È stupefacente notare come il titolo di questo articolo corrisponda in pieno alla definizione che il Presidente Napolitano ha assegnato agli eventi che fanno capo all’esodo dei profughi italiani dall’Istria ed agli assassinati nelle foibe. Eppure, può significare esattamente il contrario.
Durante le celebrazioni del “Giorno del Ricordo”, il presidente dell’Associazione degli esuli della Venezia Giulia, Lucio Toth, dichiarava che dopo tanti anni si poteva sperare di raggiungere per quegli eventi “una memoria almeno condivisa, se non comune [1]”. Da condividere con chi? È un traguardo che ci si prefigge di raggiungere all’interno della sola popolazione italiana, oppure con gli altri popoli che vissero quelle tragedie?
Una risposta è giunta dal presidente croato Stipe Mesic, che si è detto "costernato" per le dichiarazioni del presidente italiano nell’occasione della ricorrenza, e che scorgeva in quelle parole “elementi di aperto razzismo, revisionismo storico e revanscismo politico" [2].
Come inizio non c’è male, verrebbe quasi da dire: alla faccia della “memoria condivisa”!
Quali sono state le esatte parole di Napolitano, riportate dall’ANSA nel giorno stesso della commemorazione?
''Non dobbiamo tacere. Dobbiamo assumerci la responsabilità di aver negato o teso a ignorare la verità, per pregiudiziali ideologiche e cecità politica, e di averla rimossa per calcoli diplomatici e convenienze internazionali”.
Limpido come l’acqua.
“La congiura del silenzio fu la fase meno drammatica ma ancor più amara e demoralizzante dell'oblio. Per fortuna abbiamo posto fine a un non giustificabile silenzio”.
Parole sacrosante.
Infine, Paolo Barbi, presidente storico dell'Associazione dei giuliano-dalmati, ha ringraziato Napolitano e in una breve ricostruzione storica ha voluto ricordare che purtroppo la tragedia delle foibe, la persecuzione degli italiani residenti in Istria, aveva anche radici storiche. “Allora, esplosero vendette e odi covati nell'esasperazione nazionalistica durata decenni, nel clima della guerra totale, impietosa dei regimi totalitari.”
Come si potrà notare, le parole di Barbi sono meno improntate alla retorica e si avvicinano alle dichiarazioni di Toth, ovvero richiamano anch’esse la necessità di una memoria condivisa.
Sembra quasi che esistano due diversi punti di vista - ancora separati dopo tanti anni - ovvero quello della classe politica italiana e quello degli esuli. Paradossalmente - ma non troppo - sono proprio gli esuli, ossia coloro che patirono sulla loro pelle le sofferenze, quelli che cercano - e sembrano quasi chiedere – delle “aperture” per piantare infine un ramo d’olivo su quei poveri morti.
Cosa impedisce la condivisione di una memoria? Essenzialmente, l’omissione.
Non si tratta di giudicare o giustificare le dichiarazioni di Napolitano o di Mesic, ma di capire che sono entrambe inquinate da importanti omissioni.
Se le colpe dei partigiani jugoslavi sono note – ossia che fu dato inizio ad una caccia indiscriminata agli italiani – lo sono meno quelle delle truppe italiane d’occupazione.
Nascondere le responsabilità jugoslave è puerile: lo stesso Tito si rese conto che la situazione stava sfuggendo a qualsiasi controllo, ed inviò il suo “braccio destro” - Kardelj - a Lubiana con l’ordine di fermare i massacri, lanciando la parola d’ordine “italiano non necessariamente significa fascista”. Quando Kardelj giunse a Lubiana, la tragedia delle foibe era già compiuta e nessuno era più in grado di controllare gli eventi, da Trieste a Zara. Ci sono molte testimonianze di partigiani italiani che avevano combattuto con le formazioni di Tito e che furono costretti a fuggire, pena la morte. Cosa poteva aver scatenato un simile inferno? La precedente omissione.
Il “buco nero” che appare evidente nelle ricostruzioni di parte italiana è mostruoso, enorme: i periodi incriminati vanno dal 1943 al 1946, dimenticando che - prima di quel periodo - c’erano stati il 1941 ed il 1942.
Dall’aprile del 1941, gli italiani controllavano quasi metà del territorio jugoslavo: in pratica, la Jugoslavia fu divisa fra una parte continentale (sottoposta ai tedeschi) ed una dalmata, assegnata agli italiani. Le truppe italiane si trovarono quindi a controllare gran parte della Slovenia e della Croazia, parte della Bosnia ed il Montenegro.
Come in Italia nel periodo 1943-1945, agivano in Jugoslavia delle formazioni partigiane: non è possibile, in questa sede, ricostruire fedelmente il complesso organigramma della resistenza jugoslava, poiché ci vorrebbe una trattazione assai lunga e complessa. Essenzialmente, possiamo affermare che la divisione dei campi fu ancor più accentuata che nel resto d’Europa: le formazioni comuniste di Tito furono quelle maggioritarie, ma anche i nazionalisti serbi combatterono i tedeschi (e si scontrarono con quelle di Tito). In Croazia, invece, c’erano formazioni partigiane e divisioni croate che affiancavano gli italiani ed i tedeschi: la “resa dei conti” finale, quindi, fu una tragedia che coinvolse sia gli italiani sia gli jugoslavi.
Ovviamente - come i repubblichini di Salò - le truppe italiane combattevano le formazioni partigiane, e sembra quasi che i tristi metodi della rappresaglia e delle esecuzioni di massa, avvenute poi in Italia nel periodo 1943-1945, abbiano avuto un prodromo in quelle terre ed in quegli anni.
Ci sono numerose fonti che hanno indagato quegli eventi, scrittori che hanno analizzato a fondo quegli anni: voglio ricordare soltanto il "Si ammazza troppo poco" di Gianni Oliva, perché sarebbe lungo soffermarsi sui molti contributi di tanti autori e storici.
Per fare soltanto una breve carrellata sui misfatti italiani, bastano pochi estratti da documenti ufficiali dell’epoca, ovvero dai diari militari delle unità italiane in Jugoslavia. Ecco qualche esempio:
R I S E R V A T O
COMANDO SUPERIORE FF.AA. “SLOVENIA E DALMAZIA”
( 2^ ARMATA )
C I R C O L A R E N. 3 C
1° dicembre 1942-XXI°
(omissis)
CAPITOLO II°
MISURE PRECAUZIONALI NEI CONFRONTI DELLA POPOLAZIONE
15 - Quando necessario agli effetti del mantenimento dell'O.P. e delle operazioni, i Comandi di G.U. possono provvedere:
a) - ad internare, a titolo protettivo, precauzionale o repressivo, famiglie, categorie di individui della città o campagna, e, se occorre, intere popolazioni di villaggi e zone rurali;
b) - a “fermare” ostaggi tratti ordinariamente dalla parte sospetta della popolazione, e, - se giudicato opportuno - anche dal suo complesso, compresi i ceti più elevati;
c) - a considerare corresponsabili dei sabotaggi, in genere, gli abitanti di case prossime al luogo in cui essi vengono compiuti.
