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Aldo Zanardo *
Il cristianesimo del nuovo Pontefice: la "Deus Caritas Est" |
La recente e solenne lettera enciclica
del nuovo pontefice Benedetto
XVI (25 dicembre 2005) (1) mostra
abbastanza bene l’immagine del
cristianesimo a cui si guarda oggi
al vertice della Chiesa cattolica. È
vero che l’enciclica non concerne
l’intero corpo del pensiero cristiano.
Si ferma però su uno dei suoi
comparti più centrali, sulla dottrina
dell’amore. E precisamente,
nella sua prima parte, teologico-speculativa, l’enciclica considera
l’amore di Dio e l’amore dell’uomo.
Nella seconda parte, teologico-pratica,
viene considerato «l’esercizio
dell’amore da parte della Chiesa»,
cioè il servizio che Chiesa e fedeli
svolgono «per venire costantemente
incontro alle sofferenze e ai bisogni,
anche materiali, degli uomini» (p. 50).
Non siamo in grado, anche
per motivi di non competenza teologica, di delineare le posizioni sul
cristianesimo che il pontefice è venuto
tratteggiando lungo i vari decenni
del suo lavoro teologico. Sarebbe
necessario. Perché nella riflessione
di Benedetto XVI sembra
esserci notevole continuità fra il
prima e il dopo la sua elezione a
pontefice (aprile 2005) (2). E perché
l’enciclica sta in un rapporto evidente
e interessante con l’insieme
degli scritti di Joseph Ratzinger:
un rapporto di ambiguità o di equilibrio.
In essa infatti non troviamo
traccia delle aperture teologiche
proprie del professore di teologia,
al quale, come egli stesso ricorda,
sono stati familiari Karl Barth,
Karl Rahner, Rudolf Bultmann,
Hans Kueng, Martin Heidegger. (3)
Ma anche non troviamo traccia
delle scelte rigide del prefetto della
Congregazione per la dottrina
della fede.
Ci limitiamo però qui essenzialmente
a ricordare una delle
sue opere maggiori. Essa deriva
dalle lezioni che Joseph Ratzinger
ha tenuto all’Università di Tubinga
nel 1967; si tratta di Introduzione
al cristianesimo (1968) (4). Vi si
esamina il Credo ancora oggi in vigore,
cioè la professione di fede formulata
nei concili ecumenici di Nicea (325) e di Costantinopoli (381):
l’esame è condotto chiaramente da
un punto di vista cattolico, ma non
tanto in modi illustrativi, quanto
in modi piuttosto analitici, anche
in modi argomentati, e anche in
modi rivolti a penetrare sotto le
metafore del testo, insomma a demitologizzare
certe asserzioni che
vi si incontrano. Quest’opera va ricordata
perché in essa, che ha ad
argomento sostanzialmente l’insieme
del pensiero cristiano, è presente
già molto di quanto troviamo ora nell’enciclica. Così come sono
presenti, bisogna dire, anche diverse
cose che non vi troviamo: a
causa della natura ancora piuttosto
problematica di questo testo.
Qui comunque ci restringiamo a
fare solo alcune osservazioni sulla
Deus Caritas est. È una restrizione
che ha una sua legittimità, perché
l’enciclica è sotto vari aspetti
un testo a sé, uno scritto non più
del professore di teologia e poi arcivescovo
e cardinale Joseph Ratzinger,
ma del pontefice Benedetto XVI.
Vuole essere di fatto l’enciclica
programmatica del nuovo pontificato,
e non una sintesi degli studi
teologici di Joseph Ratzinger, e
tanto meno delle sue «istruzioni»
in quanto prefetto della Congregazione
per la dottrina della fede. Aggiungo
che oggetto delle osservazioni
seguenti sono soltanto alcuni
punti della Deus Caritas est che
colpiscono in modo particolare.
Non siamo in grado di procedere a
una rassegna, anche appena sufficiente,
di tutti i punti importanti
dell’enciclica.
Bisogna premettere che a
monte di questo documento ci sono
fatti che spiegano il profilo e alcuni
limiti del discorso che il pontefice
vi sviluppa. C’è la conclusione di
un lungo pontificato, che ha orientato
l’azione e l’influenza del magistero
vaticano verso il mondo più
che verso la Chiesa, verso terreni
di frontiera (le altre religioni cristiane;
la religione ebraica; i problemi
sociali, politici e di civiltà
oggi) più che verso la fede religiosa
propria del cattolicesimo. C’è,
ancora più a monte, un concilio (1962-1965) che ha avuto nella
Chiesa tante conseguenze di instabilità
e di differenziazione.
Sembra oggi di percepire, al centro
della Chiesa, il predominare, dopo
tanto essersi esposti, dell’esigenza
di ritornare a sé, di raccogliersi
sulla propria identità di fede, e di
precisare il possibile contenuto
condivisibile della fede; ciò al fine
di riordinare e ricompaginare le
molte diversità che si registrano
nella Chiesa: di fede, di liturgia, di
modo di essere cristiani. Si è voluto
un pontefice che, come professore
universitario di teologia e come
consulente teologico del concilio, e
poi come arcivescovo di Monaco e
cardinale (1977), e infine come prefetto
dell’ex Sant’Uffizio (1981), ha
avuto una attenzione quasi esclusiva
verso l’interno della Chiesa, e
precisamente verso la dottrina della
fede. C’è, ora, il problema di riprendere,
con questa prospettiva
di riaccentuazione e di definizione
della fede, i fili del governo della
Chiesa.
Tutto questo condiziona palesemente
la Deus Caritas est. Appare
opportuno che la prima enciclica
del nuovo pontefice sia rivolta
senz’altro, appunto, all’interno
della Chiesa. E infatti la Deus Caritas
est è destinata, dichiaratamente, «ai vescovi, ai presbiteri e
ai diaconi, alle persone consacrate
e a tutti i fedeli laici.» (5) Appare opportuno
anche che essa verta su
quanto deve essere l’essenza basilare
e unificante della Chiesa, appunto
sulla fede. Ma non sull’intero
sistema dei contenuti della fede:
oltre ad apparire cosa prematura per un inizio di pontificato,
sarebbe quasi certamente cosa
che, con il suo uscire dal generale
ed entrare nello specifico, finirebbe
non tanto con il riaccomunare i
Christifideles, quanto con il mantenere
o addirittura con il promuovere
le divisioni. Perciò l’enciclica
deve concernere un contenuto
della fede che sia eminente, ma
che sia anche circoscritto, come appunto
l’amore cristiano. Tuttavia,
ancora, deve concernere questo
contenuto solo nel suo nucleo:
spingersi troppo analiticamente
dentro la questione comporterebbe
di nuovo, anche a questo livello più
determinato, il rischio di uscire dal
quadro di una piattaforma condivisibile.
Dunque: concentrazione
su ciò che è generale della fede, e
anche, almeno nella prima parte
dell’enciclica, su ciò che in essa appare
di grande attrattiva. Come
appunto l’amore.
Queste scelte di opportunità,
praticamente non eludibili, se determinano
il profilo del messaggio
del pontefice, ne determinano anche
alcuni limiti. Il principale è che
il discorso, per lo più, non riesce ad
approfondirsi e ad allargarsi. Appare
incompleto e vago. Insomma
esso include, specie nella prima
parte dell’enciclica, reticenze, manifeste
zone d’ombra, su ciò che,
nel cristianesimo, è meno generale
o è inattraente.
