato assieme a tutta l’Europa nella mattanza. Oggi non a caso questa religione trova il suo perfetto alveo nella metafora carsica delle foibe, nel mito di una terra le cui viscere traboccherebbero di sangue italiano.
1. Cosa si commemora veramente nel «Giorno del Ricordo»?
La Pace!
Il 10 febbraio 1947 furono firmati i Trattati di Parigi che sancirono la pacificazione dell’Europa. Dal 2004 l’Italia è diventato l’unico paese del continente a commemorare quella data con il lutto al braccio.
La legge 30 marzo 2004 n. 92, con la scusa di ricordare in pratica le vittime della pace, costituisce potenzialmente un vulnus per gli stessi valori espressi dalla Costituzione della Repubblica Italiana, fondata per l’appunto sulla pace oltre che sulla Resistenza e sulla sconfitta del nazifascismo. Peraltro l’ Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia (ANVGD), prima promotrice dell’istituzione della Giornata del Ricordo, nel suo statuto (Art. 2) si adoperava per «agevolare il ritorno delle Terre Italiane della Venezia Giulia, del Carnaro e della Dalmazia in seno alla Madrepatria, concorrendo sul piano nazionale al processo di revisione del Trattato di Pace», in netto contrasto con il Trattato di Helsinki del 1975 che sanciva l’inviolabilità delle frontiere europee, principio su cui veniva poi fondata l’OSCE e quindi la Comunità Europea (l’ANVGD ha poi modificato quell’articolo alla chetichella nel novembre 2012, con una clausola sui “rimasti” di cui parleremo in seguito).
Il 10 febbraio si configura quindi come la Giornata nazionale del Revanscismo, dove tutti (specialmente gli alunni delle scuole), sono tenuti a manifestare un po’ di “sano” neoirredentismo di stato in perfetta continuità con il vecchio mito della vittoria mutilata.
2. L’irredentismo non è forse solo un ideale o un’innocua nostalgia?
Il… braccio destro di Fini. Roberto Menia, ex-deputato del PdL e poi di FLI, ex-sottosegretario all’ambiente, autore della legge che ha istituito il «Giorno del Ricordo». Attualmente è segretario generale del Comitato Tricolore per gli Italiani nel Mondo. Per un esempio di brillante azione a tutela degli italiani nel mondo, clicca sulla foto e leggi l’articolo «Blitz missino a Belgrado».
Gli irredentismi hanno spesso trascinato i propri paesi in disastrose guerre sanguinarie. Con la scusa della difesa di una propria minoranza nazionale oppressa si sono giustificate aggressioni e oppressioni ben peggiori. Dalla Megali Idea greca, ai Sudeti, a Danzica, e ancora Nagorno-Karabakh, Erzegovina, Kosovo… Gli irredentismi e i revanscismi hanno una grande capacità di quiescenza, possono covare per decenni, se foraggiati sono potenzialmente immortali: una riserva sempre disponibile di nazionalismo e odio etnico.
Se si ritiene che questi scenari siano lontani e non inerenti con la nostra celebrazione basti ricordare che il primo firmatario della proposta di legge del giorno del Ricordo, il triestino Roberto Menia, salpò alla volta di Belgrado assieme a Fini e Tremaglia nel 1991 per contrattare con la Serbia di Milosevic la cessione di Istria e Dalmazia in cambio di supporto politico e militare [1], come dire che stava per trascinare l’Italia nel carnaio balcanico. Oltre a ciò associazioni neoirredentistiche fecero una colletta per una forza internazionale composta dal 30% di italiani da mandare in Krajina contro la Croazia [2].
Attenzione a riposare troppo sulle garanzie comunitarie: i nazionalisti percepiscono sempre le compagini statali sovranazionali come provvisorie, si tratti dell’impero Austroungarico, della Jugoslavia o dell’Unione Europea. In attesa della loro caduta essi preparano la resa dei conti. Il moltiplicarsi di partiti nazionalisti e xenofobi nell’attuale scenario europeo dà una piega inquietante a questa prospettiva.
3. Perché la «Giornata della memoria» va bene e il «Giorno del ricordo» no?
La monetizzazione politica della Shoah da parte del sionismo ha sempre colpito il neoirredentismo nostrano, che ha cercato di mutuarne spregiudicatamente i meccanismi di legittimazione. Nel dopoguerra l’unico frasario disponibile per riprodurre il paradigma vittimario era quello dell’olocausto, così si iniziò a parlare di «genocidio delle genti giuliane», facendo inorridire storici come Giovanni Miccoli dell’IRSML, che lo definì un «accostamento aberrante» [3].
Poi arrivò la guerra nell’ex-Jugoslavia, il massacro di Srebrenica permise di giocare sullo stereotipo dell’atavica barbarie orientale-balcanica e così un nuovo vocabolo, la “Pulizia etnica” (ma in verità esisteva già “bonifica etnica”, usata storicamente per descrivere la snazionalizzazione della Venezia Giulia operata dal fascismo), soppiantò il genocidio che tuttavia rimase in sordina per poi riemergere proprio nel linguaggio del giorno del Ricordo, strategicamente piazzato due settimane dopo quello della Memoria a scimmiottarne nome e forma.
Lo scopo malcelato è quello di ingenerare confusione - vedasi le «Foibe Ardeatine», tragicomica crasi segnalata da Federico Tenca Montini [4] - tra due episodi incomparabili: da un lato una commemorazione mondiale dal significato universale, dall’altro una commemorazione di impianto nazionale. Uno squilibrio che si manifesta a ogni livello di questo accostamento: emigrazione equiparata a deportazione, epurazioni politiche e rese dei conti equiparate a sterminio e massacri indiscriminati.
Interessante è anche confrontare i significati simbolici dei giorni prescelti dalle due commemorazioni: mentre nella giornata della memoria si celebra la liberazione di Auschwitz da parte delle truppe sovietiche - la fine del male per gli ebrei - dall’altra parte si celebra la firma del trattato di pace - l’inizio del male secondo una certa narrazione esule - un male che continua e che idealmente soltanto la restituzione delle terre sottratte o dei “beni abbandonati” potrebbe chiudere.
