A TRIESTE LA STORIA NON COMINCIA IL 1° MAGGIO 1945 1. UN PO’ DI STORIA Prima di addentrarci nella “ricerca” di Pirina dobbiamo parlare un po’ di storia, perché la storia di Trieste e della Venezia Giulia non è purtroppo molto conosciuta, neanche in zona, e spesso la gente tende a dimenticare che prima del 1° maggio del 1945 (giorno della liberazione di Trieste per mano partigiana) erano accadute un bel po’ di cose, la maggior parte delle quali di gran lunga peggiori delle peggiori azioni compiute nei 40 giorni di amministrazione jugoslava. Ma la maggior parte della gente, purtroppo, tende a dimenticare le cose avvenute prima, anche perché, come diceva il poeta Carolus Cergoly nella sua poesia sulla Risiera di S. Sabba: «Su, femo i bravi. / In fondo xe un brusar / Ebrei e Slavi». Così era la concezione mentale del triestino medio, che non visse male sotto il fascismo prima ed il nazismo poi, perché “non si occupava di politica”, innanzitutto, e poi era “italianissimo” ed “arianissimo”, ed in fin dei conti sotto il duce non ci mancava niente e poi i Tedeschi mettevano un po’ d’ordine ed in fin dei conti gli Slavi sono un popolo di bifolchi e gli Ebrei lasciamo perdere... così era, ma così, disgraziatamente, è ancora, almeno in parte. A Trieste il nazionalismo italiano assunse delle connotazioni esasperate, con caratteristiche che saranno poi tipiche dello squadrismo fascista, già prima dell’inizio della prima guerra mondiale. I propugnatori di questo “ideale” furono gruppi irredentistici, legati soprattutto ad alcuni ambienti massoni cittadini. Tra gli “ideologi” di questo irredentismo troviamo Ruggero Timeus il quale, dopo essersi autodefinito “irredentista-imperialista”, “militarista e conquistatore” asseriva: «A noi che la lotta abbia un carattere civile o anticivile non importa nulla... contro questi “ignari bifolchi” ...noi non possiamo rispondere con la severa coscienza nazionale... ma con l’odio che sussulta, che aggredisce, che affama... nell’Istria la lotta nazionale è una fatalità che non può avere il suo compimento se non nella sparizione completa di una delle due razze che si combattono... Se una volta avremo la fortuna che il governo sia quello della patria italiana, faremo presto a sbarazzarci di tutti questi bifolchi sloveni e croati...» Va precisato che nell’”Istria” Timeus comprendeva anche tutta la zona di Trieste, retroterra carsico compreso. Diceva ancora Timeus: «è dovere d’ogni popolo uccidere ogni imperialismo che non sia il suo», «noi accettiamo l’assioma germanico che la bontà di un’idea si dimostra con la forza» ed ancora: «l’italianità si afferma imponendola ai popoli stranieri. È questo un ideale che non si esaurisce che con la conquista del mondo». Riteniamo a questo punto opportuno ricordare che al signor Timeus, propugnatore di simili “ideali”, è tuttora dedicata una via di Trieste... Le idee di Timeus non erano solo sue, erano condivise da buona parte di quel movimento irredentista di cui si diceva prima, magari non in maniera tanto “estremista”, ma che comunque vedeva necessario stroncare i popoli slavi per fare spazio all’imperialismo italiano e che identificava nel plurinazionalismo asburgico il proprio nemico da eliminare. Dopo la fine del primo conflitto mondiale le tappe della repressione “antislava” procedettero rapidamente: i soldati austroungarici prigionieri che rientravano a casa, soprattutto se slavi, vennero internati in campi di prigionia speciali e particolarmente duri, dove molti trovarono la morte per le privazioni e le malattie . Come già nelle Valli del Natisone, dove la snazionalizzazione forzata della comunità slovena locale iniziò immediatamente dopo l’annessione al Regno d’Italia, così pure nella neonominata “Venezia Giulia” (composta dalle province di Trieste e di Gorizia, compresi i retroterra che oggi si trovano in Slovenia e l’Istria), sia nelle città che nelle campagne iniziarono subito le opere di snazionalizzazione e repressione. Già il 13 dicembre 1918 lo scrittore Sem Benelli, all’epoca capo dell’Ufficio Politico del Comando in Capo della Piazza Marittima di Pola, scrisse in un rapporto ufficiale: «le società politiche JugoSlave mantengono continuamente desto lo spirito di rivolta. Sono focolai che non hanno grande importanza ma che tengono gli animi sospesi ed a volte formano qual.che fanatico. Essi sono i piccoli Narodni Dom delle campagne. Si chiamano “Citaonce” ossia società di lettura... sarebbe opportuno sciogliere questi circoli politici... Anche il giornale Hrvatski List che nelle campagne è molto letto dai Croati, mantiene vivo il fermento Jugoslavo e la convinzione che l’occupazione italiana sia semplicemente provvisoria». L’originale del documento reca una nota manoscritta, relativamente al giornale: «farlo partire sempre con alcuni giorni di ritardo?» . È dell' aprile del ‘19 invece la nota del commissariato civile di Pola in cui si comunica che delle 49 scuole croate (37 pubbliche e 12 private) esistenti prima dell’arrivo dell’Italia in quelle terre, 45 erano state chiuse, ma «era però necessario di provvedere acchè migliaia e migliaia di fanciulli non rimanessero, in seguito alla chiusura di tante e tante scuole, senz’alcuna istruzione. In esecuzione degli ordini del predetto Comando venivano perciò aperte scuole e giardini infantili con lingua d’insegnamento italiana anche in quelle frazioni dove non era ancora sistemata una scuola italiana provinciale e fu assunto il personale necessario» . Queste direttive anticipano la famosa legge di riforma delle istituzioni scolastiche dell’ottobre 1923 (la legge Gentile) che sancirà la definitiva chiusura delle scuole di lingua non italiana (tedesche, slovene, croate) nelle nuove province del Regno d’Italia. «Nel corso dei cinque anni scolastici successivi, con l’uscita delle generazioni scolastiche precedenti, la lingua slovena sparì dalla scuola statale. Ciò significò la trasformazione di quasi 500 scuole elementari slovene e croate in scuole italiane» . Trieste ha anche un altro primato: «il 3 aprile 1919, a pochi giorni di distanza dalla fondazione dei fasci in piazza S. Sepolcro a Milano (23 marzo 1919), il fascio veniva costituito a Trieste.» Cresce l’attività di violenza squadrista del neo-costituito partito fascista: nel 1920 a Trieste viene incendiato il centro economico, politico e culturale dei gruppi etnici sloveni e croati della città, il Narodni Dom, costruito all’inizio del secolo su progetto dell’architetto Max Fabiani, che ospitava al proprio interno una sede bancaria, un centro culturale, un albergo e la tipografia dei principali giornali sloveni, tra cui il quotidiano “Edinost”. L’edificio non verrà restituito, neppure dopo la Liberazione, alla comunità slovena della città ed oggi è trasformato in sede universitaria. Tra il 1919 ed il 1922 i fascisti, finanziati dalla destra economica, «incoraggiati dall’alta burocrazia civile e militare, aizzati dalle campagne provocatrici e sciovinistiche del quotidiano “Il Piccolo” diretto da Alessi», compiono decine di azioni squadristiche contro centri culturali e