Nell’enciclica avviene dunque
che non si parli di diversi
aspetti della dottrina cristiana. Il
non parlare più evidente è comunque
quello legato alla scelta prima,
predottrinale, dell’enciclica: la sua destinazione interna. Veniamo
messi di fronte in sostanza a
esplicitazioni delle posizioni cristiane,
più che ad argomentazioni
circa queste posizioni; non si prendono
in esame le ragioni delle altre
credenze religiose, neppure le
ragioni di quelle cristiane non cattoliche,
e ancora meno quelle del
credere religioso in generale, o del
non credere, o dell’inclinazione al
non credere. Il discorso insomma è
interno alla Chiesa; presuppone
sia la credenza di chi ascolta, sia il
magistero di chi parla. Di qui la
propensione a presentare il cristianesimo
non come un pensiero
fra altri pensieri e in relazione con
questi, ma come un pensiero orgoglioso
di sé e della sua eccezionale
solitudine. Nell’Introduzione al
Cristianesimo abbiamo al fondo la
stessa ferma impostazione teologica
dell’enciclica, ma si ha presente
un orizzonte ampio. Non si trattava
però del documento di un sovrano
che cerca di governare unitariamente
la totalità della Chiesa.
L’autore non era il pontefice,
ma un teologo, che anche si esponeva
in propri tentativi di interpretazione.
E questo teologo era in
contiguità, anche se ormai, nel
1967, non proprio in consenso, con
le prospettive aperte di talune figure,
anche protestanti, della
grande cultura teologica tedesca
del Novecento, e con le prospettive
aperte dell’appena concluso Concilio
vaticano secondo.
Sono dunque naturalmente
da tenere d’occhio i costi di incompletezza
che sono comportati dall’intento di delineare un cristianesimo che sia un denominatore comune
per i cattolici. È però soprattutto
e in generale da tenere
d’occhio se, malgrado questo intento,
non si proponga alla fine,
sotto vari aspetti, un cristianesimo
di specificità piuttosto marcata.
Un cristianesimo moderno?
Nella prima parte della Deus Caritas
est si vuole anzitutto presentare
l’immagine di Dio. Per ragioni
di spazio, non possiamo seguire,
come sarebbe interessante, il concreto
svilupparsi del discorso pontificio.
In sintesi: Dio è «in assoluto
la sorgente originaria di ogni essere », «principio creativo di tutte le
cose», «ragione primordiale» (p.
30). È il logos del Vangelo di Giovanni.
Il cristianesimo è una metafisica
razionalistica. Cioè, come
si dice nell’Introduzione al cristianesimo,
Dio è l’essere supremo, lo
spirito assoluto; è il «Dio dei filosofi», il Dio che la grande metafisica
antica e moderna ha individuato.
Ma ecco la correzione che la fede
vetero- e neotestamentaria fa alla
filosofia: Dio, che è la sostanza metafisica, è anche relazione, amore,
apertura al tutto, agli uomini e a
ogni uomo. Dio non è solo logos; è «al contempo un amante con tutta
la passione di un vero amore» (p.
30). È persona: un essere libero e
amante. Il fatto che nella prima
parte dell’enciclica, sull’immagine
di Dio, non ci siano ulteriori precisazioni
ha il risultato di conferire
un risalto eccezionale al Dio che è
amore. Se ci sono religioni che insistono molto sulla distanza fra
Dio e l’uomo, il cristianesimo cattolico
appare in queste pagine eminentemente
una religione della vicinanza.
Ed è tale l’enfasi su questa
posizione che si lasciano nella
zona d’ombra componenti dottrinali
importanti, e meno capaci di
attrazione. Non si spiega come
questo Dio-amore sia anche il Dio
giudice degli empi e degli impenitenti,
che pure c’è nella Scrittura e
nella tradizione. Né si spiega come
il Dio che è presente nella storia
dell’uomo sempre, e non solo con
l’evento Gesù, come il Dio che governa
la storia, si concili con la presenza
del male. (6) Giustizia, e non
solo amore di Dio, e compresenza
di Dio e del male, sono questioni
molto controverse che implicano
sviluppi particolari, e sono questioni
povere di attrattiva; si pongono
pertanto fuori del cristianesimo
generale e attraente che si vuole
mettere in evidenza.
Il pontefice sa sicuramente
bene che per il cristianesimo, che è
verità, essere attuale o inattuale
non ha rilevanza. Tiene tuttavia
molto a mostrare che il cristianesimo,
rispetto all’umanismo moderno,
non è antimoderno; che non è estraneo o inadatto agli uomini
moderni; che è attraente. A sostenere
questo assunto è destinata
specialmente l’immagine dell’uomo che l’enciclica offre. L’uomo è unità di corpo e anima, di natura
e spirito. Nel cristianesimo, certo,
tendenze avverse alla corporeità«ci sono sempre state» (p. 17).
Ma, per il teologo Ratzinger e per
il pontefice, si tratta di tendenze marginali: il cristianesimo, in sé, è
sempre perfetto. Si giunge ad affermare
che la fede cristiana «ha
considerato l’uomo sempre come
essere uni-duale» (p. 18).
L’uomo dunque non è solo
spirito; è anche amore, eros.
L’amore, che è desiderio e ricerca
dell’altro, «non nasce dal pensare e
dal volere, ma in certo qual modo
si impone all’essere umano» (p.
12). È una passione che è data
all’essere umano con il suo corpo.
È una «fondamentale relazione vitale» (p. 22). È un «originario fenomeno
umano» (p. 25). «L’eros è
come radicato nella natura stesso
dell’uomo» (p. 32). Ma, insieme, a
queste definizioni se ne intrecciano
altre. L’amore è una «gioia, predisposta
in noi dal Creatore» (pp.
13-14). È tensione verso «una promessa
di felicità che sembra irresistibile» (p. 12). È «fascinazione
per la grande promessa di felicità» (p. 23). È esigenza di infinità e indistruttibilità.
Ciò che è legato alla
limitatezza del nostro corpo è anche
domanda di illimitatezza. Non
meraviglia dunque la fenomenologia
dell’innalzamento dell’amore
che l’enciclica delinea.
Infatti, l’amore è sì un’unica
realtà, ma «con diverse dimensioni» (p. 25). «L’eros inizialmente è
soprattutto bramoso, ascendente» (p. 23): è soprattutto di «carattere
egoistico» (p. 19). È concupiscente,
acquisitivo, possessivo. Ma
l’amore «non sta semplicemente
nel lasciarsi sopraffare dall’istinto» (p. 16). In tale caso, si degraderebbe
e diventerebbe disumano,
perché l’uomo non è solo corpo.
«Non sono né lo spirito né il corpo
da soli ad amare: è l’uomo, la persona,
che ama come creatura unitaria» (p. 17).
Il cristianesimo, così come
respinge l’antitesi di corpo e spirito,
respinge anche l’antitesi di
amore possessivo e amore oblativo o donativo, di eros e di agape o carità
(p. 22). Il cristianesimo però,
si riconosce, vede e valorizza,
nell’eros, essenzialmente la spinta
a essere dono, a essere estasi o
uscita da sé; nel senso di un cammino
o «esodo» «dall’io chiuso in se
stesso» (p. 20). Un esodo da sé verso
l’altro: «L’amore diventa cura
dell’altro e per l’altro. Non cerca
più se stesso, l’immersione nell’ebbrezza
della felicitภcerca il bene
dell’amato: diventa rinuncia, è
pronto al sacrificio, anzi lo cerca»
(p. 20). Dunque, per l’uomo che
ama veramente, «sono necessarie
purificazioni e maturazioni, che
passano attraverso la strada della
rinuncia» (p. 16).