Se proprio si volesse prendere ad esempio la giornata della memoria si dovrebbe indicare una data che celebrasse la fine delle ostilità, magari il 10 novembre, firma del Trattato di Osimo. Nessuna associazione di esuli lo accetterebbe, quella data in zona suscita ancora malumori (riemersi persino in recenti avventure politiche, come MTL) ma se non altro significò la normalizzazione dei rapporti italo-jugoslavi e la fine definitiva delle ostilità fra i due paesi. In realtà il giorno del Ricordo non ricopia quello della memoria, ma ne è un detournement: si ricalcano gli aspetti emotivi ma si perseguono diverse finalità.
4. Dovremmo ritornare a non parlarne, continuando il “silenzio assordante”?
Questo è un topos della propaganda revanscista, ma il presunto silenzio sulle foibe è legato ad un altro silenzio, ben più pesante: quello sui crimini di guerra italiani, eternamente insabbiati. L’opinione pubblica italiana ignora che l’unica vera pulizia etnica nelle terre a cavallo del confine orientale fu quella operata dall’esercito italiano ai danni delle popolazioni civili slovene e croate negli anni dell’invasione della Jugoslavia.
C’è un elastico che lega questi crimini di guerra italiani alle foibe. Nell’immediato dopoguerra si parlò di foibe in maniera isterica e ossessiva, quando la questione di Trieste era sul tavolo e le Nazioni unite chiedevano la consegna dei criminali di guerra italiani. Del Boca, citando Focardi, scrive:
«[…] nel luglio 1945, infine, erano gli stessi Alleati a inoltrare al governo di Roma le liste dei presunti criminali di guerra consegnate da vari paesi (Iugoslavia, Grecia, Albania, Etiopia, Gran Bretagna, Francia, URSS) alla Commissione delle Nazioni Unite. L’Italia, per almeno tre anni, non rispondeva alle ripetute richieste e pressioni, adottando un’ambigua strategia tesa soltanto a prendere tempo. Ma non basta […] il Ministero degli Esteri raccoglieva una contro-documentazione, il cui solo scopo non era quello di “accertare le eventuali responsabilità delle persone accusate dalla Iugoslavia, ma di raccogliere prove sulla loro innocenza e di ribaltare le accuse sui partigiani iugoslavi. […] Il Ministero degli Esteri apprestò anche una controlista di criminali di guerra iugoslavi con circa 200 nominativi. In cima alla lista figurava il Maresciallo Tito […]» [5].
Penso che agli Alleati bastò leggere il primo nome per sentirsi presi per il culo a sufficienza, sicché risposero minacciando di venire a prendere loro stessi i criminali italiani per consegnarli alla Iugoslavia. Solo allora De Gasperi costituì una commissione d’inchiesta presso il Ministero della Guerra. Il problema era che i criminali italiani erano pezzi grossi dell’esercito, non solo fascisti, per cui con vari cavilli si archiviò il tutto senza dar luogo mai a nessun processo. Sempre Del Boca rileva che proprio per il fatto di aver scelto di non consegnare i propri criminali di guerra, il governo italiano ritenne prudente rinunciare a chiedere alla Germania la consegna dei nazisti macchiatisi di crimini in Italia tra il ‘43 ed il ’45 [6]. Guardacaso, contemporaneamente le foibe sparirono dal dibattito pubblico, almeno a livello istituzionale. Si ritornò a far cagnara solo dopo che gli insabbiamenti si erano ben stagionati, a 50 anni dagli eventi bellici.
Insomma prima non se ne parlò per evitare di esporre i propri scheletri ancora freschi nell’armadio, poi se ne parlò per evitare di farli riesumare.
È nell’interesse di noi eredi degli esuli far luce finalmente su quei crimini, poiché una volta svelati anche la nostra storia potrebbe essere narrata liberamente, nella sua interezza, senza dover stare sotto il tallone nazionale delle foibe. L’orrore di Rab, Gonars, Lipa riguarda anche noi poiché colpì i nostri cugini, quelli che parlavano un po’ più stretto.
31 luglio 1942. Esecuzione sommaria di civili del villaggio sloveno di Dane. Quelli che stanno per sparare sono soldati italiani. Eppure, ogni 10 febbraio qualcuno la ripropone straparlando di «plotone d'esecuzione titino» e «vittime italiane». È successo anche in una puntata di «Porta a porta». Di questa crassa manipolazione si è occupato anche il giornalista Michele Smargiassi sul suo blog Fotocrazia, clicca per leggere il suo articolo.
31 luglio 1942, esecuzione sommaria di civili sloveni nei pressi di Dane. Quelli che stanno per sparare sono soldati italiani. Eppure, ogni 10 febbraio qualcuno ripropone questa foto parlando di «plotone d’esecuzione titino» e «vittime italiane». È successo pure in una puntata di - dài che avete già indovinato… - «Porta a porta», il 13 febbraio 2012. Di questa crassa manipolazione si è occupato anche il giornalista Michele Smargiassi sul suo blog Fotocrazia, clicca per leggere il suo articolo.
5. E allora le foibe??
Nel momento in cui si inizia a parlare di foibe si smette di parlare di esodo.
Le foibe vengono aumentate di proporzioni e di peso storico per essere presentate come causa del trasferimento di massa. Una prospettiva sfalsata che rimuove la scelta, poiché l’emigrazione in Italia fu un’opzione, per alcuni più obbligata, per altri automatica e per altri ancora una scelta sofferta ma ponderata. Per questo motivo per anni le associazioni di esuli hanno disprezzato, boicottato e negato il loro riconoscimento ai cosiddetti “italiani rimasti” in Istria: la loro stessa esistenza inceppava la narrazione deterministica foibe-esodo, dimostrando che si poteva rimanere e, nonostante le difficoltà dell’essere una minoranza legata ad un paese politicamente ostile, persino preservare la propria identità linguistica e nazionale.
Per molti esuli rimuovere la propria scelta significò liberarsi dal peso della responsabilità, un sollievo immediato che comportò però la perdita della potestà sul proprio passato di cui divennero prigionieri, siglando un’ipoteca sulla propria storia familiare, sottratta anche ai propri eredi, per essere affidata alle associazioni, ai partiti e al nazionalismo. Io ora, come erede, impugno quell’ipoteca: voglio riappropriarmi della storia della mia famiglia.
