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Giovanni Miccoli
25 Aprile |
[si tratta del testo integrale del discorso tenuto a Udine il
25 aprile 2005:
ha il raro merito di tenersi lontano dalla retorica e di compiere un'analisi acuta]
Le ricorrenze di feste nazionali o di giornate considerate importanti
e significative nelle comuni vicende della storia, cui periodicamente
siamo chiamati, rivestono un forte valore simbolico prima e più
che celebrativo. Ripropongono ai cittadini la memoria, storicamente
rivisitata, di avvenimenti centrali per la vita collettiva, evocano
i principi e i valori che di quegli avvenimenti hanno costituito
l’ispirazione profonda, suggeriscono la riflessione e il
ripensamento su vicende che hanno variamente segnato il nostro
comune sentire.
Non considero tuttavia positiva la tendenza di questi ultimi tempi
ad accrescerne via via il numero: una sorta di vana e tardiva
rincorsa al recupero di pezzi del nostro passato, nella quale
il segno prevalente sembra la ricerca di un risarcimento di torti
subiti, di rivalsa per qualcosa contro qualcuno. Ma moltiplicando
le occasioni del ricordo si rischia di cancellare ogni ricordo,
inflazionando i momenti di comune incontro e riflessione si rischia,
agli occhi dei più, di confonderli in un tutto indistinto
che annulla le differenze e il diverso peso e il diverso significato
di ciascuno di essi. E se il “giorno della memoria
della Shoah” è pienamente legittimato per
la dimensione europea di quei fatti e a perenne messa in guardia
dalle aberranti motivazioni razziste che hanno condotto alla persecuzione
e allo sterminio degli ebrei europei, non mi pare sia propriamente
così per altre giornate istituite o proposte.
Persuaso come sono dell’importanza della memoria per la
qualità stessa, civile e morale, della vita collettiva,
credo anche però che ben rare sono le date della nostra
storia nazionale che possono e debbono pretendere il riconoscimento
di un’assoluta, unica e irrinunciabile centralità.
Ha questa centralità, deve avere questa centralità,
la data del 25 aprile 1945 di cui ricorre oggi il sessantesimo.
Si addensano in effetti in essa una straordinaria molteplicità
di riferimenti e di significati, la memoria di vicende che furono
decisive non per la storia italiana soltanto.
Celebrando il 25 aprile infatti ricordiamo il momento culminante
della Resistenza contro i nazisti e i loro alleati fascisti, con
la proclamazione dell’insurrezione in tutta l’alta
Italia non ancora liberata dagli eserciti alleati. E ricordiamo
anche tutto ciò che ne seguì e di cui la guerra
di liberazione fu la necessaria premessa: la Costituzione repubblicana
in primo luogo, che dell’unità antifascista realizzata
nella Resistenza fu il frutto civile e politico più alto,
con la determinazione delle garanzie giuridiche fondamentali per
il pieno ristabilimento delle libertà politiche e civili
nel nostro paese. Ma riunendoci in questa data non possiamo non
ricordare anche la conclusione della guerra in Europa, con la
vittoria sul Terzo Reich e la costellazione di suoi alleati
da parte di quella che fu allora chiamata la coalizione antifascista.
Veniva così definitivamente meno la minaccia terribile
rappresentata dalla prospettiva che sul suolo dell’intera
Europa si affermasse quel “nuovo ordine” vagheggiato
dai nazisti, e del quale le loro folgoranti vittorie nei primi
anni Quaranta avevano posto le terribili premesse e mostrato le
funeste conseguenze.
È dunque una data decisiva per l’Italia e la storia
italiana che oggi ricordiamo, ma è anche una data decisiva
per l’Europa e per il mondo. Ed è da qui forse che
conviene cominciare.
Temo infatti che la memoria collettiva abbia in gran parte dimenticato
i caratteri orrendi e le spaventose conseguenze di quella guerra
imposta alle nazioni dall’alleanza del Terzo Reich e dell’Italia fascista, e che abbia insieme perso la coscienza
di ciò che la loro eventuale vittoria avrebbe rappresentato
per la nostra vita civile. Così come temo che la coscienza
collettiva abbia perso la memoria di ciò che nei primi
anni Quaranta il dominio nazista su gran parte dei paesi europei
ha rappresentato per la vita delle loro popolazioni.