politici di tutta la “Venezia Giulia”, incendiando e distruggendo sedi, redazioni di giornali, tipografie; aggredendo, picchiando ed anche uccidendo militanti politici (però vi furono violenze anche contro scolaresche e va citata la strage di Strugnano, del 19.3.21, dove i fascisti spararono dal treno contro un gruppo di bambini che giocavano, ne uccisero due e ne ferirono cinque, due dei quali rimasero invalidi per tutta la vita). Alla fine di queste “operazioni” si ebbe la chiusura di quasi mille circoli, tra culturali, sportivi, assistenziali, e moltissimi dei beni, confiscati, venivano assegnati ad associazioni fasciste. Nella maggior parte dei casi neanche queste sedi sono mai state restituite dallo Stato italiano, “nato dalla Resistenza”, agli aventi diritto. Dopo la presa del potere da parte del fascismo, nel 1922, le violenze divennero anche “legali”: dal 1926, con l’entrata in vigore delle “Leggi Speciali per la difesa dello Stato” e poi dal 1931 con il codice Rocco e le sue leggi di polizia, la soppressione della stampa d’opposizione e lo scioglimento di tutti i partiti, ogni speranza di democrazia era sparita dall’Italia. Oltre le azioni squadristiche v'erano anche altri sistemi per attuare la “pulizia etnica”: ad esempio i dipendenti non italiani (Sloveni, Croati, Tedeschi...) delle amministrazioni pubbliche (ferrovieri, insegnanti, poliziotti...) vennero o allontanati mediante trasferimento in località all’interno del Regno, oppure addirittura costretti a licenziarsi . Contemporaneamente inizia la “riduzione” in forma italiana dei toponimi e dei nomi e cognomi “stranieri”, in modo tale da cancellare, ove possibile, anche la memoria dell’esistenza slava in queste terre. Contro queste azioni di pulizia etnica e di programmato etnocidio vi furono dei tentativi di resistenza, anche armata, compiuti con organizzazioni “segrete”, quali il T.I.G.R. e l'organizzazione “Borba”, che agivano contro singoli squadristi o collaborazionisti, contro postazioni militari e contro le scuole, che erano diventate centri di snazionalizzazione. Queste attività portarono ad una repressione feroce, basti pensare che «su 978 processi condotti dal Tribunale Speciale fascista negli anni 1927-1943, 131 furono condotti contro 544 imputati appartenenti alle minoranze slovena e croata. Su un totale di 4.596 condanne pronunciate, 476 furono comminate a Sloveni e Croati. Su 27.727 anni di carcere sentenziati, 4.893 furono inflitti a queste due comunità. E infine, su 42 condanne a morte, 33 furono emesse contro Sloveni e Croati. Negli anni 1930-1942 caddero davanti ai plotoni di esecuzione fascisti 19 Sloveni, dieci di essi prima dell'inizio della vera lotta armata» . Il 6 aprile 1941 l’Italia sferra l’attacco alla Jugoslavia, arrivando alla creazione della “Provincia di Lubiana”, ed arrestando numerosi esponenti antifascisti sloveni, originari delle province di Trieste e Gorizia, che erano stati costretti all’esilio dalla repressione fascista. L’occupazione della Provincia di Lubiana, durata 29 mesi, fu contrassegnata da particolare durezza, tanto che esistono documenti del comando superiore delle Forze Armate italiane che recitano: «il trattamento da fare ai partigiani non deve essere sintetizzato dalla formula “dente per dente” bensì da quella “testa per dente”» e «si sappia bene che eccessi di reazione, compiuti in buona fede, non verranno mai perseguiti. Perseguiti invece, inesorabilmente, saranno coloro che dimostrassero timidezza ed ignavia...» Già il 27 aprile del 1941, a Lubiana, si era costituito l’Osvobodilna Fronta - Fronte di Liberazione che, basandosi su un accordo interpartitico di lotta contro gli invasori italiani, tedeschi ed ungheresi, ed appoggiandosi ad alcuni militari jugoslavi non disposti ad arrendersi, sviluppò azioni di lotta partigiana fin dall’inizio contro gli occupanti, collegandosi anche con elementi attivi nel Litorale sloveno, cioè nelle province di Trieste e Gorizia. Delle repressioni compiute dai fascisti in Istria, in Slovenia e nell’entroterra triestino e goriziano durante il secondo conflitto mondiale, stragi, incendi di villaggi, deportazioni in campi di sterminio (che non erano solo tedeschi ma anche “italianissimi” come quelli di Arbe-Rab, in Dalmazia e di Gonars in Friuli), esiste ampia documentazione ; tanto per citare delle cifre: «Dopo il 1941 l’occupazione italiana e poi tedesca di ampi territori jugoslavi (vengono annesse all’Italia la “provincia di Lubiana”, capitale slovena e la Dalmazia occupate) è particolarmente feroce e provoca sino al 1945 nei territori adriatici (Litorale) tra gli Sloveni e i Croati ed anche tra antifascisti italiani complessivamente 45.000 morti, 7000 invalidi, 95.460 arrestati, internati e deportati in campi di concentramento italiani e tedeschi, 19.357 case distrutte totalmente e 16.837 parzialmente (per lo più interi villaggi), il tutto con atrocità in cui si distinguono sia italiani che tedeschi» . Scrive Galliano Fogar: «II 7 ottobre (1943, n.d.a.) Berlino annuncia la conclusione dei rastrellamenti “nella regione di Trieste da parte delle truppe tedesche e di reparti fascisti: sono stati contati i corpi di 3.700 banditi uccisi. Altri 4.900 sono stati catturati fra cui gruppi di ufficiali e soldati badogliani". Un comunicato del 13 afferma che la “pace” è stata raggiunta grazie a più di 13mila banditi uccisi o fatti prigionieri... A parte la gonfiatura propagandistica delle cifre, il numero delle vittime è stato altissimo e fra esse buona parte è di inermi civili.(...) “L’impeto dei tedeschi è meraviglioso” commenta il quotidiano triestino “Il Piccolo”. Raccontando l’odissea di un gruppo di prigionieri liberati dall’intervento germanico, il cronista rileva che gli scampati, mentre si dirigono verso Trieste, possono constatare che “ogni casa ha uno straccetto bianco di resa e tutti i rimasti salutano romanamente chiedendo pietà” (questo si riferisce alla zona di Pinguente, in Istria, n.d.a.). Dopo il passaggio delle truppe tedesche, il giornale riferisce che è tornata la tranquillità e giustifica lo strazio della cittadina di Pisino, osservando che “dure misure sono state provocate” dalla resistenza dei partigiani...» Nella provincia di Trieste furono bruciati per rappresaglia i paesi di Mavhinje-Malchina, Cerovlje-Ceroglie, Viovlje-Visogliano, Medjevaš-Medeazza, Mackovlje-Caresana, Grocana-Grozzana. Anche nella città di Trieste furono compiuti diversi eccidi di rappresaglia, di cui i più noti sono i seguenti: 3 aprile 1944: 71 fucilati al poligono di Opcine Opicina; 23 aprile 1944: 51 impiccati nell’edificio del Conservatorio di musica di via Ghega; 29 maggio 1944: 11 impiccati a Prosek-Prosecco; 18 settembre 1944: 18 ostaggi fucilati od impiccati; 21 settembre 1944: 5 fucilati della “missione Molina” ; 28 marzo 1945: 5 impiccati in via D’Azeglio; 28 aprile 1945: 20 fucilati al poligono di Opcine-Opicina. Ed abbiamo qui citato solo gli eccidi di maggior rilievo, senza contare i morti (dai 3 ai 5.000) della Risiera di S. Sabba, le migliaia di deportati nei lager tedeschi, sia Israeliti (tra