6. Ma… l’esodo non fu una fuga dalle foibe?
No.
L’esodo fu un fenomeno che si produsse principalmente in Istria nel dopoguerra, uno stillicidio durato per oltre un decennio, di sicuro non una fuga disordinata. Gli unici a fuggire dall’Istria in tempo di guerra temendo realmente di finire infoibati furono fascisti, militari e persone compromesse con l’apparato statale fascista, la cosiddetta “ondata nera” esauritasi prima del ‘45. Mi rifiuto di includere questa ondata nella stessa categoria dell’esodo del dopoguerra che con il fascismo non ci ebbe niente a che fare. L’altro spostamento di popolazione notevole nel periodo bellico fu quello degli zaratini che però consistette in uno sfollamento oltre l’Adriatico a causa dei bombardamenti aerei angloamericani, ragione per cui la loro inclusione nella categoria dell’esilio è sempre risultato molto dubbia per gli addetti ai lavori [7].
Epurazioni ed emigrazioni furono fenomeni ben distinti cronologicamente. Le “foibe istriane” datano settembre 1943. Nel ‘45 ci furono altre epurazioni diverse nel Carso goriziano, triestino e sloveno ma che non riguardarono l’Istria. La stessa generalizzazione dei due fenomeni in un unico contenitore è tendenziosa.
Sviluppo degli esodi secondo le rivelazioni statistiche dell’Opera Assistenza Profughi Giuliano-Dalmati. Grafico del 1958 tratto da: AA. VV., Storia di un esodo, IRSML, Trieste 1980, p. 572.
7. Cosa cambia tra “foibe istriane” e “foibe giuliane”?
Sono due momenti ben distinti, cambiano anche le dinamiche e le pertinenze militari, gli obiettivi e gli attori. Soprattutto, sono diversi i contesti: nel ‘45, a guerra finita, le epurazioni - con gli annessi eccessi - furono in linea con fenomeni del tutto analoghi che bene o male si verificarono negli altri paesi liberati in Europa. Le foibe del ’43 furono invece un caso inseribile nella straordinaria situazione storica generata dall’Armistizio di Cassibile e dall’improvviso vuoto di potere che esso generò nel bel mezzo della guerra, causa di eccidi anche molto gravi come quello di Cefalonia. In Istria questa situazione particolare si concretizzò nell’immediata presa di potere del movimento partigiano croato, l’unico assieme a quello sloveno ad essere attivo all’epoca sul territorio amministrato dall’Italia. Il potere popolare instauratosi sfuggì allo stesso controllo partigiano il quale a stento riuscì a imporre parvenze di processi e disciplina a quella che fu più che altro l’esplosione della rabbia popolare covata in un ventennio di violenze, portate poi al parossismo con l’invasione della Jugoslavia. Questa situazione si tradusse in veri e propri linciaggi, condotti in taluni casi da criminali comuni infiltrati, alcuni dei quali furono poi identificati e condannati a morte dalla stessa giustizia partigiana [8]. Oltre a ciò, molti prigionieri militari furono liquidati di fronte all’impossibilità di mantenerne la custodia all’approssimarsi della Wehrmacht [9].
Questa esplosione di violenza, che indubbiamente in alcuni casi assunse i connotati di una vendetta anche su base nazionale, pur essendo piuttosto contenuta nei numeri e nella durata (200-500 vittime in 20 giorni), ebbe un forte impatto sugli istriani. Per la parte “italofona” della popolazione rappresentò l’inizio di quella guerra che invece per la parte “slavofona” era già iniziata da ben due anni, mostrandosi con il volto della pulizia etnica portata avanti dall’esercito italiano mediante massacri indiscriminati e deportazioni in campi di concentramento di interi villaggi, comprese donne, vecchi e bambini.
Lo shock prodotto dalle foibe istriane fu amplificato e sfruttato dai nazifascisti non appena ripresero il controllo della zona. Essi diedero ampio risalto al fenomeno attraverso stampa ed esposizioni pubbliche corredate di immagini truculente dei cadaveri semi-decomposti [10]. Lo scopo principale era chiaramente togliere il supporto popolare ai partigiani jugoslavi, ma un altro scopo non meno importante fu quello di distrarre la popolazione dalle rappresaglie che la Wehrmacht scatenò non appena riprese il controllo dell’Istria nell’ottobre 1943, provocando circa 5.000 morti in una settimana [11].
8. Ma… non furono infoibati decine di migliaia di italiani?
In Istria furono recuperati poco più di 200 corpi. Tale numero può essere ragionevolmente esteso fino a una cifra di 500-700 persone. Un numero di corpi di poco superiore fu estratto da cavità e fosse del Carso goriziano, triestino e sloveno nel ’45. [12]
9. Il numero è così importante?
Stimare le vittime in decine di migliaia serve a sostenere il falso storico della pulizia etnica [13], riportare le vittime di quella stagione all’ordine delle centinaia di unità riconduce il fenomeno alle epurazioni che si verificarono nel resto d’Europa (laddove il revanscismo ne vorrebbe fare un unicum storico). Per esempio in Francia nella cosiddetta Épuration légale furono eseguite quasi 800 condanne a morte, ma ne furono comminate più di 6.700 [14], dopodiché alcuni autori parlano di 9.000 esecuzioni sommarie [15]. Nella sola Emilia Romagna si ebbero 2.000 epurazioni, a Torino più di 1.000 [16].
10. Ma, aldilà del numero, in Istria non furono infoibati «solo perché italiani»?
Se si guarda il quadro dell’intera Jugoslavia le vittime di nazionalità italiana furono una minima parte rispetto a quelle collaborazioniste jugoslave [17]. In secondo luogo come già detto la definizione etnica nell’Istria “bonificata” era alquanto problematica. Per fare alcuni esempi: l’eroe della resistenza croata Joakim Rakovac, ucciso dai nazisti nel ‘45 e considerato infoibatore dalla vulgata neoirredentista, all’anagrafe italiana era registrato come Gioacchino Racozzi [18)]. Alcuni autori attribuirono la responsabilità delle foibe, tra gli altri, a Giusto Massarotto e Benito Turcinovich, chiaramente italiani [19]. Per contro il “Padre” degli esuli, Flaminio Rocchi, nasce come Anton Sokolic. Ciò fa capire come la nazionalità in quei luoghi fosse spesso subordinata ad una precisa scelta, in molti casi politica.
