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Ritengo legittimo, quanto doveroso, dichiarare inizialmente le difficoltà che ho dovuto affrontare nella preparazione di queste annotazioni, senza riuscire a superarle del tutto. Innanzitutto perché, dovendo parlare di Bruno Trentin, sono fortemente condizionato dal rapporto personale che ho avuto con lui. Da una parte, una grande, incolmabile, distanza, fra di noi: età, esperienza, livello culturale, leadership e molte altre cose ancora. Tanto da farmi tuttora sentire, nei suoi confronti, una sorta di allievo, non autorizzato, immeritevole quanto tardivo. Dall’altra, un percorso in parte comune: gli anni della FIOM, della CGIL, del PDS. E, infine, eletti insieme nel Parlamento Europeo. Nella stessa legislatura. Siccome, poi, intendo parlare del sindacato, della sinistra e del rapporto fra di loro, le cose si complicano ulteriormente. Non perché su questo asse tematico ci siano state tra noi differenze di fondo. Qualche incomprensione, come poi vedremo, magari sì. Ma niente di più. Il fatto è piuttosto che si finisce per toccare uno dei tasti più dolenti della vicenda politica attuale e, per me, è impossibile non parlarne, come sarebbe invece metodologicamente corretto. Il riferimento all’oggi non è però evitabile, anche perché Trentin ci aveva indicato per tempo alcuni dei fattori della deriva attuale. Assieme agli altri numerosi contributi teorici e strategici, fortemente innovativi, ben analizzati in questo volume, una delle idee-guida del pensiero e dell’azione di Bruno Trentin è stata senz’altro quella dell’autonomia sindacale su base progettuale. Tanto più tassativa, quanto più il lavoro, la sua articolazione e la sua identità venivano modificandosi in rapporto alle innovazioni radicali della organizzazione produttiva e sociale. Procedendo oltre fordismo e taylorismo. Vorrei però sgomberare il campo da un malinteso storico, piuttosto diffuso. Nel momento in cui questa teorizzazione assunse una veste ufficiale, verso la fine degli anni ’80, la concezione della “cinghia di trasmissione” partito-sindacato era già stata abbondantemente superata. Non solo e non tanto per le decisioni formali via via assunte in tal senso: l’incompatibilità fra cariche di partito o istituzionali e cariche sindacali prima, lo scioglimento delle componenti storiche poi. Tutte decisioni in cui peraltro Trentin ebbe un ruolo decisivo. Il fatto è che già dagli anni ’70 (almeno per quanto mi ha insegnato la mia esperienza) non c’era più nessun primato di partito “a priori”, neppure del PCI, né richiesto né concesso. Un rapporto intenso, questo sì. Non c’era passaggio rilevante della vita sindacale e contrattuale, di fabbrica, di categoria o generale che non fosse sottoposto a verifica congiunta. Discussioni talora animate, soprattutto nelle grandi aziende, private ma anche di servizio, dove esistevano le strutture di partito che in ogni caso vedevano ridursi la propria influenza di fronte alla crescita di ruolo dei consigli dei delegati. Era però chiaro, e condiviso, il principio secondo il quale quelle discussioni non avrebbero mai dovuto, o quasi mai, assumere un profilo decisionale. Al massimo, ci si limitava a ricercare - non senza tensioni e contrasti - orientamenti comuni. A dire il vero, nei passaggi politici decisivi e di particolare valore simbolico, la pretesa di riproporre il “primato” - se non addirittura il dominio assoluto - della politica si rifaceva ciclicamente sentire. Basta pensare al caso, in assoluto il più importante, del decreto sulla scala mobile e del successivo referendum abrogativo (1984-1985). In ogni modo, vale la pena di segnalare come quella sorta di monitoraggio congiunto che si conduceva ancora sistematicamente, e che è andato via via declinando fino alla scomparsa di qualsiasi forma di organizzazione operante nei o verso i luoghi di lavoro, costituisse per il partito un canale di comunicazione e di informazione assai importante. Un’antenna sensibile piantata nella società e soprattutto nei luoghi della produzione e dell’innovazione. Un’antenna diventata, assieme ad altre, superflua con l’affermazione definitiva della personalizzazione e spettacolarizzazione della politica. E con la caduta verticale del confronto sui contenuti, sempre più variabili dipendenti della lotta per il potere. É interessante osservare come, al giorno d’oggi, la perdita totale di capacità progettuale, sia del sindacato che dei partiti, abbia - a ben vedere - rilanciato la logica, se non la pratica, della “cinghia di trasmissione”. Una specie di vendetta della storia. Come nel caso del partito-governo che pretende una subordinazione assoluta alle sue decisioni da parte del sindacato, e in specie della CGIL. Anche stavolta, come nel 1984 - guarda caso - con una maggioranza di centrosinistra al potere. Una logica che, di rimbalzo, ripropone un sindacato sostanzialmente subalterno. Che, in assenza di vere piattaforme alternative, vale a dire autonome, si rinchiude in una trincea difensiva e oppositoria. Salvo poi arrivare alla pretesa di qualche suo segmento di proporsi come il centro di riorganizzazione, se non di reinvenzione, della “sinistra politica”. Ad esempio con la formula magica della “coalizione sociale”. Una “cinghia” alla rovescia? Sembrerebbe qualcosa del genere. Anche se il tema di un nuovo rapporto sindacato-partito, come motore