|
Costante Mulas Corraine
Stepinac, arcivescovo nazista |
Papa Woityla ha beatificato - durante la sua visita in Croazia nell’ottobre 1998 - il dr. Aloysius Stepinac, vescovo cattolico, complice dei più atroci misfatti nazi-fascisti in Croazia durante il regime di Ante Pavelic dal 1941 al 1945.
Stepinac, arcivescovo di Zagabria, fu al fianco dei fascisti Ustascia fin dal primo momento (come ha dimostrato senz'ombra di dubbio V. Novak, Principium et Finis veritas), da quando, cioè, il 10 Aprile 1941 ebbe luogo l'occupazione tedesca di Zagabria insieme alla proclamazione dell'indipendenza della Croazia dal regno di Jugoslavia, con a capo il Poglavnik (cioé Duce, Führer) Ante Pavelic.
Ma chi era Pavelic?
Capo del Partito Ustascia, da lui fondato il 7 Gennaio 1929 sulle orme di Ante Starcevic (morto nel 1898), leader del Partito Croato del Diritto (Hrvatska stranka prava), che si prefiggeva programmaticamente l'eliminazione dei Serbi: «I Serbi sono roba da macello», Pavelic trovò rifugio in Italia, dove Mussolini gli assicurò a Bologna denaro e protezione per le sue attività terroristiche, con l'appoggio del capo della polizia segreta Ercole Conti e del Ministro di Polizia Bocchini. L'attentato più grave fu quello che a Marsiglia, il 9 Ottobre 1934, costò la vita al re Alessandro di Jugoslavia e al ministro degli esteri francese Barthou.
Ante Pavelic, condannato a morte in contumacia sia dalla Francia che dalla Jugoslavia, se ne stava tranquillamente a Siena sotto la protezione delle autorità fasciste.
Lo stesso 10 Aprile del 1941 il Poglavnik manifestò la propria «riconoscenza e devozione» a Hitler, telegrafandogli dall'Italia: «La Croazia indipendente legherà il proprio futuro al nuovo ordine europeo, che Lei, Führer, e il Duce avete creato». Pochi giorni dopo, passato in Croazia, nominò il suo primo governo: era ormai capo dello stato, del governo e del partito, nonché comandante supremo dell'esercito e duce di una popolazione di tre milioni di cattolici croati, due milioni di serbi ortodossi e mezzo milione di musulmani bosniaci (a di altri gruppi etnici, fra cui 40.000 ebrei). Il 18 Aprile ci fu la capitolazione senza condizioni dell'esercito jugoslavo: la Serbia venne occupata dai tedeschi e quasi due quinti del regno di Jugoslavia passarono sotto la sovranità dello Stato Indipendente di Croazia, con una superficie di circa 102.000 kmq.
Il 7 Maggio 1941, accompagnato da ministri e religiosi (fra cui il Vicario Generale dell'Arcivescovo Stepinac, il vescovo Salis-Sewis), si recò in Italia da Vittorio Emanuele III, offrendo la corona di Croazia al Duca Aimone di Spoleto, il quale (benchè mai incoronato) già il 17 Maggio si annunciò in Vaticano come re designato di Croazia col nome di Tomislav II. Il giorno dopo, «circondato dai suoi banditi» - come annoterà Ciano nel suo Diario - Pavelic venne festosamente e solennemente ricevuto in udienza privata da Pio XII, che, congedandolo, gli fece i migliori auguri per «la sua opera futura...».
La sua opera futura: di che cosa si trattava esattamente?
Della ricattolicizzazione della Croazia, con tutti i mezzi, come risulta inequivocabilmente dalle parole del padre francescano Simic: «Ammazzare tutti i Serbi nel più breve tempo possibile. Questo è il nostro programma»; oppure dalle lugubri espressioni programmatiche di Ante Pavelic: «Un terzo dei Serbi deve diventare cattolico, un terzo deve abbandonare il paese, un terzo deve morire!». Ebbe così inizio una politica di sterminio in tutto identica alla «soluzione finale» nazista: le chiese ortodosse vennero distrutte, trasformate in stalle, depredate; i Serbi dovevano circolare con una P sul braccio (Pravoslavac=Ortodosso), gli Ebrei con la stella di David, e solo nei quartieri-ghetto approntati per loro. Nei locali pubblici pendeva il cartello: «Ingresso vietato a Serbi, Ebrei, Zingari e cani».