16 - Gli ostaggi di cui in b) possono essere chiamati a rispondere, colla loro vita, di aggressioni proditorie a militari e funzionari italiani, nella località da cui sono tratti, nel caso che non vengono identificati - entro ragionevole lasso di tempo, volta a volta fissato - i colpevoli.
- Gli abitanti di cui in c), qualora non siano identificati - come detto sopra - i sabotatori, possono essere internati a titolo repressivo; in questo caso il loro bestiame viene confiscato e le loro case vengono distrutte.
(omissis)
CAPITOLO X°
40
(omissis)
- AL GRIDO: "SECONDA ARMATA A ME!” LANCIATO DA UN MILITARE COMUNQUE IN PERICOLO, TUTTI I COMPONENTI DELL'ARMATA CHE LO ODONO DEBBONO ACCORRERE A DARE AL CAMERATA, A QUALUNQUE COSTO, MAN FORTE.
41 - Si sappia bene che eccessi di reazione, compiuti in buona fede, non verranno mai perseguiti.
(omissis)
IL GENERALE
COMANDANTE DESIGNATO D'ARMATA
F.to (Mario Roatta)
|
Il documento è agghiacciante, e non si comprende (?) come sia passato indenne all’esame delle commissioni alleate al termine delle ostilità. Si noti come, al comma b dell’art. 15, si ordinasse di “fermare ostaggi” mentre al successivo art. 16 gli stessi ostaggi fossero chiamati a rispondere con la vita nel caso non fossero identificati i colpevoli degli atti ostili. A completare il quadro, quel sinistro “Si sappia bene che eccessi di reazione, compiuti in buona fede, non verranno mai perseguiti” che suona come una campana a morto.
Difatti, per anni le truppe italiane uccisero, bruciarono villaggi, internarono le popolazioni in campi di prigionia, distrussero raccolti e confiscarono bestiame: insomma, niente di diverso dal comportamento dei nazifascisti in Italia.
Ecco a cosa condussero quei proclami:
31.07.1942, Dane, Slovenia: soldati italiani fucilano partigiani jugoslavi
(questa fotografia e quelle che seguono molto spesso sono state usate per testimoniare le stragi
compiute dai partigiani jugoslavi ai danni di italiani: su questa ignobile manipolazione vedi qui)
Montenegro: un militare italiano malmena alcuni prigionieri che stanno per essere fucilati
Montenegro: prima dell’esecuzione alcuni partigiani salutano col pugno chiuso
Montenegro: i primi ostaggi cadono sotto i colpi dei soldati italiani
Montenegro: dopo l’esecuzione
27 luglio 1942, Zavrh pri Cernici: una delle pratiche più in uso in quegli anni:
far scavare la fossa ai condannati prima di fucilarli
Un altro criminale di guerra conclamato - il gen. Robotti - avvertiva però la necessità di precisare meglio i termini della repressione. Sembra quasi che i soldati italiani stentassero a comprendere cosa dovessero fare.
Allegato n. 10
al diario storico militare del giorno 4 luglio 1942-XX
COMANDO XI° CORPO D'ARMATA
Uff. Operazioni
- - - - - - - - - - - - - - - - -
N.02/6246/Op.
OGGETTO: Proclama.
ALL'ECCELLENZA EMILIO GRAZIOLI
Alto Commissario per la Provincia di L u b i a n a
È intendimento dell'Ecc. Generale Roatta che all'inizio del prossimo ciclo di operazioni di grande rastrellamento, venga emanato il proclama annesso.
(omissis)
2°) - A partire da oggi nell'intera Provincia di Lubiana, saranno immediatamente passati per le armi:
- coloro che faranno comunque atti di ostilità alle autorità e truppe italiane;
- coloro che verranno trovati in possesso di armi, munizioni ed esplosivi;
- coloro che favoriranno comunque i rivoltosi;
- coloro che verranno trovati in possesso di passaporti, carte di identità e lasciapassare falsificati;
- i maschi validi che si troveranno in qualsiasi atteggiamento - senza giustificato motivo - nelle zone di combattimento.
(omissis)
1°)- che il rastrellamento sia metodico e completo al massimo, per evitare che attraverso le maglie del dispositivo sfuggano elementi ribelli;
2°)- fucilare senza pietà gli uomini validi che nelle retrovie fossero sorpresi in atteggiamento sospetto lungo le strade ed a tergo delle nostre colonne.
(omissis)
b)- Chi compie comunque atti di ostilità alle autorità o truppe italiane - chi venga trovato in possesso di armi, munizioni ed esplosivi - chi favorisca comunque i rivoltosi - chi venga trovato in possesso di passaporti, carte di identità e lasciapassare falsificati. deve essere passato per le armi.
Non ammetto che gente colpevole di quanto sopra venga deferita ai tribunali od internata; dev'essere soppressa.
(omissis)
e)- La misura ultima del n.II dell'ordinanza (""... saranno passati per le armi...i maschi validi che si troveranno in qualsiasi atteggiamento - senza giustificato motivo - nella zona di combattimento"") deve essere intesa ed applicata nel modo seguente:
1°) I maschi validi trovati, in qualsiasi atteggiamento, in zona di combattimento, in aperta campagna dall'avanti sino alla linea di schieramento delle artiglierie, non possono essere considerati (per ovvi motivi) che come ribelli o favoreggiatori dei ribelli. E pertanto passati per le armi.
2°) I maschi validi trovati in abitazioni isolate, gruppi di case e centri abitati, sempre quando non siano rei degli atti contemplati nei precedenti articoli del n.II dell'ordinanza, saranno tutti arrestati. Quelli che fra essi non siano del luogo saranno passati per le armi come quelli incontrati in aperta campagna.
3°) Saranno pure arrestati i maschi validi che affluiscono in abitazioni isolate, gruppi di case e centri abitati, dopo la nostra occupazione. Quelli che fra essi non risulteranno del posto, o che non rientrino colle proprie famiglie (circostanza questa che giustificherebbe la loro assenza al momento della nostra occupazione) saranno passati per le armi.
(omissis)
IL GENERALE DI CORPO D'ARMATA
COMANDANTE
F/to Mario Robotti |
Dalla lettura di questi documenti e dalle foto appare evidente - quasi salta agli occhi - come fosse difficile scansare la morte in quegli anni se si aveva la “colpa” di non essere italiani. Gente trovata “in aperta campagna” deve essere fucilata all’istante: tutto ciò nei confronti di una popolazione in gran parte dedita all’agricoltura!
I vari omissis che ho inserito non servono a coprire chissà quali incoerenze presenti nei testi - che tutti potranno visionare su http://www.criminidiguerra.it - ma a ridurre semplicemente le dimensioni dei documenti per soffermarsi meglio sugli aspetti essenziali ed incontrovertibili.