11. Gli istriani italofoni erano dunque tutti fascisti?
Certo che no, anzi, molti italofoni di Rovigno o della val d’Arsa - zone operaie - erano persino inossidabili comunisti e più in generale l’Istria vantava una radicata tradizione socialista. Altrettanto certo è che il fascismo ebbe una certa predilezione per questa regione e vi pestò più forte che altrove, prima coi manganelli e le taniche di benzina, scatenando in prossimità del confine orientale una violentissima ondata di squadrismo che precedette quella nazionale di qualche anno [20], e poi anche con le scuole e i registri anagrafici, attuando una bonifica integrale di ogni elemento slavo dal territorio, passando per cognomi, toponomastica, iscrizioni tombali oltre che con uno squadrismo permanente atto a dissuadere l’uso delle lingue “allogene”. Contemporaneamente il regime fabbricò il mito dell’atavica italianità di Istria e Dalmazia, mutuata dalla vecchia propaganda irredentista/imperialista dell’Italia liberale combinata all’epopea mussoliniana della romanità imperiale. Soprattutto a Zara il regime martellò molto sui cittadini rappresentandoli come sentinelle della patria nel barbaro mare slavo. Le motivazioni di questo battage sono spiegate qui: la Venezia Giulia (regione in cui all’epoca si faceva rientrare l’Istria) e l’enclave zaratina costituivano la porta di accesso al sogno imperialista italiano sul Mediterraneo orientale, i suoi abitanti nei programmi del duce ne sarebbero dovuti diventare i giannizzeri più fidati.
Si è dibattuto anche troppo sul legame tra bonifica etnica e rivalse nazionali slovene e croate contro gli italiani, ma non si è invece riflettuto abbastanza sugli effetti devastanti che questa bonifica, senza pari nel resto d’Italia (eccetto forse nell’Alto Adige/Südtirol), operò nel lungo termine su quella generazione di istriani, fiumani e zaratini che la assorbirono attraverso le scuole del ventennio, guardacaso proprio a quella generazione appartennero coloro che poi a guerra finita si rifiutarono di vivere sotto un’amministrazione slava, scegliendo l’esodo come «plebiscito d’italianità». Quando oggi chiedi ad alcuni dei pochi superstiti di quella generazione di raccontarti la loro storia familiare, per prima cosa attaccano con la favola della romanità dell’Istria, della sua millenaria purezza italiana, in altre parole espongono «un passato ricreato attraverso l’espulsione della differenza», come l’ha felicemente definito l’antropologo Stefano Pontiggia [21]. Ovviamente non è la vera storia dell’Istria quella che ti stanno raccontando, spesso smentita dal loro stesso cognome, ma piuttosto il panorama culturale della loro infanzia, quello della bonifica nazionale, dove le lingue “allogene” erano state messe a tacere con la forza mentre si inculcava nei bambini l’ideologia della romanità littoria, laddove la storia dell’Istria ci restituisce invece il volto di una terra che nei millenni fu soggetta a continue migrazioni in entrata e in uscita. Purtroppo i precetti inculcati nell’infanzia sono i più duri da estirpare ed i loro retaggi si manifestano anche in coloro che da adulti non aderiscono all’ideologia che li ha prodotti.
12. È vero che furono epurati anche antifascisti italiani?
Sì, in parte. Ma non si può tacere il fatto che molti presunti antifascisti locali furono piuttosto ambigui. I CLN della zona insorsero all’ultimo minuto all’avvicinarsi delle truppe angloamericane, quasi ad opporsi alla presa di potere da parte dei partigiani jugoslavi più che a neutralizzare i nazifascisti [22]. Almeno il CLN di Trieste ebbe il merito di preservare le strutture portuali e industriali della sua città. Nel caso di Fiume invece il CLN locale non fu nemmeno in grado di organizzare una resistenza simbolica contro i tedeschi che distrussero il porto in tutta tranquillità prima di ritirarsi. Il Comitato divenne realmente attivo solo dopo l’entrata dei primi partigiani jugoslavi in città, in pratica fu un CLN antislavo più che antifascista [23]. Per contro la repressione fu senza dubbio dura, condotta con metodi polizieschi e anche secondo una logica di repressione preventiva verso i potenziali oppositori alla presa di potere jugoslava, chiunque si opponeva ai poteri popolari diventava automaticamente un fascista agli occhi dei partigiani [24]. Ma per contestualizzare adeguatamente il momento storico bisogna sottolineare come molti antifascisti dell’epoca fossero spuntati ex-post e magari con trascorsi non del tutto specchiati. Oltre a ciò vi furono contatti su tutto il Confine Orientale tra fascisti e comitati di liberazione italiani (dai quali erano fuoriusciti i comunisti), al fine di creare un comune fronte antislavo, fatto unico in Europa [25]. Tali accordi non ebbero seguito ma c’è anche da rilevare il fatto che gran parte degli esponenti di questi CLN nel dopoguerra andarono ad ingrossare le fila dell’organizzazione stay behind Gladio [26], di fatto coordinandosi con elementi neofascisti in funzione antislava. In ultimo c’è anche da dire che sebbene non siano mancate esecuzioni molto sbrigative e omicidi sospetti, gran parte dei dissidenti fiumani “spariti” in quel periodo perirono in prigionia a causa di malattie e fame.
13. Che senso ha distinguere gli infoibati dai morti nei campi di prigionia jugoslavi?
L’uso disinvolto del concetto di “foiba” per qualsiasi vittima riconducibile al movimento di liberazione jugoslavo ha una finalità psicologica, serve a produrre l’idea di un’eccezionale barbarie. Quelli che vengono definiti come gli infoibati del dopoguerra, con i quali si fa lievitare il conto fino a 4.000-5.000 vittime [27], in verità morirono in gran parte in prigionia, di stenti e di malattie. Oltretutto si trattò soprattutto di militari e quindi “POW - Prigionieri di guerra” i quali, purtroppo, non se la passarono bene in nessun paese coinvolto nella seconda guerra mondiale (nei campi americani morirono 56.000 POW tedeschi).