Non si trattò soltanto dei metodi di guerra applicati da
subito dai nazisti, volti a fare terra bruciata dei territori
da conquistare, coinvolgendo pesantemente la popolazione civile:
metodi che come ben sappiamo hanno fatto largamente scuola anche
sul fronte avverso; già allora, con l’uso indiscriminato
dei bombardamenti terroristici culminati nell’uso dell’atomica
su un Giappone avviato ormai alla resa, ma anche in seguito, nelle
tante guerre locali cui abbiamo dovuto malauguratamente assistere
in molte parti del mondo: non unico esempio del veleno che le
ideologie nazionalistiche e razzistiche, di cui nazismo e fascismo
sono stati supremi ma non unici artefici, hanno saputo spargere
negli orientamenti del comune sentire.
Il dominio nazista sull’Europa occupata fu però anche
molto d’altro, frutto perverso dell’ideologia razzista
e nazionalista che lo ispirava, e di cui l’Italia fascista
si adattò a divenire compiacente alleato subalterno. L’idea
che il popolo tedesco era lo Herrenvolk, il popolo dei
signori, cui era destinato il dominio del mondo, non era un mito
astratto: impregnava di sé l’ideologia del nazismo,
reclamava comportamenti e misure conseguenti, funzionali alla
sua piena realizzazione. Per questo quel dominio fu senza remissione
e pietà verso tutto ciò che ad esso era in qualche
modo contrario o estraneo. Fu la prospettiva della riduzione in schiavitù di milioni di uomini, con le
deportazioni destinate a incrementare il lavoro coatto nei campi
di concentramento. Fu la messa in opera di rappresaglie feroci
nei confronti delle popolazioni civili, volte a stroncare ogni
manifestazione di dissenso, ogni tentativo di resistenza. Fu l’abbandono
alla morte per inedia di milioni di prigionieri di guerra (due
milioni di russi finiti così nell’anno successivo
all’attacco alla Russia). Fu l’eliminazione sistematica
dei portatori di handicap e degli ammalati mentali (le Lebensunwerteleben,
le vite prive di valore) che deturpavano la possanza eletta del
“popolo dei signori”. Fu infine, macchia indelebile
e “privilegio” esclusivo degli orrori dei nazisti
e dei loro alleati, lo sterminio degli ebrei europei, cui vennero
aggiunti poi gli zingari, vecchi, uomini, donne e bambini, sterminati
solo perché ebrei o perché la loro ideologia li
considerava tali: sterminati in massacri collettivi nel corso
dell’avanzata nelle regioni occidentali della Russia, sterminati
in campi destinati solo a questa funzione, raccogliendoli dai
ghetti polacchi e con le deportazioni da tutti i paesi dell’Europa
occupata: “con scene, scrisse un autorevole testimone
oculare, che nelle cronache del nostro tempo verranno paragonate
ai trasporti dei mercanti di schiavi africani del passato”.
Non può non essere sottolineata qui questa che del nazismo
fu caratteristica unica, troppo spesso dimenticata. Perché
campi di concentramento destinati ai propri avversari politici,
campi per sfruttare sino all’inedia il lavoro schiavo ne
esistettero in gran numero anche altrove (superfluo ricordare
al riguardo quelli, terribili, della Russia sovietica). Ma campi
destinati solo ad uccidere, vere e proprie fabbriche di morte,
come Chelmno, Treblinka, Belzec e Sobibor (e in parte Auschwitz
e Majdanek) solo la feroce determinazione dei nazisti fu capace
di produrre.
La Resistenza che si sviluppò in Europa e, dopo l’8
settembre, in Italia intese opporsi a tutto questo, perché
vide in tutto questo la negazione radicale di un’idea di
umanità comune a tutti gli esseri dotati di ragione. “Gli
ebrei sono uomini, gli ebrei sono donne […]. Essi
fanno parte del genere umano”, aveva gridato con forza
l’arcivescovo di Tolosa, di fronte alle grandi razzie che
nell’agosto 1942 colpirono migliaia di ebrei francesi. Erano
verità elementari, reclamavano diritti connessi alla natura
dell’uomo, che poche voci allora osarono ricordare pubblicamente.
Ma era proprio questo che i nazisti misconoscevano e negavano:
lo negava la loro ideologia fondata sulla gerarchia delle razze,
lo negava la loro prassi, brutale e feroce, che ne era l’espressione
coerente. Mussolini e l’Italia fascista lo sapevano bene,
e l’avevano accettato, contando in qualche modo di entrare
a far parte anch’essi del “popolo dei signori”.