di una possibile via d’uscita dalla crisi della sinistra, merita di essere affrontato. Naturalmente, di fronte a tali proposte, a me scatta una reazione di rigetto, non solo intellettuale ma anche emotivo. Ma come? Invece di ricercare e sperimentare i modi per recuperare rappresentatività e potere contrattuale, drammaticamente entrati in default, ci si mette ad architettare l’ennesimo cartello politico (“nuovo”, naturalmente!) cercando di appiccicare insieme le più disparate - e, in qualche caso, consunte - espressioni e personalità della cosiddetta società civile? Tale reazione, di natura psico-fisica, è sicuramente dovuta alla formazione che ho ricevuto in casa CGIL. Ma pesa anche l’esperienza fatta dal lato del partito. Mi scuso, ma è per me impossibile rimuovere il ricordo dei molteplici contatti che, come dirigente del PDS, ho dovuto intrattenere con le più svariate tipologie di soggetti politici che si sono “coalizzati” con noi nel corso del tempo, fino alla fusione nel PD. Una fusione “a freddo”. Ancora scientificamente impraticabile, com’è noto! Originariamente venivano denominati “cespugli”, ed erano molto variegati per storia e caratterizzazione. Tutti, però, convergevano verso un obbiettivo molto chiaro: pretendere una sovra-rappresentazione nelle diverse assemblee elettive (e nei relativi organi di governo) di volta in volta chiamate al rinnovo. Che si trattasse delle schegge del PSI, dei comunisti irriducibili, dei verdi più intransigenti, dei liberal-democratici più ispirati, delle più virtuose sinistre ex-democristiane, tutti erano animati dallo stesso proposito: massimizzare il loro peso, al di là della loro effettiva consistenza elettorale. Tutti, però, surclassati dagli ulivisti “doc”, che rivendicavano di essere considerati, contemporaneamente, una parte ma anche il tutto, e di essere quindi “pesati” come tali: membri della coalizione, e, insieme, coalizione in quanto tale. Nella mia valutazione del progetto-Landini & C., non nego, dunque, che incida un condizionamento storico-politico, se non addirittura antropologico. Ma quello che mi manda letteralmente in bestia è che mi sembra di trovarmi di fronte ad un altro caso in cui si rischia di svuotare e di pregiudicare una sia pur vaga ed involontaria intuizione di quella che potrebbe davvero rivelarsi una strada promettente. Niente di peggio, per le buone idee, che essere storpiate da cattivi divulgatori! Bisogna infatti riconoscere che, con quella proposta, si toccano due problemi reali e fondamentalissimi. Problemi, teorici e pratici, che vanno risolti a monte di qualsiasi ipotesi di ridefinizione della sinistra: quello dei soggetti sociali di riferimento e quello del carattere, monocentrico o policentrico, del nuovo schieramento che si intende progettare e sperimentare. Problemi che, per quanto mi è stato possibile comprendere, hanno molto a che fare con la ricerca costantemente sviluppata da Bruno Trentin, fino alla sintesi in qualche modo realizzata ne “La città del lavoro”. Cerchiamo, dunque, di mettere un po’ di ordine. Con la consueta approssimazione e sbrigatività di chi tenta di estrarre qualche indicazione politica da analisi teoriche ancora in corso di affinamento. Ciò a cui bisogna lavorare deve essere, di nuovo e finalmente, una vera “comunità politica organizzata”. Bisogna dunque metterne progressivamente a punto l’identità e, contemporaneamente, definirne e sperimentarne coerenti regole costitutive. Identità non significa il semplice assemblaggio di qualche parola d’ordine. Implica un difficile lavoro di ricerca che ci ricolleghi a quanto di più avanzato si muove - sia pure a fatica - nell’ambito del socialismo e della più vasta area progressista d’Europa. Di fronte agli inediti problemi del mondo contemporaneo (dalla crisi economico-finanziaria a quella energetico-climatica), la scatola degli attrezzi delle culture politiche del ‘900 si rivela povera ed obsoleta. Per una sinistra del 21° secolo serve un nuovo pensiero. Un nuovo, vero e autonomo progetto. Appunto. Cruciale a questo proposito appare, come già accennato, il nodo dei soggetti sociali di riferimento, di quello che un tempo si sarebbe chiamato il “blocco sociale” della trasformazione. Un’ infinità di analisi su post-fordismo, sulla frammentazione e la precarizzazione, sulla “liquidità” sociale, non hanno ancora detto molto circa i modi in cui, oggi, può riproporsi lo storico obbiettivo, se non la ragion d’essere, della sinistra politica e sindacale: come riunificare il lavoro. Facendone l’architrave di un sistema di alleanze - necessariamente su scala sovra-nazionale - orientato alla qualità sociale e ambientale dello sviluppo. Certo, non si può più contare su centralità a priori, organizzative, oltreché politiche e rivendicative, come fu quella della classe operaia della grande fabbrica taylorista. C’è però da domandarsi se non esista uno strato orizzontale della forza-lavoro, di crescente peso e ampiezza, al quale affidare un ruolo trainante ed unificante: i lavoratori della conoscenza, per riprendere un’espressione usata anche da Trentin. Una galassia di mansioni, funzioni, condizioni prestative e salariali, collocate ormai in tutti i settori produttivi e dei servizi, spesso al confine fra lavoro subordinato e lavoro autonomo. E in una posizione del tutto inedita, essendo oggi la conoscenza non solo forza produttiva ma