Questa realtà, soprattutto la sua triste ordinarietà in quel momento storico, non era tuttavia spendibile in senso politico. Molto più efficace l’immagine di grappoli di centinaia di persone al colpo scaraventate vive negli abissi carsici, per tratteggiare uno scenario mostruoso di decine di migliaia di cadaveri sepolti più o meno in ogni cavità della zona [28] e riconfermare nell’immaginario collettivo lo stereotipo etnico dell’eccezionale sanguinarietà balcanica. Molti storici si sono “arresi” a questa semplificazione accettando di usare il termine “foibe” in senso simbolico ma si deve essere ben consci che questo “trucchetto” stereotipizzante è un derivato della propaganda nazifascista del ‘44 che puntava sulla truculenza e sul conflitto etnico per spezzare la resistenza e convincere le popolazioni a collaborare. A riguardo dell’uso degli stereotipi etnici come arma terroristica di persuasione di massa giova ricordare la “leggenda del cane nero”, fabbricata da un cronista di un giornale collaborazionista di Trieste, Manlio Granbassi [29], il quale riferì di una presunta usanza slava (priva di alcun riscontro etno-antropologico) di gettare la carcassa di un cane nero nella foiba per impedire all’anima dell’infoibato di trovare pace (con molte variazioni sul tema).
Spingere le popolazioni a temersi, odiarsi e darsi alla faida etnica corrispondeva alla più pura ideologia nazionalsocialista, che in questo modo cercava di imporre al mondo il proprio principio di blut und boden [30] - suo obiettivo ultimo “spirituale”. Questo meccanismo purtroppo sopravvisse al nazismo morente e oggi si perpetua, ad esempio nella pubblicistica di stampo nazionalista attraverso la rappresentazione della lotta di liberazione jugoslava cui pure contribuirono diverse brigate garibaldine italiane, come puro “espansionismo slavo”, confondendolo deliberatamente con il nazionalismo grande-serbo dei cetnici o grande-croato degli ustascia che di fatto i partigiani combatterono, sempre allo scopo di infilare di contrabbando il falso storico della pulizia etnica.
Esempio iconografico di deliberata confusione nel segno dello stereotipo etnico: a sinistra la foto di tre cetnici (facilmente riconoscibili dal caratteristico copricapo) mentre sgozzano un prigioniero. A destra, nella copertina dell’ennesimo libro sulle foibe, diventano tre perfidi slavocomunisti (o addirittura slavocomuniste?) Il falso è stato scoperto da Tuco, clicca per leggere il suo commento.
14. Non fu espansionismo slavo? E l’annessione dell’Istria e la «corsa per Trieste» come si spiegano?
Considerare una lotta di liberazione di un fronte antifascista perdipiù multietnico come una mera forma di espansionismo non solo è disonesto ma anche sinistro: significa tifare più o meno inconsciamente per l’Asse. Di questa grave implicazione non si accorsero molti esponenti dei CLN locali, si può concedere loro anche il beneficio della buona fede (e qui mi riallaccio ai precetti inculcati nell’infanzia che operano anche contro il proprio credo adulto). Detto questo non si può negare una indubbia ambizione territoriale ai partigiani jugoslavi ma c’è una differenza sostanziale tra l’incorporare obiettivi nazionali al fine di guadagnare il consenso popolare locale ed il perseguire obiettivi imperialistici. Bisogna anche ricordare che l’AVNOJ annoverava anche partigiani di ispirazione non comunista, come tutti i fronti popolari. Per tale ragione esso all’inizio si prefisse come principî da perseguire anche l’inviolabilità della proprietà privata e la difesa della libera iniziativa privata, obiettivi ben poco comunisti.
Diversamente, le truppe collaborazioniste ustascia e cetniche si prefissero obiettivi imperialistici che comportavano la sparizione delle altre etnie all’interno delle aree cui anelavano. Ciò si concretizzò in massacri, stupri etnici, deportazioni e orrori come il lager di Jasenovac [31]. E ad istruire e foraggiare questa gente furono i fascisti italiani prima e i nazisti tedeschi dopo, non bisogna dimenticarlo. I partigiani jugoslavi, se proprio ne avessero condiviso gli stessi principî espansionistici si sarebbero alleati a loro, non li avrebbero combattuti senza quartiere come fecero e c’è anche da dire che cetnici e ustascia non è che deposero le armi nel ’45, ma continuarono una ben poco nota guerra civile in Jugoslavia, armi in pugno, fino al ’47. Dopo di che sparirono per riemergere nel ’91. I massacri in Bosnia, in Slavonia e in Kraijna furono compiuti inneggiando a Draža Mihailovi? e Ante Paveli?, non di sicuro a Tito o alla Jugoslavia.
15. Ma il regime Jugoslavo non voleva «sbarazzarsi degli italiani»? L’ha ammesso anche Gilas!
Quella di Gilas è una bufala. Il meccanismo attraverso il quale essa si è prodotta e amplificata è spiegato qui. Aldilà del fatto che è stato dimostrato che Gilas non era presente in Istria in quel momento, Kardelj effettivamente fu inviato in loco ma per motivi diametralmente opposti: convincere gli italiani a rimanere.
16. Per quale ragione il regime jugoslavo avrebbe voluto trattenere gli italiani?
l'arena di polaPerché l’esodo di massa da Pola e Fiume fu un disastro per la Jugoslavia, sia sul piano economico che politico. Per contro i famigerati CLN “antislavi” d’Istria e Fiume spinsero gli italiani ad andarsene in massa (tramite stampa e propaganda di strada), da un lato con lo specifico scopo di sabotare la Jugoslavia - una specie di sciopero di cittadinanza (un porto vuoto è un porto morto), dall’altro fu una tattica suicida per convincere la commissione alleata a riassegnare quelle terre all’Italia mostrando ad essi una sorta di “plebiscito di fatto” a mezzo emigrazione di massa.