Il numero delle vittime causate dall’occupazione italiana varia molto, secondo le fonti: le più basse, però, non scendono sotto le 100.000 unità.
Gli italiani, però, ribattono che la vendetta furono le foibe. Ora, due tragedie non si sanano l’un l’altra, bensì si sommano: questo è il terribile significato di quegli eventi, che dovrebbe condurre ad una riflessione comune e non a delle liti da galletti in un pollaio. Ma le foibe furono un’invenzione degli jugoslavi per vendetta nei confronti degli italiani? Furono i primi ad usarle?
Ascoltiamo Predrag Matvejevi?, scrittore croato e docente all’Università “ La Sapienza ” di Roma:
Il ministro fascista dei lavori pubblici Giuseppe Caboldi Gigli, che si attribuì l'appellativo vittorioso di "Giulio Italico", scrive nel 1927: “La musa istriana ha chiamato con il nome di foibe quel luogo degno per la sepoltura di quelli che nella provincia dell'Istria danneggiano le caratteristiche nazionali (italiane) dell'Istria” ("Gerarchia", IX, 1927). Lo zelante ministro aggiungerà a ciò anche dei versi di minacciose poesie, in dialetto: "A Pola xe arena, Foiba xe a Pazin" ("A Pola c'è l'arena, a Pisino la foiba").
Pazin si trova a poche decine di chilometri da Pola, verso il centro dell’Istria, e già in quegli anni i fascisti avevano scoperto quel triste metodo per cancellare i loro crimini. Perché?
La ragione era stata spiegata chiaramente da Benito Mussolini stesso in un suo discorso tenuto a Pola il 20 settembre 1920:
“Per la creazione del nostro sogno mediterraneo, è necessario che l'Adriatico, che è il nostro golfo, sia in mano nostra; di fronte alla inferiorità della razza barbarica quale è quella slava”
Queste furono le premesse della tragedia: ciò che avvenne al termine delle ostilità fu la vendetta. Ovviamente, nessun crimine ne può cancellare un altro: in quelle terre, andò in scena lo stesso “copione” che avvenne in Italia al termine delle ostilità. Nel solo Friuli, sempre secondo Matvejevi?, ci furono circa 10.000 esecuzioni sommarie senza processo ed in Francia 50.000. Non sappiamo se queste cifre sono esatte, per difetto o per eccesso, ma sappiamo che in tutto il Nord Italia avvennero moltissimi di questi episodi.
Voglio precisare che questo articolo non intende aggiungere nulla a quanto è risaputo da chi ha condotto serie ricerche storiche: si tratta proprio della classica “scoperta dell’acqua calda”.
Gli unici a non sapere dell’esistenza dell’acqua calda sembrano i politici italiani: nonostante il richiamo alla “memoria condivisa” che giunge dagli esuli, il coro di condanna per le parole di Mesic è stato unanime.
Ora, definire “razzista” il discorso di Napolitano è sbagliato, ma carente e colmo d’omissioni sì.
Peggio ancora hanno fatto i corifei di regime: da Fini a Bertinotti, un solo coro d’approvazione e di completa negazione delle ragioni altrui. Saranno così poco informati, oppure c’è dell’altro?
Fin qui le storie di ieri: purtroppo c’è dell’altro, e stupisce che in tutto l’arco parlamentare non si sia levata una sola voce di protesta per l’omissione delle responsabilità fasciste. A meno che – a fronte dei tanti crimini di guerra commessi – basti la sbrigativa affermazione di D’Alema “che l’Italia non nega le colpe del fascismo”. Ci mancherebbe ancora.
Riflettiamo che Germania e Giappone subirono processi e condanne: noi, nulla, eppure ci furono circa 1.200 criminali di guerra italiani acclarati dalle commissioni alleate, nessuno dei quali pagò, perché furono immediatamente “riciclati” in un fervente anticomunismo.
E i comunisti?
Anch’essi ebbero la loro parte, perché Tito consumò presto lo “strappo” da Stalin e la Jugoslavia fu l’unico paese comunista europeo a non far parte del “Patto di Varsavia”. A Trieste fu inviato uno degli “uomini forti” del partito - Vittorio Vidali - per riportare il PCI giuliano sotto l’egida di Mosca: dalle nostre parti, evidentemente, si preferiva sostare all’ombra della protettiva quercia del dittatore georgiano.
Se quelle lontane vicende sembrano non avere più senso oggi, dovremmo chiederci perché nessun esponente della sinistra “tradizionale” - Fassino, Diliberto, Bertinotti - ha avuto il coraggio di dire “beh” e si sono appiattiti sulle posizioni di Fini.
Gianfranco Fini ha dichiarato, con tono sibillino: “Certamente le parole di Mesic creano più di un problema, perché un Paese entra nell’UE soprattutto se rispetta la verità storica". Che è, evidentemente, quella di Fini.
In altre parole, si cerca di barattare l’ingresso della Croazia in Europa con delle improbabili revisioni dei trattati stipulati a suo tempo con la Jugoslavia: non è nemmeno chiaro quali siano le mire italiane, perché sollevare altri “polveroni” nella polveriera balcanica può portare solo a nuovi dolori.
Ora, ci sono molte ragioni per frapporre dubbi all’ingresso della Croazia nell’UE: una nazione che ha compiuto recentemente una delle più feroci pulizie etniche avvenute in Europa, che ha tuttora in sospeso la questione del riconoscimento delle proprietà dei serbi scacciati, un luogo dove sono state “epurate” chiese ortodosse e moschee.
Mille e una ragione per discutere sull’ingresso della Croazia nell’UE, ma non i trattati che condussero alla stabilizzazione dell’area giuliana e del Quarnaro.
Queste ragioni - del tutto pretestuose - sono ancora una volta il caleidoscopio dell’imperialismo italiano, straccione e voltagabbana, che tratta fino all’ultimo con Vienna nel 1915 per avere qualche territorio in più nel Friuli e poi gioca la carta dell’alleanza con Francia e Gran Bretagna.
Oppure quello di Mussolini, che tratta fino a settembre inoltrato del ‘39 con la Gran Bretagna per fermare Hitler, mentre dall’altra fa ad Hitler richieste inaccettabili - per quantità di materie prime - per entrare in guerra al suo fianco. Entra poi in guerra soltanto quando la Francia è in ginocchio, sperando di raccogliere le briciole al tavolo della pace.
È lo stesso imperialismo straccione che manda i nostri soldati in Bosnia a bonificare le zone colpite dai missili all’Uranio impoverito con la sola protezione dei guanti di lattice mentre - chissà perché - i soldati americani, poco più in là, non si avvicinano ai tank distrutti senza le tute anti-radiazioni.
Imperialismo mascherato, che ci porta in Iraq a difendere i nostri interessi petroliferi travestendo la nostra spedizione con l’eufemismo della “missione di pace”, quando gli stanziamenti dell’operazione “Antica Babilonia” erano divisi in un 6% per le infrastrutture civili ed un 94% per la parte militare.
