Aldo Zanardo *

Il cristianesimo del nuovo Pontefice: la "Deus Caritas Est"

La recente e solenne lettera enciclica del nuovo pontefice Benedetto XVI (25 dicembre 2005) (1) mostra abbastanza bene l’immagine del cristianesimo a cui si guarda oggi al vertice della Chiesa cattolica. È vero che l’enciclica non concerne l’intero corpo del pensiero cristiano.
Si ferma però su uno dei suoi comparti più centrali, sulla dottrina dell’amore. E precisamente, nella sua prima parte, teologico-speculativa, l’enciclica considera l’amore di Dio e l’amore dell’uomo.
Nella seconda parte, teologico-pratica, viene considerato «l’esercizio dell’amore da parte della Chiesa», cioè il servizio che Chiesa e fedeli svolgono «per venire costantemente incontro alle sofferenze e ai bisogni, anche materiali, degli uomini» (p. 50).

Non siamo in grado, anche per motivi di non competenza teologica, di delineare le posizioni sul cristianesimo che il pontefice è venuto tratteggiando lungo i vari decenni del suo lavoro teologico. Sarebbe necessario. Perché nella riflessione di Benedetto XVI sembra esserci notevole continuità fra il prima e il dopo la sua elezione a pontefice (aprile 2005) (2). E perché l’enciclica sta in un rapporto evidente e interessante con l’insieme degli scritti di Joseph Ratzinger: un rapporto di ambiguità o di equilibrio.
In essa infatti non troviamo traccia delle aperture teologiche proprie del professore di teologia, al quale, come egli stesso ricorda, sono stati familiari Karl Barth, Karl Rahner, Rudolf Bultmann, Hans Kueng, Martin Heidegger. (3)
Ma anche non troviamo traccia delle scelte rigide del prefetto della Congregazione per la dottrina della fede.

Ci limitiamo però qui essenzialmente a ricordare una delle sue opere maggiori. Essa deriva dalle lezioni che Joseph Ratzinger ha tenuto all’Università di Tubinga nel 1967; si tratta di Introduzione al cristianesimo (1968) (4). Vi si esamina il Credo ancora oggi in vigore, cioè la professione di fede formulata nei concili ecumenici di Nicea (325) e di Costantinopoli (381): l’esame è condotto chiaramente da un punto di vista cattolico, ma non tanto in modi illustrativi, quanto in modi piuttosto analitici, anche in modi argomentati, e anche in modi rivolti a penetrare sotto le metafore del testo, insomma a demitologizzare certe asserzioni che vi si incontrano. Quest’opera va ricordata perché in essa, che ha ad argomento sostanzialmente l’insieme del pensiero cristiano, è presente già molto di quanto troviamo ora nell’enciclica. Così come sono presenti, bisogna dire, anche diverse cose che non vi troviamo: a causa della natura ancora piuttosto problematica di questo testo.
Qui comunque ci restringiamo a fare solo alcune osservazioni sulla Deus Caritas est. È una restrizione che ha una sua legittimità, perché l’enciclica è sotto vari aspetti un testo a sé, uno scritto non più del professore di teologia e poi arcivescovo e cardinale Joseph Ratzinger, ma del pontefice Benedetto XVI.
Vuole essere di fatto l’enciclica programmatica del nuovo pontificato, e non una sintesi degli studi teologici di Joseph Ratzinger, e tanto meno delle sue «istruzioni» in quanto prefetto della Congregazione per la dottrina della fede. Aggiungo che oggetto delle osservazioni seguenti sono soltanto alcuni punti della Deus Caritas est che colpiscono in modo particolare.
Non siamo in grado di procedere a una rassegna, anche appena sufficiente, di tutti i punti importanti dell’enciclica.
Bisogna premettere che a monte di questo documento ci sono fatti che spiegano il profilo e alcuni limiti del discorso che il pontefice vi sviluppa. C’è la conclusione di un lungo pontificato, che ha orientato l’azione e l’influenza del magistero vaticano verso il mondo più che verso la Chiesa, verso terreni di frontiera (le altre religioni cristiane; la religione ebraica; i problemi sociali, politici e di civiltà oggi) più che verso la fede religiosa propria del cattolicesimo. C’è, ancora più a monte, un concilio (1962-1965) che ha avuto nella Chiesa tante conseguenze di instabilità e di differenziazione.
Sembra oggi di percepire, al centro della Chiesa, il predominare, dopo tanto essersi esposti, dell’esigenza di ritornare a sé, di raccogliersi sulla propria identità di fede, e di precisare il possibile contenuto condivisibile della fede; ciò al fine di riordinare e ricompaginare le molte diversità che si registrano nella Chiesa: di fede, di liturgia, di modo di essere cristiani. Si è voluto un pontefice che, come professore universitario di teologia e come consulente teologico del concilio, e poi come arcivescovo di Monaco e cardinale (1977), e infine come prefetto dell’ex Sant’Uffizio (1981), ha avuto una attenzione quasi esclusiva verso l’interno della Chiesa, e precisamente verso la dottrina della fede. C’è, ora, il problema di riprendere, con questa prospettiva di riaccentuazione e di definizione della fede, i fili del governo della Chiesa.

Tutto questo condiziona palesemente la Deus Caritas est. Appare opportuno che la prima enciclica del nuovo pontefice sia rivolta senz’altro, appunto, all’interno della Chiesa. E infatti la Deus Caritas est è destinata, dichiaratamente, «ai vescovi, ai presbiteri e ai diaconi, alle persone consacrate e a tutti i fedeli laici.» (5) Appare opportuno anche che essa verta su quanto deve essere l’essenza basilare e unificante della Chiesa, appunto sulla fede. Ma non sull’intero sistema dei contenuti della fede: oltre ad apparire cosa prematura per un inizio di pontificato, sarebbe quasi certamente cosa che, con il suo uscire dal generale ed entrare nello specifico, finirebbe non tanto con il riaccomunare i Christifideles, quanto con il mantenere o addirittura con il promuovere le divisioni. Perciò l’enciclica deve concernere un contenuto della fede che sia eminente, ma che sia anche circoscritto, come appunto l’amore cristiano. Tuttavia, ancora, deve concernere questo contenuto solo nel suo nucleo: spingersi troppo analiticamente dentro la questione comporterebbe di nuovo, anche a questo livello più determinato, il rischio di uscire dal quadro di una piattaforma condivisibile.
Dunque: concentrazione su ciò che è generale della fede, e anche, almeno nella prima parte dell’enciclica, su ciò che in essa appare di grande attrattiva. Come appunto l’amore.

Queste scelte di opportunità, praticamente non eludibili, se determinano il profilo del messaggio del pontefice, ne determinano anche alcuni limiti. Il principale è che il discorso, per lo più, non riesce ad approfondirsi e ad allargarsi. Appare incompleto e vago. Insomma esso include, specie nella prima parte dell’enciclica, reticenze, manifeste zone d’ombra, su ciò che, nel cristianesimo, è meno generale o è inattraente.