La tendenza dell’amore a
trascendersi non sta però solo
nell’innalzamento all’amore come «cura dell’altro e per l’altro».
L’amore è anche apertura a quell’altro che è il divino. L’esodo da sé
ha anche una destinazione più
alta. «Tra l’amore e il Divino esiste
una qualche relazione» (p. 16).
«L’eros vuole sollevarci in estasi
verso il Divino, condurci al di là di
noi stessi» (p. 18). L’eros deve «donare
all’uomo non il piacere di un
istante, ma un certo pregustamento
del vertice dell’esistenza, di
quella beatitudine a cui tutto il nostro
essere tende» (p. 15). «L’amore promette infinità, eternità, una
realtà grande e totalmente altra
rispetto alla quotidianità del nostro
esistere» (p. 16). L’eros, proprio
perché vuole sollevarci oltre
noi stessi, «richiede un cammino di
ascesa, di rinunce, di purificazioni
e di guarigioni» (p. 18).
«Questo non è rifiuto dell’eros, non è il suo avvelenamento»,
come scrive Nietzsche nell’aforisma
168 di Al di là del bene e del
male (1886), «ma la sua guarigione
in vista della sua vera grandezza » (p. 16). L’uomo, se «rinnega lo
spirito e quindi considera la materia,
il corpo, come realtà esclusiva», perde «la sua grandezza» (pp.
16-17). Il cristianesimo non è repressivo
e afflittivo, non rifiuta e
non ha rifiutato l’eros, ma «ha dichiarato
guerra al suo stravolgimento
distruttivo», a uno stravolgimento
disumanizzante che pretende
la «divinizzazione dell’eros»
e non vuole che esso sia apertura
al trascendimento (p. 15).
I moderni non devono avere
paura del cristianesimo. Esso
pone, fra i fondamenti della sua
antropologia, la naturalità originaria
e positiva dell’eros, del corporeo.
Si presenta dunque ai moderni,
che hanno recuperato questa
naturalità, come una religione
dei moderni, consentanea rispetto
all’uomo moderno. «La critica al
cristianesimo che si è sviluppata
con crescente radicalità a partire
dall’illuminismo» e la successiva e
accennata critica di Nietzsche (p.
13) sono forme di fraintendimento
circa la sostanza, attenta all’integralità
umana, del cristianesimo.
È probabile che, a una considerazione
informata del passato e
del presente della teologia cattolica,
le accennate posizioni sull’amore
umano risultino di rilievo. A una
lettura esterna, questa visione della
vita affettiva o sentimentale, se
la ricostruzione che si è tentata
non è inesatta, può certo essere
detta cristiana; pare però molto
dubbio che possa dirsi moderna.
Rientra, in genere, nella modernità,
almeno in quella più vicina a
noi, in quella postromantica e realistica,
una considerazione della
vita affettiva che la restituisce
all’uomo e la stacca dall’essere
aspirazione al definitivo o all’infinito
e addirittura al divino. E una
considerazione che vede, nella vita
affettiva, la pluralità e la varietà
sia delle relazioni che intercorrono
fra l’io e l’altro, sia delle relazioni
che intercorrono nell’io fra i piani
più immediati e quelli meno immediati
della vita. Relazioni di
coesistenza, di parziale autonomia,
di tensione, di armonia; e anche,
ma sempre al di fuori di una
visione che riporta il finito all’infinito,
relazioni di elevazione della
pulsione amorosa verso forme superiori
della vita affettiva, e verso
la vita etica. Per quanto riguarda
la ricerca del definitivo e del divino,
essa sembra avere retroterra
non tanto nell’immediatezza del
sentimento, quanto nella riflessione
filosofica e scientifica e nella riflessione
morale. Davanti a questa
realtà umana e alla complessità
sua e delle sue relazioni, l’idea del
corpo che viene superato, dell’eros
che c’è ma si purifica, del suo fluire nella donazione di sé e nell’estasi
verso il divino, risulta, mi pare,
molto semplificante e verticalizzata
e mostra i suoi tratti non moderni.
Un cristianesimo
autosufficiente
Queste posizioni sull’amore divino
e su quello umano vengono enunciate
attraverso molti riferimenti
vetero- e neotestamentari, e non
pochi riferimenti si padri delle
chiese latina e greca, dal II al VII
secolo.
Ora, l’affidarsi dell’enciclica,
per trattare dell’amore cristiano,
alle sole fonti testamentarie e patristiche
collima pienamente con
l’intento di tematizzare un cristianesimo
molto generale; ci si tiene
così lontani dalle tante specificazioni
interne al cristianesimo medioevale
e postmedioevale. Ma,
sotto, c’è molto di più.
Un primo punto. Almeno nella
cattolica Italia, dove, in molti
degli scritti e degli studi sul cristianesimo, è di norma l’utilizzazione
della scolastica tomistica,
questa posizione fa pensare al protestantesimo.
È stato soprattutto
questo che, con la sua volontà di riportare
la fede alla purezza primitiva,
ha impostato un ripensamento
del cristianesimo prescindendo
dalle fonti medioevali, dunque per
lo più dal tomismo. L’autore
dell’enciclica viene invece dalla
Germania. E sente sicuramente la
posizione accennata come del tutto
naturale. Joseph Ratzinger, nei suoi Ricordi, sottolinea a più riprese
che la Scrittura e la patristica
delimitano l’orizzonte entro cui,
fin dagli inizi, si snoda la sua riflessione
teologica (7). Nel corso del
suo lavoro, ovviamente, incontra
spesso il tomismo; ma trova questo
pensiero «professorale», «impersonale», «chiuso in sé», «poco pastorale», «troppo cristallizzato sul livello
intellettuale». Insomma
esprime molte riserve (8). È per contro,
dichiaratamente, vicino al suo «grande maestro Agostino», alla
percezione diretta e passionale di
Dio che c’è in Agostino. Non stupisce
dunque il fatto che nell’enciclica
manchi ogni riferimento esplicito
al tomismo (9). Fatto che si riscontrava
già nell’Introduzione al cristianesimo.
Qui però si trova questa
notazione: l’aristotelismo è una
filosofia precristiana, pagana, che
nel XIII secolo si ritenne (che il tomismo
ritenne) utile battezzare
per riavvicinare fede e ragione.
Circa il protestantesimo, nell’enciclica, non si fa evidentemente
alcuna menzione. Ma Joseph
Ratzinger, beninteso per qualche
aspetto, non se ne sente così distante,
come può sentirsi un teologo
italiano. I citati Barth e Bultmann,
che gli sono familiari, sono
protestanti. Nella prefazione alla
decima edizione dell’Introduzione (1969), si parla «della unione fra
cristiani cattolici e cristiani evangelici
nella fede apostolica, al cui
servizio questa Introduzione cerca
di porsi». Si noti: la fede apostolica,
cioè quella risalente agli apostoli
e ai loro successori più vicini.
Nell’enciclica di Ratzinger pontefice, tanto più in quanto è la sua
prima enciclica, non era chiaramente
opportuno segnalare una
qualche convergenza con il protestantesimo.
La distanza dal tomismo non
si manifesta però solo nell’opzione
per un pensiero cristiano non intellettualistico
e per una fede che
irrompe agostiniamente nel soggetto.
Si manifesta anche su un
piano più particolarmente teologico:
la relazione fra fede e ragione.