anche mezzo di produzione. Nelle sue istanze di dignità, autodeterminazione e valorizzazione - che vengono sempre prima di quelle salariali - questa componente della forza-lavoro esprime quindi un potenziale formidabile di antagonismo, cambiamento ed egemonia. Per sua natura - fra l’altro - sovra-nazionale (“Proletari di tutto il mondo…”). Proporsi di organizzarlo e rappresentarlo è forse la via maestra per piantare le radici sociali della sinistra moderna e per disegnarne l’asse politico-programmatico. Per quanto mi riguarda, resto legato a un’idea su cui, per quanto astratta ed un tantino velleitaria possa apparire, mi sembra valga la pena di riflettere e magari anche discutere: quella di “patto federativo”. Idea velleitaria, perché promotori e co-protagonisti dovrebbero esserne gli attuali soggetti della sinistra sociale e politica, i quali non sembrano avere, o avere più, un orizzonte di questo genere. In ogni caso la mia proposta preliminare è di abolire la parola “scissione” e di imporre, con la forza - sì, con la forza! - l’uso del termine “aggregazione” (o equivalenti!). Bisogna cominciare a studiare e sperimentare, anche “dal basso”, uno schema di partecipazione formalizzata al quale possano aderire soggetti propriamente politici ed altre entità di natura diversa: volontariato, associazionismo di scopo, interessi sociali organizzati. A partire, naturalmente, dal sindacato, che ne dovrebbe essere la colonna portante. Adesione dei singoli soggetti che, ovviamente, si dovrebbe verificare su base strettamente volontaria ed eventualmente anche temporanea, su singoli progetti e obiettivi. Il modello di riferimento può orientativamente essere quello del partito laburista inglese. Nel quale, ad esempio, la scelta del leader avviene a conclusione di un processo che coinvolge gli iscritti al partito, gli eletti ai diversi livelli istituzionali e gli associati al sindacato, avendo ciascuno di questi gruppi un terzo del peso decisionale. Non so come, ma sicuramente per un mio difetto di comunicazione, fu su un’idea di questo genere che fra Trentin e me nacque una divergenza: il riferimento, appunto, allo schema laburista che mi capitò di fare all’indomani delle elezioni del 1994 e del conseguente inizio del (quasi) ventennio berlusconiano. Per niente soddisfatto del voto toscano, che pure andava in controtendenza al dato generale, assicurando alla coalizione di centrosinistra la totalità dei seggi disponibili in questa regione, lanciai una proposta del genere. Anche in Toscana, infatti, se si voleva scavare al di sotto della superficie patinata del successo, nel nostro storico insediamento si manifestava una crisi di consenso, in particolare nelle aree urbane. Una vera e propria frattura rappresentativa fra la sinistra ed il suo “blocco sociale”. Per questo ritenni necessario aprire un dibattito ed una ricerca sulla forma-partito e sui suoi rapporti con la società civile. Prendendo in prestito, per un progetto di strutturazione flessibile ed aperta dell’Ulivo, il sistema di funzionamento del Labour. Le reazioni, generalmente, furono molto negative, quando non stroncatorie. Anche se, col senno di poi, i critici più feroci di quella suggestione dovrebbero spiegare perché l’Ulivo, e poi le sue derivazioni, hanno fatto la fine che sappiamo. Ma si può capire che la critica che per me risultò la più amara fu quella - su L’Espresso, se non ricordo male - di Bruno Trentin, che liquidò la cosa come impraticabile. Colpa mia - lo ripeto - di non essere stato capace di spiegarmi. Ci rimasi molto male, lo confesso. E mi fece, invece, molto piacere che anche Trentin, qualche tempo dopo, richiamasse il sistema federativo per una più coerente ed efficace strutturazione dell’Ulivo, anche in vista dell’apertura del cantiere di quel Partito Democratico di cui Bruno non poté vedere la nascita. Se non altro, un percorso utile per la graduale armonizzazione e associazione delle forze e delle culture che si approssimavano a costituirlo. Sta di fatto che una concezione di questo tipo fu sconfitta prima ancora di essere pienamente elaborata ed esplicitata. Vinsero, a mani basse, gli strateghi del “nuovo”, capaci di formidabili accelerazioni. Con gli esiti che si possono ora misurare. Nella sua Introduzione a “La città del Lavoro” (pag. XXV), Ariemma segnala come Trentin, nel suo Diario, abbia avvertito, e vissuto con amarezza, questo fallimento: “Sento che il mio messaggio sulla libertà nel lavoro, sulla possibile autorealizzazione della persona non è passato e che la politica ha ormai preso un’altra strada. Questo vuol dire essere Out, bellezza”. Mi associo. In ogni modo, per quanto mi riguarda, non ho mai pensato - né allora né oggi - di ricalcare meccanicamente il modello laburista, ma di adattarne la logica di fondo ad una realtà, quella italiana, nel bene e nel male a tasso di pluralismo enormemente più elevato di quella britannica. Una realtà nella quale il tema dell’autonomia dei soggetti potenzialmente aderenti ad una tale esperienza deve essere considerato una risorsa e non un problema. Per questo, l’enfasi dovrebbe essere portata - se posso dire, trentinianamente! - sul progetto, sui valori e contenuti programmatici, mettendo al centro del patto fondativo un insieme di regole di partecipazione informata e decisionale. In altri termini, si tratterebbe di fissare modalità e scadenze per la