Per questo quella combattuta allora fu, come mai nel passato,
una guerra mortale per i destini dell’umanità: ed
è bene ricordarlo.
In Italia la Resistenza fu questo ma fu anche altro. Composite
furono le sue componenti, come molteplici e differenziati furono
i percorsi che l’alimentarono. Le sue radici stanno nelle
ventennale opera di opposizione condotta in Italia e fuori d’Italia
da una minoranza di uomini e donne, di idee politiche diverse,
spesso molto diverse, che l’avversione per la dittatura
fascista aveva finito per avvicinare. Si formò dopo l’8
settembre, frutto del pauroso fallimento delle fallaci prospettive
che il fascismo aveva additato agli italiani: come allo squarciarsi
di un velo, tanti giovani, che ai suoi falsi miti avevano aderito,
cercarono nella Resistenza la via del nostro comune riscatto.
La incrementò la volontà di opporsi alla presenza
tedesca, iniziando appunto quella che fu anche “guerra di
liberazione” e “guerra d’indipendenza”.
Ma la Resistenza fu anche guerra sociale, per
i tanti che aspiravano ad un rinnovamento profondo della società,
e fu guerra civile - sarebbe un errore non riconoscerlo
- nella consapevolezza che il fascismo non aveva rappresentato
la comparsa nel paese di strani alieni, ma era ed era stato parte
della società italiana, delle sue difficoltà, delle
sue frustrazioni, espressione di un’idea deformata e autodistruttiva
di nazione e di patria, e che dunque lo scontro fra italiani era
inevitabile. Questo carattere composito che fu suo allargò
il suo bacino di reclutamento, ma alimentò anche, com’è
ovvio, le tensioni e le contrapposizioni interne. E tuttavia un’unità
di lotta fu mantenuta perché troppo alta era la posta in
gioco, reggendo alle divisioni e alle crisi che non mancarono.
In Friuli, in queste terre di confine, che il Terzo Reich aveva di fatto staccato dal resto d’Italia istituendo l’Adriatisches
Küstenland, le cose, si sa, furono ancor più
difficili e complicate. Pesava la dura eredità del ventennio
fascista, che aveva pesantemente oppresso le popolazioni slovene
e croate della Venezia Giulia, avviando una politica capillare
di violenza e di snazionalizzazione forzata; che nell’estate
del 1941, all’indomani dell’attacco alla Jugoslavia,
aveva stoltamente annesso la provincia di Lubiana, applicando
a quelle popolazioni i metodi appresi dal suo alleato nazista
e aprendo così inevitabilmente la strada a quelle aspirazioni
di rivincita e di riscossa nazionale, generatrici di nuova violenza,
che inquinarono tanto profondamente e a lungo i rapporti fra le
diverse popolazioni di queste terre.
L’urgenza di combattere l’occupatore tedesco e le
milizie fasciste al suo servizio non poteva ignorare che su questa
lotta gravava il problema del futuro statuale di una parte almeno
di queste terre, rivendicate in termini massimalisti dalla Resistenza
jugoslava. Odio nazionale il fascismo aveva largamente
seminato, e odio nazionale la Resistenza era costretta a raccogliere.
Furono lacerazioni e tragedie, nel corso della guerra e alla fine
della guerra, vive ancora nel ricordo di tanti. Porzus, le foibe,
le tensioni aperte o sotterranee degli anni successivi, furono
in primo luogo il tragico strascico dello scatenamento
di odi nazionali che venivano da lontano (dal formarsi,
al tramonto dell’Impero asburgico di nazionalismi sempre
più antagonisti ed aggressivi), che l’annessione
all’Italia di zone della Venezia Giulia compattamente abitate
da popolazioni slovene e croate aveva incrementato, che la politica
fascista aveva portato all’esasperazione.
Parlando delle vicende di quegli anni in queste terre di confine
però non ci si può certo fermare qui. Perché
andrebbero ricordate anche le tante pagine luminose di dedizione
e di coraggio, ed esperienze decisive, come la creazione delle zone libere e la realizzazione di prime forme
di partecipazione democratica delle popolazioni;
ma andrebbe più puntualmente ricordata anche la durezza
di una lotta di cui non a caso una famosa canzone partigiana diceva
che “pietà l’è morta”, e andrebbero
ricordate le rappresaglie feroci ordinate dalle autorità
tedesche, con le uccisioni di centinaia di ostaggi e la distruzione
di interi villaggi; e ancora, il coraggio civile di uomini e donne
non combattenti, che delle asprezze di quella guerra sopportarono
l’intero peso.