L'unico modo per sfuggire al destino di morte che li attendeva era la conversione al cattolicesimo: «Se passerete alla chiesa cattolica» - prometteva il vescovo Aksamovic di Djakovo - «srete lasciati in pace nelle vostre case».
Tuttavia nelle prime sei settimane di vita della nuova Croazia furono assassinati tre vescovi, più di cento preti e monaci ortodossi e 180.000 fra Serbi ed Ebrei. Per ordine dell'ordinariato episcopale le chiese ortodosse vennero trasformate in luoghi di culto cattolico oppure furono completamente distrutte. Il mese seguente vennero ammazzati oltre 100.000 Serbi, donne, vecchi, bambini. La chiesa di Glina venne trasformata in un mattatoio: «Il bagno di sangue durava dalle dieci di sera alle quattro del mattino, e andò avanti per otto giorni. Le uniformi dei macellai dovettero essere cambiate, perché intrise di sangue. In seguito vennero ritrovati bambini infilzati negli spiedi, con le membra ancora contratte negli spasmi della sofferenza».
Fino al Novembre del 1941 furono uccisi altri cinque vescovi e non meno di trecento preti ortodossi: l'ottantenne metropolita di Sarajewo Petar Simonic venne strangolato, mentre contemporaneamente l'arcivescovo cattolico della città Ivan Saric componeva odi in onore di Pavelic ed esaltava nel giornale diocesano i nuovi metodi rivoluzionari «al servizio della verità, della giustizia e dell'onore». A Zagabria, dove risiedevano il primate Stepinac e il Nunzio Apostolico Marcone, il metropolita ortodosso Dositej fu torturato al punto che divenne pazzo.
Il 26 Giugno 1941 Pavelic accolse in pompa magna l'episcopato cattolico guidato da Stepinac, cui promise «dedizione e collaborazione in vista dello splendido futuro della nostra patria». Il primate di Croazia sorrideva. Gli eccessi furono talmente virulenti che il generale Mario Roatta, comandante della Seconda Armata italiana, minacciò di aprire il fuoco contro gli Ustascia che intendevano penetrare nei territori controllati dagli Italiani, e gli stessi tedeschi, diplomatici, militari e uomini dei servizi segreti, inviarono proteste contro il terrore ustascia al comando supremo della Wehrmacht e all'Ufficio Esteri. Il 17 Febbraio 1942 il capo dei Servizi di Sicurezza scrisse al comando centrale delle SS: «È possibile calcolare a circa 300.000 il numero dei Pravoslavi uccisi o torturati sadicamente a morte dai Croati... In proposito è necessario notare che in fondo è la chiesa cattolica a favorire tali mostruosità con le sue misure a favore delle conversioni e con la sua politica delle conversioni coatte, perseguite proprio con l'aiuto degli Ustascia... È un fatto che i Serbi che vivono in Croazia e che si sono convertiti al cattolicesimo vivono indisturbati nelle proprie case... La tensione esistente fra Serbi e Croati è non da ultimo la lotta della chiesa cattolica contro quella ortodossa» (dagli archivi della Gestapo).
Felix Benzler, inviato tedesco a Belgrado, il generale Alexander Löhr, l'inviato tedesco a Zagabria Siegfried Kasche, il generale Glaise von Horstenau inviarono a Berlino memoriali che sollecitavano esplicitamente a una maggior prudenza nel sostegno al regime di Pavelic. Come risulta da un comunicato del 12 Aprile 1942 redatto dai servizi segreti tedeschi «in diverse località ai confini fra Serbia e Croazia si è giunti a scontri armati fra le truppe tedesche e unità ustascia», scontri determinati dall'intenzione dei Croati di estendere i loro massacri dei Serbi. Lo stesso Ribbentrop incaricò l'ambasciatore tedesco a Zagabria di esprimere la profonda costernazione del governo del Reich a causa «degli orribili eccessi degli Ustascia, elementi criminali». Insomma, fascisti italiani e nazisti tedeschi si dimostrarono addirittura scandalizzati dal comportamento criminale del regime croato; soltanto la chiesa cattolica e il suo capo Stepinac tacquero, anzi, collaborarono attivamente alla realizzazione del «futuro lavoro».
