Nacque a Muggia (Trieste) il 27 novembre 1900. In Francia evitò l'internamento e la prigionia, e nel maggio 1939 ottenne l'asilo
politico in Messico; qui riprese sia l'attività politica nell'Alleanza antifascista Giuseppe Garibaldi, che quella giornalistica, redigendo dal febbraio 1939 al maggio 1946, la rubrica "La settimana
del mondo" su El Popular organo della Confederazione Generale dei Lavoratori, diretto da
Vicente Lombardo Toledano. Nel maggio 1947 rientrò nel PCI e fu nominato Segretario generale
autonomo del Partito Comunista del Territorio Libero di Trieste. Dopo l'8 ottobre 1954, cioè con il passaggio definitivo di Trieste all'Italia, fu eletto Segretario della Federazione autonoma triestina del
PCI. Se si consulta Wikipedia si leggerà una biografia tendenziosa e priva di riscontri.
Nel 2019 il Mulino pubblica: Patrick KARLSEN, Vittorio Vidali. Vita di uno stalinista. Nel 2023 Manni pubblica: Diana NAPOLI, Il mondo in testa. Vittorio Vidali. Scene di vita di un rivoluzionario di professione. Qui un video tratto dall'Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico.
Prefazione di Luciano Canfora Un comunista del mondoQuesto libro riguarda un personaggio inimitabile della storia politico-militare del Novecento. “Inimitabile” perché quel tipo di militanza totale non tornerà più (per lo meno per un tempo molto lungo) dopo la scomparsa di quella generazione e della situazione storica in cui essa operò. Quando si militava come militò, senza risparmiarsi, Vittorio Vidali, chi si impegnava con tutto il proprio essere era persuaso che il mondo fosse sull’orlo di una svolta epocale, che il socialismo fosse alle porte dovunque e che il “primo paese socialista” – come allora veniva chiamata l’Urss – andasse difeso senza tentennamenti, sempre e dovunque. Chi non capisce quella situazione storica potrebbe fare a meno di occuparsi non solo di Vittorio Vidali ma di gran parte della storia del Novecento (ma anche della Comune, o della Rivoluzione giacobina, o di Cromwell, e persino di Spartaco). La “ritardata saggezza” dei posteri – come la chiamò lo storico inglese George Trevelyan – è comoda, depistante, eticamente a buon mercato oltre che pleonastica. Del resto la durezza faziosa e talora sanguinaria di un militante totale, fermamente persuaso di una qualche imminenza palingenetica, e perciò dedito ad essa senza tentennamenti, si può cogliere anche in certe pagine di un altro ostinato combattente quale fu – nel fuoco della Rivoluzione europea del 1848 – Giuseppe Garibaldi: quasi un bandito agli occhi dei governi dell’epoca. È sintomatico l’episodio seguente, accolto da Garibaldi nelle sue Memorie: Appariva una spia in Ravenna [nel 1848, poco dopo l’uccisione di Pellegrino Rossi a Roma] in pieno meriggio in mezzo alla folla: lo colpiva una fucilata; il feritore ritiravasi tranquillamente, non fuggiva; altra spia non si sarebbe trovata ed il cadavere maledetto rimaneva d’esempio alle moltitudini. E poco prima, nelle stesse pagine, Roma viene definita da Garibaldi “degna della gloria antica” perché, con l’uccisione di Pellegrino Rossi, “si liberava d’un satellite della tirannide”, e quel sangue “bagnava i marmorei gradini del Campidoglio” perché “ (Memorie, Rizzoli, 1982, pp. 157-158). Ma Vidali fu anche capace di ripensare se stesso e la storia per la quale si era immolato. Valgano in tal senso le pagine del suo magnifico Diario del XX Congresso, che hanno spiccato valore di testimonianza storica. Si tratta di un diario scritto a Mosca nel febbraio del 1956, nei molti giorni del XX congresso del PCUS, quando Vidali aveva poco più di 55 anni, ed era lì come segretario del P.C. del Territorio Libero di Trieste. Il Diario fu scritto allora ma Vidali l’ha dato da pubblicare all’editore Vangelista di Milano solo nel 1973. Fu un grande successo editoriale: lo apprezzarono personalità tra loro diversissime quali Giulio Andreotti e Norberto Bobbio. È un libro serio, schietto, amaro, com’è giusto. Dal punto di vista testuale ci si può domandare se sia stato da lui ripensato nel tempo. Brevemente egli stesso parla di “appunti” presi allora e che egli pensava di pubblicare vent’anni dopo la morte di Stalin: tardò di pochi mesi (1974) rispetto alla ricorrenza ventennale (1973). Ma vi è anche un altro testo suo diaristico, conservato alla Fondazione Istituto Gramsci (Roma), che rispecchia più direttamente il suo pensiero, ed è di non meno grande interesse. L’ha utilizzato Pa trick Karlsen per un volume biografico su Vidali (il Mulino, 2019). L’autore vuol essere molto avverso al personaggio (in quanto “stalinista”) e però non si rende forse conto di contribuire a farne emergere l’onestà e la grandezza proprio attraverso le pagine di quel diario inedito. Il “terribile ’56”, come a suo tempo fu definito, segnò il ripensamento storico-politico di Vidali, al quale dobbiamo sia riflessioni sia informazioni di primaria importanza su quel tornante. La sua cifra non è l’abiura né la salvazione individuale – approdo di molti in quegli anni – ma la ricerca della verità. Una verità senza sconti per nessuno, coniugata con la comprensione delle grandi novità che la storia degli anni Sessanta e Settanta del Novecento offriva a chi non aveva perso la bussola. Scrive nell’altro diario il 2 gennaio 1969: Ho 68 anni: vorrei averne di meno, ritornare nell’America Latina. Quello può essere un immenso Vietnam, la tomba dell’imperialismo americano. Andrei anche in Africa, tra quei popoli che ancora nelle tenebre cercano la libertà. Vorrei avvicinarmi agli Indonesiani e con loro farla pagare ai carnefici (1). Ma ho 68 anni. Mi piace la gioventù, quella mia del passato e quella di oggi delle nuove generazioni. A queste generazioni appartiene il presente, l’immediato futuro. Aveva combattuto senza risparmiarsi in Europa e in America, quando aveva molti anni di meno. Era stato “il comandante Carlos Contreras”: dal Messico alla Spagna. Quando morì, il 10 novembre 1983, “l’Unità” lo definì ammirativamente (allora) “un comunista del mondo”.Luciano Canfora 1 Allude al massacro di quasi un milione di comunisti, pilotato dalla CIA tra il 1965 e 1967 (cfr. V. Bevins, Il metodo Giacarta, Einaudi, 2021) Qui di