Nell’enciclica avviene dunque che non si parli di diversi aspetti della dottrina cristiana. Il non parlare più evidente è comunque quello legato alla scelta prima, predottrinale, dell’enciclica: la sua destinazione interna. Veniamo messi di fronte in sostanza a esplicitazioni delle posizioni cristiane, più che ad argomentazioni circa queste posizioni; non si prendono in esame le ragioni delle altre credenze religiose, neppure le ragioni di quelle cristiane non cattoliche, e ancora meno quelle del credere religioso in generale, o del non credere, o dell’inclinazione al non credere. Il discorso insomma è interno alla Chiesa; presuppone sia la credenza di chi ascolta, sia il magistero di chi parla. Di qui la propensione a presentare il cristianesimo non come un pensiero fra altri pensieri e in relazione con questi, ma come un pensiero orgoglioso di sé e della sua eccezionale solitudine. Nell’Introduzione al Cristianesimo abbiamo al fondo la stessa ferma impostazione teologica dell’enciclica, ma si ha presente un orizzonte ampio. Non si trattava però del documento di un sovrano che cerca di governare unitariamente la totalità della Chiesa.
L’autore non era il pontefice, ma un teologo, che anche si esponeva in propri tentativi di interpretazione. E questo teologo era in contiguità, anche se ormai, nel 1967, non proprio in consenso, con le prospettive aperte di talune figure, anche protestanti, della grande cultura teologica tedesca del Novecento, e con le prospettive aperte dell’appena concluso Concilio vaticano secondo.

Sono dunque naturalmente da tenere d’occhio i costi di incompletezza che sono comportati dall’intento di delineare un cristianesimo che sia un denominatore comune per i cattolici. È però soprattutto e in generale da tenere d’occhio se, malgrado questo intento, non si proponga alla fine, sotto vari aspetti, un cristianesimo di specificità piuttosto marcata.

Un cristianesimo moderno?

Nella prima parte della Deus Caritas est si vuole anzitutto presentare l’immagine di Dio. Per ragioni di spazio, non possiamo seguire, come sarebbe interessante, il concreto svilupparsi del discorso pontificio.
In sintesi: Dio è «in assoluto la sorgente originaria di ogni essere », «principio creativo di tutte le cose», «ragione primordiale» (p. 30). È il logos del Vangelo di Giovanni. Il cristianesimo è una metafisica razionalistica. Cioè, come si dice nell’Introduzione al cristianesimo, Dio è l’essere supremo, lo spirito assoluto; è il «Dio dei filosofi», il Dio che la grande metafisica antica e moderna ha individuato.
Ma ecco la correzione che la fede vetero- e neotestamentaria fa alla filosofia: Dio, che è la sostanza metafisica, è anche relazione, amore, apertura al tutto, agli uomini e a ogni uomo. Dio non è solo logos; è «al contempo un amante con tutta la passione di un vero amore» (p. 30). È persona: un essere libero e amante. Il fatto che nella prima parte dell’enciclica, sull’immagine di Dio, non ci siano ulteriori precisazioni ha il risultato di conferire un risalto eccezionale al Dio che è amore. Se ci sono religioni che insistono molto sulla distanza fra Dio e l’uomo, il cristianesimo cattolico appare in queste pagine eminentemente una religione della vicinanza.
Ed è tale l’enfasi su questa posizione che si lasciano nella zona d’ombra componenti dottrinali importanti, e meno capaci di attrazione. Non si spiega come questo Dio-amore sia anche il Dio giudice degli empi e degli impenitenti, che pure c’è nella Scrittura e nella tradizione. Né si spiega come il Dio che è presente nella storia dell’uomo sempre, e non solo con l’evento Gesù, come il Dio che governa la storia, si concili con la presenza del male. (6) Giustizia, e non solo amore di Dio, e compresenza di Dio e del male, sono questioni molto controverse che implicano sviluppi particolari, e sono questioni povere di attrattiva; si pongono pertanto fuori del cristianesimo generale e attraente che si vuole mettere in evidenza.

Il pontefice sa sicuramente bene che per il cristianesimo, che è verità, essere attuale o inattuale non ha rilevanza. Tiene tuttavia molto a mostrare che il cristianesimo, rispetto all’umanismo moderno, non è antimoderno; che non è estraneo o inadatto agli uomini moderni; che è attraente. A sostenere questo assunto è destinata specialmente l’immagine dell’uomo che l’enciclica offre. L’uomo è unità di corpo e anima, di natura e spirito. Nel cristianesimo, certo, tendenze avverse alla corporeità«ci sono sempre state» (p. 17).
Ma, per il teologo Ratzinger e per il pontefice, si tratta di tendenze marginali: il cristianesimo, in sé, è sempre perfetto. Si giunge ad affermare che la fede cristiana «ha considerato l’uomo sempre come essere uni-duale» (p. 18).

L’uomo dunque non è solo spirito; è anche amore, eros.
L’amore, che è desiderio e ricerca dell’altro, «non nasce dal pensare e dal volere, ma in certo qual modo si impone all’essere umano» (p. 12). È una passione che è data all’essere umano con il suo corpo.
È una «fondamentale relazione vitale» (p. 22). È un «originario fenomeno umano» (p. 25). «L’eros è come radicato nella natura stesso dell’uomo» (p. 32). Ma, insieme, a queste definizioni se ne intrecciano altre. L’amore è una «gioia, predisposta in noi dal Creatore» (pp. 13-14). È tensione verso «una promessa di felicità che sembra irresistibile» (p. 12). È «fascinazione per la grande promessa di felicità» (p. 23). È esigenza di infinità e indistruttibilità.
Ciò che è legato alla limitatezza del nostro corpo è anche domanda di illimitatezza. Non meraviglia dunque la fenomenologia dell’innalzamento dell’amore che l’enciclica delinea.
Infatti, l’amore è sì un’unica realtà, ma «con diverse dimensioni» (p. 25). «L’eros inizialmente è soprattutto bramoso, ascendente» (p. 23): è soprattutto di «carattere egoistico» (p. 19). È concupiscente, acquisitivo, possessivo. Ma l’amore «non sta semplicemente nel lasciarsi sopraffare dall’istinto» (p. 16). In tale caso, si degraderebbe e diventerebbe disumano, perché l’uomo non è solo corpo.
«Non sono né lo spirito né il corpo da soli ad amare: è l’uomo, la persona, che ama come creatura unitaria» (p. 17).