cui gli 80 Ebrei prelevati dall’ospizio della Pia Casa Gentiluomo ed i 25 prelevati dall’Ospedale Psichiatrico di Trieste), sia militari che non avevano voluto collaborare con la Repubblica di Salò ne con il Reich tedesco, sia partigiani e resistenti che semplici civili. Oltre a tutto questo bisogna ancora ricordare che se il 25 aprile, giorno dell’insurrezione di Milano, è considerato a tutti gli effetti l’anniversario della Liberazione in Italia, questa data non rappresenta la fine generale delle ostilità. Infatti in varie parti d’Italia s’è continuato a combattere fino ai primi giorni di maggio. I partigiani hanno liberato Trieste il 1° maggio, però i nazisti in città si arresero definitivamente soltanto il 2 maggio, dopo l’arrivo delle truppe neozelandesi e ad Opicina si combatté fino al 3 maggio. Dice Diego De Castro nel suo libro sulla “questione di Trieste”: «Mentre per gli Alleati, la guerra era finita, gli Slavi avevano ancora dietro le spalle i1 97° Corpo d’Armata tedesco, forte di oltre 15.000 uomini che, se fossero stati portati in tempo a Trieste, avrebbero difeso benissimo la città, attendendo gli Occidentali. Ordini errati li tennero fermi e, dopo pochi giorni, si arresero.» [...] 2. L’ISPETTORATO SPECIALE DI PUBBLICA SICUREZZA Nell’aprile del 1942 il Ministero degli Interni costituì a Trieste un Ispettorato Speciale di Pubblica Sicurezza, il cui scopo era la repressione dell’attività antifascista con particolare riguardo a quella slava. Bisogna precisare che nessun’altra provincia italiana conobbe un’istituzione del genere. Non fu certo l’arrivo dei nazisti a rendere particolarmente efferati i membri dell’Ispettorato Speciale, difatti la maggior parte delle testimonianze raccolte nel corso dei processi contro i suoi appartenenti risale a periodi antecedenti il 25 luglio 1943 (destituzione di Mussolini). All’8 settembre 1943 l’Ispettorato aveva sede a Trieste in via Bellosguardo 8 in quella che era già nota come la famigerata “Villa Triste”; era comandato dall’ispettore generale Giuseppe Gueli e comprendeva 180 uomini. Dopo l’8 settembre l’Ispettorato fu temporaneamente sciolto dal governo repubblichino, ma venne presto ricostituito come Ispettorato Speciale al cui comando rimase sempre Gueli. [...] Il corpo era formalmente alle dirette dipendenze del Ministero dell’Interno della Repubblica di Salò, ma era sottoposto al diretto controllo del comando SS di Trieste. Nel febbraio del 1944 il prefetto di Trieste Tamburini nominò maresciallo lo squadrista Sigfrido Mazzuccato, incaricandolo di costituire un reparto di polizia ausiliaria (la squadra politica che avrà sede nella via San Michele, nota anche come “squadra Olivares” ) all'interno dell'Ispettorato stesso. Di questo corpo fecero parte circa 200 ausiliari, per lo più squadristi locali; di essi 170 erano pregiudicati per reati comuni. Il reparto fu sciolto nel settembre del ‘44 per ordine delle autorità germaniche e lo stesso Mazzuccato fu spedito in Germania: aveva commesso tali e tante nefandezze da far inorridire persino le SS . Dagli atti del processo Gueli, avvenuto nel dopoguerra , stralciamo le seguenti testimonianze. Testimonianza del dottor Paul Messiner, austriaco, che nel 1944 ricopriva la carica di capo-sezione Giustizia del Supremo Commissariato della Zona di Operazioni del Litorale Adriatico: «Mi è stato riferito che nell’anno 1944 l’Ispettorato di P.S. di via Bellosguardo, trasferitosi dopo in via Cologna, procedette all’arresto dei fratelli Antonio e Augusto Cosulich (armatori che avevano finanziato il C.L.N., n.d.a.). Il barone Economo si rivolse al Supremo Commissario dott. Rainer per ottenere l’immediato trasferimento dei detenuti dall’Ispettorato alla sede delle SS di piazza Oberdan, a causa dei noti sistemi di tortura dei detti agenti italiani, usati contro patrioti. Il Supremo Commissario accolse subito la richiesta e disse che la polizia tedesca non usava i metodi crudeli e le sevizie escogitati dall’Ispettorato … Ho saputo da diverse persone e tra queste dall’avv. Toncic, che la polizia italiana usava metodi barbari e sadici contro i detenuti. Ho parlato e fatto rapporto scritto al dott. Rainer... Mi sono state date assicurazioni in merito. (...) Il giudice Anasipoli sa che ho fatto arrestare due agenti dell’Ispettorato pur non rientrando nelle mie attribuzioni. (...) Ho dato ordine che i tribunali provinciali italiani non potessero giudicare antifascisti e che se avessero violato tale ordine sarebbero stati arrestati. (...)» Poi c’è la testimonianza del giudice Anasipoli, allora giudice di collegamento tra la Corte di Appello, Procura Generale, e la sezione giudiziaria retta dal dott. Messiner: «Ricordo che un giorno il dott. Messiner ebbe casualmente a comunicarmi di essere stato costretto a far arrestare due funzionari di P.S. dei quali ricordo il nome del Mazzuccato Sigfrido (l’altro era Miano Domenico, n.d.a.)... E ciò in seguito a numerose lagnanze presentategli relativamente a maltrattamenti violenze, percosse usate da detti agenti contro persone arrestate». Nazisti tutori dei diritti civili a Trieste, dunque? Forse no, vediamo la testimonianza dell’avvocato Toncic: «Slavik mi disse di aver fatto un esposto al capo della sezione giustizia dell’ex-Commissariato dott. Paul Messiner e me lo mostrò. In tale esposto oltre a narrare quanto contro di lui era stato commesso dagli agenti (dell’Ispettorato, n.d.a.), espose anche i maltrattamenti e le violenze carnali commesse ai danni di una ragazza diciassettenne e di una signora di Trieste... Il dott. Slavik fu arrestato poco tempo dopo dalle SS germaniche e deportato a Mauthausen dove purtroppo trovò la morte». Racconta invece Pietro Prodan, che fu arrestato sedicenne, nel 1944, assieme alle sorelle Nives e Nerina: «Tra i poliziotti che procedettero al nostro arresto c’era anche Sigfrido Mazzuccato». Dopo un mese e mezzo di sequestro in via Bellosguardo, dove furono picchiati tutti e tre, anche da Collotti in persona, «mi hanno portato in Germania al campo di Buchenwald dove sono stato liberato dagli alleati. Nello stesso campo di concentramento è venuto nel novembre del 1944 anche il maresciallo Mazzuccato che la vigilia di Natale è stato, verso mezzanotte, trasportato nel forno crematorio e gettato in esso. Ho visto coi miei occhi la cartella scritta dai tedeschi in cui si diceva: “Mazzuccato, deceduto per catarro intestinale il 24 dicembre 1944”». Così dunque morì Mazzuccato, in un finale quasi biblico. Quanto a Miano, era stato arrestato dalla Gestapo di Verona il 10.5.44 e dopo cinque mesi nelle celle sotterranee (pare sia anche stato torturato), fu deportato a Flossenburg, da dove fu liberato il 23.4.45. Sui crimini e misfatti commessi dall’Ispettorato fin dall’inizio della sua “attività” (violenze e torture, ma anche rastrellamenti ed esecuzioni di partigiani, come pure rapine e furti ai danni degli arrestati), esistono moltissime testimonianze, trascritte in più libri e facenti parte, come quelle da noi riportate nelle righe precedenti, degli atti dei processi Gueli e Ribaudo ed anche di