E questo accadde perché «le azioni degli Ustascia erano azioni della chiesa cattolica», la quale collaborò fin dal principio col regime di Pavelic.
Molti preti cattolici erano membri del partito Ustascia, come l'arcivescovo di Sarajevo Ivan Saric; vescovi e sacerdoti cattolici sedevano nel Sobor, il Parlamento croato, che apriva le sue sedute al canto del Veni creator spiritus; padri francescani comandavano i campi di concentramento e lo stesso Pavelic appare in centinaia di fotografie circondato da vescovi, preti, frati, suore e seminaristi. E Stepinac non lo sapeva? Forse fu proprio lui a dettare il messaggio di Pavelic a Pio XII: «Santo Padre! Allorchè la provvidenza divina concesse che io prendessi nelle mie mani il timone del mio popolo e della mia patria, decisi fermamente e desiderai con tutte le mie forze che il popolo croato, sempre fedele al suo glorioso passato, restasse fedele in futuro all'apostolo Pietro e ai suoi successori, e che il nostro popolo, compenetrato dalla legge del vangelo, divenisse il regno di Dio». Codesto regno di dio venne intanto delineato dal ministro dell'istruzione Mile Budak: «Ammazziamo una parte dei Serbi, ne cacciamo via un'altra, e il resto, che deve accettare la religione cattolica, sarà accolto nel seno del popolo croato». E il beato Stepinac taceva.
Il fatto è che tutta la stampa cattolica manifestò in modi spesso anche esagitati la propria simpatia e la propria collaborazione coi programmi criminali di Pavelic: il giornale episcopale dell'arcivescovo Saric di Sarajevo scrisse apertamente che il cattolicesimo andava proclamato «con l'aiuto dei cannoni, delle mitragliatrici, dei carri armati e delle bombe». I preti cattolici predicavano quotidianamente: «Finora, fratelli, abbiamo lavorato per la nostra religione con la croce e il breviario; ora è giunto il momento della pistola e del mitra». Oppure dicevano: «Non è più un peccato uccidere un bambino di sette anni, qualora violi le leggi degli Ustascia. Benchè porti una tonaca, spesso devo por mano al mitra».
E non desta meraviglia allora che il prete cattolico Bozidar Bralo, consigliere della famigerata «Crna Leggija» (La Legione Nera), trascorresse da un luogo all'altro agitando il mitragliatore e gridando: «A morte i Serbi!», massacrandone poi 180 ad Altpasin Most; che il gesuita Dragutin Kamber, capo della polizia di Doboj, in Bosnia, partecipasse personalmente all'assassinio di centinaia di ortodossi; che i preti cattolici Ilija Tomas e Marko Hovko prendessero parte attiva all'uccisione bestiale di 559 uomini, donne e bambini serbi a Prebilovici e a Surmanci, in Herzegowina; che il curato di Rogolje sterminasse 400 ortodossi.
In quest'opera barbarica di sterminio accumularono dei meriti particolari i figli di Santo Francesco, che fin dal principio avevano messo a disposizione degli Ustascia i propri conventi, trasformati in depositi d'armi. Il 21 Maggio 1941 a Knin il francescano Padre Simic al comandante della Brigata Sassari, che gli chiedeva le linee direttrici della sua politica, rispose: «Uccidere tutti i Serbi nel più breve tempo possibile». E poiché il generale non voleva credere ai propri orecchi, il buon frate ribadì prontamente: «Uccidere tutti i Serbi nel più breve tempo possibile. È questo il nostro programma». In realtà persino i fascisti italiani provavano ribrezzo di fronte alla bestialità degli Ustascia, e i cattolici croati ne furono infastiditi: l'arcivescovo Stepinac osservò malevolmente che «nei territori croati passati all'amministrazione italiana si poteva notare una continua decadenza della vita religiosa e una certa tendenza a passare dal cattolicesimo ad atteggiamenti scismatici».