seguito il primo capitolo del libro Il sovversivo Nel 1927 la polizia fascista sembrava essere sul punto di catturare il sovversivo Vittorio Vidali. Da anni era sulle sue tracce e questa volta ne conosceva in anticipo gli spostamenti. Vidali, scampato a un rientro coatto in Italia, si era imbarcato da New York, con in tasca un documento di espatrio, per arrivare in un porto francese e poi dirigersi a Mosca. Si pensava che avrebbe fatto tappa a Parigi, dove lo attendeva una grossa somma di denaro con cui avrebbe comperato o noleggiato un aeroplano per sorvolare l’Italia e sganciare manifesti antifascisti o addirittura bombe su Milano. Mentre italiani e francesi si profondevano in ricerche da Le Havre a Marsiglia, un dispaccio che ne comunicava l’arrivo nella capitale dell’Unione Sovietica raggiunse l’allora capo della polizia Arturo Bocchini, che aveva iniziato la sua carriera come prefetto di Brescia nel 1922, per poi arrivare a Bologna nel 1923 (città nelle quali si era adoperato per favorire l’ascesa del fascismo in termini di compiacenza verso la violenza squadrista e di superficialità verso la segretezza del voto in occasione delle elezioni). Appresa la notizia - lo racconta uno storico - poté solo annotare sconfortato: “E gli aeroplani?” Nel 1939, di nuovo la polizia italiana si era trovata sui suoi passi, ma l’ottusità di un funzionario non era riuscita a identificarlo sotto il nome di Enea Guglielmi in transito tra la frontiera spagnola e quella francese. Erano notizie di cui poteva andare fiero. Ormai, a distanza di decenni, poteva immaginare il suo nome correre sottovoce tra i corridoi anonimi delle questure, appena sussurrato di stanza in stanza, accompagnato da un moto di stizza, ogni tanto persino un brivido. Sfogliando le carte ingiallite del suo polveroso faldone recuperato all’Archivio centrale dello Stato, ripercorreva, incredulo, la sua vita con gli occhi dei fascisti che lo avevano inseguito: fogli e fogli pieni di sigle e timbri, messaggi urgentissimi, telegrammi e telespressi in cui si sospettavano i suoi spostamenti, le città che attraversava, i palazzi in cui alloggiava, si vagliavano le fonti, a volte vere, a volte false, a volte dubbiose, si inseguivano i presunti nomi di cui si serviva e si mettevano a confronto le versioni dei testimoni oculari. E dietro ogni timbro, ogni illazione e ogni sospetto si levavano i suoi ricordi di un ventennio eternamente in guerra con i poliziotti, perennemente in fuga, incessantemente all’erta per un sicario in arrivo o a chiedersi “ma, se torturato, parlerò?”, sempre a indossare, momentaneamente, la vita di un altro. A 80 anni compiuti, si vedeva come da un binocolo rovesciato e da lontanissimo si metteva a fuoco. Imprese eroiche, presunte morti, nomi di spie, smentite, foto segnaletiche inviate ovunque, riconoscimenti, richieste di arresti, di controlli, di sorveglianza, avvisi di pericolosità. E mentre le segnalazioni sui suoi movimenti si moltiplicavano e gli indizi proliferavano, lui varcava frontiere dall’Europa alle Americhe con i passaporti falsi in tasca e un mondo che scoppiava chiassoso nella testa. Il mondo in testa: così girava Vittorio Vidali.Non era mai stato solo. Non lo era stato nel 1923, quando, subito dopo la Prima guerra mondiale, era già uno dei rivoluzionari più ricercati dalla polizia e aveva clandestinamente lasciato l’Italia; non si era sentito solo qualche anno dopo, tra l’America Latina e gli Stati Uniti, quando tra i suoi spostamenti aveva alle calcagna i servizi segreti di mezzo mondo e si diffondevano false notizie di guerra sui suoi itinerari e sui suoi progetti, e nemmeno in Spagna durante la guerra civile, dal 1936 al 1939, dove era stato tra i fondatori del Quinto Reggimento e la sua voce, i suoi comandi, la sua faccia tonda e grossa rispondevano al nome di Comandante Carlos. Non aveva perso il contatto con il mondo che aveva in testa quando, nei primi anni Quaranta, si era ritrovato per l’ultima volta in Messico, nel carcere di El Pocito, sicuro che avrebbe fatto la fine di un desaparecido. Non lo perdeva mai, neanche quando negli anni Settanta, ormai figura marginale nella vita e nelle scelte del Partito Comunista Italiano, scriveva quasi quotidianamente il suo Diario e si permetteva il lusso di dare ospitalità in quelle pagine private a qualche dubbio, ripensamento, critica al partito. Nei momenti di incertezza, di perplessità, nei momenti in cui, come diremmo oggi, saremmo tentati di scegliere, decidere, votare “con la pancia”, faceva un passo di lato, si affidava al mondo in testa, lo interrogava, e si sentiva di nuovo sicuro. Vittorio Vidali, nato nel 1900 a Muggia e trasferitosi con la famiglia a Trieste nel 1916, malgrado avesse più volte cambiato nome e Paese e documenti, non era mai stato nemmeno quel che si direbbe un fuoriuscito. Ovunque andasse, portava con sé il comunismo che non era semplicemente un’ideologia, il nome di un partito, una concezione della realtà tra le altre, il leninismo come visione della storia, l’adesione alla Terza Internazionale, la possibilità della rivoluzione. Era un mondo nato nel 1917, traboccato nella storia come la lava in seguito a un’eruzione, era bruciante, spettacolare, era lì, a portata di mano. A Trieste i Vidali abitavano nel quartiere San Giacomo. Agli inizi del secolo, il socialista Giuseppe Piemontese ce lo descrive come un sobborgo operaio, povero e indifeso, nemmeno fosse un ragazzino sprovveduto, senza nessun riparo dalle intemperie. La conformazione urbanistica lo rendeva - pare - particolarmente esposto alla bora che, nei giorni in cui soffiava, levava alta la polvere dalle strade non lastricate avvolgendo tutto in un’atmosfera opaca e densa. Ci abitavano anche tanti sloveni e a ogni elezione i socialisti avevano la maggioranza. Oggi da San Giacomo si scende a Muggia in meno di mezz’ora di autobus, ma il trasloco nella direzione contraria, nel 1916, era stato un vero e proprio viaggio, un’emigrazione. Vidali definiva il padre “ingenuamente irredentista”. Aveva chiamato i figli Vittorio e Umberto. Operaio lui, sartina lei, Bianca, non è difficile immaginarseli secondo i canoni del Libro cuore, come una famiglia nelle