Ma andrebbero ricordati anche le difficoltà, le
contraddizioni, i contrasti, le diversità più o
meno sotterranee di prospettive, che animavano e guidavano i resistenti.
Composita la Resistenza, composito era ed era stato l’antifascismo,
diverse, spesso lontane, le premesse, le ragioni, le visioni del
futuro che lo ispiravano. Senza entrare nei dettagli, che compete
alla ricerca storica ulteriormente chiarire, credo tuttavia vi
siano alcuni punti, oggetto più che mai in questi ultimi
anni di speculazioni interessate e di discussioni accese, che
non debbono essere elusi, e particolarmente in una circostanza
come questa che vuole essere in primo luogo occasione di riflessione
e momento di consapevolezza civile. Non sono cose nuove, perché
si tratta piuttosto di questioni rimaste a lungo confinate in
gruppi ristretti, mentre le voci isolate che invitavano ad allargarne
l’esame a cerchie più ampie sono state per lo più
intenzionalmente ignorate, in primo luogo da chi deteneva il controllo
della comunicazione e perciò il potere di spegnere o di
dare rilievo a quelle sollecitazioni.
Un’accusa, soggiacente sempre più di frequente a
tanti discorsi sulla Resistenza e sull’antifascismo, è
che l’una e l’altro risulterebbero irrimediabilmente
inquinati dalla presenza comunista: dalla presenza cioè
di una forza politica che aveva nella Russia sovietica il suo
riferimento ideale, e dunque era legata a una realtà che
nulla aveva da invidiare, quanto a repressione spietata delle
libertà civili e politiche, al totalitarismo delle potenze
fasciste. L’apparente limpidezza di tale argomentazione
pecca in un punto fondamentale, svelando così il suo carattere
funzionale alla propaganda politica e ideologica attuale: trascura
e cancella cioè le ragioni profonde, la spinta ideale ed
emotiva, ma anche la durezza delle condizioni di vita imposte
alle classi subalterne - in molti casi si potrebbe dire la loro
spietatezza -, che nel corso di quei decenni e di quegli anni
portava e aveva portato tanti uomini e donne ad abbracciare il comunismo, a fare di esso la propria bandiera
e la propria ragione di essere, vorrei dire la propria religione.
È a questo infatti che si deve in primo luogo guardare
per valutare il senso e la portata del massiccio apporto comunista
all’antifascismo e alla Resistenza.
Il riconoscimento degli orrori e dei guasti terribili prodotti
dal comunismo realizzato in Russia e nei paesi del cosiddetto
socialismo reale, non può impedire di rilevare, com’è
stato giustamente scritto, “quanto fosse siderale la
distanza che separava un comunista italiano da un fascista in
termini di obiettivi politici, di immaginario sociale, di valori
umani”. Così come la durezza e la ferocia repressiva
del sistema politico prodotto dal comunismo sovietico non può
cancellare il fatto che i milioni di essere umani che in tante
parti del mondo sceglievano il comunismo e si dicevano comunisti,
lo facevano perché vedevano in esso uno strumento di libertà,
di rigenerazione e riscatto degli umili e degli oppressi, di uguaglianza
politica e sociale. “Ho creduto e credo fermamente in
una società migliore e in un migliore prossimo avvenire
di questa povera umanità. Non credo possibile, né
posso in questo momento, rifuggire dalle responsabilità
e dai doveri che ne derivano”, ha scritto nella sua
lettera-testamento Aulo Magrini, commissario
della brigata “Carnia”, caduto il 15 luglio 1944 al
ponte sul But.
Sono concetti semplici, quasi elementari nella loro essenzialità,
che esprimono con chiarezza la spinta etica e politica che animava
tanti di quegli uomini e di quelle donne. Anche per questo il
decisivo apporto dei comunisti italiani alla Resistenza ha potuto
divenire ed è stato un contributo fondamentale alla formulazione
della nostra Carta costituzionale, che pone alla sua base i diritti
politici e civili di tutti i cittadini e ripudia la guerra come
strumento di soluzione dei contrasti politici. La storia degli
anni successivi, di un mondo diviso dalla guerra fredda, la riflessione
autocritica condotta da tanti comunisti sui caratteri e i risultati
dell’ideologia che era stata la loro, non possono manomettere
e cancellare questi dati fondamentali: che hanno permesso appunto
di avviare, nella collaborazione di tutte le forze antifasciste,
democristiani, comunisti, azionisti, socialisti, liberali, la
costruzione, anche se lenta, difficile, piena di ritardi e di
debolezze, di un’Italia nuova, capace di tagliare definitivamente
i ponti con il modello di uomo, di società e di nazione
che il fascismo aveva incarnato e proposto.