Di fatto, abbiamo pattugliato per quasi tre anni il sud dell’Iraq sotto comando britannico.
Imperialismo voltagabbana: pronti a cedere la sovranità nazionale autorizzando ai nostri velivoli di bombardare la Serbia - senza nessuno straccio di copertura dell’ONU - oppure ad inviare migliaia di soldati in Libano (solo quando fu evidente che Israele era nei guai) sotto comando francese. Una continuità storica agghiacciante.
Per queste ragioni sarebbe importante che gli italiani prendessero coscienza dei drammi causati fuori dei loro confini: dai Balcani all’Africa, dove siamo stati fra i più feroci colonizzatori.
Perché - se la coscienza italiana è così limpida - la RAI non trasmette il documentario storico “Fascist Legacy” (L’eredità del fascismo) prodotto dalla BBC e già trasmesso in Francia ed in Gran Bretagna? Perché se ne è assicurata i diritti e poi lo custodisce gelosamente nei suoi archivi? Perché è proibito proiettare nelle sale cinematografiche italiane il film “Il Leone del deserto”, che narra delle atrocità commesse in Libia? Perché non c’è un solo uomo politico - fra i tanti che siedono in Parlamento - che chiede finalmente di conoscere la verità su quegli eventi?
Altrimenti - come affermò Sciascia - rimarremo sempre un paese “senza memoria e senza verità”: un paese di “Grandi Fratelli” e telefonino-dipendenti, che muta sempre il pelo senza mai perdere il vizio della menzogna e del misero tornaconto di bottega.
grazie a: http://www.disinformazione.it/
Corrado Stajano |
Vendetta fascista: testa per dente. Le rappresaglie degli italiani in Jugoslavia |
Come doveva essere l'italiano fascista? Un vero maschio, d'acciaio. Mussolini, a Gorizia, il 31 luglio 1942, detta la linea: «Non temo le parole, sono convinto che al "terrore" dei partigiani si deve rispondere con il ferro e con il fuoco. Deve cessare il luogo comune che dipinge gli italiani come sentimentali incapaci di essere duri quando occorre. Questa tradizione di leggiadria e tenerezza soverchia va interrotta (...) è cominciato un nuovo ciclo che fa vedere gli italiani come gente disposta a tutto».
I suoi generali sono concordi. Mario Roatta, comandante della II armata in Jugoslavia, futuro criminale di guerra sfuggito a ogni sanzione, è il modello dell'italiano nuovo. Nella sua circolare 3C ordina ai suoi sottoposti di uccidere gli ostaggi, di incendiare i villaggi, di deportare gli abitanti infedeli: «Il trattamento da fare ai ribelli non deve essere sintetizzato nella formula dente per dente, bensì in quella testa per dente». Il generale di corpo d'armata Mario Robotti fa parte di quel cerchio magico di guerrieri dal volto umano: «Si ammazza troppo poco!», scrive in un documento. Il generale d'armata Alessandro Pirzio Biroli, governatore del Montenegro, è anche lui di quella feroce partita: lamenta l'eccessiva mitezza verso i rivoltosi «selvaggi» e conclude così un suo proclama: «La favola del "bono italiano" deve cessare!».
Si intitola proprio Bono Taliano la tragica cronaca di Giacomo Scotti (Odradek editore), giornalista per decenni del quotidiano «La voce del popolo» di Fiume, autore conosciuto di un altro libro importante per la storia delle vicende successive alla Seconda guerra mondiale, Goli Otok, l'atroce Isola Calva, nel Quarnero, dove Tito confinava i dissidenti rimasti fedeli all'Unione Sovietica dopo la rottura con Mosca. (Claudio Magris ne ha narrato l'orrore di sangue e di violenza nel suo memorabile Alla cieca).
Il libro di Scotti, pubblicato nel 1977, rivede la luce oggi con una corposa appendice dell'autore, che completa l'opera con la ricca documentazione trovata negli archivi, soprattutto dell'ex Jugoslavia. Bono Taliano racconta le vicende del nostro regio esercito, da quando nell'aprile 1941 invase la Jugoslavia all'armistizio del settembre 1943, ma racconta anche la guerra partigiana fino al 1945 e spiega le ambizioni di Tito sulla Venezia Giulia.
Quel che accadde nell'ex Jugoslavia durante la Seconda guerra mondiale può fare da spaventevole simbolo della violenza e della degenerazione di un conflitto che viola anche le norme più elementari del diritto internazionale.
Le guerre nei Balcani sono sempre un inferno, ma la barbarie, in quegli anni, fece in assoluto da padrona. La violenza fu alimentata da etnie diverse e da nazionalismi esasperati. Gli italiani e i tedeschi contro i partigiani di Tito che, operaio metallurgico, seppe diventare un grande stratega e un sottile politico. E poi: gli ustascia, il partito croato di estrema destra fondato da Ante Pavelic nel 1929, e i cetnici contro i titini; i serbi monarchici contro i bosniaci musulmani; gli albanesi del Kosovo contro serbi e montenegrini. La guerra nei Balcani fu insieme guerra d'aggressione, guerra di liberazione nazionale, guerra civile, guerra ideologica, guerra di religione.
Nell'esercito italiano le inquietudini e i contrasti cominciarono presto. Le camicie nere seguirono i precetti di Mussolini e degli alti gradi, i soldati dell'esercito e gli ufficiali inferiori non nascosero invece il loro disaccordo sulle fucilazioni, le stragi, gli incendi dei villaggi, le deportazioni di massa. Le diserzioni furono sempre più numerose anche prima dell'armistizio: gli italiani che passarono dalla parte dei partigiani divennero la costante preoccupazione dei comandi.
Giacomo Scotti è un po' troppo benevolo nei confronti delle brigate titine, che non furono angeli di umanità. Ma colpiscono certi minuti documenti come le lettere dei soldati italiani bloccate dall'occhiuta censura e finite negli archivi. Il fascismo non è la patria, i giovani mandati alla ventura cominciano a capirlo e rifiutano la guerra. Scrive un capitano a una signora di Genova il 14 luglio 1942: «Mi sento un boia. A furia di vedere barbarie incattivisco, non ho pietà nemmeno io stesso, comincio a restare impassibile dinanzi alla rovina».
Ci sono quelli che non posseggono neppure un barlume di umanità. Nel giugno 1943, il generale Pirzio Biroli fa fucilare 180 ostaggi per vendicare la morte in combattimento di 9 ufficiali del 383° reggimento fanteria: 20 a 1, una rappresaglia assai più feroce di quella nazista alle Fosse Ardeatine.
L'autore racconta con minuzia di fonti. Documenta le operazioni militari nazifasciste fallite, la Weiss, la Schwarz, descrive le innumerevoli stragi, le deportazioni, le fucilazioni: basta un sospetto. Il suo libro può essere molto utile per il lavoro degli storici.