Nei campi di concentramento di Jasenovac, Jadovno, Pag, Ogulin, Jastrebarsko, Koprivnica, Krapje, Zenica, Stara Gradiska, Djakovo, Lobograd, Tenje e Sanica i francescani esercitavano il mestiere di veri e propri boia. Il «Campo della morte» di Jasenovac, sulle rive della Sava, in cui furono trucidati circa 200.000 Serbi ed Ebrei, era sotto il comando del francescano Miroslav Filipovic-Majstorovic, il quale si conquistò la fama di «abilissimo strangolatore» (venne giustiziato nel 1945). Ma il collega Brzica gli fu di gran lunga superiore: nello stesso Lager nella notte del 29 Agosto 1942 riuscì a decapitare da solo 1369 internati con una mannaia speciale. Nè può ora meravigliarci il fatto che dopo il crollo di questo «Regno di Dio» i chiostri francescani divennero gli asili preferiti dei boia sfuggiti agli alleati e alle truppe di Tito (in particolare Klagenfurt e Modena).
Tutto ciò accadde sotto gli occhi di Stepinac, presidente della conferenza episcopale croata e arcivescovo di Zagabria! Il regime di Pavelic lo trovò sempre dalla propria parte, unitamente a tutti i vescovi cattolici, le cui critiche, quando ci furono, appaiono oggi estremamente riguardose. Il giorno stesso della proclamazione dell'indipendenza della Croazia, Stepinac si recò dal generale Kvaternik, rappresentante di Pavelic, per esternargli «i suoi rispetti»; e il 16 Aprile 1941 offrì a Pavelic appena rientrato in Croazia un lauto pranzo nel palazzo arcivescovile; a Pasqua si felicitò con lui per la rinascita dello Stato Ustascia. Il 28 Aprile pubblicò una lettera pastorale, nella quale diceva fra l'altro: «Quantunque gli attuali avvenimenti siano assai complessi, quantunque i fattori che li influenzano siano molto differenti, è tuttavia agevole riconoscere in quest'opera la mano di Dio»!
Dopo che Pavelic ebbe dichiarato guerra aperta e senza regole alla chiesa ortodossa, Stepinac manifestò il proprio compiacimento, osservando «che Pavelic è un devoto cattolico e la chiesa gode di una piena libertà d'azione...» (quella cattolica, naturalmente!). Stepinac si adoperò quindi a favore di un rapido riconoscimento formale della nuova Croazia da parte del Vaticano, che per parte sua continuò ipocritamente a mantenere rapporti diplomatici col governo jugoslavo in esilio. Verso la metà di Giugno del 1941 il vicario generale Josip Lach riassunse su sollecitazione di Stepinac l'atteggiamento della chiesa croata verso il nuovo regime: «Questo ordinariato farà di tutto affinchè gli intenti del governo croato siano realizzati nel modo più ampio possibile, ma con un'unica riserva che questo ministero non potrà mai eliminare: e cioè che mai e in nessun caso venga violata la suprema legge del Vangelo di Cristo». Espressioni tragicamente ironiche! Monsignor Stepinac pretese dall'episcopato una stretta collaborazione con gli Ustascia: ordinò di celebrare solennemente gli anniversari della fondazione del nuovo stato, e per il compleanno di Pavelic in tutte le chiese si doveva celebrare il Te Deum.