L’insistenza su questa relazione, e
non sulla sola fede, come si sa, è
propria della tradizione cristiano-cattolica. Anche Ratzinger, nell’Introduzione, osserva che fra fede
e ragione c’è una relazione seria, e
che il cristianesimo non implica la
non ragione, cioè uno staccarsi dalla
ragione e un ritirarsi nella pura
fede, secondo quanto fanno i protestanti
Schleiermacher e Barth.
Ma fra i due elementi c’è relazione
e relazione. E in proposito, ma non è una questione che si può esaminare
qui, il cristianesimo apostolico,
testamentario-patristico, di Joseph
Ratzinger non appare in consonanza
con il posteriore cristianesimo
aristotelico-tomistico. Tomismo
significa sì distinzione fra
fede e ragione, ma anche relazione
forte: quantunque non certo paritetica.
C’è la persuasione che la ragione,
beninteso in quanto creata
da Dio, possa, nella sua autonomia,
accostarsi molto alle verità
del cristianesimo e quindi incontrarsi
con la fede. Nella teologia di
Ratzinger, se capisco bene, la ragione
umana può e deve naturalmente
parlare di Dio; il cristiano non deve solo avere fede, deve anche
ricercare la verità. Ma siamo
lontani dalla fiducia tomistica nella
ragione umana. La distinzione
fra ragione e fede è consistente.
Per cogliere la differenza fra vero
e relativo e quindi per conoscere
l’effettivamente vero, occorre, mi
sembra questa l’esigenza di base
in Ratzinger, il riferimento a un
assoluto effettivo. La ragione, da sola, non può darsi questo riferimento.
È la fede, che ha contatto
con l’assoluto, a permettere alla
ragione di purificarsi dal relativo e
di acquisire capacità di verità. La
fede appare la condizione di possibilità
del conoscere valido della ragione.
Più platonico e agostiniano
che aristotelico, Ratzinger pensa,
sempre se colgo bene le cose, che
fede e ragione, la conoscenza
dell’essere e quella dell’apparire,
certo connesse, si collochino su due
piani sensibilmente diversi. Il tomismo è troppo indulgente circa il
ruolo autonomo della ragione.
Questa dipende dalla fede e ha bisogno
di esserne illuminata.
Si può aggiungere un’altra
osservazione. Da Leone XIII (pontefice
dal 1878 al 1903) il tomismo,
nella cultura dei vertici della Chiesa,
diventa l’indirizzo di pensiero
dominante, quasi ufficiale. E vi rimane
a lungo. Anche se viene modificandosi,
in rapporto con le filosofie
del primo Novecento. E anche
se, nel secondo Novecento, viene
declinando, quantunque non del
tutto: anche nella cultura di Giovanni
Paolo II c’è qualche traccia
di tomismo. Abbiamo solo oggi un
pontefice, che propone inequivocamente una immagine del cristianesimo
che si sottrae alla mediazione
aristotelico-tomistica. Di ciò
non ha tenuto conto o non ha voluto
tenere conto il cardinale Angelo
Scola che, a illustrazione di alcuni
concetti dell’enciclica, si riferisce
varie volte a Tommaso. (10)
Che, rispetto al tomismo, si
sia proprio fuori, appare anche dal
diverso rapporto con la modernità
che si ha in conseguenza del richiamarsi
o del non richiamarsi al
tomismo. Nella Chiesa, la fortuna
di questo indirizzo di pensiero, così
attento ad apprezzare il ruolo della
ragione, si combina, soprattutto
negli ultimi decenni dell’Ottocento,
ma non solo, con uno sforzo diretto
a slegare il cristianesimo
dall’antimodernità e a legarlo alla
cultura moderna, specialmente
alla cultura scientifica. Joseph
Ratzinger tiene invece in primo
piano la fede. È figlio della teologia
che, dopo il primo conflitto mondiale,
mette da parte la teologia liberale
(di cui è tipico, per Ratzinger,
il protestante Adolf von Harnack)
e torna nettamente al religioso.
In lui l’interesse dominante
appare orientato non ad aggiornare
il cristianesimo, ma ad affermare
l’identità e la centralità della
fede cristiana. È importante non
tanto accostarsi al positivo della
modernità, quanto sollecitare la
modernità a rinunciare al suo distanziamento
da Dio e ad avvicinarsi
ai principi del cristianesimo.
Sempre a proposito delle
fonti che l’enciclica utilizza, c’è un
secondo punto da rilevare, punto
che ci obbliga a riprendere queste osservazioni sulla modernità. Il
punto è questo: si parla dell’amore,
trascurando non solo il pensiero
cristiano medioevale, ma anche
tutto il pensiero moderno, incluso
lo stesso pensiero moderno cristiano.
Si noti che Joseph Ratzinger
non ritiene che il cristianesimo
debba trascurare il tempo e fare
capo strettamente alla sola Scrittura,
al depositum fidei ivi rivelato.
Il concetto di rivelazione è per
lui un concetto di azione. La rivelazione è l’agire di Dio che si esprime
anche nella tradizione della
Chiesa: nel tempo, anche nel tempo
moderno, e ovviamente nel tempo
che verrà. È una posizione interessante,
che, modernamente e
non senza una qualche sintonia
con l’ottocentesca e protestante
esegesi storica della Scrittura, impedisce
la dogmatizzazione di questa;
ma che anche rischiosamente
(non per la Chiesa) legittima di fatto
la tradizione. Dio continua a rivelarsi
nella Chiesa. Qui però importa
questo: il cristianesimo, nella
storia, si incrementa. Ma ecco:
da solo. Il cristianesimo protestante
sa che, almeno dal Settecento, è
venuto perfezionandosi, concrescendo
con la cultura moderna.
Nell’Ottocento, il protestantesimo
liberale insisteva sulla perfettibilità
del cristianesimo, sul perfezionamento
che si conseguiva grazie
all’incontro con la filosofia moderna
da Leibniz a Kant e a Hegel. Il
cristianesimo cattolico appare invece
essere esclusivamente se
stesso, autosufficiente. Gli bastano
la rivelazione depositata nella Scrittura, e la rivelazione ininterrotta
della tradizione della Chiesa.
Esso non è concresciuto e non concresce con la cultura moderna.
Ecco ciò che si intravvede, nell’enciclica,
dietro il silenzio sulla cultura
moderna. Questa non è un interlocutore
o un compagno di strada.
Come si è ricordato, di
quell’evento moderno non secondario
che è l’illuminismo, di un
evento così generalmente riconosciuto
e non così discusso come gli
eventi marxismo o nietzschianesimo
o filosofia del progresso, che
l’enciclica pure ricorda, si dice solo
che ha frainteso il cristianesimo.
In sostanza, il pensiero moderno,
rispetto a quello cristiano,
non è un pensiero comparabile, di
dignità analoga. Il cristianesimo
non fa parte di un mondo nel quale
diversi indirizzi di pensiero cooperano
e interagiscono. Per il teologo
Ratzinger caratteristica del
pensiero moderno è l’idea dello sviluppo.
In Hegel o in Marx o nelle
filosofie del progresso, la pienezza
dell’essere sta alla fine; è il futuro.
Ma il futuro, che risulta da un processo,
non può essere pienezza.; è
un condizionato o un relativo. Se si
suppone che l’essere originario sia
irrazionalità o caos, e che la ragione
sia il prodotto di sviluppi casuali
e necessari che ne sono discesi,
non si può presumere che la
ragione fuoriesca dal relativo. Se
la pienezza, se Dio che illumina la
ragione, non sta all’apice, restiamo
nel relativo. O certezza di un assoluto
iniziale, o relativismo. A una
cultura non teologica non si riconosce
la capacità di elaborare conoscenze e valori generali, anche
se revisibili e perfezionabili. Non si
vede che dentro il relativo della
modernità ci sono dei principi. Non
si vede che nella modernità c’è anche
la potenzialità sia di accogliere
domande generali di senso, sia
di suggerire ipotesi di risposta. Si
sa che essa riconosce, secondo i valori
liberali e democratici, l’autonomia
del cristianesimo. Ma non
solo: essa impara dal cristianesimo.