cui scelte importanti (i nomi dei figli come quelli dei sovrani, l’approdo a Trieste cullato da fantasie di emancipazione di matrice irredentista) si consuma l’appartenenza all’identità nazionale. Ma se il padre aveva sognato l’Italia, Vidali non era cresciuto con il mito dell’italianità. L’omonimia con il re non lo entusiasmava e Vittorio Emanuele III, visto nei ritratti, non gli suscitava nessun moto di ammirazione. Non aveva mai avuto dubbi sul fatto di essere italiano, ma non avrebbe mai pensato che per affermarlo sarebbe stato necessario scatenare una guerra. Lo scoppio del conflitto non lo aveva trascinato verso nessuna forma di esaltazione. È il 1917 a segnare l’ingresso nella storia. Nel 1917, a 17 anni, essere comunisti significava essere straordinari, cavalcare l’onda della storia, orientarla, condurla foss’anche verso lo schianto, lo schiaffo, l’esplosione rivoluzionaria: ma una volta entrati nel partito è come uscire dalla caverna di Platone. Non è solo la lotta al frazionismo, la disciplina del centralismo democratico, ma il controllo della propria esistenza, la fedeltà a se stessi nella durata, l’abbandono della velleità, dell’incertezza, della parvenza, il salto mortale nella scelta irrevocabile. Vidali, infatti, non aveva avuto nessuna esitazione sul campo in cui posizionarsi; l’esercito austroungarico lo aveva richiamato alle armi nel 1918, ma la diserzione non era stata nemmeno una scelta, piuttosto una conseguenza: aveva già deciso per la Russia, per Lenin, per la rivoluzione. Che c’entrava lui, Vidali, con quel conflitto scoppiato per il militarismo, il nazionalismo, la frontiera? L’unica legittima risposta al perdurare del massacro era stato lo sparo dell’arma con cui Friedrich Adler nel 1916 aveva ucciso il primo ministro dell’impero austroungarico, considerato il principale responsabile della continuazione della guerra. Nell’atmosfera da conto alla rovescia, esplosiva e palingenetica – e nessuno lo ha raccontato meglio di Stefan Zweig ne Il mondo di ieri in pagine riportate da quasi tutti i libri di storia – che fa da sfondo allo scoppio della Grande Guerra, il comunismo era una posta in gioco, una scommessa: Vidali organizzava il pessimismo (per riprendere un’espressione che Walter Benjamin a sua volta aveva ripreso da uno scrittore francese) e scommetteva, proprio come alcuni incalliti scommettitori che puntano tutte le loro fortune su un’unica carta. Chissà se sapeva del padre che, stando al racconto di un parente, prima di mettere “la testa a posto”, si era giocato tutto e aveva perso la casa. Nel 1918 era riuscito a entrare con altri compagni nel Palazzo della Luogotenenza a Trieste e la bandiera che fa sventolare dal balcone è una bandiera rossa. Sarebbe bastato come segnale ai lavoratori della città per indicare la possibilità di entrare in un’era diversa della storia? Non era questione di Austria, di Italia, di Impero, di Monarchia: il rosso era il segnale di un tempo diverso. Sventolare la bandiera rossa nel 1918 è come alzare la posta e scommettere sulla vittoria: la Russia, le teste dei sovrani da rotolare giù. Era un clima esaltante, di lotta, di sangue, di “meglio la morte che…”, ma non era un preludio, semplicemente smaltato di socialismo, del diciannovismo, di Fiume, non era il culto della morte, dell’azione, della rivincita. Era il mito luminoso della rivoluzione, l’odio per il militarismo, per la guerra, per le uniformi, per affermare solo la vita e la voglia di vivere. Si trattava di qualcosa che i socialisti non capivano. Persino Anna Kuliscioff, che aveva salutato la rivoluzione di febbraio come un fenomeno capace di richiamare il 1789, era scettica sui bolscevichi. Al contrario, per Vidali - e per molti altri - il 1917, inteso come l’ottobre del 1917, costituiva la certezza che era nato un mondo nuovo, non la sua utopia. Era nato un mondo nuovo, eppure qualcuno si ostinava a non vederlo. Fu il motivo per cui il 1921, la scissione di Livorno che diede vita al Partito Comunista d’Italia, fu una sciagura, un dramma, una scossa sismica, ma fu necessaria. Vidali era entrato nella Gioventù socialista nel 1916, proprio sulla scia del gesto di Friedrich Adler condannato con forza dal Partito Socialdemocratico austriaco di cui il padre di Friedrich, Viktor, era stato uno storico dirigente. Viktor Adler, di posizioni moderate, aveva fatto di tutto per tenere il figlio lontano dalla politica, anche considerando il suo promettente futuro da scienziato. Friedrich però, benché avesse sempre brillato negli studi, sapeva benissimo, soprattutto dopo aver conosciuto Einstein, di non avere la stoffa del genio e per questa ragione nel 1908 aveva rinunciato a una cattedra al Politecnico federale di Zurigo preferendo che fosse proprio Einstein a occuparla. Da allora si era dedicato alla politica, su posizioni che in Italia sarebbero state definite massimaliste e si era battuto contro la guerra, denunciando i socialisti che in Europa, dalla Francia alla Germania, tradivano i loro ideali internazionalisti per appoggiare il conflitto imminente in nome della patria e della sua sacralità, come indicava bene il nome del governo di unità nazionale che si era formato in Francia, l’Union sacrée. A Trieste i socialisti si erano mantenuti generalmente su posizioni neutraliste ma, lontani dal comprendere gli avvenimenti in Russia, avevano poi difeso soluzioni piuttosto astratte come l’indipendenza della regione della Venezia Giulia o, più semplicemente, si erano schierati nettamente per l’annessione all’Italia. Edmondo Puecher era il riferimento di quest’ultimo orientamento e Vidali non lo sopportava, come a volte non sopportava suo padre che scandiva le giornate con la sirena dei cantieri e aveva invano rincorso il mito di un’italianità che gli avrebbe garantito una vita migliore e più dignitosa. La guerra volgeva al termine, il lavoro scarseggiava, la madre sartina china a cucire: Vidali osservava i suoi familiari alla luce del lume, un po’ montava la rabbia, un po’ la rabbia sfumava e si canalizzava nella frenesia del “si può fare”; significava avere meno di 20 anni, essere comunisti e avere come eroi Friedrich Adler, Karl Liebknecht e Rosa Luxemburg.