Gli italiani non hanno ubbidito certo tutti alla volontà di Mussolini e dei generali. Il 12 marzo 1943 - un esempio - il vescovo di Trieste Antonio Santin scrive al sottosegretario agli Interni di Mussolini, Buffarini Guidi, una lettera accorata e indignata: «Uomini e donne vengono seviziati nel modo più bestiale (...). Per l'onore dell'umanità e per il buon nome dell'Italia, per il rispetto della legge e dell'autorità questi fatti devono cessare».
di seguito immagini tratte da: G. Piemontese, Ventinove mesi di occupazione nella provincia di Lubiana. Considerazioni e documenti, Lubiana, 1946
- come ricorda http://www.diecifebbraio.info il libro, pubblicato a Lubiana, in Italia fu sequestrato.
Gianni Oliva |
"Si ammazza troppo poco"
I crimini di guerra italiani 1940 - 43 |
Mondadori, 2006, pp. 114 - 126 (le note sono omesse)
...
«Non dente per dente, ma testa per dente»
Il 19 gennaio 1942 il generale Mario Roatta assume il comando della 2a Armata, stanziata in Slovenia, sostituendo il generale Vittorio Ambrosio. La situazione dell'ordine pubblico a Lubiana e dintorni è difficile: episodi di aggressione e disarmo di soldati italiani stanno moltiplicandosi, attentati vengono compiuti nella capitale e sulla linea ferroviaria per l'Italia, la popolazione manifesta atteggiamenti di disprezzo e di ostilità verso gli occupanti e di progressiva connivenza con i resistenti, I'OF (Fronte di liberazione) si rivela un capace centro di organizzazione della guerriglia sotto la guida dei principali esponenti del comunismo sloveno (tra cui spiccano Edvard Kardelj e Josip Vidmar). Emilio Grazioli, alto commissario, sostiene si debba reagire agli attacchi del ribellismo sloveno con una linea «morbida», mosso in questa scelta non tanto da senso della moderazione, quanto dalla preoccupazione di difendere il suo ruolo di massima autorità civile in quella che ufficialmente è una «provincia annessa» e non un territorio occupato; all'opposto Mario Robotti, comandante dell'XI Corpo d'Armata, lamenta da tempo la prova di debolezza che l'Italia sta fornendo e sostiene la «necessità di agire al primo indizio ed energicamente contro gli elementi sospetti ed i sabotatori». Il 24 ottobre 1941, lo stesso Robotti ha emanato la prima direttiva antiguerriglia, invitando i suoi ufficiali a «orientare i corpi, le armi e le anime di tutti i dipendenti alla diffidenza verso la popolazione» e raccomandando che «la reazione ad eventuali attentati sia immediata, violenta, decisa, energica e, se necessario, completata dalla distruzione dell'abitato».
In una situazione d'emergenza, secondo Robotti, è «meglio esagerare piuttosto che rischiare di venire sorpresi».
L'arrivo di Roatta segna una svolta nella politica occupazionale, e la linea sostanzialmente difensiva condotta sino ad allora in Slovenia si muta in aggressiva, smentendo i propositi di integrazione perseguiti da Grazioli: «Nei disegni e nella mentalità del nuovo comandante il ruolo delle autorità civili avrebbe dovuto essere assolutamente subordinato alle Forze armate».
Il 23 febbraio Lubiana viene sottoposta ad un rastrellamento capillare, con una cintura di reticolati e posti di blocco che la isolano dal retroterra; tutti i giovani tra i 20 e 30 anni vengono radunati in appositi centri di raccolta dove sono identificati ed interrogati, quattro persone vengono uccise perché sospettate di esser attivisti dell'OF, oltre duecento arrestate. «Basta, dico basta con procedimenti da tempo e da mentalità di pace» ordina il nuovo comandante della 2a Armata ai suoi sottoposti; e Robotti, in sintonia con lui sulla scelta di una «linea dura», ribadisce: «Finiamola di considerarci in pace». Viene ordinato il sequestro di tutti i fucili da caccia sull'intero territorio della provincia, stabilite punizioni per il personale sanitario che presta soccorso a partigiani feriti o malati, disposto il taglio dei boschi lungo strade e ferrovie per rendere più difficili gli agguati, persino regolamentato l'uso delle campane delle chiese per impedire ai sacerdoti di usarle come mezzo di segnalazione dell'arrivo di truppe italiane.
In questo clima matura la «Circolare 3 C», emanata da Roatta il 1° marzo 1942 e contenente le disposizioni fondamentali per la difesa dell'ordine pubblico sul territorio di competenza dell'Armata: si tratta di un volume di oltre duecento pagine (di cui sarebbe stata realizzata una seconda edizione nel dicembre successivo) in cui si elenca in articoli successivi un piano di «normalizzazione» della provincia, indicando misure draconiane e demandando ai singoli Corpi d'Armata l'incarico di predisporre i relativi piani operativi. Il testo affronta diversi temi, dai concetti basilari al servizio informazioni, alle norme di sicurezza e protezione, all'organizzazione del territorio e dei presidii, alle operazioni militari e al trattamento da usare con le popolazioni e i partigiani nel corso delle azioni. La prima cosa da notare è che «la circolare non contiene alcun riferimento al fascismo, alle sue aspirazioni di conquista, alla missione civilizzatrice affidata alle armi»; al contrario, essa «fa appello ai valori tradizionali come lo spirito di corpo, la solidarietà con i compagni, l'orgoglio del combattente», ponendosi quindi nell'ottica di una «guerra militare e non politica».
All'inizio del 1942, la prospettiva della conquista dello «spazio vitale» e della creazione di un sistema di Stati satelliti nei Balcani è ormai tramontata, per lasciare il posto alla realtà dell'occupazione di territori ostili, la cui responsabilità è interamente demandata all'attivismo delle truppe. La seconda osservazione è che la circolare dà per scontato il basso livello di addestramento delle truppe e dei quadri: «Ciò di cui quadri e truppe avevano bisogno
era di un serio addestramento sul campo: le circostanze non lo permettevano» e allora si cerca di porvi rimedio con «pagine e pagine di istruzioni», molte delle quali sono «indicazioni elementari, materia di studio in qualsiasi scuola per ufficiali».
Il problema non è nuovo: già nei mesi precedenti il generale Ambrosio ha denunciato la scarsa combattività di alcuni reparti che «sono stati con troppa facilità disarmati e catturati, senza perdite sul terreno e con pochi feriti», a dimostrazione della mancanza di «una seria attitudine al combattimento». A quella che è innanzitutto una deficienza di carattere tecnico-addestrativo, Roatta cerca di sopperire con una massiccia opera di indottrinamento delle truppe e con la predisposizione di norme che non lascino spazi ad atteggiamenti di debolezza o di mediazione.