Il cristianesimo, così come respinge l’antitesi di corpo e spirito, respinge anche l’antitesi di amore possessivo e amore oblativo o donativo, di eros e di agape o carità (p. 22). Il cristianesimo però, si riconosce, vede e valorizza, nell’eros, essenzialmente la spinta a essere dono, a essere estasi o uscita da sé; nel senso di un cammino o «esodo» «dall’io chiuso in se stesso» (p. 20). Un esodo da sé verso l’altro: «L’amore diventa cura dell’altro e per l’altro. Non cerca più se stesso, l’immersione nell’ebbrezza della felicitภcerca il bene dell’amato: diventa rinuncia, è pronto al sacrificio, anzi lo cerca» (p. 20). Dunque, per l’uomo che ama veramente, «sono necessarie purificazioni e maturazioni, che passano attraverso la strada della rinuncia» (p. 16).
La tendenza dell’amore a trascendersi non sta però solo nell’innalzamento all’amore come «cura dell’altro e per l’altro».
L’amore è anche apertura a quell’altro che è il divino. L’esodo da sé ha anche una destinazione più alta. «Tra l’amore e il Divino esiste una qualche relazione» (p. 16).
«L’eros vuole sollevarci in estasi verso il Divino, condurci al di là di noi stessi» (p. 18). L’eros deve «donare all’uomo non il piacere di un istante, ma un certo pregustamento del vertice dell’esistenza, di quella beatitudine a cui tutto il nostro essere tende» (p. 15). «L’amore promette infinità, eternità, una realtà grande e totalmente altra rispetto alla quotidianità del nostro esistere» (p. 16). L’eros, proprio perché vuole sollevarci oltre noi stessi, «richiede un cammino di ascesa, di rinunce, di purificazioni e di guarigioni» (p. 18).
«Questo non è rifiuto dell’eros, non è il suo avvelenamento», come scrive Nietzsche nell’aforisma 168 di Al di là del bene e del male (1886), «ma la sua guarigione in vista della sua vera grandezza » (p. 16). L’uomo, se «rinnega lo spirito e quindi considera la materia, il corpo, come realtà esclusiva», perde «la sua grandezza» (pp. 16-17). Il cristianesimo non è repressivo e afflittivo, non rifiuta e non ha rifiutato l’eros, ma «ha dichiarato guerra al suo stravolgimento distruttivo», a uno stravolgimento disumanizzante che pretende la «divinizzazione dell’eros» e non vuole che esso sia apertura al trascendimento (p. 15).

I moderni non devono avere paura del cristianesimo. Esso pone, fra i fondamenti della sua antropologia, la naturalità originaria e positiva dell’eros, del corporeo.
Si presenta dunque ai moderni, che hanno recuperato questa naturalità, come una religione dei moderni, consentanea rispetto all’uomo moderno. «La critica al cristianesimo che si è sviluppata con crescente radicalità a partire dall’illuminismo» e la successiva e accennata critica di Nietzsche (p. 13) sono forme di fraintendimento circa la sostanza, attenta all’integralità umana, del cristianesimo.

È probabile che, a una considerazione informata del passato e del presente della teologia cattolica, le accennate posizioni sull’amore umano risultino di rilievo. A una lettura esterna, questa visione della vita affettiva o sentimentale, se la ricostruzione che si è tentata non è inesatta, può certo essere detta cristiana; pare però molto dubbio che possa dirsi moderna.
Rientra, in genere, nella modernità, almeno in quella più vicina a noi, in quella postromantica e realistica, una considerazione della vita affettiva che la restituisce all’uomo e la stacca dall’essere aspirazione al definitivo o all’infinito e addirittura al divino. E una considerazione che vede, nella vita affettiva, la pluralità e la varietà sia delle relazioni che intercorrono fra l’io e l’altro, sia delle relazioni che intercorrono nell’io fra i piani più immediati e quelli meno immediati della vita. Relazioni di coesistenza, di parziale autonomia, di tensione, di armonia; e anche, ma sempre al di fuori di una visione che riporta il finito all’infinito, relazioni di elevazione della pulsione amorosa verso forme superiori della vita affettiva, e verso la vita etica. Per quanto riguarda la ricerca del definitivo e del divino, essa sembra avere retroterra non tanto nell’immediatezza del sentimento, quanto nella riflessione filosofica e scientifica e nella riflessione morale. Davanti a questa realtà umana e alla complessità sua e delle sue relazioni, l’idea del corpo che viene superato, dell’eros che c’è ma si purifica, del suo fluire nella donazione di sé e nell’estasi verso il divino, risulta, mi pare, molto semplificante e verticalizzata e mostra i suoi tratti non moderni.

Un cristianesimo autosufficiente

Queste posizioni sull’amore divino e su quello umano vengono enunciate attraverso molti riferimenti vetero- e neotestamentari, e non pochi riferimenti si padri delle chiese latina e greca, dal II al VII secolo.

Ora, l’affidarsi dell’enciclica, per trattare dell’amore cristiano, alle sole fonti testamentarie e patristiche collima pienamente con l’intento di tematizzare un cristianesimo molto generale; ci si tiene così lontani dalle tante specificazioni interne al cristianesimo medioevale e postmedioevale. Ma, sotto, c’è molto di più.

Un primo punto. Almeno nella cattolica Italia, dove, in molti degli scritti e degli studi sul cristianesimo, è di norma l’utilizzazione della scolastica tomistica, questa posizione fa pensare al protestantesimo.
È stato soprattutto questo che, con la sua volontà di riportare la fede alla purezza primitiva, ha impostato un ripensamento del cristianesimo prescindendo dalle fonti medioevali, dunque per lo più dal tomismo. L’autore dell’enciclica viene invece dalla Germania. E sente sicuramente la posizione accennata come del tutto naturale. Joseph Ratzinger, nei suoi Ricordi, sottolinea a più riprese che la Scrittura e la patristica delimitano l’orizzonte entro cui, fin dagli inizi, si snoda la sua riflessione teologica (7). Nel corso del suo lavoro, ovviamente, incontra spesso il tomismo; ma trova questo pensiero «professorale», «impersonale», «chiuso in sé», «poco pastorale», «troppo cristallizzato sul livello intellettuale». Insomma esprime molte riserve (8). È per contro, dichiaratamente, vicino al suo «grande maestro Agostino», alla percezione diretta e passionale di Dio che c’è in Agostino. Non stupisce dunque il fatto che nell’enciclica manchi ogni riferimento esplicito al tomismo (9). Fatto che si riscontrava già nell’Introduzione al cristianesimo.
Qui però si trova questa notazione: l’aristotelismo è una filosofia precristiana, pagana, che nel XIII secolo si ritenne (che il tomismo ritenne) utile battezzare per riavvicinare fede e ragione.

Circa il protestantesimo, nell’enciclica, non si fa evidentemente alcuna menzione. Ma Joseph Ratzinger, beninteso per qualche aspetto, non se ne sente così distante, come può sentirsi un teologo italiano. I citati Barth e Bultmann, che gli sono familiari, sono protestanti. Nella prefazione alla decima edizione dell’Introduzione (1969), si parla «della unione fra cristiani cattolici e cristiani evangelici nella fede apostolica, al cui servizio questa Introduzione cerca di porsi». Si noti: la fede apostolica, cioè quella risalente agli apostoli e ai loro successori più vicini.
Nell’enciclica di Ratzinger pontefice, tanto più in quanto è la sua prima enciclica, non era chiaramente opportuno segnalare una qualche convergenza con il protestantesimo.