1983 Ricorda il suo primo incontro con Tina Modotti? Arrivai a Città del Messico nel settembre del 1927 ed una delle prime persone che conobbi là fu Tina Modotti. Il nostro incontro fu cordiale e da allora stringemmo un’amicizia che durò fino alla morte avvenuta il 5 gennaio 1942. Da quali esperienze proveniva Tina? Per esempio non le parlò mai della sua vita in Friuli, della sua emigrazione a San Francisco, del suo incontro con De Richey , prima e con Weston poi, dei film interpretati da lei a Hollywood? Qual’era il clima politico e culturale di Città del Messico dove Tina si stabilì nel 1923 e dove lei arrivò nel 1927? Nel milieu culturale di Città del Messico, Tina cosa rappresentava? In un primo tempo, suscitò curiosità per la sua nota bravura come fotografa e la sua adesione agli ideali della rivoluzione messicana e per essere la compagna di Edward Weston, già allora noto come grande fotografo. Molti degli intellettuali messicani a San Francisco e a Los Angeles e quando arrivò in Messico per raccogliere le ultime parole di suo marito Rubaix de Richey, si trovò circondata dall’affetto di gran parte del mondo intellettuale messicano. Quali erano allora i problemi di fondo della società messicana e quale il ruolo che gli intellettuali ritenevano fosse loro riservato? Nel 1927, Tina lavorava come fotografa, sia scattando ritratti a privati, sia fotografando in proprio e realizzando immagini che venivano pubblicate da giornali e riviste e messicane e internazionali. Aveva imparata la fotografia da Weston di cui era stata prima modella. Non l’ha mai vista lavorare? Non le ha mai parlato del suo lavoro di fotografa? Tina l’ha certamente fotografata in diverse occasioni. Ci può raccontare come operava? Agiva normalmente con metodo rapido, quasi a rubare l’immagine, o faceva posare a lungo i suoi soggetti, studiandoli per un’interpretazione migliore? Talvolta fotografava rapidamente, colpita da un paesaggio, dall’atteggiamento di una persona, da un contrasto sociale, da un avvenimento politico, come un’assemblea di contadini o una conferenza di operai. Alle volte, per i ritratti soprattutto, cercava accuratamente la luce, l’interpretazione accurata del soggetto. Ma in generale era molto rapida e sbrigativa. Il valore delle fotografie di Tina Modotti, al di là del loro fascino intrinseco, è dato dal fatto che esse rappresentano una grande testimonianza della sua tensione umana, sociale e rivoluzionaria. Quali immagini lei reputa più significative di questa perfetta identificazione tra fotografia e rivoluzione? Personalmente ritengo più aderenti alla sua vita di rivoluzionaria e alla sua tensione sociale quelle fotografie che descrivono la contrapposizione tra la miseria e la ricchezza del paese, la maternità e l’infanzia, la vita dura dei contadini, i pericoli nel lavoro degli operai. Tina era molto apprezzata anche come fotografa delle opere di Diego Rivera, Orozco e Siqueiros, i tre grandi muralisti messicani. Accanto ai modi operativi appresi da Weston (la camera formato 20 x 25, le lastre, lo sviluppo curatissimo, la tendenza a sovraesporre il negativo ecc.), Tina caratterizzò molte sue immagini con la ricerca, nel soggetto, del punto ideale in cui una forma conosciuta (una chitarra, per esempio) oppure nella struttura astratta che la sorregge, quasi ad identificarne l’essenza. Si trattava di macerate strutture linguistiche o tutto riusciva a Tina in modo piuttosto facile? Questi tipi di immagini di oggetti molto significativi e di uso comune costituivano per lo più il frutto di rapide intuizioni, di scelte immediate e relativamente facili, spontanee in lei. Spesso questi soggetti esprimevano ammirazione per la bellezza di un soggetto, di un fiore, di un accostamento di oggetti. E poi Tina era innamorata della bellezza, della luminosità e dei colori del paesaggio messicano. I ritratti di persone, le immagini scattate durante le riunioni, le fotografie a carattere più specificatamente “giornalistico”, raccontano di un’'appassionata partecipazione della fotografa alla vita, ai problemi, ai sentimenti della gente che lei ritrae. Ci sa dire qualcosa dei rapporti che Tina aveva con la gente? Tina era molto legata alla gente e perciò venne indicata molte volte come reporter sociale. Lo si comprese particolarmente quando il suo compagno Julio Antonio Mella venne assassinato nel 1929, e la gente espresse il suo cordoglio con grandi manifestazioni di simpatia per Tina come compagna di Mella, come combattente e come artista. Quando Tina morì, vi furono organizzazioni che presero il suo nome; lavoratori tessili diedero il nome di Tina al loro telaio; tipografi che lo diedero alla loro linotype. Le manifestazioni di cordoglio si estesero in tutto il Messico ed in altri paesi dell’America Latina, dove venne ricordata come una donna progressista. In Spagna, il nome di Maria che Tina assunse come nome di battaglia, era ed è ancor’oggi conosciuto ed amato in tutto il paese. Tina era molto amata per la sua gentilezza, per la premura verso chi aveva bisogno del suo aiuto materiale o morale, per la semplicità dei suoi modi, per la generosità e la grande sensibilità verso le persone con cui veniva in contatto. La sua casa molto modesta e poveramente arredata, era un punto di riferimento non soltanto per i messicani, ma anche per gli intellettuali e i dirigenti operai e contadini che erano fuggiti dai rispettivi paesi perseguitati dalle tirannie. Fu sempre molto ospitale e nella sua casa ricevette non solo personaggi come Majakovskij o la Kollontaj, ma anche combattenti come Cesar Augusto Sandino e Farabundo Marty, i cui nomi ancora oggi risuonano in America Latina e specialmente nel Nicaragua e nel Salvador. Gli anni 1929 / 1930 sembrano segnare una frattura decisiva nella vita di Tina Modotti. È oramai affermata come come