quello della Risiera di S. Sabba. Le violenze e le torture erano pratica comune e notoria, al punto che lo stesso vescovo Santin, già nel 1942, aveva cercato di intervenire per far cessare le vessazioni, pur sostenendo che all’inizio non aveva preso sul serio le testimonianze che parlavano delle sevizie inflitte agli arrestati. [...] Presso l’archivio dell’Istituto Regionale per la Storia del Movimento di Liberazione di Trieste è conservata una “foto-ricordo” della “banda Collotti” (foto esposta anche al Museo della Risiera di S. Sabba e pubblicata in alcuni libri). Questa foto è stata scattata a Boršt-S. Antonio in Bosco, (comune di Dolina-S. Dorligo della Valle, in provincia di Trieste), dopo un’azione di rastrellamento che costò la vita a tre partigiani nel gennaio del ‘45. [...] Oltre alla “lotta antipartigiana” i membri dell’Ispettorato si occupavano anche di andare a prelevare gli Ebrei da deportare in Germania: gli agenti si presentavano in casa delle persone da prelevare, in genere in seguito a denunce di solerti vicini di casa o bottegai della zona (va ricordato che i nazisti ricompensavano con 10.000 lire – dell’epoca! – i delatori per ogni denuncia che portava ad un arresto) , i prigionieri venivano poi portati in via Bellosguardo e di lì “smistati” in Risiera . Nei ranghi dell’Ispettorato entrarono molti volontari, persone che lasciarono il proprio lavoro per potersi permettere impunemente violenze e saccheggi. [...] Molti furono poi anche i “collaboratori esterni” dell’Ispettorato, delatori e collaborazionisti che conservavano il proprio posto di lavoro e poi riferivano alla “banda Collotti” o direttamente alle SS. [...] Nel dopoguerra furono celebrati dei processi contro membri dell’Ispettorato.[...] Gueli fu condannato in seconda istanza ad otto anni ed undici mesi, gli altri a pene minori. [...] Quanto a Gaetano Collotti, fucilato dai partigiani vicino a Treviso (del quale sarebbe stato succube, secondo i suoi difensori, il “povero” Gueli), ebbe addirittura l'onore di venire decorato con medaglia di bronzo al valor militare dalla Repubblica Italiana “nata dalla Resistenza” (?) per le azioni antipartigiane da lui compiute prima dell’8 settembre 1943. Alle proteste elevate da più parti contro questa onorificenza, il Ministero rispose a suo tempo che, una volta data, la medaglia non si poteva revocare. Con buona pace dei torturati e dei morti... Esiste una “Canzone a Collotti”, composta dai prigionieri rinchiusi nel carcere dei “Gesuiti”. La trascriviamo di seguito: Dopo congiure, convegni e comploti Fra trenta mule e trenta giovanoti Ne ga becado el grande Colotti E a Bellosguardo ne ga tocado andar. Là semo acolti coi massimi onori, Tutta la squadra la se buta fora. Tra pugni e piade e grandi dolori, Dela corente la cura el ne fa far. Dopo aver scrito l’eterno verbale Con grande afeto ale nostre spale In una freda giornata invernale Ai Gesuiti ne ga tocado andar. In questa grande e augusta dimora La fame nera xe nostra signora, Pedoci e zimesi ne manda in malora, Anche la chibla la cela fa impestar. Quando la cura ga fato i efeti E semo grassi e robusti nei peti, Dentr’a un convoglio i ne meti Ed in Gennania ne toca lavorar. Dopo tre giorni de strada ferata Ed altri due de lungo camino, Semo arrivadi più morti a Berlino, Ed in miniera ne toca lavorar. E qua finissi la storia, e che la squadra la fazi pur baldoria, che de foiba se senti zà parlar . 3. LA “POLIZIA ECONOMICA” La Polizia economica o Polizia annonaria fu istituita personalmente da Globocnik, l’SS capo di polizia del Litorale Adriatico, l’11 febbraio 1944, prelevando forze dai Carabinieri (il cui corpo era stato sciolto dai nazisti) e dalla Guardia di Finanza. All’inizio i suoi componenti furono pagati dal Prefetto, poi passarono sotto il diretto controllo di Globocnik, il quale si occupava anche di corrispondere loro lo stipendio. [...] 4. LA GUARDIA CIVICA In data 23.11.43 il Gauleiter dell'Adriatisches Küstenland Friedrich Rainer emana il primo bando di richiamo degli “uomini del Litorale”: con l’ordinanza n. 8 di questo bando viene istituito l’obbligo del servizio di guerra da prestare col lavoro coatto nella Todt oppure in forze di difesa territoriale. Nel gennaio del ‘44 il podestà di Trieste Cesare Pagnini (insediato a Trieste non da autorità italiane ma dall’autorità tedesca alla quale la città era sottoposta, cioè lo stesso Rainer), emana il “bando di costituzione della Guardia Civica” quale corpo in cui potevano, volontariamente, prestare servizio gli uomini abitanti a Trieste. Ma quali erano i compiti del Corpo? Ecco cosa recita il bando di costituzione: «garantire l’ordine e l’intangibilità della nostra Trieste da qualsiasi minaccia». La Guardia Civica fu dunque un corpo armato creato dalle autorità tedesche e composto da non-tedeschi: fu quindi in sostanza un corpo collaborazionista, nonostante ciò che sostengono alcuni aderenti all’associazione ex-Guardia Civica di Trieste, gli stessi però che contemporaneamente sostengono di avere agito «per il bene di Trieste italiana» e contro i «marxisti comunisti jugoslavi che volevano debellare Trieste». Che la Guardia Civica sia stata un corpo collaborazionista lo sostiene anche il non sospettabile di bolscevismo filojugoslavo colonnello Antonio Fonda Savio, già dirigente del C.V.L., il quale, in una dichiarazione conservata in copia presso l'archivio dell'I.R.S.M.L.T., ribadisce che «la competente Commissione Riconoscimento Qualifiche Partigiani per la Venezia Giulia (...) nell’esaminare la posizione di elementi della Guardia Civica di Trieste, ha riconosciuto come partigiani o patrioti del C.V.L. di Trieste, soltanto coloro che, pur avendo militato in detto Corpo, vi furono immessi o nello stesso furono segretamente reclutati, dal C.L.N. della Venezia Giulia e dalle sue organizzazioni clandestine armate. Tale riconoscimento cioè fu fatto solo in base alla attività armata e clandestina per la causa partigiana compiuta da singoli elementi e non per la loro qualifica ufficiale di vigili del Corpo della Guardia Civica in quanto tale formazione fu considerata dalla Commissione Governativa alla stregua delle altre forze collaborazioniste esistenti nella regione». In effetti la Guardia Civica comprendeva diverse anime: oltre ad una minoranza di fanatici nazifascisti (parte dei quali, tra l’altro, finì poi con l'arruolarsi direttamente nelle SS), per la maggior parte si arruolarono in essa giovani di diciotto/vent’anni che, per non andare al lavoro coatto o nei reparti militari direttamente sotto i tedeschi, approfittarono della possibilità di arruolarsi in un reparto italiano. Ciò non toglie che il giuramento da loro prestato era di fedeltà al Reich ed al Führer, non certo all’Italia; così come è noto da diverse testimonianze che era compito della Guardia Civica scortare i prigionieri che venivano condotti ai treni con destinazione Buchenwald e gli altri campi di sterminio; e furono sempre membri della Guardia Civica a montare la guardia agli impiccati per rappresaglia dai nazisti in via D’Azeglio, ad occuparsi di rastrellamenti di partigiani e renitenti alla leva. Che membri della Guardia Civica avessero poi fatto attività partigiana sia all’interno del Corpo (come Messerotti, Rea e Duse che pagarono con la deportazione in Germania e con la vita questa loro attività), che disertando ed unendosi a formazioni partigiane (come Manli, ucciso poi in Risiera, ed altri), è un dato di fatto che va a merito delle singole persone che fecero questa scelta e non assolve certamente l'intero Corpo. Marco Pirina ha preso l’intero elenco dei caduti della Guardia Civica e l’ha inserito tra gli “scomparsi per mano titina”. In realtà dei 112 caduti della Guardia Civica sono solo 21 quelli realmente arrestati dalle autorità jugoslave nei “quaranta giorni” e poi scomparsi (e si trattava comunque di persone che avevano combattuto ed operato contro le forze alleate dell'esercito jugoslavo); per gli altri, si veda il capitolo dedicato ai morti per altre cause. 