Ritiene importante il cristianesimo
per le sue implicazioni etiche
e ideali: attenzione ai principi
di fratellanza umana, di giustizia,
di dignità dell’uomo; e capacità, in
virtù del riferimento al suo principio
assoluto, di contestare criticamente
la fattualità data. E la modernità
non può non ammirare e
non sentire sua la fede cristiana e
ogni fede religiosa che cerchi di coniugarsi
con i valori del liberalismo
e della scienza: una fede salda
ma insieme mite, non ostile verso le altre religioni e verso la non religione,
fatta di certezza e insieme
di scepsi, disposta in ascolto e insieme
in ricerca di Dio.
L’enciclica propone invece
una fede che sta in alto sopra la ragione,
che è certissima, che è identitaria
e autosufficiente. Resta
chiaramente un terreno per il dialogo
con la cultura moderna. Ma
tale terreno si restringe, e tuttavia
non è poco, a quello degli orientamenti
etici e politici e generalmente
culturali. Sui principi la fede è
incomunicante e intransigente; si
difende e combatte. Ciò a differenza
della modernità, la quale, non
autosufficiente ma perfettibile, cerca e pratica il dialogo su ogni
terreno, e ormai pressoché sempre
con rispetto e mitezza liberale.
E il dialogo con le religioni
non cristiane, con le altre culture
che antepongono la fede alla ragione,
o per lo meno affiancano la ragione
alla fede? Nel proemio
dell’enciclica si legge: «All’inizio
dell’essere cristiano non c’è una decisione
etica o una grande idea,
bensì l’incontro con un avvenimento,
con una Persona, che dà alla
vita un nuovo orizzonte e con ciò la
direzione decisiva» (p. 5). Dunque
l’essere cristiano non è l’esito di un
passaggio o la soddisfazione a un
bisogno. «Una decisione etica» appartiene
chiaramente al bisogno di
ricevere-praticare giustizia e amore.
«Una grande idea» appartiene
al bisogno di filosofia, di religione,
di scienza, al bisogno di guardare a
ciò che è generale. Alla base della
fede cristiana cristiana non c’è
dunque un bisogno, un qualche bisogno
elementare, del soggetto.
Essa è qualcosa di interamente altro
ed esterno rispetto ai bisogni
del soggetto. «Abbiamo creduto
all’amore di Dio: così il cristiano
può esprimere la scelta fondamentale
della sua vita» (p. 5). Nell’essere
cristiano c’è l’incontrarsi con
un avvenimento. Il soggetto non è
un se stesso, con i suoi bisogni; è
semplicemente apertura a un sopraggiungere,
apertura a un fatto,
a ciò che si rivela. Nella Introduzione al cristianesimo si parla di un «positivismo cristiano». Il positivo,
il fatto, si noti, è il Dio che ama, che è entrato nel mondo. Non c’è niente
che sia comune con le altre religioni, che forse si radicano nei bisogni
del soggetto. Oggetto
dell’esperienza originaria della
fede è la recezione dell’intera essenza
del cristianesimo.
Anche il dialogo con le religioni
non cristiane non può essere
perciò profondo. Ci può essere dialogo,
ma, si precisa nell’Introduzione,
nella chiarezza, nel riconoscimento
delle differenze. Nell’identità cristiana non si può ritagliare
un negoziabile. Nel saggio
del 2000, premesso all’Introduzione,
Joseph Ratzinger si dichiara
contro la relativizzazione delle religioni,
cioè contro il convergere
delle fedi nella credenza generica
in un totalmente altro. È «sbagliato
liquidare come irrilevanti i grossi
interrogativi sulle differenze».
La fede cristiana è irrelativa; è radicalmente
se stessa.
Come si vede, il cristianesimo
del pontefice è davvero solo e
autosufficiente. La vocazione della
fede cristiana non è stare con gli altri,
riflettere sulla propria identità
in relazione amica con le identità
delle altre fedi e culture; è dare testimonianza
di sé, essere orgogliosa
di sé, essere eccezionale.
Un cristianesimo premoderno
La seconda parte dell’enciclica
concerne, come si è detto, «l’esercizio
della carità da parte della
Chiesa» (p. 47). Se teniamo presente
che questa ha un triplice
compito fondamentale, la seconda
parte del-l’enciclica riguarda dunque
non quello dell’evangelizzazione o dell’annuncio della Parola,
e non quello della liturgia o della
celebrazione dei sacramenti,
bensì quello del fare caritativo o
amorevole verso l’uomo «nelle sue
diverse condizioni di vita e di attività
» (p. 50). Si rileva che già l’apostata
imperatore Giuliano notava
che l’azione di carità è «caratteristica
decisiva della comunità cristiana » (pp. 57-58). Il pontefice ritiene
chiaramente che l’evangelizzazione
non sia un compito secondario,
e lascia vedere bene ciò anche
in queste pagine. Il proselitismo
cattolico non è però, giustamente,
una pratica molto accettata
dalle altre confessioni cristiane,
specie da quella ortodossa. Perciò,
anche se l’enciclica non è rivolta
verso l’esterno, prudenza, aderenza
all’argomento proprio del documento,
insistenza sulla carità.
Questa seconda parte dell’enciclica appare meno meditata e
precisa della prima; forse perché
coinvolge molte questioni. Di queste,
segnaliamo solo quella che è
più rivelativa del cristianesimo che
si ha in mente, di un cristianesimo
che mostra ora una fisionomia
piuttosto diversa: non più la religione
della vicinanza di Dio
all’uomo, ma la religione della distanza
dell’uomo da Dio. Estrinsecamente,
si tratta ora del cristianesimo
come pensiero del mondo
umano, come interpretazione della
storia e dell’azione degli uomini.
Abbiamo di fronte un pensiero
del mondo umano la cui caratteristica
principale è l’essere condizionato
dalla teologia; nel mondo
si vedono essenzialmente la forza della presenza di Dio e i limiti
stretti della presenza dell’uomo; e,
a questa presenza debole, si raccomandano
fondamentalmente autolimitazioni.
Se la modernità significa
presenza crescente dell’uomo nel mondo, in virtù del cambiamento
e dello sviluppo impressi
a produzione, scienza, organizzazione
sociale, ordinamento politico,
nell’enciclica viene proposto
in sostanza un cristianesimo adatto
alla premodernità, a società in
cui l’uomo non ha conquistato ancora
grande spazio.
Per quanto in termini non
articolati e esaurienti, troviamo
una visione della storia che ricorda
visibilmente la prima parte della
agostiniana Città di Dio (413-428),
quella che si interroga sulla presenza
di Dio nella storia. Come si è
già rilevato, Dio non è chiuso in sé; è amore; è presente nel mondo
umano. «È Dio che governa il mondo,
non noi. Noi gli prestiamo il nostro
servizio solo per quello che possiamo
e finché Egli ce ne dà la forza » (pp. 87-88). All’operatore cristiano «sarà di aiuto il sapere che,
in definitiva, egli non è che uno
strumento nelle mani del Signore;
si libererà così dalla presunzione di
dovere realizzare, in prima persona
e da solo, il necessario miglioramento
del mondo. In umiltà farà
quello che gli è possibile fare e in
umiltà affiderà il resto al Signore» (p. 87). Ecco la presenza forte di Dio
e la presenza dell’uomo, che è oggettivamente
limitata, e che deve
essere rassegnata, non presuntuosa.