La distanza dal tomismo non si manifesta però solo nell’opzione per un pensiero cristiano non intellettualistico e per una fede che irrompe agostiniamente nel soggetto.
Si manifesta anche su un piano più particolarmente teologico: la relazione fra fede e ragione.
L’insistenza su questa relazione, e non sulla sola fede, come si sa, è propria della tradizione cristiano-cattolica. Anche Ratzinger, nell’Introduzione, osserva che fra fede e ragione c’è una relazione seria, e che il cristianesimo non implica la non ragione, cioè uno staccarsi dalla ragione e un ritirarsi nella pura fede, secondo quanto fanno i protestanti Schleiermacher e Barth.
Ma fra i due elementi c’è relazione e relazione. E in proposito, ma non è una questione che si può esaminare qui, il cristianesimo apostolico, testamentario-patristico, di Joseph Ratzinger non appare in consonanza con il posteriore cristianesimo aristotelico-tomistico. Tomismo significa sì distinzione fra fede e ragione, ma anche relazione forte: quantunque non certo paritetica.
C’è la persuasione che la ragione, beninteso in quanto creata da Dio, possa, nella sua autonomia, accostarsi molto alle verità del cristianesimo e quindi incontrarsi con la fede. Nella teologia di Ratzinger, se capisco bene, la ragione umana può e deve naturalmente parlare di Dio; il cristiano non deve solo avere fede, deve anche ricercare la verità. Ma siamo lontani dalla fiducia tomistica nella ragione umana. La distinzione fra ragione e fede è consistente.
Per cogliere la differenza fra vero e relativo e quindi per conoscere l’effettivamente vero, occorre, mi sembra questa l’esigenza di base in Ratzinger, il riferimento a un assoluto effettivo. La ragione, da sola, non può darsi questo riferimento.
È la fede, che ha contatto con l’assoluto, a permettere alla ragione di purificarsi dal relativo e di acquisire capacità di verità. La fede appare la condizione di possibilità del conoscere valido della ragione.
Più platonico e agostiniano che aristotelico, Ratzinger pensa, sempre se colgo bene le cose, che fede e ragione, la conoscenza dell’essere e quella dell’apparire, certo connesse, si collochino su due piani sensibilmente diversi. Il tomismo è troppo indulgente circa il ruolo autonomo della ragione.
Questa dipende dalla fede e ha bisogno di esserne illuminata.

Si può aggiungere un’altra osservazione. Da Leone XIII (pontefice dal 1878 al 1903) il tomismo, nella cultura dei vertici della Chiesa, diventa l’indirizzo di pensiero dominante, quasi ufficiale. E vi rimane a lungo. Anche se viene modificandosi, in rapporto con le filosofie del primo Novecento. E anche se, nel secondo Novecento, viene declinando, quantunque non del tutto: anche nella cultura di Giovanni Paolo II c’è qualche traccia di tomismo. Abbiamo solo oggi un pontefice, che propone inequivocamente una immagine del cristianesimo che si sottrae alla mediazione aristotelico-tomistica. Di ciò non ha tenuto conto o non ha voluto tenere conto il cardinale Angelo Scola che, a illustrazione di alcuni concetti dell’enciclica, si riferisce varie volte a Tommaso. (10)

Che, rispetto al tomismo, si sia proprio fuori, appare anche dal diverso rapporto con la modernità che si ha in conseguenza del richiamarsi o del non richiamarsi al tomismo. Nella Chiesa, la fortuna di questo indirizzo di pensiero, così attento ad apprezzare il ruolo della ragione, si combina, soprattutto negli ultimi decenni dell’Ottocento, ma non solo, con uno sforzo diretto a slegare il cristianesimo dall’antimodernità e a legarlo alla cultura moderna, specialmente alla cultura scientifica. Joseph Ratzinger tiene invece in primo piano la fede. È figlio della teologia che, dopo il primo conflitto mondiale, mette da parte la teologia liberale (di cui è tipico, per Ratzinger, il protestante Adolf von Harnack) e torna nettamente al religioso.
In lui l’interesse dominante appare orientato non ad aggiornare il cristianesimo, ma ad affermare l’identità e la centralità della fede cristiana. È importante non tanto accostarsi al positivo della modernità, quanto sollecitare la modernità a rinunciare al suo distanziamento da Dio e ad avvicinarsi ai principi del cristianesimo.

Sempre a proposito delle fonti che l’enciclica utilizza, c’è un secondo punto da rilevare, punto che ci obbliga a riprendere queste osservazioni sulla modernità. Il punto è questo: si parla dell’amore, trascurando non solo il pensiero cristiano medioevale, ma anche tutto il pensiero moderno, incluso lo stesso pensiero moderno cristiano.
Si noti che Joseph Ratzinger non ritiene che il cristianesimo debba trascurare il tempo e fare capo strettamente alla sola Scrittura, al depositum fidei ivi rivelato.
Il concetto di rivelazione è per lui un concetto di azione. La rivelazione è l’agire di Dio che si esprime anche nella tradizione della Chiesa: nel tempo, anche nel tempo moderno, e ovviamente nel tempo che verrà. È una posizione interessante, che, modernamente e non senza una qualche sintonia con l’ottocentesca e protestante esegesi storica della Scrittura, impedisce la dogmatizzazione di questa; ma che anche rischiosamente (non per la Chiesa) legittima di fatto la tradizione. Dio continua a rivelarsi nella Chiesa. Qui però importa questo: il cristianesimo, nella storia, si incrementa. Ma ecco: da solo. Il cristianesimo protestante sa che, almeno dal Settecento, è venuto perfezionandosi, concrescendo con la cultura moderna.
Nell’Ottocento, il protestantesimo liberale insisteva sulla perfettibilità del cristianesimo, sul perfezionamento che si conseguiva grazie all’incontro con la filosofia moderna da Leibniz a Kant e a Hegel. Il cristianesimo cattolico appare invece essere esclusivamente se stesso, autosufficiente. Gli bastano la rivelazione depositata nella Scrittura, e la rivelazione ininterrotta della tradizione della Chiesa.
Esso non è concresciuto e non concresce con la cultura moderna.
Ecco ciò che si intravvede, nell’enciclica, dietro il silenzio sulla cultura moderna. Questa non è un interlocutore o un compagno di strada.
Come si è ricordato, di quell’evento moderno non secondario che è l’illuminismo, di un evento così generalmente riconosciuto e non così discusso come gli eventi marxismo o nietzschianesimo o filosofia del progresso, che l’enciclica pure ricorda, si dice solo che ha frainteso il cristianesimo.