5. MILIZIA DIFESA TERRITORIALE ED ALTRE FORMAZIONI MILITARI Nel “Litorale Adriatico”, provincia direttamente soggetta al Reich tedesco, le formazioni militari erano anch'esse dipendenti dal comando tedesco. Così dicevano i comandi tedeschi: «A tutti gli ufficiali, sottufficiali e soldati italiani verrà chiesto se vogliono combattere con l’esercito tedesco contro i partigiani. Coloro che non vogliono obbligarsi saranno internati e condotti fuori Trieste.» Spiega Galliano Fogar: «... la Milizia Difesa Territoriale - di cui fanno parte 5 reggimenti della Guardia Nazionale Repubblicana oltre alle formazioni collaborazioniste slovene - opera alle dipendenze delle SS (...), conservando un simulacro di autonomia interna in fatto di gerarchie, disciplina, promozioni, (...) altri reparti nascono e vivono completamente nell’ambito delle SS (...). Ciò vale ad esempio per i 6 battaglioni italiani di polizia... e per il Centro di Repressione Antipartigiana di Palmanova, dove la “banda” del cap. Ernesto Ruggiero e del ten. Odorico Borsatti figura inquadrata nelle SS di una “Divisione Cacciatori del Carso” e dipende da un capitano delle SS (Pakibusch» . [...] 6. LA DECIMA MAS Per una breve storia della X flottiglia MAS riportiamo alcune notizie contenute nel libro “La strage di stato- Vent'anni dopo” ; «Il 13 marzo ‘41 veniva istituita la X flottiglia MAS, un corpo speciale per la guerra sottomarina basato sull’uso di un’arma denominata “siluro pilotato” o “siluro a lenta corsa” (comunemente noto come “maiale”). Nel maggio del ‘43 diveniva comandante del reparto Junio Valerio Borghese per i suoi meriti sul campo di battaglia. (...) ...il 14 [settembre, n.d.a.], il comandante della X, Borghese, sottoscrisse un patto alla pari con le forze armate germaniche nel quale si sanciva che il reparto era alleato delle forze armate tedesche con piena parità di diritti, continuava a ritenersi una formazione della marina italiana, battente bandiera italiana e dotato di sua piena autonomia operativa sotto il comando del capitano di fregata J. V. Borghese. (...). «La X MAS si distinse subito: basata su un reclutamento esclusivamente volontario, sempre ben rifornita ed equipaggiata, accuratamente addestrata, dotata di un fortissimo spirito di corpo, aveva tutte le caratteristiche di un corpo scelto. In essa si arruolarono anche molti giovani non fascisti che, sottoposti alla coscrizione obbligatoria della R.S.I., preferirono quel corpo sia per il suo prestigio, sia perché era l’unico a non portare sulla propria divisa i simboli del fascismo repubblichino. «Dopo un brevissimo periodo iniziale, durante il quale la X venne utilizzata solo al fronte contro gli angloamericani, i suoi reparti di terra vennero impiegati nella lotta contro i partigiani distinguendosi, anche in questo caso, per la particolare ferocia non disgiunta, talvolta, da comportamenti cavallereschi (ma su quest’ultimo aspetto occorre dire che la leggenda ha considerevolmente ingigantito alcuni limitatissimi episodi). (...) ...l’innegabile efficienza della X MAS era il frutto delle grandissime disponibilità di denaro di cui essa godeva, denaro in gran parte proveniente dal contrabbando, in particolare da quello del sale, merce introvabile nelle città settentrionali in quei mesi (la X MAS riscuoteva una tangente di circa 10.000 lire dell’epoca per ogni camion di sale che partiva dalle saline di Trieste)». Il testo prosegue spiegando anche gli accordi intercorsi tra la FIAT e la Decima per i quali, in cambio del servizio di vigilanza fornito dalla Decima agli stabilimenti del gruppo (sia in funzione di copertura verso i tedeschi, che per controllare i gruppi clandestini che agivano nelle fabbriche), la FIAT si impegnava a fornire automezzi, munizioni, carburante, pezzi di ricambio. «Nell’aprile del ‘45 la X MAS decise autonomamente di sciogliersi (e non di arrendersi), trattando direttamente il passaggio delle consegne con il C.L.N. milanese. (...) Borghese... infatti aveva clandestinamente preso contatto con gli americani ai quali aveva garantito che i suoi uomini avrebbero occupato i porti del Tirreno ingannando i tedeschi e impedendo che essi fossero fatti saltare. In cambio gli americani avrebbero garantito per la vita di Borghese sottraendolo alla giustizia partigiana». Nella nostra regione, annessa al Reich, la X MAS dipendeva direttamente dal capo delle SS: «La divisione X MAS è un reparto messomi a disposizione dal comandante supremo delle SS e della Polizia italiana per la lotta e i compiti di sicurezza nella zona d’operazione Litorale Adriatico. La divisione è a me sottoposta per ogni questione e riceve ordini solo da me o, su mio incarico, dal mio stato maggiore...» Firmato Globocnik SS Gruppenführer e Luogotenente Generale di polizia. Quanto al comandante della Decima, il principe Borghese, sfuggito alla giustizia partigiana fu poi giudicato dallo Stato italiano con i seguenti risultati. Ancora da “La strage di stato – Vent’anni dopo”: «Il processo Borghese costituisce un mirabile esempio dello stato della giustizia italiana e dei suoi atteggiamenti verso gli ex-gerarchi fascisti: la corte (presieduta dal dott. Caccavale, un vecchio amico di famiglia dei Borghese, e composta da noti fascisti come Silvio Mollo e Diego De Mattia) riuscì nella difficile impresa di condannare Borghese a una pena per cui lo si poté mettere in libertà alla fine del processo. A tanto risultato si arrivò per gradi: a) in considerazione degli atti di valore compiuti in guerra venivano concessi i benefici previsti dall’art. 26 del Cpm e veniva evitato l’ergastolo; b) un’altra attenuante venne riconosciuta all’imputato per aver egli contribuito a “salvare le industrie del Nord, attenuare i rigori dell’occupazione militare tedesca in Friuli-Venezia Giulia ed aver prestato opera di assistenza nei campi di concentramento nazisti” (sic!); c) una terza riduzione di pena si otteneva applicando l’indulto del 1946 (5 anni) e quello del 1948 (4 anni); d) restavano 9 anni di reclusione ma, in considerazione dei 3 anni di carcere già scontati, delle attenuanti generiche, della prevalenza delle attenuanti sulle