17. Ma l’Italia non aveva interesse a mantenere gli italiani nella Zona B?
Le posizioni iniziali di Italia e Jugoslavia mutarono molto nel tempo.
L’aria cambiò bruscamente nel ‘48. Con la rottura Tito-Stalin la Jugoslavia fu isolata a livello internazionale, la difficile ripresa economica fu bloccata dagli embarghi non dichiarati che Mosca ordinò agli altri paesi cominformisti che circondavano la Jugoslavia. Nel paese si diffuse l’instabilità politica che comportò l’instaurazione di uno stato di polizia paranoico. Tenca Montini citando Dubravka Ugresi? l’ha efficacemente definito periodo del “maccartismo jugoslavo” [32], gli anni (1948-1954) furono più o meno gli stessi e le dinamiche pure. A farne le spese, tra i tanti, furono anche le minoranze nazionali che fino allora il regime si era premurato di difendere: gli ungheresi della Vojvodina, gli albanesi del Kosovo e gli italiani d’Istria, furono i più sospettati di cominformismo a causa delle posizioni antijugoslave prese dai rispettivi partiti comunisti nazionali. Oltre a ciò la comunità italiana pagò molto i contrasti internazionali con l’Italia. Ci furono intimidazioni, danneggiamenti e pestaggi in corrispondenza delle elezioni del 1950 e della nota angloamericana dell’8 ottobre 1953 [33]. Si trattò di atti teppistici ai quali le autorità non seppero reagire lasciando spesso agli italiani la sensazione di essere lasciati soli. C’è da dire che se i diritti civili in Jugoslavia soffrirono in questo frangente storico, quelli nazionali continuarono ad essere tutelati. Ciononostante molti istriani, anche di lingua slovena e croata, emigrarono in Italia per via del generale clima politico instabile e a causa dell’economia disastrata (specialmente il mondo agricolo che contraddistingueva la zona B dell’Istria ne fu travolto), sfruttando l’opportunità dell’opzione nazionale stabilita dai trattati. Questa ondata di opzioni non fu per niente gradita dall’Italia che ormai non riusciva più a gestire l’afflusso di profughi e soprattutto sperava di mantenere una presenza consistente di italiani nella Zona B al fine di riuscirla a reclamare. Oltretutto questi esuli erano i più “sospetti”, il governo italiano li percepiva come “i meno italiani” e soprattutto sospettava che fossero comunisti cominformisti in fuga. Questa fu una delle ondate più consistenti dell’esodo dopo quello di Pola e fu effettivamente la più sfigata: trattati come fascisti o stalinisti in Jugoslavia e come comunisti in Italia.
18. E quanti furono gli esuli?
Una stima complessiva definitiva è difficile da stabilire poichè furono molti gli esuli che non si registrarono come profughi all’arrivo in Italia e molti furono gli espatri illegali che continuarono fino agli anni ‘60 secondo una logica affine a quella che interessò altri paesi del blocco comunista e anche perché la Jugoslavia, dopo il disgelo con l’URSS, consentì ai propri cittadini di viaggiare liberamente (il passaporto jugoslavo era uno dei più ambiti all’epoca del muro di Berlino, consentendo di transitare sia nei paesi del blocco occidentale che in quelli orientali). La cifra dipende dai limiti cronologici che si vuole dare all’esodo: se si include l’esodo di guerra o gli espatri successivi al ’56 la cifra cambia sensibilmente. Oggi si è propensi a quantificare una quota fra i 200.000 e i 250.000 [34].
19. Perché si sente ripetere la cifra di 350.000?
L’OAPGD (Opera assistenza profughi Giuliani e Dalmati) dapprima rese pubblici i dati di rilascio di 150.000 certificati di profugo; questo numero, poi, tramite criteri statistici molto controversi, arrivò fino a quota 250.000. In maniera del tutto arbitraria Padre Flaminio Rocchi - nato Anton Sokulic - dell’ANVGD fece lievitare la cifra fino a 350.000. Tale cifra, mai giustificata da alcun dato o stima statistica [35], divenne quella di riferimento delle associazioni degli esuli.
20. Ma che siano stati 250.000 o 350.000 cosa cambia?
Non molto, apparentemente. L’ordine di grandezza è all’incirca lo stesso, eppure c’è un significato nascosto. Importante è notare che le associazioni parlano di 350.000 esuli italiani, mentre la somma complessiva degli abitanti dell’Istria ammontava grossomodo a 400.000 e anche gli studi statistici più benevoli stimano un massimo di 185.000 italiani in Istria nel 1941 [36] (abbiamo visto anche come la definizione etnica degli istriani fosse tutt’altro che lineare). Questa cifra non solo nega l’esistenza di una quota di istriani rimasti ma nega anche una presenza storica slava nella regione. In pratica attraverso questa cifra apparentemente tecnica si perpetua quell’ideologia di purezza millenaria di cui già abbiamo discusso.
21. Perché le associazioni degli esuli sarebbero così nazionaliste?
Le associazioni di esuli non sono monolitiche, c’è tutto un arcipelago molto “balcanico”, a proposito di stereotipi: tanti potentati in lotta fra loro, ma tutte le associazioni sono contraddistinte da un loro peculiare modo di intendere il nazionalismo. C’è una lontana e nascosta origine: come già si è detto tra ‘43 e ’45, vi fu una cosiddetta “ondata nera” verso la RSI di elementi compromessi con il regime fascista. Furono costoro i veri e propri esuli a fuggire dall’Istria a causa delle foibe. Si è anche già detto che questi elementi neri fondarono i primi comitati di esuli, finanziati dalla stessa RSI [37]. Molti quadri di detti comitati si riciclarono poi nelle associazioni degli esuli nel dopoguerra (si veda il caso di Oddone Talpo), ne è testimonianza la continuità di contenuti propagandistici che poi tennero in ostaggio la narrazione dell’esodo negli anni a seguire. Da allora “foibe ed esodo” divenne un’endiadi obbligatoria, chiunque non la replicava veniva ostracizzato. Ciò su cui non si è riflettuto molto è che questa endiadi era la precisa impronta di quei primi “esuli” compromessi con il fascismo, mescolatisi poi nel dopoguerra agli esuli veri e propri, imponendo ad essi le loro parole d’ordine e di fatto usandone il dramma per riciclarsi come vittime e fare proselitismo. Sarebbe a dire che l’identificazione tra esuli e fascisti fu fomentata inizialmente proprio dai primi comitati esuli, salvo poi lamentarsene al cambio di stagione politica, imputandola interamente agli “slavo-comunisti”.