In sostanza, il pensiero moderno, rispetto a quello cristiano, non è un pensiero comparabile, di dignità analoga. Il cristianesimo non fa parte di un mondo nel quale diversi indirizzi di pensiero cooperano e interagiscono. Per il teologo Ratzinger caratteristica del pensiero moderno è l’idea dello sviluppo.
In Hegel o in Marx o nelle filosofie del progresso, la pienezza dell’essere sta alla fine; è il futuro.
Ma il futuro, che risulta da un processo, non può essere pienezza.; è un condizionato o un relativo. Se si suppone che l’essere originario sia irrazionalità o caos, e che la ragione sia il prodotto di sviluppi casuali e necessari che ne sono discesi, non si può presumere che la ragione fuoriesca dal relativo. Se la pienezza, se Dio che illumina la ragione, non sta all’apice, restiamo nel relativo. O certezza di un assoluto iniziale, o relativismo. A una cultura non teologica non si riconosce la capacità di elaborare conoscenze e valori generali, anche se revisibili e perfezionabili. Non si vede che dentro il relativo della modernità ci sono dei principi. Non si vede che nella modernità c’è anche la potenzialità sia di accogliere domande generali di senso, sia di suggerire ipotesi di risposta. Si sa che essa riconosce, secondo i valori liberali e democratici, l’autonomia del cristianesimo. Ma non solo: essa impara dal cristianesimo.
Ritiene importante il cristianesimo per le sue implicazioni etiche e ideali: attenzione ai principi di fratellanza umana, di giustizia, di dignità dell’uomo; e capacità, in virtù del riferimento al suo principio assoluto, di contestare criticamente la fattualità data. E la modernità non può non ammirare e non sentire sua la fede cristiana e ogni fede religiosa che cerchi di coniugarsi con i valori del liberalismo e della scienza: una fede salda ma insieme mite, non ostile verso le altre religioni e verso la non religione, fatta di certezza e insieme di scepsi, disposta in ascolto e insieme in ricerca di Dio.

L’enciclica propone invece una fede che sta in alto sopra la ragione, che è certissima, che è identitaria e autosufficiente. Resta chiaramente un terreno per il dialogo con la cultura moderna. Ma tale terreno si restringe, e tuttavia non è poco, a quello degli orientamenti etici e politici e generalmente culturali. Sui principi la fede è incomunicante e intransigente; si difende e combatte. Ciò a differenza della modernità, la quale, non autosufficiente ma perfettibile, cerca e pratica il dialogo su ogni terreno, e ormai pressoché sempre con rispetto e mitezza liberale.

E il dialogo con le religioni non cristiane, con le altre culture che antepongono la fede alla ragione, o per lo meno affiancano la ragione alla fede? Nel proemio dell’enciclica si legge: «All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva» (p. 5). Dunque l’essere cristiano non è l’esito di un passaggio o la soddisfazione a un bisogno. «Una decisione etica» appartiene chiaramente al bisogno di ricevere-praticare giustizia e amore.
«Una grande idea» appartiene al bisogno di filosofia, di religione, di scienza, al bisogno di guardare a ciò che è generale. Alla base della fede cristiana cristiana non c’è dunque un bisogno, un qualche bisogno elementare, del soggetto. Essa è qualcosa di interamente altro ed esterno rispetto ai bisogni del soggetto. «Abbiamo creduto all’amore di Dio: così il cristiano può esprimere la scelta fondamentale della sua vita» (p. 5). Nell’essere cristiano c’è l’incontrarsi con un avvenimento. Il soggetto non è un se stesso, con i suoi bisogni; è semplicemente apertura a un sopraggiungere, apertura a un fatto, a ciò che si rivela. Nella Introduzione al cristianesimo si parla di un «positivismo cristiano». Il positivo, il fatto, si noti, è il Dio che ama, che è entrato nel mondo. Non c’è niente che sia comune con le altre religioni, che forse si radicano nei bisogni del soggetto. Oggetto dell’esperienza originaria della fede è la recezione dell’intera essenza del cristianesimo.

Anche il dialogo con le religioni non cristiane non può essere perciò profondo. Ci può essere dialogo, ma, si precisa nell’Introduzione, nella chiarezza, nel riconoscimento delle differenze. Nell’identità cristiana non si può ritagliare un negoziabile. Nel saggio del 2000, premesso all’Introduzione, Joseph Ratzinger si dichiara contro la relativizzazione delle religioni, cioè contro il convergere delle fedi nella credenza generica in un totalmente altro. È «sbagliato liquidare come irrilevanti i grossi interrogativi sulle differenze». La fede cristiana è irrelativa; è radicalmente se stessa.

Come si vede, il cristianesimo del pontefice è davvero solo e autosufficiente. La vocazione della fede cristiana non è stare con gli altri, riflettere sulla propria identità in relazione amica con le identità delle altre fedi e culture; è dare testimonianza di sé, essere orgogliosa di sé, essere eccezionale.

Un cristianesimo premoderno

La seconda parte dell’enciclica concerne, come si è detto, «l’esercizio della carità da parte della Chiesa» (p. 47). Se teniamo presente che questa ha un triplice compito fondamentale, la seconda parte del-l’enciclica riguarda dunque non quello dell’evangelizzazione o dell’annuncio della Parola, e non quello della liturgia o della celebrazione dei sacramenti, bensì quello del fare caritativo o amorevole verso l’uomo «nelle sue diverse condizioni di vita e di attività » (p. 50). Si rileva che già l’apostata imperatore Giuliano notava che l’azione di carità è «caratteristica decisiva della comunità cristiana » (pp. 57-58). Il pontefice ritiene chiaramente che l’evangelizzazione non sia un compito secondario, e lascia vedere bene ciò anche in queste pagine. Il proselitismo cattolico non è però, giustamente, una pratica molto accettata dalle altre confessioni cristiane, specie da quella ortodossa. Perciò, anche se l’enciclica non è rivolta verso l’esterno, prudenza, aderenza all’argomento proprio del documento, insistenza sulla carità.

Questa seconda parte dell’enciclica appare meno meditata e precisa della prima; forse perché coinvolge molte questioni. Di queste, segnaliamo solo quella che è più rivelativa del cristianesimo che si ha in mente, di un cristianesimo che mostra ora una fisionomia piuttosto diversa: non più la religione della vicinanza di Dio all’uomo, ma la religione della distanza dell’uomo da Dio. Estrinsecamente, si tratta ora del cristianesimo come pensiero del mondo umano, come interpretazione della storia e dell’azione degli uomini.
Abbiamo di fronte un pensiero del mondo umano la cui caratteristica principale è l’essere condizionato dalla teologia; nel mondo si vedono essenzialmente la forza della presenza di Dio e i limiti stretti della presenza dell’uomo; e, a questa presenza debole, si raccomandano fondamentalmente autolimitazioni.
Se la modernità significa presenza crescente dell’uomo nel mondo, in virtù del cambiamento e dello sviluppo impressi a produzione, scienza, organizzazione sociale, ordinamento politico, nell’enciclica viene proposto in sostanza un cristianesimo adatto alla premodernità, a società in cui l’uomo non ha conquistato ancora grande spazio.

Per quanto in termini non articolati e esaurienti, troviamo una visione della storia che ricorda visibilmente la prima parte della agostiniana Città di Dio (413-428), quella che si interroga sulla presenza di Dio nella storia. Come si è già rilevato, Dio non è chiuso in sé; è amore; è presente nel mondo umano. «È Dio che governa il mondo, non noi. Noi gli prestiamo il nostro servizio solo per quello che possiamo e finché Egli ce ne dà la forza » (pp. 87-88). All’operatore cristiano «sarà di aiuto il sapere che, in definitiva, egli non è che uno strumento nelle mani del Signore; si libererà così dalla presunzione di dovere realizzare, in prima persona e da solo, il necessario miglioramento del mondo. In umiltà farà quello che gli è possibile fare e in umiltà affiderà il resto al Signore» (p. 87). Ecco la presenza forte di Dio e la presenza dell’uomo, che è oggettivamente limitata, e che deve essere rassegnata, non presuntuosa.
L’uomo non deve credersi, secondo le ideologie moderne, cioè secondo le dottrine sopravvalutative dell’uomo, un soggetto che conta abbastanza nella costruzione della storia, che è in qualche grado fabbro di questa.