aggravanti, ecc. anche questi potevano dirsi scontati. Tornato in aula il presidente per la lettura della sentenza un avvocato fece notare che il conto non tornava: per scarcerare immediatamente Borghese occorreva che la pena finale irrogata fosse di 8 anni e non di 9, perché diversamente il condono del ‘46 non avrebbe coperto tutto il periodo di carcerazione; il presidente rientrò in camera di consiglio, corresse la sentenza riducendo di un anno la pena e ricomparve in aula per dar lettura del nuovo dispositivo». Così dunque il principe Borghese poté tornare in libertà e continuare con la sua attività politica più o meno eversiva, culminata nel tentato golpe del 1970 (nel quale, ricordiamo, fu coinvolto anche il nostro Marco Pirina: com’è piccolo il mondo, vien da pensare!), dopo il fallimento del quale dovette riparare all’estero, in Spagna, dove morì ne11974. Un altro personaggio degno di nota legato alla Decima è Remigio Rebez, detto il “boia” della caserma di Palmanova. Dall’estratto della sentenza n. 120 del 5.10.46 della Sezione Speciale della corte di Assise di Udine nella causa penale contro Ruggiero Ernesto, Rebez Remigio, Rotigni Giacomo... «Il primo novembre 1944 fu mandato a Palmanova un reparto della milizia fascista, composto da una cinquantina di uomini, comandato dal capitano Ruggiero Ernesto per coadiuvare il capitano Pakibusch nella lotta antipartigiana. Il reparto stette a Palmanova, nella caserma Piave, fino al 19 aprile 1945 e ad esso si aggregò il sergente Rebez Remigio della X MAS... Durante tale periodo, innumerevoli e feroci delitti furono commessi nei territori dei mandamenti di Palmanova, Udine, Codroipo, Latisana, Cervignano, Monfalcone e Gradisca dal reparto che meglio potrebbe denominarsi... “banda Ruggiero”. Furono arrestate ed imprigionate circa 500 persone e molte centinaia di esse furono percosse e seviziate perché dessero le informazioni che gli aguzzini volevano sull’entità e dislocazione delle forze partigiane e sulle loro armi». Rebez venne condannato a morte per aver collaborato con il tedesco invasore e per aver privato della libertà «centinaia di persone sottoponendo moltissime di esse a violenze inaudite e cagionando loro lesioni anche gravi e persino la morte mediante torture raccapriccianti...», così recita la sentenza. Viene da chiedersi se è questo ciò che intendevano i giudici del processo Borghese per «attenuare i rigori dell’occupazione militare tedesca». In ogni caso Rebez non solo non pagò con la vita i suoi misfatti, ma neanche con il carcere, godette infatti dell’amnistia di Togliatti ed a tutt’oggi vive libero e indisturbato a Napoli. Bartoli, Papo e Pirina però lo inseriscono negli elenchi degli “scomparsi”. Il “Piccolo” di Trieste ha pubblicato, in data 26 marzo 1996 un articolo su di lui dal commovente titolo “Rebez voleva tornare a vivere nella sua Muggia”. Ma, come spiega poi l’articolo, una decina d’anni prima Rebez fu “salvato” dalla polizia, perché «era apparso a una commemorazione funebre nel cimitero di Muggia e, riconosciuto, per poco non venne linciato dalla folla». 7. LA GUARDIA DI FINANZA La Guardia di Finanza non aveva solo compiti di controllo e repressione dei reati tributari, ma, fino al 25 luglio 1943 metteva a disposizione dell’Ispettorato Speciale di P.S. dei nuclei mobili di polizia; poi, dopo l'arrivo dei tedeschi, ebbe funzioni di antiguerriglia alle dirette dipendenze di Christian Wirth, il “sovrintendente” del lager della Risiera di S. Sabba ed alcuni componenti di essa gli facevano da scorta armata nei suoi spostamenti. Reparti della Guardia di Finanza avevano anche il compito di mantenere “libera dai partigiani” la strada che collega Trieste a Fiume e per ottemperare a questo incarico compirono diverse azioni di rastrellamento sia contro gruppi partigiani che contro la popolazione civile. Così dichiarò Dietrich Allers (successore di Wirth nella direzione del lager della Risiera di S. Sabba), nel corso della sua testimonianza resa per il processo: «Mio compito era di assumere le funzioni, o perlomeno una parte di esse, di Wirth, da poco ammazzato dai partigiani. Il Wirth era a suo tempo comandante della cosiddetta Strada Carsica, cioè la via di comunicazione tra Trieste e Fiume. (...) All’assunzione del comando di sicurezza avevo a mia disposizione le seguenti unità: una compagnia della Milizia Territoriale, UNA COMPAGNIA DELLA FINANZA ITALIANA (*), una compagnia del battaglione SS Trieste». [...] Un gruppo consistente di Guardie di Finanza arrestate e poi deportate in Jugoslavia faceva parte di un battaglione di stanza a Roiano (rione di Trieste situato nei pressi della Stazione Centrale), i cui comandanti si erano accordati nei giorni precedenti l’insurrezione con la Brigata partigiana Kosovel, scesa dal Carso ed arrivata in città nella zona di Roiano appunto, perché tenessero sotto tiro i tedeschi che si trovavano a presidiare la stazione centrale ed il porto vecchio. Ma nel corso dei combattimenti ad un certo punto i tedeschi penetrarono alle spalle della Kosovelova Brigada proprio dal punto in cui avrebbero dovuto essere tenuti sotto controllo dalla Guardia di Finanza. I partigiani lo interpretarono come un tradimento da parte dell’Arma e per questo motivo disarmarono le Guardie di Finanza e ne arrestarono diverse. [...] 8. IL COMITATO DI LIBERAZIONE NAZIONALE ED IL CORPO VOLONTARI DELLA LIBERTÀ Lo Stato italiano e la storiografia ufficiale riconoscono l’inizio della Resistenza in Italia solo dopo l’8 settembre 1943, cioè dopo la firma dell' armistizio e della conseguente occupazione del Paese da parte dell’ex alleato tedesco, e dopo che il “Duce”, liberato il 12 settembre da Otto Skorzeny su ordine di Hitler, aveva fatto il suo colpo di stato contro il governo di Badoglio. Invece a Trieste e nella Venezia Giulia la lotta armata antifascista era iniziata già da tempo, collegata alla lotta di liberazione popolare jugoslava, ed era caratterizzata da una forte connotazione comunista e socialista. Come s’è visto nel capitolo dedicato all’Ispettorato Speciale di P.S. le repressioni violente nella Venezia Giulia erano iniziate da molto prima che qui arrivassero i nazisti. [...] . Quando le truppe tedesche occuparono la regione esistevano già dei nuclei di resistenza antifascista collegati ai gruppi sloveni dell’interno: ricordiamo qui la figura di Alma Vivoda, partigiana di Muggia, che aveva tenuto contatti con organizzazioni partigiane slovene e venne uccisa da un carabiniere a Trieste il 28 giugno del 1943 (ben prima dell’arrivo dei tedeschi, quindi). [...] Poco dopo l’arrivo dei tedeschi si costituì a Trieste il primo C.L.N., del quale facevano parte esponenti del Partito d’Azione, del Partito Comunista, del Partito Socialista, della Democrazia Cristiana e del Partito Liberale: i dirigenti vennero arrestati nel dicembre del 1943 e deportati a Dachau, dove morirono Foschiatti, del Partito d’Azione ed il comunista Pisoni. Successivamente si costituì il secondo C.L.N., che comprendeva ancora gli stessi gruppi politici; secondo le direttive del C.L.N.A.I. questo