22. Quindi gli esuli furono obbligati ad essere nazionalisti?
In molti casi fu un’adesione spontanea e la stessa opzione fu una scelta nazionale, ma a costoro si uniformarono anche coloro che emigrarono per ragioni differenti, ideologiche, economiche o di qualsiasi altro tipo. Furono persuasi con le buone, ma alla bisogna anche con le cattive. L’OAPGD concedeva lo status di profugo a propria discrezione, espungendo dalle proprie liste gli elementi politicamente inaffidabili. Lo status di profugo non era uno scherzo, comportava assistenza, sussidi economici, assegnazione di alloggi e poi precedenze nei concorsi, etc.
Questo meccanismo fu sfruttato anche dal CLN Istria che si sostituì come gruppo dirigente agli ex-repubblichini e voleva orientare politicamente la massa degli esodati verso la DC o altri partiti. Ciò comportò l’esclusione di tutte le altre storie di profuganza non allineate, la moltitudine di vicende familiari complesse fu così uniformata nella cornice nazionalista. Molto spesso però furono gli stessi esuli ad aderire spontaneamente a questa narrazione, primo, per il banale principio che non si sputa nel piatto dove si mangia, in secondo luogo, perché questo tipo di narrazione riempiva gli spazi aperti dal trauma dello sradicamento. Furono molti gli esuli a fuggire dall’Istria a causa di intimidazioni, portate avanti talvolta da teste calde spesso nell’imbarazzo dei locali dirigenti jugoslavi. Le “Foibe” furono un concetto che le associazioni politicizzate fornirono ai propri associati per spiegare queste intimidazioni, come anche le ondate di arresti del paranoico periodo post-‘48 (che abbiamo chiamato del “maccartismo jugoslavo”, noto anche come periodo “dell’Informbiro”).
Così nella memoria ex-post di molti esuli, ma soprattutto nei figli degli esuli, questi episodi drammatici - spiegabili solo attraverso una complicata disamina storica - si trasfigurarono in un racconto lineare dove magari i propri genitori erano riusciti miracolosamente a sfuggire a presunte “liste di infoibamento” (in un’epoca in cui questo genere di epurazioni erano ben che finite, come le ricerche storiche accurate hanno rilevato). “Il martirio delle foibe” rispondeva anche ad una comprensibile necessità di legittimazione che l’esule avvertiva di fronte all’ostilità della popolazione del luogo dove andava a trasferirsi, spesso risentita per i privilegi che egli otteneva, per esempio nelle graduatorie per l’assegnazione di case popolari e nelle liste di collocamento.
23. Ma gli esuli esistono ancora? Quali e quanti soci ormai contano le loro associazioni?
Gli esuli veri e propri stanno scomparendo e invecchiano anche i figli emigrati in tenera età al seguito dei propri genitori. Dopo aver “nazionalizzato” gli esuli e la loro prole, le associazioni si sono adoperate alla “nazionalizzazione” dei nipoti, ormai gli stessi presidenti delle associazioni sono di seconda generazione. Chiaramente “l’entusiasmo” si sta esaurendo e in un certo senso l’istituzione della giornata del Ricordo risponde alla necessità di continuare a perpetuare quell’ideologia nazionale specifica anche dopo la scomparsa dei diretti interessati.
Come si era preannunciato nella prima di queste FAQ, ci sono sviluppi in atto in alcune associazioni come ANVGD, che ha sostituito la clausola revanscista del suo statuto con nuove disposizioni miranti alla collaborazione con la comunità degli italiani rimasti in Istria. In linea di massima mi verrebbe da salutare positivamente questo cambiamento di rotta: dopo averli insultati e accusati di tradimento e “collaborazionismo” coi titini per anni, finalmente si ravvedono. Eppure qualcosa non quadra: i rapporti transfrontalieri, le celebrazioni congiunte e le collaborazioni fra esuli e rimasti si intensificano ma il frasario rimane lo stesso: foibe, 350.000 esuli e tutto l’armamentario neoirredentista. Non solo, queste parole d’ordine le stanno incominciando a ripetere anche i rimasti, pur essendo concetti che negano la loro stessa storia! Come se le associazioni degli esuli spingessero i rimasti a rinnegare le scelte dei propri padri. Un meccanismo terribilmente simile alla spoliazione e all’uniformizzazione cui furono sottoposte più o meno volontariamente le storie degli esuli. A inquietare inoltre è il recente interesse per i rimasti di soggetti non prettamente progressisti come Lega Nazionale e come… Roberto Menia, sì, lui, il braccio destro di Fini - il cerchio di queste FAQ si chiude. Un mese fa ha lanciato una propria formazione politica parlando proprio di rimasti e della necessità di ritornare «a seminare italianità nell’Europa adriatica». Se si tratta di riscoperta delle radici, di tutte le radici ovviamente, non posso che compiacermene, ma «seminare italianità nell’Adriatico», detto da Menia a me fa paura. Il 1991 non è poi così lontano.
24. Cosa leggere per capire l’esodo?
Individuare pubblicazioni adatte è molto arduo, perché la quantità di ciarpame nazionalista, etnicista, culturalista e subdolamente revanscista o irredentista è spropositato rispetto agli studi storici seri e indipendenti, ma per fortuna questi ultimi si stanno moltiplicando. Per iniziare, personalmente consiglio tre testi molto diversi:
Aa.Vv. Storia di un esodo
Il libro “maledetto” dell’IRSML (Istituto Regionale per la Storia del Movimento di Liberazione) è molto invecchiato. Giovanni Miccoli nella prefazione del 1980 esprimeva l’augurio che tale testo potesse essere un’introduzione all’argomento, da sviluppare negli anni a venire. Ma così non fu: il testo non incontrò il favore delle associazioni degli esuli e finì in disgrazia, mai più ristampato. Da allora non è stato scritto niente di altrettanto esaustivo in merito, perché ogni altra pubblicazione si è dovuta confrontare con questa lobby, presentando verità patteggiate con il frame nazionalista.