consultazione vincolante degli aderenti in vista di scadenze elettorali e di governo, a livello europeo, nazionale o locale. Sempre a tutela dell’autonomia reciproca, lo strumento di promozione e di alimentazione di questa “democrazia dei contenuti”, potrebbe essere distinto dai rispettivi organismi di direzione politica e potrebbe configurarsi come un Centro o Istituto di ricerca, elaborazione e formazione. Ovvero una Fondazione. Ma una, per tutti. Non una per ciascuno, di questo o quell’altro. Naturalmente, questo meccanismo decisionale potrebbe essere esteso, del tutto o in parte, nella sostanza, se non nella forma, anche alla scelta delle leadership, aprendo la strada ad una gestione meno “corsara” delle primarie conosciute fino a questo momento ed operando, comunque, una netta separazione fra sfera politica e sfera di governo. E c’è anche da dire che questo “federalismo” di tipo orizzontale potrebbe bene integrarsi con uno di tipo verticale, nella massima valorizzazione delle autonomie territoriali. In conclusione, capisco che riproporre oggi questo tipo di suggestioni può sembrare condizionato dalle più recenti ed anche sorprendenti vicende della sinistra europea, a partire dal caso Corbyn. Ma anche dall’osservazione di altri fenomeni politici, per quanto diversi e contraddittori, come quelli manifestatisi in Spagna ed in Grecia. Diversi ma tutti contrassegnati da uno sforzo e, almeno in parte, da una capacità di interpretare e, in qualche misura, rappresentare nuove domande e nuovi soggetti. Per quanto si possa diffidare da queste innovazioni, io credo che vadano prese sul serio. E che con esse ci si debba rapportare. D’altronde, per un’infinità di evidenti ragioni - economiche, sociali, demografiche, ambientali, geopolitiche - la sinistra o sarà europea, o non sarà. Non solo retoricamente, ma organizzativamente. Con un grado di integrazione politica necessariamente superiore a quello istituzionale, che deve a sua volta compiere un salto di qualità determinante. E, come fu del resto agli esordi del movimento operaio, questa sinistra sarà - se sarà - sempre meno divisa in due. Sempre meno funzionalmente separata, se non contrapposta: sinistra sociale e sinistra politica. Così io credo. E spero. 19 ottobre 2015 |
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Che Trentin tenesse dei diari era cosa nota. Nel 2008, l’anno successivo alla sua morte, l’editore Donzelli pubblicò un sorprendente Diario di guerra, steso fra il 22 settembre e il 15 novembre 1943 da un Trentin allora appena sedicenne. Ebbene, in una pagina introduttiva a questo piccolo ma imperdibile volume, la moglie, Marcelle Padovani, dice: “Sapevo che Bruno scriveva da molti anni (…) un suo diario intimo. Sapevo che ci annotava le sue letture, i suoi viaggi, le sue riflessioni sulla politica, le vicissitudini, anche private, della sua vita. Sapevo, anche perché ogni tanto me ne leggeva un brano, che si trattava di un documento pubblico- privato, di grande sincerità e trasparenza, un’analisi non diplomatica dei momenti cruciali della sua vita, e delle persone con le quali si incontrava o scontrava”. Nella stessa pagina, Marcelle, che Trentin chiamava Marie, aggiungeva di aver però totalmente ignorato “l’esistenza di un piccolo quaderno nero risalente al 1943, dal titolo combattivo (Journal de guerre), scritto in francese quando Bruno ancora non aveva 17 anni” e spiegava che le era sembrato assurdo che il pubblico non venisse a conoscenza di quelle pagine appassionate. Più difficile, certamente, la decisione di pubblicare almeno una parte dei diari stesi da Trentin nella sua vita adulta di dirigente sindacale di primo e primissimo piano. “Non sappiamo - scrive adesso Marcelle Padovani a premessa del volume che è stato oggi presentato in una sala della Camera dei Deputati con la partecipazione, fra gli altri, di Laura Boldrini e di Romano Prodi - quale sarebbe oggi il desiderio di Bruno Trentin: pubblicare o meno i suoi Diari, che vanno dal 1977 al 2006, e coprono venti quaderni diligentemente scritti a mano con una grafia molto leggibile”. E infatti, ammette Padovani, “non è stata una decisione facile” quella di pubblicare questa parte dei diari perché essa è relativa a quelli che “sono sicuramente gli anni più difficili della sua vita, i più tesi e i più aspri”. Anni in cui il sindacato “veniva messo alla prova” sul tema del suo “senso dell’interesse generale” e del suo “rifiuto del corporativismo”. Ovvero sui punti essenziali dell’impegno sindacale di Trentin. Come ha ricordato oggi Fulvio Fammoni, presidente della Fondazione “Di Vittorio”, gli anni che vanno dal 1988 al 1994 sono infatti anni densi di eventi forieri di grandi cambiamenti. Sul piano internazionale, si va dal massacro di piazza Tien An Men, a Pechino, al crollo del Muro di Berlino, dalla fine dell’Unione Sovietica alla stipula del trattato di Maastricht. Sul piano socio-economico, si va dall’avvio della fine del fordismo ai primi segnali dell’avvento della rivoluzione digitale. Sul piano politico, si va dalla trasformazione del PCI in Pds alla prima affermazione elettorale di Silvio Berlusconi: insomma, alla fine della cosiddetta Prima repubblica. Infine, sul piano sindacale si va dall’accordo del 30 luglio 1992, che portò al definitivo superamento della scala mobile e a un provvisorio blocco della contrattazione aziendale, all’accordo “riparatorio” del 23 luglio 1993, che vide l’affermazione della concertazione quale modalità applicativa della politica dei redditi. Ce n’era, insomma, da mettere quanto meno in difficoltà anche il più resistente dei gruppi dirigenti. A vederlo da fuori, Bruno Trentin era l’immagine stessa della forza, della sicurezza, dell’ironia, del self control. A leggere le pagine di questi Diari, si rimane invece sconcertati nel trovarsi di fronte a un uomo che mostra insospettabili fragilità, e anche momenti di vera e propria depressione. E che elargisce giudizi anche molto aspri su compagni di lotta e avversari. Perché, dunque, la pubblicazione di questi Diari? Perché, ha risposto fra gli altri Susanna Camusso, nell’intervento conclusivo della mattinata, dalla lettura dei Diari si colgono gli incontri, le letture, le riflessioni che stanno alla base della formazione dei ragionamenti strategici che Trentin riverserà poi nelle relazioni ai Direttivi e ai Congressi della CGIL, nonché, in senso più ampio, nella sua azione di segretario generale della Confederazione. Nei Diari non c’è quindi solo un punto di vista privilegiato di un protagonista, utile allo storico per ricostruire la cronaca sindacale e politica del nostro paese nel suo farsi attorno a tappe e snodi decisivi, ma anche, appunto, il formarsi di un pensiero consapevole della crisi che attanaglia, insieme, il sindacalismo confederale e la sinistra politica, ed è teso alla ricerca costante di nuovi approdi. Trentin si iscrisse al PCI nel 1950, quando aveva 23 anni. Ma a quell’età pur giovanissima, Trentin aveva già acquisito una solida formazione politica non comunista. Formazione su cui fu decisivo, come ha ricordato oggi lo storico Aldo Agosti, l’influsso del padre, Silvio Trentin, che era stato un dirigente del Partito d’Azione. E non per caso, quindi, la sua guerra partigiana Trentin l’aveva fatta, prima in Veneto e poi a Milano (nome di battaglia: Leone) nelle file delle formazioni di Giustizia e Libertà. Ecco, appunto, giustizia e libertà: questa è la coppia concettuale che, dopo l’esperienza della Resistenza vissuta fra i 17 e i 18 anni, rimarrà alla base della riflessione teorica di Trentin per tutta una vita. A tale proposito, Fammoni ha ricordato oggi una illuminante frase di Trentin: “Nel binomio libertà-uguaglianza, da giovane davo più valore all’uguaglianza. Ma oggi penso che, senza libertà, non è possibile nessuna lotta per l’uguaglianza”. Di fronte alle crisi cui sopra abbiamo accennato, come del resto in fasi precedenti della sua attività di dirigente sindacale, per Trentin è sempre stata importantissima la parola “ricerca”. Perché, secondo il suo modo di pensare, non c’erano verità predeterminate, soluzioni sicure, formule sempre valide. Bisognava, invece, studiare, pensare, cercare, capire. E, da questo punto di vista, nei Diari si trova conferma della sua quasi smodata attività di lettore, che non trascura la letteratura ma predilige la saggistica. Da segretario generale, Trentin propone alla CGIL uno schema nuovo. I partiti tradizionali del movimento operaio sono entrati in crisi? Bene, riprendendo, sviluppando e attualizzando l’idea, cara a Di Vittorio, dell’autonomia sindacale, Trentin propone un sindacato di programma, ovvero un sindacato che possa e debba emanciparsi definitivamente dalle correnti a base partitica e fondare le sue nuove articolazioni a partire, appunto, da un dibattito programmatico. Un dibattito che consentirà, allo stesso Trentin, di formulare l’ipotesi di un “sindacato dei diritti”, ovvero di un sindacato che, in primo luogo, veda nel lavoro, e non nel reddito, un vero e proprio diritto di cittadinanza. Ma sappia anche guardare ai diritti dell’essere umano oltre il lavoro. Ma torniamo adesso al primo diario, quello del 1943. Pare che Trentin si vantasse, se così si può dire, di aver trascorso in carcere due successivi compleanni. Quello dei 16 anni in Francia, dove la polizia di Pétain lo aveva arrestato perché vedeva in lui un giovane anarchico. E pare anche che, quando fu scarcerato, la madre gli diede una bella ripassata, per fargli capire che con la sua imprudenza poteva mettere a repentaglio la sicurezza del padre, importante dirigente antifascista nell’esilio francese. E poi quello dei 17 anni a Treviso. Qui infatti il giovanissimo Bruno fu arrestato dalla polizia repubblichina, insieme al padre, il 19 novembre 1943. Entrambi furono poi rilasciati in dicembre, ma il padre, gravemente malato di cuore, morì poco dopo, nel marzo del 1944. E fu a questo punto che, appena diciassettenne, Bruno si diede alla macchia aderendo alla guerra partigiana. Esperienze terribili che, per chi come me lo ha conosciuto forse superficialmente, parevano non aver minimamente scalfito la forza dell’uomo, e che, invece, avevano forse lasciato tracce di dolore e di paura in un animo ferito. Aprendo questo ampio volume ci si imbatte dunque in un uomo diverso da quello che appariva. E questo ce lo rende ancora più vicino. grazie a: https://www.ildiariodellavoro.it/