secondo C.L.N. avrebbe dovuto cercare contatti e collaborazioni con l’Osvobodilna Fronta-Fronte di Liberazione che raggruppava sia sloveni che italiani collegati al IX Korpus. Ma nel luglio del 1944 il C.L.N. triestino si spacca: i comunisti ne escono perché gli altri rifiutano la collaborazione con le componenti slovene. Nel settembre successivo vengono arrestati diversi esponenti del C.L.N. (tra cui il democristiano Paolo Reti), ma anche il comunista Frausin. In ottobre, a Milano, i rappresentanti dell’O.F. disdicono i loro accordi con il C.L.N.A.I.: questo fatto porterà poi allo scioglimento del secondo C.L.N.. Nell’ottobre del 1944 si forma quindi il terzo C.L.N., composto dal Partito d’Azione, dal Partito Socialista, dalla Democrazia Cristiana e dal Partito Liberale: questo C.L.N. non aveva rapporti con il C.L.N.A.I. che, anzi, invitava i triestini che volevano lottare contro il nazifascismo a collaborare ed anche ad aderire al IX Korpus . [...] Nel frattempo v’era chi, nel C.L.N., cercava contatti ed accordi con la X Mas e con altri corpi armati: la Guardia Civica, la Pubblica Sicurezza, la Guardia di Finanza, contattando anche personalità come il podestà Pagnini ed il prefetto Coceani, che avevano fino allora collaborato con i nazisti, cercando di fare un fronte comune antislavo ed anticomunista. Un po’ come avevano fatto i servizi segreti della X Mas con le brigate Osoppo in Friuli... Va da sé che, mentre i partigiani dell’O.F. combattevano in prima fila, compiendo azioni armate, attentati, sabotaggi nelle fabbriche ed altro, pagando con la vita, la deportazione e le torture, le conseguenze della loro scelta di lotta, i membri del C.L.N., salvo alcune eccezioni, non facevano granché di concreto contro i fascisti ed i tedeschi, un po’ perché, essendo scollegati da tutte le altre organizzazioni armate e da quella che si potrebbe definire “base”, ovvero le classi popolari, non avevano mezzi né occasioni, un po’ perché preferivano lavorare a mero livello politico, cercando di far venire in zona membri dell’esercito del Regno d’Italia per far organizzare da questi la lotta armata. Al momento dell’insurrezione di Trieste, coincidente con l’arrivo delle truppe partigiane reduci dai combattimenti vittoriosi condotti contro le truppe nazifasciste sull’altipiano carsico, oltre ai membri di “Delavska Enotnost-Unità Operaia”, si solleva anche il Corpo Volontari della Libertà, facente riferimento al C.L.N. triestino e comandato dal colonnello Antonio Fonda Savio. Ma da subito, in contemporanea con gli scontri contro i tedeschi, iniziano anche gli incidenti tra partigiani e C.V.L. Possiamo ricordare l'incidente di Roiano (già citato nel capitolo dedicato alla Guardia di Finanza), quando, come dice lo stesso Maserati «gli insorti del C.V.L. per difendere un gruppo di Guardie di Finanza aprono il fuoco sui soldati di Tito»; oppure alla caserma di Rozzol (via Rossetti) dove alcuni membri della Guardia Civica, insorta in extremis contro i tedeschi in nome dell’italianità di Trieste, avevano aperto il fuoco contro i partigiani. Va precisato che questo incidente, per quanto enfatizzato dagli storici come dimostrazione dell’”intolleranza titina”, fu frutto del gesto isolato di pochi membri della Guardia Civica, che avevano agito di propria iniziativa guidati da Matteo De Nittis che fu l’unica vittima dello scontro. Infatti i reparti partigiani, dopo aver risposto al fuoco, uccidendo De Nittis, occuparono la caserma di via Rossetti senza altri incidenti e senza operare rappresaglie od arresti. In conseguenza di questi fatti il C.L.N. decide di ritirare (siamo al 1° maggio) i propri reparti dalla lotta e «poste al sicuro le armi, gli uomini rientrano alle loro case». C’è da stupirsi che a questo punto i “titini” non solo non si fidassero del C.L.N., ma si rifiutassero di riconoscere ai suoi aderenti la patente di “liberatori” di Trieste, visto che a liberare Trieste non s’erano granché impegnati? [...] Cerchiamo di vedere questi fatti alla luce della situazione storica dell’epoca e forse capiremo che non è stato poi tanto incredibile che certe persone del C.L.N. triestino siano poi state arrestate dagli iugoslavi, condotte a Lubiana e processate. Del resto l’immagine del torturatore Collotti che si commuove assieme a due membri del C.V.L. perchè si rende conto che tutti e tre amano la patria, mentre non batteva ciglio a seviziare ed uccidere ci lascia un po’ straniti. Cosa avrebbero dovuto pensare di questa storia all’epoca quelli che erano passati sotto le torture di Collotti? Come appare un po’ strano che quasi tutti i membri di questo ultimo C.L.N. arrestati dalla “banda Collotti” all’inizio del ‘45 siano poi stati rilasciati senza problemi in aprile o siano “evasi” come Carlo Dell’Antonio, già capitano pilota dell’aeronautica militare, che fu poi arrestato dalle autorità jugoslave. Con l’inizio dell’amministrazione partigiana, il C.V.L. decise di non collaborare alla gestione della città, che era affidata al C.E.A.I.S. (Comitato Esecutivo Antifascista Italo-Sloveno) che comprendeva 11 membri, 8 italiani e 3 sloveni. [...] Già il 3 maggio ‘45 venne diffuso clandestinamente un manifesto che invitava a lottare contro il costituendo C.E.A.I.S. e diceva, tra le altre cose: «Per far ammutolire il nazionalismo slavo, basta ricordare i nomi di soltanto alcuni nostri martiri, veri pionieri del progressismo e della libertà, già membri del C.L.N., quali Gabriele Foschiatti, Pisoni, Reti, Maovaz, Sartori, Spagnul, Pesenti, Luigi Frausin ecc., che non si sono certo sacrificati per la riduzione in schiavitù straniera del popolo triestino, ma per un’Italia democratica e libera fino agli estremi limiti etnici». Il manifesto proseguiva dichiarando che era colpa dell’esercito jugoslavo se si erano verificati dei combattimenti in città (evidentemente il C.L.N. contava su un accordo incruento coi nazifascisti, magari in funzione anticomunista ed antislava e riciclando i vecchi papaveri del regime come il podestà Pagnini). Il manifesto proseguiva con queste parole: «Le gravi offese ricevute dal popolo triestino dal nazionalismo jugoslavo vi siano di incitamento a togliervi ogni illusione sul decantato progressismo degli occupatori ed a guardare il pericolo che ci incombe...», e, dulcis in fundo, concludeva: «Viva Trieste veramente democratica! Viva la civiltà italiana!». Ma questo è solo l’inizio: il C.L.N. triestino si riorganizza in nuclei che produrranno manifestini ed organizzeranno l’uscita del periodico clandestino “L’osservatorio del C.L.N.”