fotografa, ha pubblicato su riviste messicane, statunitensi ed europee; ha organizzato una grande mostra delle sue fotografie alla Biblioteca Nazionale di Città del Messico; le hanno offerto di diventare fotografa ufficiale del Museo Nazionale. La morte di Mella e la sua espulsione dal Messico segnano, invece, la fine della sua attività creativa nel campo fotografico. Scrivendo a Weston, nel settembre 1929, Tina dice: “ Penso seriamente di fare una mostra qui, tra non molto. Sento che se devo lasciare il paese, gli devo almeno questo, mostrare quello che può essere fatto, senza dover risalire alle chiese coloniali, ai charros o alle chinas poplanas o a robaccia del genere su cui la maggior parte dei fotografi indugia”. Che cosa era per Tina quello che poteva essere fatto? Non c’è dubbio che l’anno 1929 fu un anno decisivo non soltanto per Tina, ma per l’intero movimento rivoluzionario messicano. La guerra religiosa cominciata nel 1926, terminava con un compromesso col clero, con il Vaticano e col cedimento del governo messicano alle richieste di Washington in merito alla questione agraria e del petrolio. A questa capiotolazione , che significava l’apertura di una nuova fase nella vita del Messico, si aggiungeva la repressione organizzata contro tutti i movimenti progressisti ed antiimperialisti, iniziata con l’assassinio di Julio Antonio Mella nel gennaio del1929, con l’incarceramento di molti messicani che avevano lottato per la rivoluzione, con la dichiarazione di illegalità per tutte le organizzazioni antimperialistiche. La mostra delle opere di Tina allestita all’Università Autonoma, presentata da David Alfaro Siqueiros, assunse perciò il carattere di una grande protesta sia contro la miseria che contro la repressione. Infatti nucleo centrale della mostra erano le fotografie dell’inchiesta sulla miseria in Messico in contrapposizione con gli sperperi, la corruzione e i soprusi della nuova borghesia, arricchitasi a spese della rivoluzione. Per quella mostra, e in seguito a un attentato verificatosi contro il presidente della repubblica, organizzato dai cristeros, molti comunisti furono arrestati e fra questi Siqueiros e la stessa Tina. In Germania nel 1930 e successivamente in Russia fino al 1932, Tina riprese in mano, episodicamente, l’apparecchio fotografico. Poi decise di dedicarsi al Soccorso Rosso e divenne, a tempo pieno, organizzatrice rivoluzionaria. Premesso che considero ciò una grande perdita per la fotografia e per la storia del reportage sociale (di cui il movimento rivoluzionario internazionale offre scarsi esempi alla pari con ciò che Tina ha fatto) chiedo a lei quali ragioni, al di là della necessità del momento, spinsero Tina a rinunciare alla fotografia? Credo che la rinuncia alla fotografia da parte di Tina, anche se meditata, fu di carattere emotivo. Avrebbe potuto conciliare la vita di rivoluzionaria con quella di fotografa. Avrebbe potuto accettare l’offerta del partito comunista sovietico per un lavoro di fotografa. Tina terminò l’attività di fotografa alla fine del suo soggiorno in Germania e quando arrivò nell’URSS nell’ottobre del 1930 aveva preso questa decisione. Le sue ultime fotografie sono quelle che vengono attribuite alla sua attività nell’URSS, attività che non svolse mai come fotografa. Anch’io riconosco che fu un errore e che Tina avrebbe potuto operare come rivoluzionaria professionale continuando senza particolari impegni a fotografare. E non c’è dubbio che nei suoi viaggi nei paesi europei e durante la guerra civile spagnola avrebbe potuto arricchire il suo patrimonio fotografico e avrebbe potuto così potuto dare un grande contributo di testimonianza di quei tempi. Dopo il ritorno in Messico, alla fine degli anni trenta, lei non vide più Tina fotografare? Quale sorte ebbero ebbero le lastre e le immagini di Tina? Perché ne sono state salvate così poche? Dove sono gli originali? Qual è stato nel dopoguerra l’itinerario che ha condotto ad una sorta di “riscoperta” almeno in Europa e in Italia dell’opera di Tina Modotti come fotografa? L’iniziativa è partita da Udine, città natale di Tina Modotti, dove esisteva un circolo culturale “Elio Mauro”, animatore del quale era il bravo fotografo ed insegnante di fotografia Riccardo Toffoletti. La prima mostra si fece ad Udine e con essa si pubblicò pure un primo libro su Tina, il cui testo era la riproduzione in italiano di un volumetto in lingua spagnola pubblicato nel Messico con una sottoscrizione popolare qualche settimana dopo la morte di Tina. In seguito ci fu il libro pregiato di Mildred Constantine consulente di architettura del Museum of Modern Art of New York, scritto in inglese e tradotto in spagnolo e tedesco, di cui è imminente la pubblicazione in Italia. Altre pubblicazioni sono state quelle organizzate dall’editore Passigli per Idea Editions, in italiano e in francese, tedesco e in inglese. Nel 1982 la Spartafilm di Berlino Ovest ha prodotto un film su Tina Modotti, opera di Ursula Jeshel e Marie Bardischewska. Nello stesso anno è uscito il mio libro Ritratto di donna. É certamente restrittivo considerare Tina Modotti solo entro questo ambito professionale limitato, sia pure con gli opportuni riferimenti al mondo culturale e alla temperie storica in cui Tina si trovò a vivere. Lei, che ne ha condiviso intensi anni di militanza e profonde esperienze di vita, come ama ricordarla? Personalmente amo ricordare Tina, così come l’ho fatto nel mio libro, donna modesta, gentile, dal carattere forte, stoico, intelligente, piena di volontà di lavorare, con forte capacità di abnegazione nella difesa dei suoi ideali. Contemporaneamente amo ricordarla donne dolce, leale, generosa, ricca di femminilità. Grazie Vittorio Vidali per questo sguardo su Tina Modotti fotografa e sul suo tempo che è stato anche, in parte il tuo!