La meritocrazia come criterio di selezione degli individui al lavoro ritorna alla moda nel linguaggio della sinistra e del centrosinistra, dopo il 1989; ma prima ancora con la scoperta fatta da Claudio Martelli a un Congresso del PSI sulla validità di una società «dei meriti e dei bisogni». In realtà, sin dall’illuminismo, la meritocrazia che presupponeva la legittimazione della decisione discrezionale di un «governante», sia esso un caporeparto, un capo ufficio, un barone universitario o, naturalmente un politico inserito nella macchina di governo, era stata respinta. Era stata respinta come una sostituzione della formazione e dell’educazione, che solo possono essere assunte come criterio di riconoscimento dell’attitudine di qualsiasi lavoratore di svolgere la funzione alla quale era candidato. Già Rousseau e, con lui, Condorcet respingevano con rigore qualsiasi criterio, diverso dalla conoscenza e dalla qualificazione specializzata, di valutazione del «valore» della persona e lo riconoscevano come una mera espressione di un potere autoritario e discriminatorio. Ma da allora, con il sopravvento nel mondo delle imprese di una cultura del potere e dell’autorità il ricorso al «merito» (e non solo e non tanto alla qualificazione e alla competenza accertata) ha sempre avuto il ruolo di sancire, dalla prima rivoluzione industriale al fordismo, il potere indivisibile del padrone o del governante; e il significato di ridimensionare ogni valutazione fondata sulla conoscenza e il «sapere fare», valorizzando invece, come fattori determinanti, criteri come quelli della fedeltà, della lealtà nei confronti del superiore, di obbedienza e, in quel contesto, negli anni del fordismo, dell’anzianità aziendale. Nella mia storia di sindacalista ho dovuto fare ogni giorno i conti la meritocrazia, e cioè con il ricorso al concetto di «merito», utilizzato (anche in termini salariali) come correttivo di riconoscimento della qualificazione e della competenza dei lavoratori. E, soprattutto negli anni '60 del secolo passato, quando mi sono confrontato con la struttura della retribuzione, alla Fiat e in altre grandi fabbriche e ho scoperto la funzione antisindacale degli «assegni» o «premi» di merito; quando questi, oltre a dividere i lavoratori della stessa qualifica o della stessa mansione, finirono per rappresentare un modo diverso di inquadramento, di promozione e di comando della persona, sanzionato, per gli impiegati, da una divisione normativa, che nulla aveva a che fare con l’efficienza e la funzionalità, ma che sancivano fino agli anni 70 la garanzia del posto di lavoro e quindi la fedeltà all’impresa. Un sistema di inquadramento e di organizzazione del lavoro apertamente alternativo alla qualifica definita dalla contrattazione nazionale e aziendale. Ma molto presto questa utilizzazione dei premi di merito o dei premi tout court giunse alla penalizzazione degli scioperi e delle assenze individuali (anche per malattia), quando di fronte a poche ore di sciopero o alla conseguenza di un infortunio sul lavoro (mi ricordo bene una vertenza all’Italcementi a questo proposito), le imprese sopprimevano anche 6 mesi di premio. È questa concezione del merito, della meritocrazia, della promozione sulla base di una decisione inappellabile di un’autorità «superiore» che è stato cancellato con la lotta dei metalmeccanici nel ‘69 e con lo Statuto dei diritti del lavoro che nel 1970 dava corpo alla grande idea di Di Vittorio di dieci anni prima. Purtroppo una parte della sinistra, i parlamentari del PCI, si astennero al momento della sua approvazione, solo perché esclusa dalla partecipazione al Governo. Ma quello che è più interessante osservare è come, alla crisi successiva del Fordismo e alla trasformazione della filosofia dell’impresa, con la flessibilità ma anche con la responsabilità che incombe sul lavoratore sui risultati quantitativi e qualitativi delle sue opere, si sia accompagnato in Italia a una risorgenza delle forme più autoritarie del Taylorismo, particolarmente nei servizi, santificata non solo dal mito del manager che si fa strada con le gomitate e le stock options, ma dalla ideologia del liberismo autoritario. Con gli «yuppies» che privilegiano l’investimento finanziario a breve termine, ritorna così per gli strati più fragili (in termini di conoscenza) l’impero della meritocrazia. A questa nuova trasformazione (e qualche volta degrado) del sistema industriale italiano ha però contribuito, bisogna riconoscerlo, l’egualitarismo salariale di una parte del movimento sindacale, a partire dall’accordo sul punto unico di scala mobile, che ha offerto, in un mercato del lavoro in cui prevale la diversità (anche di conoscenze) e nel quale diventa necessario ricostruire una solidarietà fra persone e fra diversi, una sostanziale legittimazione alle imprese che hanno saputo ricostruire un rapporto diverso (autoritario ma compassionevole) con la persona sulla base di una incomprensibile meritocrazia. Non è casuale, del resto, che, di questi tempi, il concetto di merito, sinonimo di obbedienza e di dovere, abbia ritrovato un punto di riferimento nel sistema di promozione e di riconoscimento delle organizzazioni militari nel confronto del comportamento dei loro sottoposti. Le stesse osservazioni si possono fare per i «bisogni», contrapposti negli anni 60 del secolo scorso, alle domande che prevalgono nel vissuto dei cittadini nella società dei consumi. Era questa anche la convinzione di un grande studioso marxista come Paul Sweezy. Sweezy opponeva i «needs» (i bisogni reali, le necessità) ai «wants» (le domande, i desideri), attribuendo implicitamente ad uno stato illuminato e autoritario la selezione, «nell’interesse dei cittadini» fra gli uni