L’uomo non deve credersi, secondo
le ideologie moderne, cioè secondo
le dottrine sopravvalutative
dell’uomo, un soggetto che conta
abbastanza nella costruzione della
storia, che è in qualche grado fabbro
di questa.
Ma proseguiamo. La razionalità
divina governa sì il mondo,
però non sempre è visibile. «Spesso
non è dato di conoscere il motivo
per cui Dio trattiene il suo braccio,
invece di intervenire» (p. 91).
Ma «un atteggiamento autenticamente
religioso evita che l’uomo si
eriga a giudice di Dio, accusandolo
di permettere la miseria senza provare
comprensione per le sue creature » (p. 90). Come osservava Agostino,
il prevalere del negativo, il
saccheggio di Roma da parte dei
Goti nel 410, non è il segno che Dio
ha abbandonato il genere umano.
Non è che Dio sia impotente o che
stia dormendo; è Dio; la sua razionalità
provvidenziale è incomprensibile
per l’uomo. Con Agostino,
l’enciclica dice: «Si comprehendis,
non est Deus» (p. 91). La razionalità
divina nella storia non è
la razionalità del processo storico
quale appare a noi uomini, molto
imperniata su noi, individuata
dalle filosofie di Hegel o di Marx e
dalle altre filosofie del progresso.
C’è dunque anche un restare
nascosto di Dio. L’esuberante dottrina
dell’amore divino della prima
parte dell’enciclica sembrava appunto
garantire ottimisticamente
la vicinanza continua di Dio. Ora
si sottolinea che c’è anche distanza.
Ma solo in un certo modo. La distanza
appare a noi, ma non è reale.
Il nascondimento non è assenza. «I cristiani infatti continuano a credere, malgrado tutte le incomprensioni
e le confusioni del mondo
circostante, nella bontà di Dio e
nel suo amore per gli uomini» (pp.
91-92). «Il suo silenzio rimane incomprensibile
per noi», ma i cristiani, «pur immersi come gli altri
uomini nella drammatica complessità
delle vicende della storia, rimangono
saldi nella certezza che
Dio è Padre e ci ama» (p. 92). A
fronte del male nella storia, possiamo
avere «impazienza e dubbi»,
ma, si dice con accenti agostiniani,
dobbiamo avere «la sicura speranza
che Dio tiene il mondo nelle sue
mani, e che nonostante ogni oscurità
Egli vince, come mediante le
sue immagini sconvolgenti alla
fine l’Apocalisse mostra in modo
radioso» (p. 92). Dio dunque è sempre
governante. Anche età e società,
che non fanno trasparire la
sua presenza, rientrano in verità
nel suo disegno razionale.
Siamo dentro un palese pensiero
premoderno. La storia, nella
sostanza, viene sacralizzata; è affidata
a Dio, cioè a se stessa; non,
in una misura non trascurabile,
anche a noi. Viene dunque, nella
sua essenza, accettata; sembra un
destino, non anche il risultato del
nostro operare dentro un contesto
di condizioni e di possibilità. Siamo
portati a giustificare, più che a
sentire responsabilità. Si noti però
questo. Non risulta che il pensiero
cristiano in generale, e anche il
pensiero cristiano cattolico, escluda,
di per se stesso, che la storia
per l’uomo sia anche largamente
possibilità, plesso di condizioni e di
occasioni sulle quali egli può incidere; e non risulta che questo pensiero
escluda di principio che la
storia sia largamente affidata
all’uomo. Anche Ratzinger, nell’Introduzione,
insiste sulla libertà
dell’uomo. Con l’enciclica, siamo
invece, mi pare, davanti a una filosofia
della storia piuttosto specifica
all’interno del pensiero cristiano,
in concreto molto pessimistica
circa il ruolo dell’uomo. Questi
viene sostanzialmente scoraggiato
ad avere coraggio; dissuaso
dallo spingersi ad agire nella storia
cercando di conoscere le possibilità
del suo mondo e le possibilità
del suo influire, e quindi cercando
di muoversi con respiro relativamente
strategico.
Beninteso, nel pessimismo c’è
sempre realismo. Il disincanto
dell’enciclica però, intanto, è spiegato
con una teologia forte della storia,
e non con l’estensione e la complessità
della natura e della storia
reale. E poi non viene a colpire solo
forme di pensiero ispirate a un troppo
di fiducia nell’iniziativa umana;
sembra mettere in discussione ogni
pensiero che attribuisca alla iniziativa
umana un qualche spessore. È
un disincanto che assegna molto
spazio alla provvidenza divina, e
che deprime, fino a una soglia minima,
il fare degli uomini. Sembra
di non essere in un mondo in cui, da
cinque o sei secoli, si è venuta consolidando,
non certo senza l’uomo,
una nuova civiltà, rispetto a quelle
antica e medioevale.
Le conseguenze di questa impostazione
si colgono specialmente
nella concezione della prassi caritativa
cristiana. Su questa, ovviamente, l’enciclica dell’amore si ferma
di più. È una prassi che deve
schiacciarsi manifestamente sull’esistente governato da Dio, e che
deve rinunciare a ogni elemento di
intelligenza e di progetto, di razionalità
propria dell’uomo.
I credenti, in quanto semplicemente
tali, sono tenuti a opere di
amore, di dono di sé o di cura dell’altro.
A ciò è tenuta anche la Chiesa,
che vi provvede in modo organizzato.
Di queste opere c’è bisogno sempre.
Contro l’irrealismo utopico, si
osserva realisticamente essere impossibile
che lo sviluppo del mondo
verso il meglio giunga a compimento.
La storia umana è inalterabile,
ovviamente non quanto a qualità
delle manchevolezze incluse,
ma quanto a inclusione di manchevolezze.
«L’amore - caritas - sarà
sempre necessario, anche nella società
più giusta. Non c’è nessun ordinamento
statale giusto che possa
rendere superfluo il servizio
dell’amore». «Ci sarà sempre sofferenza
che necessita di consolazione
e di aiuto. Sempre ci sarà solitudine.
Sempre ci saranno situazioni di
necessità materiale nelle quali è indispensabile
un aiuto nella linea di
un concreto amore per il prossimo»
(pp. 67-68). «Questo amore non offre
agli uomini solamente un aiuto
materiale, ma anche ristoro e cura
dell’anima, un aiuto spesso più necessario
dell’aiuto materiale» (p.
68). «L’amore è gratuito; non viene
esercitato per raggiungere altri
scopi». Ma ecco il collegamento dell’opera di carità con quella dell’evangelizzazione. «Questo non significa
che l’azione caritativa debba, per così dire, lasciare Dio e Cristo
da parte» (p. 81). E si torna alla
tesi sulla sofferenza immateriale
enunciata nel passo precedente: «Spesso è proprio l’assenza di Dio la
radice più profonda della sofferenza» (p. 81). Dunque attenzione indifferenziata
a ogni sofferenza. «La
carità cristiana è dapprima semplicemente
la risposta a ciò che, in una
determinata situazione, costituisce
la necessità immediata» (p. 77).