In effetti furono idee grandi, ispirate a una concezione di democrazia
solidale, quelle che guidarono i nostri padri costituenti, in
un impegno che seppe restare unitario nonostante la gravità
delle condizioni dell’Italia di allora e gli scontri e le
tensioni sociali sui quali già si riberveravano gli echi
minacciosi dei contrasti internazionali. Non tutte quelle idee
trovarono piena e compiuta realizzazione, né certo questa
è le sede per cercare di analizzarne il perché.
Ma i principi ispiratori e gli istituti che ne derivarono, come
l‘equilibrio dei poteri che li caratterizza, figurano come
consapevole antidoto verso ogni tentativo di manomissione futura,
a fondamentale garanzia della nostra vita democratica. Fu un momento
eccezionale, non consueto nella storia dell’Italia unita,
che al di là di tutte le contrapposizioni ideologiche e
politiche, seppe costruire per il nostro paese regole condivise,
ispirate ai principi di libertà, di solidarietà,
di giustizia sociale, di civile convivenza. Un esempio che non
andrebbe, che non andava dimenticato.
Non è questa, della presenza comunista, l’unica ragione
per cui oggi si cerca di svalutare il senso e la portata dell’antifascismo
e della Resistenza. Serpeggiante è infatti la tendenza
ad equiparare i partecipanti dei due fronti contrapposti,
sulla base della considerazione che i morti sono tutti uguali,
che non mancarono nel dopoguerra vendette spietate dei vincitori
sui vinti, che uomini onesti furono presenti anche sull’altro
fronte. Anche qui, il carattere lapalissiano di tali considerazioni
trascura e oblitera aspetti fondamentali, che non sono obliterabili
né in sede storica né in sede politica. La morte
certo cancella le differenze tra gli uomini, ricordando a tutti
una condizione che è comune, ma non cancella le ragioni
che li hanno mossi in vita, gli ideali e le prospettive che erano
le loro. Rese di conti e vendette ci furono e furono spesso feroci,
frutto di un confronto che fu radicale, di una guerra che fu spietata.
I due fronti contrapposti non erano fatti di santi gli uni, di
diavoli gli altri. Ma tali constatazioni non possono modificare
il giudizio complessivo sul senso e le prospettive opposte che
animavano quella lotta, né sugli esiti radicalmente diversi
che la vittoria degli uni o degli altri avrebbe comportato per
la vita collettiva.
È tutto ciò che rende illusoria e impossibile la
costruzione di una memoria condivisa, che rende idealmente e politicamente
inaccettabile un’omologazione, per quanto riguarda i valori
e le prospettive, di quanti parteciparono ai due fronti contrapposti.
Non è in questione il giudizio storico soltanto, perché
ciò che soprattutto è in questione sono la sostanza
civile e lo spessore ideale della nostra vita collettiva presente
e futura. Non di improbabili memorie condivise ha bisogno la nostra
vita democratica, ma del comune riconoscimento di alcuni principi
fondamentali, di regole e norme universalmente accettate e rispettate.
È questa la posta attualmente in gioco, posta di importanza
capitale, cui non possono fare da succedaneo maldestri tentativi
di incontro su un passato che era lacerato e che non può
non restare lacerato, nelle memorie individuali come nelle ricostruzioni
storiografiche.
Nessuna meraviglia dunque se vi sono degli italiani che non si
riconoscono nella data di oggi, né nei molteplici e pregnanti
significati di essa. Dopo più di 200 anni non mancano francesi
che non si riconoscono nel 14 luglio e in ciò che esso
ha significato per l’avvio difficile e tormentato di una
Francia di cittadini e non di sudditi. Non può che essere
così là dove si sono combattute aspre guerre civili,
si sono affrontate concezioni radicalmente diverse dell’uomo
e della società, visioni opposte dei valori e delle prospettive
che devono caratterizzarla. Questa scontata mancanza di un unanime
sentire non può tuttavia suggerire maldestri tentativi
di ricerca di altri improbabili punti di riferimento comuni, né
può permettere di mettere in discussione il fatto che il
25 aprile rappresenta il simbolico momento di inizio di un’Italia
libera e democratica. Il riconoscerlo costituisce infatti l’attestazione
e la garanzia che ai principi che ne hanno ispirato la realizzazione
si è e si intende restare fedeli.