Vittorio Vidali, come altri protagonisti ingombranti e controversi della storia, manca di una biografia che si possa in qualche modo definire “scientifica”. E così si continua a parlarne, mescolando ad una conoscenza parziale dei fatti diffuse (de)contestualizzazioni, superficialità e pettegolezzi. Trasformando così la memoria di personalità importanti in capro espiatorio per qualsiasi occasione strumentale, nulla fornendo alla valutazione critica (non necessariamente simpatizzante) e contribuendo solo a creare o rafforzare i più vieti pregiudizi. In buona sostanza: si fa propaganda, e non si stimola la conoscenza critica. Di questo tipo di “storiografia-alla-pressapoco-via” - ci si vorrà scusare il paludato linguaggio accademico - su questo stesso sito, ci si è già occupati (*). È in questo quadro che voglio commentare la proiezione, stamani sul canale della Rai regionale del Friuli Venezia Giulia, del documentario “VITTORIO VIDALI - QUESTA È LA MIA VITA”. Che così viene presentato sul sito dell’emittente: «Il film, scritto e diretto da Giampaolo Penco, a partire dalle ricerche dello storico Patrick Karlsen, nasce dall’idea che la vita romanzesca e spericolata di Vidali, nato a Muggia nel 1900 sotto l’Impero AustroUngarico, possa fornire nuove chiavi di lettura riguardo la storia dell’Internazionale comunista tra le due guerre mondiali. Vittorio Vidali, a poco più di vent’anni, fugge in Russia. Anni dopo sarà negli Stati Uniti accanto agli anarchici Sacco e Vanzetti. Ben presto si afferma come dirigente di spicco del movimento comunista internazionale: è militante nel Soccorso Rosso, esponente del Komintern, e combattente nella Guerra di Spagna, dove diventa il leggendario “Comandante Carlos”. Nel 1939 è in Messico, dove nasce una storia d’amore e di unione per la rivoluzione con la fotografa friulana Tina Modotti. Amico personale di Che Guevara, nel 1947 torna in Italia dove, fra il ’58 e il ’68, sarà deputato e Senatore della repubblica. Quasi ottantenne, il suo nome viene legato alle vicende delle Brigate Rosse. Replica mercoledì 21 alle 21.20 sulla Terza rete bis (103 digitale terrestre).» A prescindere da qualche grossolana inesattezza nella nota redazionale, è evidente che il filmato rappresenta la tesi di Karlsen, studioso attento ma con un atteggiamento deliberatamente anticomunista. Che tende quindi spesso ad interpretare i fatti unilateralmente (cfr. quanto ne abbiamo scritto a proposito di un dirigente comunista friulano che di Vidali fu il silenzioso, ma tutt’altro che subalterno, interlocutore). Per altro, il filmato è migliore di altre ricostruzioni che abbiamo dovuto subire in questi anni, e si apre con un’introduzione di Claudio Magris che, da non comunista, riconosce il significato importante del progetto comunista per la storia del Novecento. Lo scrittore triestino, per altro, è chiaro sul fatto di non fare sconto a Vidali dei suoi atti di settarismo, anche sulla traccia delle denunce dell’anarchico Umberto Tommasini. Su un piano più circoscritto, un altro pregio è l’aver smentito una serie di punti forti della “leggenda nera” che circonda Vidali, per esempio a proposito della morte di Tina Modotti e di quella di Leone Trozky. Anche se, a proposito della precedente uccisione del comunista cubano Antonio Mella, se ne introduce una nuova versione, stile Vidali e Modotti “amanti diabolici”. Inoltre si tira fuori - sulla base di spiate dei servizi segreti Usa che meriterebbe di essere manovrate con maggiore cautela - che Vidali sarebbe stato un mezzo agente della Gestapo durante la guerra in America Centrale (perché allora non dire, sulla base di documenti spionistici altrettanto “attendibili”, che nel dopoguerra a Trieste lo sarebbe stato anche dell’Intelligence Service britannico, oltre che del sempiterno Gpu-NKVD-Kgb?). Quest’ultima accusa nasce da Pino Cacucci, il quale ripete una grave inesattezza proposta nel film SPAGNA 1936: L’UTOPIA SI FA STORIA, nel quale lo scrittore accusa i sovietici di essersi messi d’accordo con i nazisti non nel 1939, con il mai abbastanza esecrato patto Molotov-Ribbentrop, ma addirittura negli anni precedenti. Con il che Cacucci confonde la politica di moderazione volta a trattare con la Gran Bretagna e la Francia, anche a costo di soffocare la rivoluzione spagnola per difendere gli interessi di stato sovietici, con la sciagurata scelta filo-nazista dell’ultimo minuto, compiuta per evitare l’isolamento internazionale (en passant notiamo che, nel caso del suo nuovo commento al film sulla Spagna, Cacucci scade ad un livello di propaganda di partito a volte ridicola: il che non rende onore al grande contributo anarchico alla Rivoluzione ed alla difesa della Repubblica spagnola). Infine: il buon vecchio Vidali, messosi in pantofole al rientro in Italia, viene almeno implicitamente scagionato dall’accusa di essere stato il “grande vecchio” delle Brigate Rosse: vien da dire, sarcasticamente, che sarebbe stato proprio difficile per il nostro quasi ottantenne vegliardo conciliare il conflitto d’interesse tra così tanti servizi segreti di riferimento… Per il resto, si alternano ingenuità, strumentalismi e lacune. Tra le “ingenuità” (qualcuna con evidente intento ideologico) andiamo dall’aver inserito Vidali nell’ambito dell’austromarxismo, originale corrente socialista non inquadrabile né nella socialdemocrazia riformista né nel comunismo di scuola sovietica; al definire “omicidii” di fascisti quelli commessi da Vidali nei primi anni ’20, usando un termine semanticamente negativo per neutralizzare il valore della dura resistenza armata opposta dai comunisti giuliani al dilagante squadrismo fascista, per altro ricordata di lì a poco; fino alla ripetuta sottolineatura che Vidali aderì al Comintern (= Internazionale Comunista) - ovviamente, essendo fino al 1943 anche giuridicamente quello comunista un unico partito mondiale, di cui i partiti dipendenti erano solo “sezioni” nazionali - e che il Soccorso Rosso Internazionale era una creatura del Comintern stesso. E di chi di grazia avrebbe dovuto essere sennò espressione? Insomma: sempre sulla base di un’impostazione complottistica alla moda (il complottismo in storiografia sta come il giallo/noir in letteratura…) si trasformano fatti politici in “clamorosi” scoop