Ma proseguiamo. La razionalità divina governa sì il mondo, però non sempre è visibile. «Spesso non è dato di conoscere il motivo per cui Dio trattiene il suo braccio, invece di intervenire» (p. 91).
Ma «un atteggiamento autenticamente religioso evita che l’uomo si eriga a giudice di Dio, accusandolo di permettere la miseria senza provare comprensione per le sue creature » (p. 90). Come osservava Agostino, il prevalere del negativo, il saccheggio di Roma da parte dei Goti nel 410, non è il segno che Dio ha abbandonato il genere umano. Non è che Dio sia impotente o che stia dormendo; è Dio; la sua razionalità provvidenziale è incomprensibile per l’uomo. Con Agostino, l’enciclica dice: «Si comprehendis, non est Deus» (p. 91). La razionalità divina nella storia non è la razionalità del processo storico quale appare a noi uomini, molto imperniata su noi, individuata dalle filosofie di Hegel o di Marx e dalle altre filosofie del progresso.

C’è dunque anche un restare nascosto di Dio. L’esuberante dottrina dell’amore divino della prima parte dell’enciclica sembrava appunto garantire ottimisticamente la vicinanza continua di Dio. Ora si sottolinea che c’è anche distanza.
Ma solo in un certo modo. La distanza appare a noi, ma non è reale.
Il nascondimento non è assenza. «I cristiani infatti continuano a credere, malgrado tutte le incomprensioni e le confusioni del mondo circostante, nella bontà di Dio e nel suo amore per gli uomini» (pp. 91-92). «Il suo silenzio rimane incomprensibile per noi», ma i cristiani, «pur immersi come gli altri uomini nella drammatica complessità delle vicende della storia, rimangono saldi nella certezza che Dio è Padre e ci ama» (p. 92). A fronte del male nella storia, possiamo avere «impazienza e dubbi», ma, si dice con accenti agostiniani, dobbiamo avere «la sicura speranza che Dio tiene il mondo nelle sue mani, e che nonostante ogni oscurità Egli vince, come mediante le sue immagini sconvolgenti alla fine l’Apocalisse mostra in modo radioso» (p. 92). Dio dunque è sempre governante. Anche età e società, che non fanno trasparire la sua presenza, rientrano in verità nel suo disegno razionale.

Siamo dentro un palese pensiero premoderno. La storia, nella sostanza, viene sacralizzata; è affidata a Dio, cioè a se stessa; non, in una misura non trascurabile, anche a noi. Viene dunque, nella sua essenza, accettata; sembra un destino, non anche il risultato del nostro operare dentro un contesto di condizioni e di possibilità. Siamo portati a giustificare, più che a sentire responsabilità. Si noti però questo. Non risulta che il pensiero cristiano in generale, e anche il pensiero cristiano cattolico, escluda, di per se stesso, che la storia per l’uomo sia anche largamente possibilità, plesso di condizioni e di occasioni sulle quali egli può incidere; e non risulta che questo pensiero escluda di principio che la storia sia largamente affidata all’uomo. Anche Ratzinger, nell’Introduzione, insiste sulla libertà dell’uomo. Con l’enciclica, siamo invece, mi pare, davanti a una filosofia della storia piuttosto specifica all’interno del pensiero cristiano, in concreto molto pessimistica circa il ruolo dell’uomo. Questi viene sostanzialmente scoraggiato ad avere coraggio; dissuaso dallo spingersi ad agire nella storia cercando di conoscere le possibilità del suo mondo e le possibilità del suo influire, e quindi cercando di muoversi con respiro relativamente strategico.

Beninteso, nel pessimismo c’è sempre realismo. Il disincanto dell’enciclica però, intanto, è spiegato con una teologia forte della storia, e non con l’estensione e la complessità della natura e della storia reale. E poi non viene a colpire solo forme di pensiero ispirate a un troppo di fiducia nell’iniziativa umana; sembra mettere in discussione ogni pensiero che attribuisca alla iniziativa umana un qualche spessore. È un disincanto che assegna molto spazio alla provvidenza divina, e che deprime, fino a una soglia minima, il fare degli uomini. Sembra di non essere in un mondo in cui, da cinque o sei secoli, si è venuta consolidando, non certo senza l’uomo, una nuova civiltà, rispetto a quelle antica e medioevale.

Le conseguenze di questa impostazione si colgono specialmente nella concezione della prassi caritativa cristiana. Su questa, ovviamente, l’enciclica dell’amore si ferma di più. È una prassi che deve schiacciarsi manifestamente sull’esistente governato da Dio, e che deve rinunciare a ogni elemento di intelligenza e di progetto, di razionalità propria dell’uomo.

I credenti, in quanto semplicemente tali, sono tenuti a opere di amore, di dono di sé o di cura dell’altro. A ciò è tenuta anche la Chiesa, che vi provvede in modo organizzato. Di queste opere c’è bisogno sempre. Contro l’irrealismo utopico, si osserva realisticamente essere impossibile che lo sviluppo del mondo verso il meglio giunga a compimento.
La storia umana è inalterabile, ovviamente non quanto a qualità delle manchevolezze incluse, ma quanto a inclusione di manchevolezze.
«L’amore - caritas - sarà sempre necessario, anche nella società più giusta. Non c’è nessun ordinamento statale giusto che possa rendere superfluo il servizio dell’amore». «Ci sarà sempre sofferenza che necessita di consolazione e di aiuto. Sempre ci sarà solitudine. Sempre ci saranno situazioni di necessità materiale nelle quali è indispensabile un aiuto nella linea di un concreto amore per il prossimo» (pp. 67-68). «Questo amore non offre agli uomini solamente un aiuto materiale, ma anche ristoro e cura dell’anima, un aiuto spesso più necessario dell’aiuto materiale» (p. 68). «L’amore è gratuito; non viene esercitato per raggiungere altri scopi». Ma ecco il collegamento dell’opera di carità con quella dell’evangelizzazione. «Questo non significa che l’azione caritativa debba, per così dire, lasciare Dio e Cristo da parte» (p. 81). E si torna alla tesi sulla sofferenza immateriale enunciata nel passo precedente: «Spesso è proprio l’assenza di Dio la radice più profonda della sofferenza» (p. 81). Dunque attenzione indifferenziata a ogni sofferenza. «La carità cristiana è dapprima semplicemente la risposta a ciò che, in una determinata situazione, costituisce la necessità immediata» (p. 77).
Con una diffidenza impressionante per l’attività politica e in genere per l’attività umana non caritativa, si afferma: «Ad un mondo migliore si contribuisce soltanto facendo il bene adesso ed in prima persona, con passione e ovunque ce ne sia la possibilità, indipendentemente da strategie e programmi di partito» (p. 80). Preoccupazione del pontefice è manifestamente che le opere di carità siano aderenti alla molteplicità totale delle sofferenze immediate.
Queste opere non devono farsi afferrare dalle ideologie e dunque andare selettivamente in talune direzioni. I credenti «non devono ispirarsi alle ideologie del miglioramento del mondo» (p. 84). Ideologie che pensano di potere modificare il mondo completamente, fino ad espungerne la sofferenza.
«L’esperienza della smisuratezza del bisogno» «può diventare tentazione all’inerzia sulla base dell’impressione che, comunque, nulla possa essere realizzato» Ciòè da evitare. Ma sembra da evitare soprattutto che questa esperienza ci spinga «nell’ideologia che pretende di rifare ora quello che il governo del mondo da parte di Dio, a quanto pare, non consegue: la soluzione universale di ogni problema» (p. 88). Ancora la sottolineatura pessimistica dei limiti della capacità di migliorare la storia.
Sembra che Dio stesso trattenga questa nella manchevolezza.