Nel Gennaio del 1942 Stepinac venne nominato dal Vaticano Vicario militare degli Ustascia: subito quasi 150 preti divennero cappellani dell'esercito ustascia. Nikola Rusinovic, secondo rappresentante del governo ustascia in Vaticano, ci informa dettagliatamente dell'atteggiamento di Stepinac verso il regime criminale di Pavelic: «Egli (sc. Stepinac) ha fatto pervenire al Santo Padre un dattiloscritto di nove pagine, di cui conosco il contenuto, e ti posso assicurare che le notizie che ci riguardano sono assolutamente positive... Valuta in modo assai favorevole la situazione del paese e loda l'opera e gli sforzi del governo. In particolare egli si serve delle espressioni più esaltanti a proposito dei tentativi e degli sforzi del Poglavnik per riordinare tutto come prima; inoltre esalta il suo comportamento religioso e l'atteggiamento nei confronti della chiesa». E dunque mentre italiani, tedeschi, croati in esilio stigmatizzavano il comportamento criminale del governo di Pavelic, mentre anche il settimanale londinese New Review scriveva di Pavelic: «Viene unanimemente considerato il massimo criminale del 1941», mentre Veceslav Vilder, membro del governo jugoslavo in esilio a Londra, a sua volta affermava: «Intorno a Stepinac, arcivescovo di Zagabria, vengono perpetrate le più orribili nefandezze. Il sangue dei fratelli scorre a fiumi... e non sentiamo levarsi la voce sdegnata dell'arcivescovo. Al contrario leggiamo che prende parte alle parate dei nazisti e dei fascisti»; mentre accadeva tutto ciò, Stepinac taceva e collaborava, conferendo col Vaticano, con Pio XII, col segretario di stato Maglione, con altri prelati e cardinali e anche col futuro papa monsignor Montini.
Il 23 Febbraio 1942 il presidente della conferenza episcopale croata, circondato dai suoi dignitari, accolse solennemente sul portale della chiesa di S. Marco a Zagabria Ante Pavelic, già condannato a morte due volte, esaltando la fondazione del Sobor, di cui faceva parte anche lui insieme a dieci dei suoi collaboratori.
In un memorandum del maggio del 1943 inviato alla curia romana Stepinac sottolineava i meriti degli Ustascia nella conversione degli Ortodossi, ringraziava soprattutto i francescani e pregava il papa di ricordarsi dei Croati. Della visita del primate croato in Vaticano (dal 26 Maggio al 3 Giugno del 1943) siamo informati dal rappresentante Ustascia presso la Santa Sede principe Erwin Lobkowicz, il quale scrive: «L'arcivescovo ha fornito informazioni assai positive sulla Croazia...; ha sottaciuto alcune cose con le quali non era completamente d'accordo, per far apparire la Croazia nella miglior luce possibile... Ha anche giustificato e motivato i metodi usati verso gli Ebrei dagli Ustascia» (i quali avevano già assassinato l'80% degli Ebrei jugoslavi!).
Nel 1944 Stepinac venne decorato da Pavelic con la «Gran Croce con Stella» e il 7 Luglio dello stesso anno sollecitò affinchè «tutti si ponessero a difesa dello stato, per edificarlo e sostenerlo con sempre maggiore energia».
Addirittura il 25 marzo del 1945 il primate pubblicò un manifesto a favore della Grande Croazia...
Non è assolutamente credibile che Stepinac non sapesse cose che Radio Londra, la stampa alleata e persino alcuni giornali italiani avevano rese pubbliche; e sapeva tutto anche Pio XII, il quale tacque, come su Auschwitz e tante altre infamie.
In conclusione: dal 1941 al 1945 in Croazia vennero trucidate non meno di 600.000 persone (secondo il generale tedesco Rendulic), spesso direttamente ad opera di preti e frati; eppure nè Stepinac nè Pio XII sembra ne siano stati edotti. E tacquero.
Papa Pacelli ruppe il suo silenzio sulla Yugoslavia il 2 Giugno del 1945: «Dobbiamo purtroppo lamentare in più di un paese uccisioni di preti, deportazioni di civili, esecuzioni di cittadini senza processo o per vendette private: e non meno tristi sono le notizie che ci provengono dalla Slovenia e dalla Croazia...».