e gli altri. Come se non fossero giunti i tempi in cui le domande e i desideri, pur influenzati dalla pubblicità, di fronte alle dure scelte e alle priorità imposte dalla condizione del lavoro e dalle lotte dei lavoratori si trasformano gradualmente in diritti universali, attraverso i quali, i cittadini, i lavoratori (non un padrone o uno stato illuminato), con il conflitto sociale, riuscirono a far progredire la stessa nazione di democrazia. Meriti e bisogni o capacità e diritti? Può sembrare una questione di vocabolario ma in realtà la meritocrazia nasconde il grande problema dell’affermazione dei diritti individuali di una società moderna. E quello che sorprende è che la cultura della meritocrazia (magari come antidoto alla burocrazia, quando la meritocrazia è il pilastro della burocrazia) sia riapparsa nel linguaggio corrente del centrosinistra e della stessa sinistra, e con il predominio culturale del liberismo neoconservatore e autoritario, come un valore da riscoprire. Mentre in Europa e nel mondo oltre che nel nostro paese, i più noti giuristi, i più noti studiosi di economia e di sociologia, da Bertrand Swartz a Amartya Sen, a Alain Supiot si sono affannati ad individuare e a riscoprire dei criteri di selezione e di opportunità del lavoro qualificato, capaci di riconciliare - non per pochi ma per tutti - libertà e conoscenza; di immaginare una crescita dei saperi come un fattore essenziale, da incoraggiare e da prescrivere, introducendo così un elemento dinamico nella stessa crescita culturale della società contemporanea. La «capability» di Amartya Sen non comporta soltanto la garanzia di una incessante mobilità professionale e sociale che deve ispirare un governo della flessibilità che non si traduca in precarietà e regressione. Ma essa rappresenta anche l’unica opportunità (solo questo, ma non è poco) di ricostruire sempre nella persona le condizioni di realizzare se stessa, «governando» il proprio lavoro. Perché questa sordità? Forse perché con una scelta acritica per la «modernizzazione», ci pieghiamo alla riesumazione - in piena rivoluzione della tecnologia e dei saperi - dei più vecchi dettami di una ideologia autoritaria. Forse qui si trova la spiegazione (ma mi auguro di sbagliare) della ragione per cui malgrado importanti scelte programmatiche del centrosinistra in Italia, per affermare una società della conoscenza come condizione non solo di «dare occupazione» ma anche per affermare nuovi spazi di libertà alle giovani generazioni, la classe dirigente, anche di sinistra, finisce per fermarsi, in definitiva, di fronte alla scelta, certo molto costosa, di praticare nella scuola e nell’Università ma anche nelle imprese e nei territori, un sistema di formazione lungo tutto l’arco della vita, aperto, per tutta la durata della vita lavorativa, come sosteneva il patto di Lisbona, a tutti i cittadini di ogni sesso di ogni età e di ogni origine etnica (e non solo per una ristretta élite di tecnici o di ricercatori, dalla quale è pur giusto partire). Speriamo che Romano Prodi che così bene ha iniziato questo mandato, sia capace di superare questa confusione di linguaggi, e di rompere questo handicap della cultura meritocratica del centro sinistra. Anche un auspicabile convegno sui valori, le scelte di civiltà di un nuovo partito aperto alle varie identità e alla storia dei partiti come della società civile, dovrebbe, a mio parere, assumere il governo e la socializzazione della conoscenza come insostituibile fattore di inclusione sociale. grazie a: l'Unità, 2006
Dopo la sua morte Trentin ha ricevuto elogi da parte di tutto il mondo politico e sindacale: tutti gli hanno riconosciuto intelligenza, coraggio, onestà intellettuale, ecc..
«Avverto un’immensa fatica fisica e intellettuale, affettiva, tanto che mi pare a momenti di dovermi gettare ai margini di un sentiero e di morire, così, per esaurimento, per incapacità di esprimermi, per disamore per la vita e la lotta, e semplicemente perché non ho più voglia di battermi e di farmi capire», Metà agosto del 1992, quindici giorni dopo quel venerdì 31 luglio che ha segnato il momento più difficile della sua vita da sindacalista: la firma di un’intesa nella quale non credeva, spinto dal timore che il fallimento della trattativa con il governo avrebbe avuto «effetti incalcolabili sulla situazione finanziaria del Paese». Aveva firmato, per «salvare la CGIL», e si era dimesso. Che cosa sarebbe successo rifiutando l’accordo, con tutte le sue nefandezze? Nel mezzo di una catastrofe finanziaria, a chi sarebbe stata attribuita la svalutazione della lira?», annota. «Un inferno dentro di me», e intorno «tanti opportunismi». «Miseria di Amato», «miseria di Del Turco», «miseria degli altri sindacati», «miseria delle reazioni elettoralistiche di gran parte del Pds». Senso di solitudine, incomprensione, sofferta alterità ma anche gioia di vivere, voglia di scrivere, di leggere, di andare in montagna: questi sentimenti permeano le cinquecento pagine dei diari, dal 1988 al 1994. Iginio Ariemma, che da tempo svolge un intenso lavoro di scoperta e divulgazione di testi che riguardano l’ex segretario della Cgil, ha curato questa sorprendente pubblicazione. Sette anni che sconvolsero l’Italia e il mondo (la caduta del muro di Berlino, il disfacimento dei regimi comunisti, il cambio di nome del Pci, Tangentopoli, i bagliori di guerra in Kuwait