Dal punto di vista operativo, il capitolo più interessante della «Circolare 3 C» risulta l'ultimo, perché costituisce la base della successiva strategia di controllo del territorio. L'ordine di Roatta è di impiegare la massima durezza nella repressione: egli prescrive ai suoi uomini «il ripudio delle qualità negative compendiate nella frase "bono italiano"» e raccomanda che il trattamento da riservare ai ribelli non sia sintetizzato dalla formula «dente per dente» bensì «testa per dente». La circolare distingue le località occupate tra zone in «situazione normale» e zone in «situazione anormale», intendendo per queste ultime i centri abitati e le campagne dove sono in corso operazioni belliche contro formazioni armate ribelli. In queste località è previsto l'internamento (preventivo, precauzionale o repressivo) di singoli individui o singole famiglie: nel caso in cui manchino senza validi motivi maschi d'età compresa tra i 16 e i 60 anni, l'internamento può essere esteso alla popolazione dell'intero villaggio. Gli stessi provvedimenti si applicano agli abitanti di case prossime al punto in cui siano stati compiuti atti di sabotaggio a linee ferroviarie, ponti stradali, linee telefoniche o telegrafiche e depositi di materiali militari.
Chi viene sorpreso nelle zone di operazioni senza risultare residente in detta zona deve essere fermato e deferito ai tribunali di guerra per accertare eventuali connivenze con il ribellismo, così come i maschi inferiori ai 18 anni e le donne catturate: i maschi validi sorpresi nelle immediate vicinanze di un gruppo di ribelli, anche senza armi, ma con indosso uniformi o parte di uniformi militari oppure oggetti di equipaggiamento militare devono essere trattati come ribelli e passati per le armi. Se la maggioranza della popolazione di un villaggio viene individuata come fiancheggiatrice dell'OF, il villaggio stesso deve essere distrutto.
Durante le operazioni di rastrellamento, Roatta prevede inoltre l'arresto di una parte della popolazione sospetta da utilizzare come ostaggi destinati a rispondere con la propria vita di eventuali aggressioni contro militari, nel caso in cui non siano subito identificati i colpevoli: «La miglior situazione si ha quando il nemico è morto» dirà Roatta incontrando Mussolini a Fiume il 23 maggio successivo. «Occorre quindi poter disporre di numerosi ostaggi e applicare la fucilazione tutte le volte che ciò sia necessario.»
La circolare si conclude con l'avvertenza di non compiere inutili e gratuiti inasprimenti delle misure elencate, considerate dal comandante dell'Armata già sufficientemente severe, ma precisa anche che viene considerato legittimo e non perseguibile un eventuale eccesso di reazione da parte dei militari italiani, mentre non è accettabile un «atteggiamento ignavo e timoroso».
Sulla base di queste indicazioni, il generale Robotti predispone un piano operativo su larga scala, denominato «Piano primavera», con il quale la linea strategica compie il «salto di qualità» voluto da Roatta. Tra marzo e maggio le forze dell'XI Corpo d'Armata compiono azioni di rastrellamento su tutto il territorio sloveno, durante le quali le esecuzioni sommarie e gli incendi di villaggi sono all'ordine del giorno. Il 24 aprile viene emanato un bando con il quale si dispone che per ogni italiano ucciso, ferito o sequestrato dai ribelli siano fucilati «due ostaggi prescelti tra persone accusate di attività comunista e terrorista e già arrestate»; il 6 maggio un nuovo bando, sostitutivo di quello precedente, inasprisce i provvedimenti abolendo i limiti numerici delle rappresaglie e lasciando all'autorità militare la determinazione delle misure repressive «in relazione alla gravità dei crimini commessi».
All'inizio di luglio, un nuovo ciclo operativo prevede, tra l'altro, «lo sgombero del territorio per l'ampiezza di 1- 2 chilometri presso le linee ferroviarie, l'arresto in massa di universitari, intellettuali e disoccupati, le rappresaglie su ostaggi e abitati là dove l'autorità militare riscontri resistenza delle circostanze che autorizzino l'adozione del provvedimento». Occorre la massima durezza, come raccomanda Mussolini il 31 luglio 1942 in ima riunione a Gorizia con Roatta e Robotti: «Sono convinto che al terrore dei partigiani si debba rispondere con il ferro e con il fuoco. Deve cessare il luogo comune che dipinge gli italiani come sentimentali incapaci di essere duri quando occorre». Robotti interpreta alla lettera le parole del Duce e due giorni più tardi rimprovera i suoi ufficiali perché «si ammazza troppo poco.» Secondo i dati fomiti dallo storico sloveno Tone Ferenc, nel corso dei vari rastrellamenti vengono fucilati 416 singoli individui e 1153 in gruppi di due o più vittime, per un totale di 1569 persone indiziate di appoggio alla resistenza (a cui vanno aggiunti i partigiani caduti in combattimento o fucilati dopo la cattura, per i quali mancano dati precisi).
Le disposizioni di Roatta vengono riprese dai comandi che operano in Dalmazia, nel Montenegro e nelle altre zone occupate. Un'ordinanza del 7 giugno 1942 promulgata per la provincia di Zara, ed estesa nel febbraio 1943 a tutta la Dalmazia, stabilisce che «tutti coloro i quali avessero abbandonato i comuni di residenza per unirsi ai ribelli, sarebbero stati iscritti in apposite liste, compilate da ogni comune. Gli iscritti alle liste, non appena catturati, sarebbero stati passati per le armi; le famiglie degli iscritti sarebbero state considerate ostaggi e non avrebbero potuto, per nessuna ragione, allontanarsi dal comune di residenza, senza un salvacondotto rilasciato dalla Pubblica sicurezza o dai Carabinieri reali. In caso di allontanamento ingiustificato sarebbero stati passati per le armi. I beni degli iscritti alle liste sarebbero stati confiscati o venduti al miglior offerente. I capivillaggio dovevano tenersi a disposizione dell'autorità civile e militare e contribuire alla ricerca e identificazione degli iscritti nelle liste. In caso di colpevole negligenza, anch'essi sarebbero stati passati per le armi».
In Croazia, il comandante del XVIII Corpo d'Armata, generale Umberto Spigo, chiede il 12 agosto 1942 al comando superiore l'autorizzazione ad applicare alla popolazione civile lo stesso trattamento adottato durante le operazioni in Slovenia. Analoghi provvedimenti vengono presi in Montenegro dal governatore militare Pirzio Biroli.
Le repressioni suscitano giudizi contrastanti nelle stesse autorità italiane. Emilio Grazioli invia il 24 marzo 1942 una relazione al ministero degli Interni in cui denuncia «il sistema in atto dell'autorità militare di colpire popolazioni rurali inermi con l'incendio di paesi, con l'arresto in massa delle popolazioni valide e con l'asportazione di tutti i beni mobili, senza avere nell'assoluta maggioranza dei casi alcun elemento positivo a carico delle popolazioni stesse». Altri sottolineano la difficoltà nella quale operano le truppe, costrette a vivere «una vita di continui disagi, di agitazioni, di preoccupazioni per un nemico che non vedono, ma che è dovunque e sempre pronto a assalire in qualsiasi ora del giorno e della notte. Sono soldati che da due anni non conoscono riposo, non rivedono la famiglia, non si tolgono le scarpe, non fanno un bagno.»