Con una diffidenza impressionante
per l’attività politica e in genere per
l’attività umana non caritativa, si
afferma: «Ad un mondo migliore si
contribuisce soltanto facendo il
bene adesso ed in prima persona,
con passione e ovunque ce ne sia la
possibilità, indipendentemente da
strategie e programmi di partito» (p. 80).
Preoccupazione del pontefice è manifestamente che le opere di
carità siano aderenti alla molteplicità
totale delle sofferenze immediate.
Queste opere non devono
farsi afferrare dalle ideologie e
dunque andare selettivamente in
talune direzioni. I credenti «non
devono ispirarsi alle ideologie del
miglioramento del mondo» (p. 84).
Ideologie che pensano di potere
modificare il mondo completamente,
fino ad espungerne la sofferenza.
«L’esperienza della smisuratezza
del bisogno» «può diventare
tentazione all’inerzia sulla base
dell’impressione che, comunque,
nulla possa essere realizzato» Ciòè da evitare. Ma sembra da evitare
soprattutto che questa esperienza
ci spinga «nell’ideologia che
pretende di rifare ora quello che il governo del mondo da parte di Dio,
a quanto pare, non consegue: la soluzione
universale di ogni problema» (p. 88). Ancora la sottolineatura
pessimistica dei limiti della
capacità di migliorare la storia.
Sembra che Dio stesso trattenga
questa nella manchevolezza.
Insomma, «le opere di carità»
sono essenzialmente «elemosine» (p. 60) (11). L’agire caritativo è accogliente
verso la sofferenza qualunque
sia e dovunque sia. Non deve
conformarsi a ideologie e strategie
mondane; esso è l’“attualizzazione
qui ed ora dell’amore di cui l’uomo
ha sempre bisogno» (p. 79). Così
questo agire finisce però di fatto
con il sottrarsi a ogni elaborazione
conoscitiva e a ogni scelta umana.
Ciò si capisce. Se operiamo il
bene in esclusivo rapporto con il
Dio-amore, con l’assoluto, come
esimersi dall’andare in soccorso di
tutte le sofferenze, e come non opporsi
a un discernere umano fra
esse? Perché distinguere, come il
pontefice fa capire bene, tra il soffrire
per assenza di beni materiali
e il soffrire per assenza di fede in
Dio? Sembra però difficile capire
come il fare il bene si possa ridurre
solo a questo soccorrere indiscriminato.
Sembra difficile ammettere
che il credente possa e
debba essere strumento passivo e
deresponsabilizzato di Dio fino a
tale punto estremo. Per lui si prevede
che faccia anche attività politica,
attività che richiede un qualche
uso dell’autonomia umana nello
spazio che sta fra l’assoluto e
l’esistente. Non si vede perché
l’uomo, nel fare caritativo, debba invece dislocarsi semplicemente,
cioè senza autonomia, fra l’assoluta
bontà divina e l’assoluta molteplicità
della sofferenza. Le opere di
carità non vanno certo subordinate
a ideologie. Ma fra un punto di
vista ideologico e un punto di vista
che non c’è, che accetta puramente
l’esistente, esiste un medio: cercare
di guardare oltre i bisogni che
si presentano immediatamente;
cercare di vedere le loro diversità e
le loro cause; progettare gli interventi
che risultino più urgenti ed
efficaci. Non sembra ideologico e
presuntuoso, né sembra smodatamente
moderno dire che l’attività
caritativa, per una parte, resti
pure rivolta alla molteplicità che
la storia-provvidenza gli mette davanti;
ciò per garantire il suo indifferenziato
universalismo. Almeno
per una parte, però, si affidi
anche al mezzo della conoscenza e
dell’iniziativa umana, alla responsabilità
umana. Per altro, nell’enciclica,
anche se solo per l’attività
caritativa della Chiesa, non per
quella spontanea dei singoli, si
prevedono elementi di programmazione
(p. 80).
Alla luce del discorso svolto
nell’enciclica il credere e l’agire caritativo
sono di gran lunga i piani
più importanti della vita. Come
immaginiamo essere accaduto in
altri tempi. Gli altri piani, non legati
direttamente all’imminenza
del divino, e legati al pensiero e
alla prassi degli uomini, appaiono
di minore rilievo, e devono guardarsi
dal debordare. Circa l’agire
non caritativo, si fa qualche osservazione
solo sull’agire politico. In rapporto a Marx e alla dottrina sociale
della Chiesa, si parla di capitale
e di lavoro, non si dedica però
alcuna attenzione all’operare
umano più costruttivo di spazi
umani e più caratteristicamente
moderno, al produrre la ricchezza.
Quanto a questa, l’enciclica sta
all’interesse preminente della
Chiesa, che è, tradizionalmente, la
sua distribuzione.
I credenti, in quanto laici e
dunque cittadini dello Stato, sono
chiamati a «partecipare in prima
persona alla vita pubblica» (p. 70). «Il giusto ordine della società e dello
Stato è compito centrale della
politica» (p. 63). «La giustizia è lo
scopo e quindi anche la misura intrinseca
di ogni politica» (p. 64).
Giustizia è garantire a ciascuno «la sua parte dei beni comuni» (p.
60); dare «a ciascuno ciò che gli
spetta» (p. 66). Trascuriamo il punto,
ormai ovvio, della distinzione
fra Stato e Chiesa, così come la tesi
che lo Stato sembri avere a finalità
solo la giustizia, e non anche lo sviluppo
produttivo e il connesso aumento
dei livelli di vita materiale
e culturale, e non anche, in qualche
misura, la carità.
Vediamo la cosa principale. È
vero che all’agire politico la giustizia
di assegna una certa importanza:
il pontefice si autocritica per la
comprensione tardiva di questo agire
fa parte della Chiesa, e riconosce
al marxismo il merito di avere insistito
sulla necessità della giustizia.
Però anche sull’attività politica
pesa, come si è già detto, il riverbero
dell’accennata visione riduttiva e
diffidente verso l’attività umana. Beninteso, è più che giusto, sempre
e tanto più con il Novecento ancora
vicino, richiamare la politica ai suoi
limiti, e criticare la politica che, totalitariamente,
non sa darsi limiti.
«Lo Stato che vuole provvedere a
tutto, che assorbe tutto in sé, diventa
in definitiva una istanza burocratica
che non può assicurare
l’essenziale di cui l’uomo sofferente,
ogni uomo, ha bisogno: l’amorevole
dedizione personale» (p. 68). Non ci
occorre «uno Stato che regoli e domini
tutto» (p. 68). Va più che bene.
All’uomo e alla sua attività, però, si
rivolgono sempre e solo ammonimenti
a non prevaricare. Non sarebbe
fuori luogo dire all’uomo che
non deve certo puntare a governare
il mondo in sostituzione di Dio, ma
non deve credere che sia uno sconfinamento
improprio dai suoi limiti
il cercare di governare le nostre concrete
società verso un relativo ma
apprezzabile miglioramento.
Sull’attività politica, è tuttavia
più tipico un altro gruppo di osservazioni
che l’enciclica sottolinea.
Siamo sempre nel quadro del
pessimismo, di matrice teologica,
circa le capacità dell’uomo, anche
dell’uomo moderno. «Si è visto che
la formazione di strutture giuste
non è immediatamente compito
della Chiesa, ma appartiene alla
sfera della politica, cioè all’ambito
della ragione autoresponsabile» (p.
69). Ma la autoresponsabile ragione
umana è esposta a oscuramenti.