Insomma, «le opere di carità» sono essenzialmente «elemosine» (p. 60) (11). L’agire caritativo è accogliente verso la sofferenza qualunque sia e dovunque sia. Non deve conformarsi a ideologie e strategie mondane; esso è l’“attualizzazione qui ed ora dell’amore di cui l’uomo ha sempre bisogno» (p. 79). Così questo agire finisce però di fatto con il sottrarsi a ogni elaborazione conoscitiva e a ogni scelta umana. Ciò si capisce. Se operiamo il bene in esclusivo rapporto con il Dio-amore, con l’assoluto, come esimersi dall’andare in soccorso di tutte le sofferenze, e come non opporsi a un discernere umano fra esse? Perché distinguere, come il pontefice fa capire bene, tra il soffrire per assenza di beni materiali e il soffrire per assenza di fede in Dio? Sembra però difficile capire come il fare il bene si possa ridurre solo a questo soccorrere indiscriminato.
Sembra difficile ammettere che il credente possa e debba essere strumento passivo e deresponsabilizzato di Dio fino a tale punto estremo. Per lui si prevede che faccia anche attività politica, attività che richiede un qualche uso dell’autonomia umana nello spazio che sta fra l’assoluto e l’esistente. Non si vede perché l’uomo, nel fare caritativo, debba invece dislocarsi semplicemente, cioè senza autonomia, fra l’assoluta bontà divina e l’assoluta molteplicità della sofferenza. Le opere di carità non vanno certo subordinate a ideologie. Ma fra un punto di vista ideologico e un punto di vista che non c’è, che accetta puramente l’esistente, esiste un medio: cercare di guardare oltre i bisogni che si presentano immediatamente; cercare di vedere le loro diversità e le loro cause; progettare gli interventi che risultino più urgenti ed efficaci. Non sembra ideologico e presuntuoso, né sembra smodatamente moderno dire che l’attività caritativa, per una parte, resti pure rivolta alla molteplicità che la storia-provvidenza gli mette davanti; ciò per garantire il suo indifferenziato universalismo. Almeno per una parte, però, si affidi anche al mezzo della conoscenza e dell’iniziativa umana, alla responsabilità umana. Per altro, nell’enciclica, anche se solo per l’attività caritativa della Chiesa, non per quella spontanea dei singoli, si prevedono elementi di programmazione (p. 80).

Alla luce del discorso svolto nell’enciclica il credere e l’agire caritativo sono di gran lunga i piani più importanti della vita. Come immaginiamo essere accaduto in altri tempi. Gli altri piani, non legati direttamente all’imminenza del divino, e legati al pensiero e alla prassi degli uomini, appaiono di minore rilievo, e devono guardarsi dal debordare. Circa l’agire non caritativo, si fa qualche osservazione solo sull’agire politico. In rapporto a Marx e alla dottrina sociale della Chiesa, si parla di capitale e di lavoro, non si dedica però alcuna attenzione all’operare umano più costruttivo di spazi umani e più caratteristicamente moderno, al produrre la ricchezza.
Quanto a questa, l’enciclica sta all’interesse preminente della Chiesa, che è, tradizionalmente, la sua distribuzione.

I credenti, in quanto laici e dunque cittadini dello Stato, sono chiamati a «partecipare in prima persona alla vita pubblica» (p. 70). «Il giusto ordine della società e dello Stato è compito centrale della politica» (p. 63). «La giustizia è lo scopo e quindi anche la misura intrinseca di ogni politica» (p. 64). Giustizia è garantire a ciascuno «la sua parte dei beni comuni» (p. 60); dare «a ciascuno ciò che gli spetta» (p. 66). Trascuriamo il punto, ormai ovvio, della distinzione fra Stato e Chiesa, così come la tesi che lo Stato sembri avere a finalità solo la giustizia, e non anche lo sviluppo produttivo e il connesso aumento dei livelli di vita materiale e culturale, e non anche, in qualche misura, la carità.

Vediamo la cosa principale. È vero che all’agire politico la giustizia di assegna una certa importanza: il pontefice si autocritica per la comprensione tardiva di questo agire fa parte della Chiesa, e riconosce al marxismo il merito di avere insistito sulla necessità della giustizia. Però anche sull’attività politica pesa, come si è già detto, il riverbero dell’accennata visione riduttiva e diffidente verso l’attività umana. Beninteso, è più che giusto, sempre e tanto più con il Novecento ancora vicino, richiamare la politica ai suoi limiti, e criticare la politica che, totalitariamente, non sa darsi limiti.
«Lo Stato che vuole provvedere a tutto, che assorbe tutto in sé, diventa in definitiva una istanza burocratica che non può assicurare l’essenziale di cui l’uomo sofferente, ogni uomo, ha bisogno: l’amorevole dedizione personale» (p. 68). Non ci occorre «uno Stato che regoli e domini tutto» (p. 68). Va più che bene. All’uomo e alla sua attività, però, si rivolgono sempre e solo ammonimenti a non prevaricare. Non sarebbe fuori luogo dire all’uomo che non deve certo puntare a governare il mondo in sostituzione di Dio, ma non deve credere che sia uno sconfinamento improprio dai suoi limiti il cercare di governare le nostre concrete società verso un relativo ma apprezzabile miglioramento.