Piero Purini, Metamorfosi etniche. I cambiamenti di popolazione a Trieste, Gorizia, Fiume e in Istria
Trent’anni dopo Storia di un esodo, Piero Purini raccoglie il testimone allargando la visuale, l’iniziale periodo 1945-1956 viene ampliato al 1914-1975. Un ingrandimento del diaframma necessario per capire tutti i mutamenti di popolazione della zona e inquadrarvi adeguatamente l’esodo del secondo dopoguerra. Era la tesi di dottorato dell’autore e a tutt’oggi è uno dei testi di riferimento per analizzare i mutamenti demografici sul confine orientale.
Fulvio Tomizza, Materada
Infine un romanzo, un’opera di finzione che vale come un trattato di storia e di antropologia insieme. È anche un libro scritto divinamente, si sente che l’autore era uomo di teatro: c’è un’attenzione particolare per il significato della concatenazione delle scene e dei dialoghi. Narra la scelta dell’esilio di Francesco Coslovich, o Franc Koslovic a seconda dei punti di vista, contadino “colono” di Materada, paesino vicino a Buie in piena zona B. Non fa sconti a nessuno, né alla sbirraglia del regime jugoslavo né alla stessa società contadina istriana, gretta, avida, patriarcale e ossessionata dalla terra.
NOTE
1. «Il Piccolo», 30 agosto 2003
2. Pirjevec J., Le guerre jugoslave 1991-1999, Torino, Einaudi, 2001, pp. 321-322
3. Miccoli G., «Risiera e foibe: un accostamento aberrante» in Bollettino dell’Istituto Regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli-Venezia Giulia, IV, n. 1, Trieste, 1976
4. Tenca Montini F., Fenomenologia di un martirologio mediatico. Le foibe nella rappresentazione pubblica dagli anni Novanta ad oggi, Udine, Kappa Vu, 2014, p. 11
5. Del Boca A., Italiani, brava gente, Vicenza, Neri Pozza, 2005 pp. 245-246
6. Giustolisi F., L’armadio della vergogna, Roma, Nutrimenti, 2004
7. Colummi C., Guerra, occupazione nazista e resistenza nella Venezia Giulia: un preambolo necessario in: Storia di un esodo, Trieste, Istituto Regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli-Venezia Giulia, 1980 pp. 43-47
8. Scotti G., Dossier Foibe, Lecce, Manni, 2005 p. 115
9. Ivi, p. 77
10. Ferrari P., «”Bolscevismo senza maschera”. Una mostra nazista del 1944» in: Italia contemporanea n. 268-9, 2012
11. Verginella M., Tra storia e memoria. Le foibe nella pratica di negoziazione del confine tra l’Italia e la Slovenia in: Il perturbante nella storia. Le foibe : uno studio di psicopatologia della ricezione storica, Verona, QuiEdit, 2010, p. 82
12. Pupo R., Spazzali R., Foibe, Milano, Mondadori, 2003, pp. 26-29
13. Ivi, p. 112
14. Judt T., Postwar: A History of Europe Since 1945, London, Pimlico, 2007, p. 46.
15. Amouroux H., La grande histoire des Français après l’occupation, tome 9 : Les règlements de comptes (septembre 1944 - janvier 1945), Paris, Robert Laffont, 1991, pp. 83-89
16. Dondi M., La lunga liberazione. Giustizia e violenza nel dopoguerra italiano, Roma, Editori Riuniti, 2000 p. 97 e pp. 224-225
17. Pirjevec J., Il giorno di San Vito. Jugoslavia 1918 - 1992, storia di una tragedia, Torino, Nuova Eri, p. 205
18. Scotti G., Dossier Foibe, cit., p. 115
19. La Perna G., Pola Istria Fiume 1943-1945, Milano, Mursia, 1993 p. 179
20. Piemontese G. Il fascismo a Trieste negli anni 1919-1923, Udine, Del Bianco, 1956
21. Pontiggia S., Storie nascoste. Antropologia e memoria dell’esodo istriano a Trieste, Roma, Aracne, 2013
22. Colummi C., Guerra, occupazione nazista e resistenza nella Venezia Giulia, cit. pp. 29-30
23. Ferrari L., Fiume 1945-47 in Storia di un esodo, cit., pp. 56-58
24. Troha N., Fra liquidazione del passato e costruzione del futuro. Le foibe e l’occupazione jugoslava della Venezia Giulia in Foibe. Il peso del passato, Venezia Giulia 1943-45, Venezia, Marsilio, 1997 pp. 59.95
25. Purini P., Metamorfosi etniche, Udine, Kappa Vu 2010, pp. 215 - 216
26. Tenca Montini F., Fenomenologia di un martirologio mediatico. cit., p. 79
27. Pupo R., Spazzali R., Foibe, cit., pp. 26-29
28. Rocchi, F., L’esodo dei 350 mila giuliani fiumani e dalmati, Roma, Difesa adriatica, 1998
29. Pirjevec J., Foibe. Una storia d’Italia, Torino, Einaudi, 2009
30. Schneider-Bosgard H., Bandenkampf : resistenza e controguerriglia al confine orientale; a cura di Antonio Sema, Gorizia, LEG, 2003
31. Cadik I. D,, The smell of human flesh : a witness of the holocaust: memories of Jasenovac, Belgrade, Dosije, 2006
32. Tenca Montini F., Fenomenologia di un martirologio mediatico. cit., p. 77
33. Colummi C., Dalle elezioni del 1950 alla nota angloamericana dell’8 ottobre 1953: le premesse del grande esodo in Storia di un esodo, cit., pp. 381-417
34. Trani G., I problemi di quantificazione del fenomeno dell’esodo in Storia di un esodo, cit. pp. 566-578
35. Purini P., Metamorfosi etniche, Udine, Kappa Vu, p. 327
36. Mileta Mattiuz O., Popolazioni dell’Istria, Fiume, Zara e Dalmazia, ADES, Trieste, 2005
37. Colummi C., Le organizzazioni dei profughi in Storia di un esodo, cit., pp. 275-277
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