rivelatori di chissà quali retroscena. A controprova della non sempre fondata argomentazione presentata, appaiono talvolta, a documentazione della storia del comunismo planetario, non immagini di documenti o di ponderosi tomi, ma di paginate di wikipedia, il novello bignami utilizzato acriticamente, come le enciclopedie per le ricerche della scuola media d’antan. Quanto agli strumentalismi metodologici, ci pare di ritenere paradossale la commistione di giudizi storici con quelli di politici che poco hanno da dichiarare sul piano delle testimonianza diretta. A che titolo intervistare Emanuele Macaluso e Massimo D’Alema, se non per incastrare la valutazione di Vidali nel filone del post-PCI-Pds-Ds-Pd? Riteniamo anche questo un tassello di quella costruzione ideologica con cui la maggioranza tra i più grandi partiti comunisti hanno riscritto la loro storia in funzione della riconversione non in formazioni di sinistra auto/critiche, ma in partiti-nazione interclassisti: poco importa si tratti del neoliberista Pd italiano o dei cacicchi islamisti come Nazarbajev ed altri in Asia Centrale, oppure ancora dei nazionalcomunisti russi. Per cui Togliatti, infine, si trasforma, da promotore della “lunga marcia” dei comunisti italiani fuori dallo stalinismo verso i lidi della socialdemocrazia europea - di cui il PCI è stato oggettivamente uno dei pilastri nel “trentennio radioso” postbellico - in avo a sua insaputa dei rottamatori odierni, quelli del “jobs acts” e della “buona scuola”. Pure le lacune sono assai significative. Ne citiamo alcune. Sarebbe stato carino dire magari che Vidali, oltre che giovane e spietato “ardito rosso”, fu tra i primi e pochi comunisti italiani a prendere contatti con i legionari dannunziani, sottolineando l’esigenza di un fronte comune contro i fascisti. Non sarebbe stata cosa da poco spiegare il lavoro suo e di Tina Modotti alla sezione fotografica e cinematografica del Soccorso Rosso Internazionale a Mosca. Ricordando magari che erano alle dipendenze di Elena Stassova, protettrice di molti suoi collaboratori dalle purghe del Grande Terrore (almeno si accenna, di sfuggita, che pure Vidali ne avrebbe potuto essere vittima, se non fosse stato inviato in Messico dalla sua dirigente). Magari sarebbe stato utile spiegare che il Quinto Reggimento era solo il 5°, appunto, tra i reparti organizzati dai partiti antifranchisti nella Madrid assediata, ma che lo si ricorda perché, grazie a Vidali ed alle sua capacità militari, fu l’unico ad essere realmente messo in piedi, formando quei generali di origine operaia e contadina che divennero i principali comandanti dell’esercito repubblicano. Ma messa così, Vidali apparirebbe a tutti gli effetti come il principale protagonista della difesa della capitale spagnola, sottraendolo a quella riduzione semplificatoria di cui è stato vittima. Inoltre: del ritorno a Trieste di Vidali nel 1948 sarebbe il caso di ricordare, oltre alle indubbie violenze infracomuniste alle frontiere giuliane, la grande capacità politica di “riconquistare” quasi tutto il PC triestino (militanti di lingua slovena compresi) alla causa italiana, anche con accesi toni nazionalisti. Già, ma allora come la mettiamo con questi comunisti slavofili…? Infine: manca del tutto il ricordo della pesante reazione filostalinista del Vidali del 1955 e 1956. Ma anche qui: come inquadrare quello che viene descritto come uno “007 de noantri”, con il segretario del PC del Territorio Libero di Trieste capace di prendere pubblicamente posizione contro tutti i vertici del comunismo mondiale, a partire da Kruscev? Salvo essere poi rimesso in riga da Giacomo Pellegrini per conto di Togliatti, a dimostrazione che la politica si svolge molto più alla luce del sole di come la si voglia far apparire: rinvio alla mia relazione su Pellegrini citata sopra.
(*) Cito essenzialmente, per limitarmi alla fattispecie odierna: “Tinissima”: un bel film con un discutibile commento grazie a: http://www.storiastoriepn.it/ 18.12.2016
Delle molte vite di Tina Modotti, operaia nelle filande, attrice a Hollywood, musa di artisti e fotografi come Diego Rivera ed Edward Weston, fotografa di fama internazionale, scrittrice di pamphlet, agitatrice politica, si sa molto. Ma c’è un’ultima vita, per molti aspetti ancora sconosciuta e gravida di segreti, che è tuttora avvolta nelle nebbie della Storia. Ebbe inizio nell’ottobre del 1930 in Unione Sovietica, quando la Modotti dopo l’espulsione per motivi politici dal Messico giunse a Mosca dopo un breve e infelice soggiorno a Berlino. Anche se Tina mascherava i suoi sentimenti citando spesso una frase di Nietzche - «Ciò che non mi uccide mi dà forza» - nell’animo era turbata e smarrita. L’anno prima il suo compagno, il rivoluzionario cubano Antonio Mella, era morto tra le sue braccia in una strada di Mexico City vittima di un agguato politico dai contorni rimasti oscuri. Giunta a Mosca, l’affascinante fotografa dai capelli corvini e dagli occhi di carbone, elegante, con le calze di seta e profumata con costose essenze francesi, scoprì che il suo amico e accompagnatore nel viaggio sul piroscafo Edam dal Messico in Europa, l’agente stalinista Vittorio Vidali, uomo dai mille volti, il 2 ottobre si era sposato usando il nome di copertura di Jorge Contreras con Paulina Hafkina, una giovanissima russa, che aspettava un figlio da lui. A Mosca Tina era alla ricerca di una nuova vita e di nuovi interessi. Era conosciuta come un’artista della fotografia, ma non era d’accordo se «le parole arte e artistico vengono applicate al mio lavoro… Mi considero una fotografa e niente di più». Invece di fotografare la complessa realtà della prima nazione del comunismo, Tina iniziò a lavorare per il Mopr (Soccorso rosso internazionale). In un documento autografo del 23 novembre 1930 dichiarò che Jorge Contreras (alias Vittorio Vidali) gli aveva consegnato i documenti dei Dipartimenti latino-americano, italiano, portoghese e spagnolo in ordine e aggiornati. Insieme all’ambizioso e spietato, Tina scrisse anche diverse lettere e risolse alcuni problemi delle sezioni canadesi, statunitensi, irlandesi del Soccorso rosso. A Mosca Tina però non riuscì a fotografare. Perché non fu più capace di ritrovare nelle immagini quella originale sintesi tra forma