E, per altro, la giustizia che, nella
politica, è il concetto-guida, può
essere definita convenientemente
solo dall’etica, da un sapere che,
per il pontefice, appare valido solo se elaborato in legame stretto con
la fede. «In questo punto politica e
fede si toccano. Senz’altro, la fede
ha la sua specifica natura di incontro
con il Dio vivente, un incontro
che ci apre nuovi orizzonti
molto al di là dell’ambito proprio
della ragione. Ma al contempo essa è una forza purificatrice per la ragione
stessa. Partendo dalla prospettiva
di Dio, la libera dai suoi
accecamenti e perciò l’aiuta ad essere
meglio se stessa. La fede permette
alla ragione di svolgere in
modo migliore il suo compito e di
vedere meglio ciò che le è proprio» (p. 65).
Per la ragione, «è un pericolo
mai totalmente eliminabile»«l’accecamento etico, derivante dal
prevalere dell’interesse e del potere
che l’abbagliano» (pp. 64-65). La
Chiesa non vuole avere potere sullo
Stato; «vuole semplicemente
contribuire alla purificazione della
ragione e recare il proprio aiuto
per fare sì che ciò che è giusto possa,
qui ed ora, essere riconosciuto
e poi anche realizzato» (p. 65). La
Chiesa deve inserirsi nella lotta
per la giustizia «per la via dell’argomentazione
razionale e deve risvegliare
le forze spirituali, senza
le quali la giustizia, che sempre richiede
anche sacrifici, non può affermarsi
e prosperare» (p. 67).
A proposito dell’operare caritativo,
l’enciclica riconosceva che «l’imperativo dell’amore del prossimo è iscritto dal Creatore nella
stessa natura dell’uomo» (p. 76), e
che quindi non solo la Chiesa e i
credenti, ma anche altre «forze sociali » aiutano «gli uomini bisognosi
di aiuto» (p. 68). Invece, come si vede, a proposito dell’operare politico,
sembra che solo la Chiesa, con
la sua fede, sia in grado di tutelare
la tenuta etica della ragione. Per
l’uomo, che è debole, la Chiesa
sembra rivendicare la sua indispensabilità;
non si fa riferimento
ad altri soggetti che possano tutelare
o collaborare a tutelare eticamente
la politica.
Ormai, mi pare, non servono
molti commenti. Si è già rilevato
che anche l’umanità moderna riconosce
l’utilità dell’impegno della
Chiesa per i valori. E abbiamo già
incontrato la convinzione cristiana
che anche l’umanità moderna, così
fortemente capace di conquistare
spazio, è intrinsecamente debole,
come insegna una teologia premoderna
della storia. La ragione
umana autoresponsabile è esposta
a rischi, ad accecamenti che, come è accaduto e accade, vengono
dall’interesse e dal potere. Nell’uomo e nell’uomo moderno non si
vedono, per questo suo essere debole,
anticorpi. Non si vede la capacità
umana di darsi valori e di
autocorreggersi. Perciò, a rimediare
a questa condizione provvede un
cristianesimo lontano dalle debolezze
moderne, autosufficiente,
premoderno. Sostanzialmente, agli
uomini, nella prima e ottimistica
parte dell’enciclica, si diceva di non
avere paura del cristianesimo, di
accostarvisi, perché è una religione
moderna e attraente, adatta all’uomo.
Qui, nella seconda parte, si
rivela la forte componente pessimistica
dell’antropologia del pontefice.
Gli uomini devono avere sfiducia
in se stessi; e perciò devono accostarsi al cristianesimo. La fede
non è solo una conferma e un arricchimento
delle possibilità dell’uomo; è soprattutto un sussidio
alle sue impossibilità.
In sintesi, come si è visto più
volte, siamo davanti a un cristianesimo
che ritorna proprio in sé e
si raccoglie in sé. Non tanto definendosi
in modi effettivamente generali,
come si diceva più sopra,
quanto caratterizzandosi in modi
piuttosto specifici. Esso sembra
proporsi di procedere, con l’impavida
sicurezza di possedere verità
e valori, per una strada molto sua,
autonoma dal mondo e dalle sue
culture. Di tale scelta del vertice
della Chiesa va evidentemente
preso atto. Siamo a un inizio. La
Chiesa, a cui spetta di decidere,
troverà che questa immagine del
cristianesimo è condivisibile? Essa
incontrerà più consenso o più resistenza
o più silenzio indifferente?
Si darà voce un cristianesimo
meno arroccato, liberale, aperto effettivamente
all’uomo e alla modernità?
Oggi, non solo è arduo fare previsioni su ciò. È arduo anche
tentare di valutare, ove una
parte consistente del pensiero della
Chiesa tenda ad assestarsi
sull’idea di cristianesimo delineata
nell’enciclica, quali costi e quali
benefici ne deriveranno per la crescita
della cultura cristiana e della
cultura moderna.
A questo punto occorrerebbe
fare qualche osservazione sulla
lettura, per altro non molto impegnata,
che l’enciclica offre del
marxismo. Per il pontefice, questo
pensiero contiene «del vero, ma anche
non poco di errato» (p. 60). Ed è un «sogno svanito» (p. 62). «Somnium
hoc evanuit». Quanto si dice
sul marxismo non sembra però
portare nuovi elementi all’immagine
del cristianesimo che si è cercato
di tratteggiare. Per questa ragione,
e per ragioni di spazio, le osservazioni
in proposito possono essere
rinviate.
NOTE
1 Benedetto XVI, Lettera enciclica Deus
Caritas est, Città del Vaticano, Libreria
editrice Vaticana, 2005, pp. 108. Il rinvio
alle pagine di questa edizione è indicato direttamente
nel testo, tra parentesi.
2 Vi insiste l’informato e caustico Contro
Ratzinger, di autore anonimo, Milano,
Isbn edizioni, 2006.
3 Cfr. Joseph Ratzinger, La mia vita,
Autobiografia, Cinisello Balsamo, Edizioni
San Paolo, 1997. Più preciso e più appropriato
il titolo dell’edizione tedesca (1998):
Aus meinem Leben. Erinnerungen 19271977.
4 Joseph Ratzinger, Introduzione al cristianesimo,
Lezioni sul Simbolo apostolico,
con un nuovo saggio introduttivo, Brescia,
Queriniana, 2005, pp. 367. È la XIII edizione
italiana (la prima è del 1969). Il nuovo
saggio introduttivo è dell’aprile 2000.
5 L’edizione italiana dell’enciclica, a differenza
di quelle tedesca e francese, mantiene
nel sottotitolo il grecismo-latinismo «presbiteri» per indicare i preti o sacerdoti.
6 È da vedere specialmente Joseph Ratzinger,
Escatologia, morte e vita eterna, Assisi,
Cittadella editrice, 1977.
7 Cfr. La mia vita, cit., in particolare p. 95. Per spiegare il dissenso, siamo nei primi
anni sessanta, con gli sviluppi recenti
della teologia di Rahner, egli scrive: «per la
mia formazione ero stato segnato soprattutto
dalla Scrittura e dai Padri».
8 Ivi, pp. 44, 50, 70, 88, 95, 109.
9 C’è forse un riferimento vago a Tommaso:
la distinzione, per altro non molto
sottolineata, fra amor benevolentiae e amor
concupiscientiae.
10 Benedetto XVI, Deus Caritas est, Enciclica,
Introduzione e commento di Angelo
Scola, Siena, Cantagalli, 2006.
11 Cfr. in proposito le sottolineature di
Alberto Melloni in L’inizio di papa Ratzinger,
Torino, Einaudi, 2006.
da Critica Marxista, n. 2 - 2006
* Professore ordinario
di Filosofia morale all'Università di Firenze |