. Ma verranno anche costituiti i Nuclei di Azione Patriottica (N.A.P.), «con funzioni di sabotaggio morale degli Italiani collaboranti con le attività jugoslave» ed un «servizio di informazioni rivelatosi molto utile per i preziosi risultati ottenuti e che (...) provvede all’installazione, nella prima decade di giugno, di una radiotrasmittente in una casa...; infine un organismo (...) incaricato dell’apprestamento e della distribuzione di tricolori (...) e della preparazione ed organizzazione di manifestazioni popolari italiane»; il 7 maggio membri del C.L.N. escono clandestinamente da Trieste per prendere contatti a Venezia con organizzazioni politiche italiane; da Venezia vanno poi a Roma, «ospiti del Governo e sono ricevuti dal presidente del consiglio, Bonomi»; il 16 maggio parlano con l’ammiraglio Stone (capo della Missione Militare alleata in Italia) e sollecitano «le ambasciate estere in Roma affinché la Venezia Giulia venga occupata dalle truppe anglo-americane...» e nello stesso giorno uno della delegazione parla da Radio Roma sul “problema giuliano”. Vengono poi ricevuti anche dal Pontefice nella Biblioteca Vaticana e si recano in seguito anche a Milano dove «espongono la grave situazione politica e militare determinatasi a Trieste e nella Venezia Giulia in seguito all’occupazione della regione da parte delle truppe di Tito». Tra le attività del C.L.N. «criticate - dice Maserati - sulle pagine del “Nostro Avvenire” (il giornale del C.E.A.I.S., n.d.a.), c’è questa azione: “tre individui, sedicenti membri del C.L.N., ed in particolare un Comitato di Liberazione Triestino, che si sono presentati al C.L.N. di Venezia asserendo di aver dovuto fuggire da Trieste, perché gli slavi di Tito erano calati a Trieste dopo che la città era stata liberata dai loro reparti armati, e narrando di uccisioni in massa di migliaia di persone, colpevoli solo di essere italiani». Si noti qui l’accenno ai massacri (inesistenti) che presenta quei toni che ritroveremo in documenti diffusi a cura dei nazifascisti per creare ad arte il “mito” delle foibe, documenti che analizzeremo nel capitolo III. [...] Al di là di ogni giudizio politico sull’attività degli uni e degli altri, vorremmo far risaltare che, alla luce di questi fatti, se rappresentanti del C.L.N. sono stati arrestati ed anche fucilati dagli Jugoslavi non è stato “per il solo fatto di essere italiani”, ma per una loro precisa attività eversiva. 9. IL COLLABORAZIONISMO A TRIESTE Il fenomeno del collaborazionismo a Trieste assunse dei livelli talmente vasti da disgustare persino Christian Wirth, “der wilde Christian” , il primo “organizzatore” del lager della Risiera: «i collaboratori superstiti... hanno ben riferito del compiacimento e del disgusto espressi dal Wirth per avere trovato in questa città ed in Fiume tanta gente disposta a concretamente favorire, per motivi il più delle volte non politici, la realizzazione dei suoi piani in questo specifico tema» (l’eliminazione degli Ebrei, n.d.a. ) . Racconta Giuseppe Piemontese, che s’era trovato a lavorare, durante l’occupazione tedesca, presso l’ufficio traduzioni della cassa di malattia dell’amministrazione germanica assieme ad un amico di famiglia, il dott. Degner, «il quale, pur non avendo precise convinzioni politiche, era fondamentalmente antinazista. Ebbene, egli mi faceva vedere ogni tanto lettere anonime indirizzate a Rainer (e non erano poche, a disonore della città), nelle quali si denunziavano cittadini, solitamente per bassi rancori personali». Piemontese passava i nominativi dei denunciati ad altri impiegati della cassa di malattia che provvedevano a mettere sull’avviso gli interessati, salvandone così diversi dalla deportazione e dall’arresto. Ma purtroppo non tutti i triestini erano come questi... Uno studio serio sul collaborazionismo triestino non è mai stato fatto, ma basta spulciare un po’ tra i testi che parlano della Risiera di S. Sabba o dare un’occhiata agli atti dei processi conservati presso l’Archivio dell’I.R.S.M.L. di Trieste, per comprendere a quale livello fossero giunti i nostri concittadini di cinquant’anni fa. Dai delatori di Ebrei, che per ogni Ebreo consegnato ricevevano un “premio” di 10.000 lire, a quelli che “vendevano” partigiani, ai vari bottegai che, sentendo di sfuggita nei loro negozi parole “critiche” nei confronti del regime, si adoperavano per far arrestare gli incauti che avevano parlato troppo... Ma oltre a questa “collaborazione diffusa”, c’erano anche quelli che si applicavano seriamente a lavorare coi nazisti. Da: “S. Sabba. Istruttoria e processo per il Lager della Risiera” : «Così a Trieste, capitale del Litorale e sede dei principali comandi e uffici nazisti, una schiera di centinaia di civili entrò a far parte dell'organico del Supremo Commissariato di Rainer e di quello dello SD-SIPO e dello stesso EKR di Wirth e di Allers, con una molteplicità di mansioni: dall’interprete di fiducia che procedeva anche agli interrogatori degli arrestati ed alla compilazione di veri e propri rapporti informativi, all’amministratore di beni mobili e immobili sequestrati alle vittime, dal segretario di vari comandanti SS e Polizia al centralinista, dal semplice impiegato all’addetto a lavori di manutenzione». Nel corso delle indagini per il processo del lager della Risiera il giudice Serbo di Trieste scoprì presso gli archivi dell’INPS alcuni elenchi di impiegati civili dipendenti dall’SD-SIPO per i quali i tedeschi pagavano regolari contributi previdenziali e per l’assistenza malattie. Erano 156 i dipendenti con varie mansioni dal comando SD-SIPO del Litorale Adriatico e 212 dipendenti dal capo di polizia ed SS Globocnik, Gestapo, questi ultimi classificati tutti genericamente come “personale impiegatizio”, mentre dei primi 156, 74 erano classificati come interpreti, v’erano poi impiegati, autisti ed altro ed 8 erano “freiwillig”, ovvero “volontari”, denominazione data ai «partigiani disertori passati al servizio della polizia tedesca e stipendiati» . Nello stesso capitolo del testo sopra citato troviamo due nomi di “deportati” a Lubiana. Il primo è Antonio Micolini, che dai dati dello stato civile avevamo come “insegnante”: in realtà «era il principale collaboratore del maggiore Mätzger dell'Ufficio IV (Gestapo), partecipando agli interrogatori condotti dai nazisti con ogni sorta di sevizie». Il secondo è il giornalista Ettore Testore, già agente dell’OVRA e squadrista, che già nel 1932 aveva fatto arrestare diversi antifascisti. All’arrivo dei tedeschi Testore si offrì come “collaboratore” scrivendo una lettera direttamente al Supremo Commissario della Zona di operazioni Litorale Adriatico. In questa lettera Testore «in considerazione delle sue capacità di giornalista politico antinglese o antibolscevico (cita ad esempio tutti i suoi scritti pubblicati in questi ultimi anni dal giornale Il Piccolo), coerente alle proprie opinioni..., simpatizzando integralmente per il nazionalsocialismo, si offre per una collaborazione ai Servizi Stampa e Propaganda di Codesto Supremo Commissariato». Testore specifica d’altra parte che si trova senza «incarico serio» e deve «provvedere d'urgenza alla propria sistemazione», visto che al momento aveva soltanto una collaborazione a Radio Litorale (la radio di propaganda dei nazisti). Evidentemente il Supremo Commissario accolse l’offerta di Testore e gli diede degli incarichi, infatti troviamo Testore (che si firmava anche Tito o Lucio Speri), alla direzione di “radio Franz”, la radio che trasmetteva dalla stessa sede di radio Litorale (nel palazzo della Telve, ora Telecom in piazza Oberdan). [...] |