e ideologia per quale era famosa? La luce slavata e tetra di Mosca, le difficoltà nel trovare i materiali fotografici per la sua Granflex e nell’ottenere i permessi per gli scatti non sono motivi sufficienti a giustificare una crisi artistica così profonda. «Vivo una vita completamente nuova, tanto che mi sento diversa» scrisse a Edward Weston, il grande fotografo americano suo confidente che l’aveva avviata alla fotografia. Fino a qualche mese prima Tina aveva pensato che le immagini potessero produrre un cambiamento del mondo. Da quando era partita dal Messico con Vidali questo convincimento era stato rimpiazzato dall’idea dell’azione diretta, dell’agire come una vera rivoluzionaria. L’Ufficio speciale della OGPU (la polizia segreta sovietica antesignana dell’NKVD) il 12 marzo 1931 ricevette una richiesta da Elena Stassova, presidente di Soccorso Rosso, dove si chiedeva di autorizzare Tina a prendere visione e occuparsi di documenti segreti. La Quinta sezione speciale dell’OGPU rispose il 24 aprile 1931, autorizzando la Modotti a svolgere quel lavoro segreto. Da tempo le sezioni segrete di Soccorso rosso e del Comintern (la sezione supersegreta denominata Oss) agivano all’estero in stretta collaborazione e in supporto con i Servizi segreti sovietici, l’OGPU (che diventerà poi NKVD) e il GRU dell’Armata Rossa. Anche se Tina era riuscita a vendere l’ingombrante Granflex e a sostituirla con una modernissima (e introvabile in URSS) Leica mod. 1932 con esposimetro incorporato; anche se poteva diventare la fotografa ufficiale di qualche importante istituzione dello Stato sovietico, rifiutò ripetutamente le offerte di scattare foto. In quei mesi aveva anche chiarito il rapporto con Vidali. In passato non si era preoccupata di avere avventure multiple, ma giunta a Mosca pensava solo ai suoi doveri e alla sua integrità di rivoluzionaria. Per questo scrisse in una autobiografia per presentarsi al Comintern: «Il nome di mio marito è Vittorio Vidali (Jorge Contreras). È di origine italiana. È membro del Partito Comunista ed è da anni rivoluzionario professionista». La sua autobiografia è un documento interessante. Tralasciando il fatto che Vidali avesse sposato qualche tempo prima una giovane russa, nel documento compaio significative omissioni sul passato lavoro di attrice nel cinema di Hollywood o sulla sua storia d’amore con il rivoluzionario Antonio Mella, amico di Andreu Nin, e in odore di trotskismo. Ma questa inconsueta autobiografia dattiloscritta offre anche un interessante spaccato psicologico di Tina. «Quando avevo nove anni mio padre emigrò negli Stati Uniti in cerca di lavoro. Per lunghi intervalli di molti mesi non ricevemmo da lui nessuna notizia né spedì soldi a casa per mancanza di lavoro. Ciò significa che dovevamo vivere praticamente di carità. All’età di 13 anni cominciai a lavorare e da quel momento in poi mi sono sempre guadagnata da vivere lavorando». Nell’autobiografia del 1932 Tina si sentiva ancora una fotografa. «Considero la fotografia la mia professione perché è quella in cui ho lavorato più tempo e conosco tutte le fasi di questo lavoro». C’è però una nota conclusiva che fa pensare ad altre aspirazioni: «Conosco le seguenti lingue: italiano, spagnolo, inglese, nelle quali so scrivere e leggere. Inoltre conosco il tedesco e il francese, ma non correttamente e senza saperle scrivere». Vittorio Vidali pensava da tempo che Tina fosse la persona ideale per il «lavoro segreto». Con il suo viso dolce e pulito, la sua eleganza naturale, la sua bella presenza poteva superare ogni confine. E per un agente segreto la fotografia era sempre più un lusso. «Questa rivoluzionaria italiana, artista straordinaria con la sua macchina fotografica, andò in URSS per fotografare la gente e i monumenti. Ma venne rapita dal ritmo incontenibile del socialismo in pieno fermento e gettò la macchina fotografica nel fiume di Mosca, promettendo di consacrare la propria vita al più umile lavoro del Partito comunista» scrisse nel 1974 Pablo Neruda, amico della Modotti. In realtà Tina, prima di entrare definitivamente nella nuova vita delle ombre, degli specchi, dei misteri e dei segreti non gettò «la macchina fotografica nel fiume di Mosca». Il 13 giugno 1932 nella stanza che occupava nello squallido e polveroso Hotel Soyuznaya, dopo aver sistemato obiettivo ed esposizione della sua Leica, la porse ad Angelo Masutti un ragazzo sedicenne che aiutava Vidali a Soccorso Rosso dicendogli: «Prendila… e fammi una foto». Il giovane scattò con la Leica una prima foto in controluce e un’altra con Tina semigirata verso la finestra. E poi una terza di Tina con Vidali dall’aria stranamente protettiva. Angelo Masutti fece per restituirle la macchina fotografica, ma Tina lo fermò dicendogli: «Tienila». Era ormai convinta che «Il partito avesse sempre ragione». E come disse il regista Sergej Eisenstein, «aveva sacrificato l’arte per la politica». Tina iniziò a svolgere missioni segrete in Spagna, Francia, Germania, portando soldi, documenti, ordini, direttive. L’affascinante ed elegante signora «bela y hermosa» arrivata dal Messico qualche anno prima piena di forza, era diventata una donna silenziosa, triste, spesso depressa. Allo scoppio della Guerra civile spagnola i fotografi Robert Capa, David Seymour e Gerda Taro la incitarono a tornare a fotografare. Ma Tina preferì il lavoro con le autoambulanze e negli ospedali con il nome di battaglia di «Vera Martini» e successivamente con lo pseudonimo di «Maria» tornò al lavoro segreto sempre più triste e spenta. Non si sa se partecipò ai complotti, alle trappole che portarono alle uccisioni degli oppositori di Stalin, degli anarchici e dei comunisti antistalinisti di Andreu Nin del POUM, delle quali fu accusato più volte «il marito» Vittorio Vidali. Al momento della sconfitta delle forze repubblicane di Spagna era una donna esausta, sofferente, sconfitta. Era invecchiata precocemente. Tornò in Messico e visse ancora qualche anno sempre più stanca, sempre più triste, dilaniata dagli incubi del passato. Morì all’alba del 6 gennaio. Sola, su un taxi nelle vie di Mexico city, dopo una lite con Vidali. Era stata definitivamente fagocitata dalle persone per le quali aveva abbandonato la sua arte. grazie a: il Manifesto, 8 marzo 2013 |