Al di là delle considerazioni di merito e del diverso grado di efficienza (o di spregiudicatezza) con il quale le disposizioni di Roatta vengono applicate nelle varie situazioni operative, resta indubbio che la nuova strategia non risulta pagante. La durezza della reazione italiana non ferma l'aggressività del movimento partigiano, che riesce a riorganizzarsi dopo ogni rastrellamento, mentre aumenta l'ostilità della popolazione civile e il livello di scontro si alza in continuazione. Nella loro durezza impietosa, le parole di Mussolini durante il citato incontro di Gorizia del luglio 1942 rivelano una frustrazione rabbiosa, di chi reagisce con violenza nella consapevolezza della propria debolezza: «Non vi preoccupate del disagio della popolazione: se lo è voluto! Così come non mi preoccupo della chiusura dell'Università di Lubiana, che era un focolaio contro di noi. Questa popolazione non ci amerà mai». Imboccata la strada della repressione violenta, non si può che continuare con la stessa linea di condotta perché un'inversione di tendenza rappresenterebbe l'anticamera della sconfitta, «la frattura del nostro prestigio.»
Il quadro descritto richiama automaticamente il raffronto con le repressioni attuate nella stessa area dalla Wehrmacht: per gli alleati dell'Asse il movimento partigiano jugoslavo rappresenta infatti un nemico comune, anche se viene fronteggiato dai rispettivi comandi militari con operazioni non coordinate tra loro e condotte in modo indipendente gli uni dagli altri.
Per la Wehrmacht i Balcani rappresentano il teatro operativo nel quale si sperimentano tattiche che verranno riproposte in Unione Sovietica e, dopo l'8 settembre, nell'Italia centro-settentrionale. Il presupposto da cui i tedeschi partono è il carattere totale della guerra antipartigiana: «La lotta contro i partigiani è spietata, questione di vita o di morte» recita una direttiva diffusa nei primi mesi del 1943. «A questo tipo di lotta sono addetti soltanto soldati di prima qualità, che hanno un comando capace di abbracciare le situazioni mutevoli a colpo d'occhio, di soppesare le circostanze, di prendere velocemente la giusta direzione e realizzarla con salda volontà»: questo principio, ribadito in tutti i documenti precedenti e successivi, inquadra la logica operativa nei territori attraversati da fenomeni di ribellismo: «Finché per spiegare la crudeltà dei tedeschi nei paesi occupati si farà ricorso all'analisi delle sequenze di azioni partigiane e rappresaglie germaniche, ci sarà sempre spazio per spiegazioni irrazionalistiche ... Il campo di osservazione deve essere invece quello della cultura e della ideologizzazione militare durante il nazismo. La capillarità e la tenacia dell'istruzione ideologica, espressamente prevista dai documenti addestrativi, davano solide basi ai membri della polizia, delle SS e della Wehrmacht.»
Dalle premesse discendono due principali direttive di azione: in primo luogo, una pressione militare costante contro le bande per costringerle a un continuo spostamento e impedire così il consolidarsi di rapporti con la popolazione; in secondo luogo, l'intimidazione contro i civili, attraverso azioni sia preventive, sia punitive. Su questo punto, una circolare di Himmler del giugno 1942 è chiarissima: «L'azione punitiva contro i villaggi resisi colpevoli di aver appoggiato i banditi deve mettere in grado di non nuocere tutti gli elementi della popolazione che hanno messo a disposizione uomini, armi, viveri, rifugi.»
Un documento successivo, datato 27 gennaio 1943, toma sull'argomento precisando che «i villaggi conosciuti per essere nidi di banditi possono essere incendiati in via preventiva»; gli abitanti che oppongono resistenza «devono essere fucilati seduta stante»; la popolazione «catturata al completo e trasportata via».
Per realizzare con maggior efficacia le azioni contro-guerriglia, nell'estate 1942 Himmler dispone la creazione di Jagdkommando, nuclei speciali di dimensioni ridotte, ben equipaggiati e armati al meglio, costituiti da «uomini che devono essere esonerati da ogni servizio di guardia e di corvée, e si devono occupare con l'ausilio di tutte le esperienze finora fatte solo della lotta antibande.»
La strategia tedesca della controguerriglia si esprime dunque in una politica del terrore, che non prevede forme di mediazione né alleanze con determinate fasce sociali della popolazione occupata: la repressione pone civili e ribelli sullo stesso piano, introducendo una dimensione di «guerra totale» sino ad allora sconosciuta in Europa.
La tipologia delle azioni repressive previste e realizzate dalle forze italiane non è diversa da quelle fatte dalle truppe tedesche: come la Wehrmacht, così il Regio esercito utilizza una vasta gamma di misure, comprendenti «la presa di ostaggi, la distruzione e l'incendio di intere località, le rappresaglie sulle famiglie di semplici sospetti, lo sgombero di larghe zone abitate in determinate aree, il disboscamento di quelle considerate particolarmente ricettive per le formazioni partigiane, la deportazione di larghi nuclei della popolazione locale, la distruzione e il saccheggio del bestiame, l'impunità per gli eccessi compiuti.»
La differenza sta tuttavia nelle logiche alle quali la repressione risponde, conseguenza del diverso peso politico-militare dei due alleati dell'Asse e dei loro diversi obiettivi di conquista. La repressione italiana nasce dalla fragilità stessa del sistema occupazionale, dall'incapacità di affermare un sistema di autorità riconosciuta, dalla confusione e sovrapposizione fra organi amministrativi civili e comandi militari, e finisce così per avere un carattere più difensivo che offensivo: piuttosto che impegnate ad imporre il proprio ordine nei Balcani, le truppe italiane sembrano coinvolte in una spirale di attacchi e contrattacchi, dei quali è la guerriglia ad imporre i tempi. Ne è dimostrazione il fatto che le indicazioni della tattica antiguerriglia da adottare contro il fenomeno ribellistico non discendono da elaborazioni fatte centralmente dallo Stato Maggiore, ma da circolari emanate dai singoli comandi di Armata o di Corpo d'Armata, o da disposizioni dei comandi inferiori. La violenza tedesca è invece funzionale ad un sistema di potere e di controllo del territorio, viene perseguita con la collaudata determinazione repressiva tipica della Wehrmacht e si giova di un'elaborazione teorica che inizia già prima del conflitto, per poi svilupparsi in forma reattiva e innovativa nel confronto con le opposte tattiche delle resistenze armate. Come scrive Davide Rodogno, «l'esasperazione della politica di occupazione da parte dell'Italia spesso risultò essere il risvolto della sua sostanziale debolezza, mentre la spietatezza della repressione da parte della Germania ubbidì non soltanto a una maggiore forza d'urto del suo apparato militare e poliziesco, ma anche a una maggiore radicalità di obiettivi».