Per questo credo che le cerimonie di cui siamo oggi partecipi
non rappresentano uno stanco rituale antico ma rivestono un’attualità
profonda che impone un’ulteriore riflessione, che impone
soprattutto di chiedersi se e che cosa vi è stato nell’antifascismo
stesso che ha fatto sì, agli occhi di tanta parte dell’opinione
pubblica, di logorarne i termini, di perdere di vista le sue motivazioni
ideali e il suo significato.
Non credo si possa negare che nei lunghi e tormentati decenni
della storia politica e civile dell’Italia repubblicana
è stato in primo luogo l’antifascismo, con
l’uso amplificante e spesso strumentale che se n’è
fatto, a logorare se stesso, perdendo per dir così
di vista, con le sue molteplici articolazioni, la sua ragione
ideale e il suo riferimento specifico, per divenire, in particolare
ad opera del partito comunista prima, delle forze della sinistra
extraparlamentare poi, strumento di mobilitazione e di lotta politica
in molteplici direzioni e sui più svariati obiettivi.
Ma non vi è stato solo il suo abuso politico che ne ha
logorato i valori. Vi è stata anche un’inflazione
di celebrazioni retoriche che hanno fatto della Resistenza
il lavacro rigeneratore che avrebbe svelato il vero volto della
società italiana e dell’antifascismo il patrimonio
condiviso di tutto un popolo, rifiutando di vedere e di riconoscere
il consenso, e le ragioni di esso, di cui il fascismo aveva pur
variamente goduto nel ventennio del suo potere. Chiuso a riccio
nel trionfalismo di una vittoria ancora parziale, perché
troppi, nelle pieghe profonde della società, restavano
le condizioni e gli orientamenti che il fascismo avevano alimentato,
a lungo l’antifascismo è stato incapace di ripensare
la storia nazionale, di riflettere sulle sue debolezze e sulle
sue tare, di cui il fascismo aveva voluto essere una risposta,
distorta ma pur sempre risposta.
Le condizioni dell’oggi costituiscono un amaro risveglio.
Non perché sia il fascismo a rappresentare un pericolo,
ma perché riemergono in condizioni nuove e impensate, tare,
ritardi, pulsioni antiche, che si aggiungono e si sommano alla
paure e alla incertezze indotte dalla globalizzazione, dalla precarietà
della condizione giovanile, dall’avanzare di forme di individualismo
selvaggio, dalla prospettiva del formarsi di società composite,
multietniche e multireligiose, che l’inarrestabile immigrazione
dal terzo mondo comporta. Da qui la tendenza al ripiegamento identitario,
il rifiuto intollerante del diverso, la disinvolta manomissione
delle regole della legalità repubblicana, il riemergere
di tentazioni nazionalistiche, prive di ogni sintonia con i processi
sociali in corso e incapaci dunque di leggerne l’andamento,
di padroneggiare e regolare positivamente le nuove e complesse
prospettive aperte al nostro futuro da problemi che sono problemi
planetari e globali.
È alla luce di tale realtà che ogni minimizzazione
del significato profondo della Resistenza, ogni affievolimento
della comprensione di ciò che l’antifascismo e la
sua lotta hanno rappresentato nella nostra storia, costituirebbe
una perdita secca, privando il nostro presente di riferimenti
ideali essenziali per rispondere alle sue sfide. Non si tratta
di ricreare dei miti, né di riproporre nell’oggi
forme di contrapposizione antiche, per le quali mancano i termini
del confronto reale. Altre sono le questioni che premono, altre
le minacce che incombono, altra dunque è la posta in gioco.
Sono persuaso però che solo il pieno recupero di quei valori
umani e civili, che sono stati componenti fondanti della Resistenza
e dell’antifascismo, che hanno ispirato e guidato gli autori
della nostra Costituzione, può aiutare a trovare una via
d’uscita alle pesanti difficoltà del presente.
È
un grande sforzo collettivo che si rende oggi necessario. In quei
valori antichi sta una delle chiavi del suo successo.
Sono questi
l’augurio e la speranza che devono animare questa nostra
giornata.
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