Pio XII, insomma, non aveva notizie quando il regime di Pavelic, da lui benedetto, ammazzava, squartava, affogava, decapitava, strangolava, seppelliva vivi e crocifiggeva centinaia di migliaia di Serbi, Zingari, Ebrei, Ortodossi; ma quando l'esercito partigiano di Tito cominciò a chieder conto di tutti questi misfatti, ecco che Pacelli sa tutto, è accorato, paternamente preoccupato, addirittura costernato.
Insomma, io credo che la beatificazione di un individuo spregevole quale Stepinac sia in fondo una faccenda interna della chiesa cattolica, e in quanto tale non fa che confermare la frase di Helvétius: «Quando si scorrono gli elenchi dei loro (sc. dei cattolici) santi, si ritrovano i nomi di migliaia di delinquenti beatificati». Tuttavia credo anche che tali atti simbolici abbiano il fine di distorcere la storia e nascondere la verità, siano sostanzialmente nient'altro che mistificazioni, che dobbiamo smascherare senza tentennamenti o timori. In fondo l'atto di Woityla non è che l'ultima manifestazione dell'anticomunismo viscerale della chiesa cattolica, la quale è disposta a tollerare e poi nascondere anche le infamie più innominabili pur di perpetuare se stessa.
fonti:
Karl-Heinz Deschner. Die Politik der Päpste im 20. Jahrhundert.
Falconi. Das Schweigen des Papstes.
Miller. Die «christlichen» Massaker in Kroatien.
Karl-Heinz Deschner. Abermals krähte der Hahn.
da uaar.it
|
Sergio D’Afflitto
L’arcivescovo del genocidio |
L’arcivescovo del genocidio non lascia indifferenti. E - certamente - questo libro mette in difficoltà gli apologeti del papato di Karol Wojty?a poiché è difficile contestarne i contenuti solo atteggiandosi a martiri di fronte a un supposto “sentimento anticattolico”: qui Marco Aurelio Rivelli, analogamente a quanto ha fatto per Dio è con noi, ha lasciato parlare i documenti ufficiali e ha limitato al minimo i suoi commenti. E i documenti ufficiali sono difficili da smentire.
Chiunque sia facilmente impressionabile è avvertito prima di leggere quest’opera: le eroiche imprese ivi descritte, commesse dagli ustaša croati ai danni dei serbo-ortodossi di Croazia e Bosnia, fanno impallidire quelle, pur inconcepibili, perpetrate dalle SS tedesche contro gli ebrei, ed è tutto dire.
I documenti testimoniano della costituzione dello Stato di Croazia nato a seguito dello smembramento forzato del regno di Jugoslavia nel 1941. La Croazia, Stato-fantoccio riconosciuto solamente da Italia, Germania e Giappone, teneva rapporti persino con il Vaticano che, ipocritamente, aveva un “ambasciatore” non ufficiale a Zagabria mentre intratteneva formali relazioni diplomatiche con il governo di Belgrado in esilio. Ancora più grottescamente, la Santa Sede ospitava a Roma un incaricato del governo croato con il quale evitava accuratamente di incontrarsi durante le occasioni ufficiali in Vaticano - per non creare imbarazzanti commistioni con l’ambasciatore del legittimo governo jugoslavo - ma con il quale andava d’amore e d’accordo nel corso di cerimonie organizzate da associazioni religiose sul territorio italiano, dove la Croazia era riconosciuta come entità statale indipendente.
A capo della creatura messa in piedi da Hitler e Mussolini v’era il poglavnik (duce) Ante Paveliç, fanatico cattolico, anticomunista, antiortodosso e antisemita. Il suo riferimento ideologico era l’arcivescovo Alojzije Stepinac, il più giovane vescovo d’Europa (lo divenne a 36 anni). Stepinac era la mente e Paveliç il braccio.
Il programma ideologico del governo clerico-fascista di Paveliç era sintetizzabile in pochi punti: lo Stato croato doveva essere etnicamente puro, composto solo da devoti cattolici, analogamente al Vaticano. Via, quindi, ai massacri di serbo-ortodossi (principale obiettivo degli ustaša), ebrei (non l’obiettivo principale, ma perseguitati per fare un favore al padrone tedesco), rom (sterminati benché non costituissero neppure un problema politico). La gerarchia cattolica, della quale Stepinac era primate, protesse, benedì e promosse attivamente tale politica.