In secondo luogo, la strategia tedesca prevede l'utilizzo di truppe specializzate, sottoposte ad un apposito addestramento e selezionate sotto il profilo ideologico e psicologico: in una fase in cui la Germania è ancora capace di spinta propulsiva, i comandi vogliono affidare il controllo del territorio conquistato a reparti capaci di operare con durezza, affidabili dal punto di vista della «tenuta mentale» di fronte ad azioni punitive contro persone inermi. Il Regio esercito impiega invece le sue truppe di coscritti, ideologicamente forgiati dalla propaganda retorica del Ventennio, ma né addestrati militarmente né attrezzati psicologicamente a combattere contro le popolazioni civili.
Anche se questo non determina differenze nella fenomenologia delle azioni, caratterizza però in modo difforme i due sistemi occupazionali e la percezione che di essi hanno le popolazioni balcaniche, le quali temono il Regio esercito in misura minore rispetto alla Wehrmacht. Questo spiega fenomeni apparentemente contrastanti tra loro: da un lato l'iniziale fuga di civili, che dalla Slovenia occupata dai tedeschi riparano nella zona di Lubiana, sotto controllo italiano; dall'altro la maggior intensità degli attacchi partigiani contro i presidi del Regio esercito, tattica-mente motivata dalla scelta di contrastare per primo l'avversario più debole.
Affermare che le truppe italiane sono state meno feroci di quelle tedesche non ha significato particolare sul piano etico, dove le responsabilità emergono in rapporto a ciò che si è fatto e non al raffronto con chi ha fatto di peggio. Sul piano storico ha però senso rimarcare le differenze, riconducendole alle diverse condizioni operative, così come fa Giorgio Rochat, uno storico che non può certamente essere sospettato di simpatie militariste: «Tutte le indicazioni» egli scrive esaminando la campagna nei Balcani «dicono che le truppe italiane affrontarono questa guerra con scarso entusiasmo e partecipazione; una testimonianza indiretta viene dalla necessità dei comandi di rinnovare ripetutamente le direttive di massimo rigore (fino al "non si ammazza abbastanza" del generale Robotti). Le truppe erano poco addestrate, con vitto, alloggiamenti, equipaggiamento insufficienti, non sempre ben comandate, ma non si sottrassero agli ordini e fecero la loro parte nella repressione. Nei combattimenti scattavano poi sentimenti di solidarietà e di vendetta per i compagni uccisi, non di rado in modo efferato. Che il soldato italiano sia "buono" è un mito abusato, il soldato italiano non è migliore né peggiore di quello britannico o francese, il suo comportamento verso il nemico o i civili dipende dalle circostanze e dagli ordini. Va comunque ricordato che in una guerra con uno straordinario livello di atrocità e massacri da entrambe le parti, le truppe italiane furono certamente le meno feroci. Anche i più duri ordini dei comandi ponevano limitazioni alle rappresaglie, come il rispetto di donne e bambini. E la repressione fu condotta con largo ricorso a fucilazioni e devastazioni, ma senza i massacri e le efferatezze compiute dagli altri belligeranti, tedeschi compresi. Anche la nota frase della circolare di Roatta, "si sappia bene che eccessi di reazione, compiuti in buona fede, non verranno mai perseguiti", va ricondotta alla difesa di compagni aggrediti, non alle operazioni di controguerriglia, e non può essere paragonata alle direttive hitleriane che avallavano a priori qualsiasi eccesso o massacro commesso dalle truppe naziste».
Certamente, non mancano eccessi nel corso delle repressioni italiane, riconducibili, secondo le fonti jugoslave, soprattutto alle unità della Milizia: la regola di condotta generale delle operazioni risulta tuttavia violenta e sanguinaria ma meno feroce di quella nazista. «Se è possibile tentare una sintesi precaria» scrive ancora Rochat «le occupazioni jugoslave furono impostate dal regime in termini sopraffattori e politicamente miopi, tali da suscitare la resistenza delle popolazioni, con un rapporto subordinato rispetto ai tedeschi, né la certezza che l'acquisizione di questi territori fosse definitiva anche in caso di vittoria, né qualche programma sensato per la loro utilizzazione. Fin qui non ci sono dubbi. La controguerriglia in Jugoslavia fu perdente per la sua impostazione "coloniale", dopo di che il giudizio si divarica: da una parte sta la repressione brutalmente condotta che non deve essere dimenticata, dall'altra le truppe male addestrate e male condotte, senza una motivazione specifica, in misere condizioni di vita, verso cui non è possibile non provare una difficile solidarietà».
Alcune lettere dal fronte di militari impegnati nei Balcani ritraggono bene questa duplice condizione, in cui il ruolo di duro occupante si mescola con quello di potenziale vittima della guerriglia, generando uno stato d'animo di rabbia feroce e sofferta: «Questa strada non è solo ingombrata di neve» scrive il 9 gennaio 1942 Vittorio Fontana, alpino, dalla Croazia «ma anche dai ribelli che cercano sempre di assalire le autocolonne per assediarci; ma non dobbiamo avere paura di questi quattro straccioni. Qui ora non si trova più niente, né da fumare, né da mangiare e la razione che ci danno è poca con poco pane e ci deve bastare tutto il giorno»; «siamo partiti di notte in soccorso del 2° battagione del 55° fanteria, in pericolo» scrive il 23 febbraio successivo un fante impegnato sullo stesso fronte «e durante il viaggio a piedi sotto la pioggia abbiamo bruciato tutte le case, portato via tutto il bestiame, come ci hanno insegnato i tedeschi. I contadini si sono opposti, ma noi li abbiamo messi tutti a posto». Angelo Salvi, anch'egli fante, parla invece delle fucilazioni dei ribelli, colpito dall'odio anti-italiano che manifestano: «Qui le donne e le ragazze vestite da soldato combattono fino all'ultimo momento e quando vengono prese e fucilate muoiono col sorriso gridando "viva il comuniSmo e morte agli italiani" e ci sputano contro. Se vedeste, perfino i bambini di 12 anni col moschetto ti sparano contro. Quando li prendi ti mordono e gridano: "vigliacco italiano, porco, fetente". Questa gente ha una grande fede e un grande odio contro di noi, e così non la finiremo mai in queste terre. E noi altri siamo molto stufi».
Forza e debolezza, voglia di vendetta e paura, realtà drammatica dei combattimenti e sedimentazioni dell'educazione nazionalista del regime si sovrappongono in uno scenario dove il militare italiano è insieme vittima e carnefice. Pensando ai coscritti alpini delle valli valdesi del Piemonte, strappati dalle loro montagne per andare a combattere una «sporca guerra» su fronti sconosciuti, Rochat conclude con una forma di assoluzione storica che riconduce quanto avviene nei Balcani alle responsabilità politiche del fascismo e che, in questi termini, può essere condivisa: «Penso agli alpini delle mie valli, costretti a fare una guerra che era loro estranea, che condussero con disciplina e a volte con furore. I morti e le devastazioni che lasciarono e gli eccessi che forse commisero vanno addebitati al regime fascista, non riesco a condannarli».
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