Sull’attività politica, è tuttavia più tipico un altro gruppo di osservazioni che l’enciclica sottolinea.
Siamo sempre nel quadro del pessimismo, di matrice teologica, circa le capacità dell’uomo, anche dell’uomo moderno. «Si è visto che la formazione di strutture giuste non è immediatamente compito della Chiesa, ma appartiene alla sfera della politica, cioè all’ambito della ragione autoresponsabile» (p. 69). Ma la autoresponsabile ragione umana è esposta a oscuramenti.
E, per altro, la giustizia che, nella politica, è il concetto-guida, può essere definita convenientemente solo dall’etica, da un sapere che, per il pontefice, appare valido solo se elaborato in legame stretto con la fede. «In questo punto politica e fede si toccano. Senz’altro, la fede ha la sua specifica natura di incontro con il Dio vivente, un incontro che ci apre nuovi orizzonti molto al di là dell’ambito proprio della ragione. Ma al contempo essa è una forza purificatrice per la ragione stessa. Partendo dalla prospettiva di Dio, la libera dai suoi accecamenti e perciò l’aiuta ad essere meglio se stessa. La fede permette alla ragione di svolgere in modo migliore il suo compito e di vedere meglio ciò che le è proprio» (p. 65).
Per la ragione, «è un pericolo mai totalmente eliminabile»«l’accecamento etico, derivante dal prevalere dell’interesse e del potere che l’abbagliano» (pp. 64-65). La Chiesa non vuole avere potere sullo Stato; «vuole semplicemente contribuire alla purificazione della ragione e recare il proprio aiuto per fare sì che ciò che è giusto possa, qui ed ora, essere riconosciuto e poi anche realizzato» (p. 65). La Chiesa deve inserirsi nella lotta per la giustizia «per la via dell’argomentazione razionale e deve risvegliare le forze spirituali, senza le quali la giustizia, che sempre richiede anche sacrifici, non può affermarsi e prosperare» (p. 67).
A proposito dell’operare caritativo, l’enciclica riconosceva che «l’imperativo dell’amore del prossimo è iscritto dal Creatore nella stessa natura dell’uomo» (p. 76), e che quindi non solo la Chiesa e i credenti, ma anche altre «forze sociali » aiutano «gli uomini bisognosi di aiuto» (p. 68). Invece, come si vede, a proposito dell’operare politico, sembra che solo la Chiesa, con la sua fede, sia in grado di tutelare la tenuta etica della ragione. Per l’uomo, che è debole, la Chiesa sembra rivendicare la sua indispensabilità; non si fa riferimento ad altri soggetti che possano tutelare o collaborare a tutelare eticamente la politica.

Ormai, mi pare, non servono molti commenti. Si è già rilevato che anche l’umanità moderna riconosce l’utilità dell’impegno della Chiesa per i valori. E abbiamo già incontrato la convinzione cristiana che anche l’umanità moderna, così fortemente capace di conquistare spazio, è intrinsecamente debole, come insegna una teologia premoderna della storia. La ragione umana autoresponsabile è esposta a rischi, ad accecamenti che, come è accaduto e accade, vengono dall’interesse e dal potere. Nell’uomo e nell’uomo moderno non si vedono, per questo suo essere debole, anticorpi. Non si vede la capacità umana di darsi valori e di autocorreggersi. Perciò, a rimediare a questa condizione provvede un cristianesimo lontano dalle debolezze moderne, autosufficiente, premoderno. Sostanzialmente, agli uomini, nella prima e ottimistica parte dell’enciclica, si diceva di non avere paura del cristianesimo, di accostarvisi, perché è una religione moderna e attraente, adatta all’uomo.
Qui, nella seconda parte, si rivela la forte componente pessimistica dell’antropologia del pontefice.
Gli uomini devono avere sfiducia in se stessi; e perciò devono accostarsi al cristianesimo. La fede non è solo una conferma e un arricchimento delle possibilità dell’uomo; è soprattutto un sussidio alle sue impossibilità.

In sintesi, come si è visto più volte, siamo davanti a un cristianesimo che ritorna proprio in sé e si raccoglie in sé. Non tanto definendosi in modi effettivamente generali, come si diceva più sopra, quanto caratterizzandosi in modi piuttosto specifici. Esso sembra proporsi di procedere, con l’impavida sicurezza di possedere verità e valori, per una strada molto sua, autonoma dal mondo e dalle sue culture. Di tale scelta del vertice della Chiesa va evidentemente preso atto. Siamo a un inizio. La Chiesa, a cui spetta di decidere, troverà che questa immagine del cristianesimo è condivisibile? Essa incontrerà più consenso o più resistenza o più silenzio indifferente?
Si darà voce un cristianesimo meno arroccato, liberale, aperto effettivamente all’uomo e alla modernità?
Oggi, non solo è arduo fare previsioni su ciò. È arduo anche tentare di valutare, ove una parte consistente del pensiero della Chiesa tenda ad assestarsi sull’idea di cristianesimo delineata nell’enciclica, quali costi e quali benefici ne deriveranno per la crescita della cultura cristiana e della cultura moderna.

A questo punto occorrerebbe fare qualche osservazione sulla lettura, per altro non molto impegnata, che l’enciclica offre del marxismo. Per il pontefice, questo pensiero contiene «del vero, ma anche non poco di errato» (p. 60). Ed è un «sogno svanito» (p. 62). «Somnium hoc evanuit». Quanto si dice sul marxismo non sembra però portare nuovi elementi all’immagine del cristianesimo che si è cercato di tratteggiare. Per questa ragione, e per ragioni di spazio, le osservazioni in proposito possono essere rinviate.

NOTE

1 Benedetto XVI, Lettera enciclica Deus Caritas est, Città del Vaticano, Libreria

editrice Vaticana, 2005, pp. 108. Il rinvio alle pagine di questa edizione è indicato direttamente nel testo, tra parentesi.

2 Vi insiste l’informato e caustico Contro Ratzinger, di autore anonimo, Milano, Isbn edizioni, 2006.

3 Cfr. Joseph Ratzinger, La mia vita, Autobiografia, Cinisello Balsamo, Edizioni San Paolo, 1997. Più preciso e più appropriato il titolo dell’edizione tedesca (1998): Aus meinem Leben. Erinnerungen 19271977.

4 Joseph Ratzinger, Introduzione al cristianesimo, Lezioni sul Simbolo apostolico, con un nuovo saggio introduttivo, Brescia, Queriniana, 2005, pp. 367. È la XIII edizione italiana (la prima è del 1969). Il nuovo saggio introduttivo è dell’aprile 2000.

5 L’edizione italiana dell’enciclica, a differenza di quelle tedesca e francese, mantiene nel sottotitolo il grecismo-latinismo «presbiteri» per indicare i preti o sacerdoti.

6 È da vedere specialmente Joseph Ratzinger, Escatologia, morte e vita eterna, Assisi, Cittadella editrice, 1977.

7 Cfr. La mia vita, cit., in particolare p. 95. Per spiegare il dissenso, siamo nei primi anni sessanta, con gli sviluppi recenti della teologia di Rahner, egli scrive: «per la mia formazione ero stato segnato soprattutto dalla Scrittura e dai Padri».

8 Ivi, pp. 44, 50, 70, 88, 95, 109.

9 C’è forse un riferimento vago a Tommaso: la distinzione, per altro non molto sottolineata, fra amor benevolentiae e amor concupiscientiae.

10 Benedetto XVI, Deus Caritas est, Enciclica, Introduzione e commento di Angelo Scola, Siena, Cantagalli, 2006.

11 Cfr. in proposito le sottolineature di Alberto Melloni in L’inizio di papa Ratzinger, Torino, Einaudi, 2006.

da Critica Marxista, n. 2 - 2006

* Professore ordinario di Filosofia morale all'Università di Firenze