Documenti e testimonianze che lo attestano sono innumerevoli. Non mancano neppure testimonianze fotografiche, pubblicate nell’opera: prelati che fanno il saluto romano, frati in uniforme, suore in parata militare, conversioni forzate di massa al cattolicesimo. Un esempio su tutti: il responsabile del lager di Jasenovac (dove fu annientata la gran parte dei serbi), il frate francescano Miroslav Filipoviç-Majstoroviç detto “Fra’ Satana”, appare nel libro fotografato sia in divisa ustascia che in abito talare.
Se le SS tedesche si erano date al metodico sterminio degli ebrei in maniera “burocratica” e più asettica possibile - per quanto si possa definire “asettica” un’atrocità come un genocidio - gli ustaša si abbandonarono a ogni sorta di nefandezze: smembramenti, squartamenti, sgozzamenti, mutilazioni, stupri delle donne serbe e amputazione delle loro mammelle, occhi umani usati come trofeo e lingue tagliate e appese alla cintura esposte come testimonianza delle loro imprese: gli stessi alleati nazisti ne furono disgustati e protestarono vibratamente presso i loro comandi perché ponessero un freno ai macellai croati. Nella zona controllata dall’esercito italiano i nostri ufficiali dovettero ordinare di passare per le armi quegli ustaša che si distinguevano per fanatismo nello sterminio dei serbi. Tanto che l’arcivescovo Stepinac si rivolse al Vaticano, sperando che questi facesse pressioni sul governo italiano affinché ordinasse al nostro esercito di non creare problemi alle attività di “conversione” (leggi: “mattanza”) nei confronti delle popolazioni serbe che, sotto l’occupazione italiana, vivevano relativamente tranquille.
Invero disturbanti le foto pubblicate all’interno del libro. Fosse comuni, cadaveri smembrati, decapitati, torturati e sfigurati. Angoscianti le immagini dei sopravvissuti al massacro e le testimonianze di chi scampò alla mattanza fingendosi morto e coprendosi del sangue dei suoi amici massacrati. A dimostrazione che, per quanto l’uomo possa impegnarsi a raggiungere il fondo della propria barbarie, c’è sempre da scavare: al termine di queste imprese, ottocentomila furono i morti, su una popolazione di poco superiore ai quattro milioni.
Quando Josip Broz, il maresciallo Tito, entrò a Zagabria ponendo fine al governo fantoccio di Paveliç, il poglavnik aveva già avuto cura di riparare prima in Austria grazie alle truppe naziste, poi, tramite il Vaticano (nei cui forzieri lasciò l’oro trafugato ai serbi), in Argentina, almeno fin quando la sua presenza non divenne troppo imbarazzante. Riparò poi a Santo Domingo, ospite del dittatore Truijllo, dove si autonominò “rappresentante in esilio dello Stato croato”. L’oro serbo ovviamente sparì e venne usato per finanziare la latitanza dei gerarchi ustaša.
È sorprendente, al proposito, che la polemica contro Pio XII per il suo collaborazionismo con il nazifascismo non consideri questa protezione, data a un uomo che aveva il macabro hobby di collezionare i bulbi oculari delle sue vittime. Un documento dell’ex sottosegretario USA Eizenstat sull’argomento conferma che «…con i tesori sottratti agli ebrei, alla fine della seconda guerra mondiale gli ustaša, i fascisti croati, finanziarono la propria fuga in America Latina, e quella di criminali di guerra nazisti come Klaus Barbie, con l’aiuto del Collegio pontificio di San Girolamo degli Illirici, a Roma» (per chi è pratico della Capitale: è il collegio annesso alla Chiesa di San Girolamo dei Croati a via Tomacelli).
Alojzije Stepinac ebbe un ruolo di primo piano nella creazione e nel consolidamento della dittatura ustaša e, successivamente, nel tentativo di evitare che la Croazia tornasse sotto il legittimo governo jugoslavo. Quello che i suoi agiografi tacciono accuratamente è che egli fu anche membro del parlamento e capo dei cappellani militari, decorato al merito con la massima onoreficenza ustascia. Un antisemita al cubo, che arrivò a dichiarare: «ho fatto notare in Vaticano che le leggi ustaša varate contro il crimine dell’aborto giustificano le leggi contro gli ebrei, i quali sono in Croazia i più grandi difensori, i più frequenti esecutori di questo crimine». Tanto coraggioso prima dell’arrivo di Tito quanto pusillanime dopo, una volta finito sotto processo per tradimento (in quanto formalmente cittadino jugoslavo che aveva cospirato contro la propria nazione): interrogato perché avesse accettato l’onoreficenza, non si vergognò di rispondere che «…se avessi rifiutato la massima onorificenza militare ustaša, sarebbero successe delle cose ancora più terribili… Noi abbiamo stabilito in modo chiaro i principî delle conversioni, gli ortodossi erano liberi e nello stato spirituale di convertirsi o meno», senza rendersi conto della plateale contraddizione: infatti, il pubblico ministero gli contestò che non era pensabile che un uomo del suo rango non potesse rifiutare un’onorificenza per timore di cose terribili, laddove, a dire dello stesso Stepinac, perfino i serbi potevano liberamente scegliere senza conseguenze se diventare ortodossi o meno. Il vile Stepinac non rispose.
Il maresciallo Tito ebbe segreti contatti con il Vaticano, cercando di ottenere da Pio XII la revoca dell’incarico arcivescovile di Stepinac e offrendosi pure di lasciarlo espatriare, per evitare un caso politico. Ma non ci fu nulla da fare. Pacelli aveva bisogno di un martire e, probabilmente, nel suo cinismo, arrivò ad augurarsi che Belgrado condannasse a morte l’arcivescovo. Cosa che non avvenne. Anzi, per essere un traditore del suo popolo, Stepinac fu trattato perfino troppo bene: qualche anno di lavori forzati, poi domicilio coatto e morte tranquilla nel suo letto, avvenuta nel 1960, quando già Pio XII lo aveva nominato cardinale da sette anni.
Sorte completamente diversa da quella del monsignore slovacco Tiso, che fu invece impiccato dalle autorità cecoslovacche dopo la fine della guerra. Il fatto che Stepinac fosse morto nel suo letto non impedì comunque agli agiografi di definirlo come martire. Un maldestro e patetico tentativo da parte di due ebrei di origine croata dalla scarsa credibilità di far inserire inserire Stepinac nel Libro dei Giusti fu rispedito indietro dalla commissione ebraica preposta a ciò.
Nel 1998, come ulteriore atto del suo discutibile e discusso papato, Karol Wojtyla beatificò Stepinac durante il suo viaggio in Croazia, divenuta indipendente nel 1991 e all’epoca governata da un Paveliç in sedicesimo, quel Franjo Tudjiman becero nazionalista e anti-serbo. La cosa non stupisce, perché è un tratto comune della Chiesa schierarsi sempre a fianco della parte peggiore ogni volta che entra in politica.
Da notare che l’autore, dopo l’uscita di questo libro, fu fatto oggetto di insulti e minacce. Motivo ulteriore per consigliarne la lettura.
Marco Aurelio Rivelli è nato a Genova nel 1935. Ha dedicato parte dei suoi studi alle vicende della Seconda Guerra Mondiale. L’opera oggetto di questa recensione non trovò, all’inizio, un editore italiano, quindi uscì in francese per L’Age d’Homme nel 1988 con il titolo di Le Génocide Occulté. Nel 1999 la Kaos lo pubblicò in italiano. Sempre per la Kaos è «Dio è con noi!». La Chiesa di Pio XII complice del nazifascismo (2002) la cui recensione è presente in questa sezione.
Circolo UAAR di Roma
2 gennaio 2005
|