e Iraq, la caduta di Craxi, l’ascesa di Berlusconi) visti con occhi attenti, impietosi e anche profetici. Nato in Francia nel 1926, figlio di Silvio, professore universitario che aveva scelto di andare in esilio per non sottostare al fascismo, uno dei fondatori di Giustizia e Libertà, Bruno fu subito ribelle. Il padre organizzava la resistenza ma avrebbe voluto che il figlio continuasse gli studi. Lui s’incise sulla coscia destra una croce di Lorena come omaggio al generale De Gaulle e a France Libre, formò una piccola banda e fu arrestato dalla polizia francese passando in guardina il sedicesimo compleanno così come il diciassettesimo lo trascorse in una cella italiana, dopo il ritorno in Patria con la famiglia nel ’43. La guerra partigiana, il Partito d’Azione, la laurea, l’ufficio studi della Cgil chiamato da Vittorio Foa, nel ’50 l’iscrizione al Pci, i metalmeccanici, l’autunno caldo, i vertici della confederazione. E poi segretario generale, dall’88 al ’94, appunto. Eccolo Bruno Trentin, crogiuolo d’idee, di rigore, di sensibilità e di esperienze, un eretico della sinistra, un libertario in mezzo a una folla di «ometti». È indicativa una frase su Robespierre: «Lo sento lontano culturalmente e anche psicologicamente e nello stesso tempo vicino umanamente quando lo riscopro così solo, così tormentato, così coerente (e incerto) nella sua ansia di vivere in accordo con la sua morale e le sue speranze». E Trentin, con una ghigliottina etica, politica e umana taglia tante teste. Giudizi sprezzanti, definizioni impietose, conclamata estraneità. Un elenco che farà sobbalzare. Guido Carli, Ciriaco De Mita, Bettino Craxi, Giuliano Amato, Paolo Cirino Pomicino, Napoleone Colajanni, Gianni De Michelis, Lucio Colletti, i dirigenti della Confindustria, Pierre Carniti, Franco Marini, Sergio D’Antoni, Giuliano Cazzola. Disprezzo per gli «intellettuali a pagamento» e «i vecchi saccenti senza vergogna e senza il minimo residuo di morale politica ed intellettuale». A proposito della Cgil: «Guerra per bande», «basse manovre di Lama e compagni prima dell’ultimo congresso», «tragico tramonto», «metastasi inestricabile», «miserabile scenario». Quando nell’88 parte la contestazione ad Antonio Pizzinato, evidenzia «un attacco torbido e cinico» ma rimarca «una reazione debole, patetica e astiosa» da parte dell’allora segretario. La voglia di fuga: «Ho maturato la mia intenzione di lasciare, non posso assistere a questo scempio e continuare a fare il mediatore e l’anima bella». Ma poi è lui a essere designato e «comincia la nuova storia della mia piccola vita». Si sente circondato: «tristi figuri», «satrapi», «ceto burocratico di intermediazione», «avventurieri da strapazzo». Riaffiora, carsica, «la voglia tremenda di mollare tutto» e il desiderio di gridare: «Non sono uno di questi». Nel partito vede «anime morte che si incrociano senza comunicare». La decisione annunciata da Occhetto di cambiare il nome del Pci è ammantata di «improvvisazione e povertà culturale». Alle critiche, «il segretario reagisce con la ciclotimia di sempre alternando depressione e psicosi del tradimento con minacce e tentativi di prepotenza». Più avanti gli attribuirà «un affanno camaleontico». D’Alema «appare più lucido ed equilibrato di altri» ma «i progetti non lo interessano se non sono la giustificazione di un agire politico», «ricorda in caricatura il personaggio di Elikon nel Caligola di Camus». Nel ’94, senza accennare al duello tra lo stesso D’Alema e Walter Veltroni, guarda con tormentato distacco «alla penosa vicenda e al modo isterico, personalistico e selvaggio con il quale si è svolto il ricambio nella segreteria, con il patetico ma irresponsabile comportamento di Occhetto». E l’altra sinistra? «Un’armata Brancaleone piena di cinismo e di vittimismo». A Bertinotti affibbia prima «un movimentismo senza obiettivi, disperatamente parolaio», poi «una meschina ambizione di protagonismo a qualsiasi costo», disceso nel «suo personale inferno di degradazione morale», «triste guitto», «ospite giulivo del Maurizio Costanzo show». A proposito di Rossana Rossanda annota «una risposta delirante e ignorante» e «penosi balbettii indignati». Parole di fuoco contro «i giovani rottami» del manifesto, «estremisti estetizzanti». A tutto questo variegato mondo «tra delirio estremista, gioco mondano e la lirica dannunziana» muove l’accusa di «disonestà intellettuale» e di «narcisismo laido e egocentrismo scatenato». Doloroso il rapporto con Pietro Ingrao, con «la retorica della pace e del catastrofismo cosmico», con «il suo rifugio in una sorta di profetismo didascalico che lo porta a rimuovere ogni vero confronto con il presente». Un’incomprensione che lo farà piangere. Nausea e disperazione. E nel tormento dell’incomunicabilità e della diversità, a prevalere è il desiderio di elaborare un progetto, di indicare una via d’uscita. Superare il determinismo marxista e ripartire dalla rivoluzione francese «che non è ancora conclusa», dalla battaglia per i diritti, dalla società civile, da forme di autogoverno, dalla dignità e creatività del lavoro. Rifiuto di ogni statolatria e di soluzioni calate dall’alto, comprese tutte le strategie redistributive della sinistra che non vanno al nocciolo del problema e diventano l’alibi per governare. Contro la civiltà manageriale bisogna battersi per la socializzazione dei saperi e dei poteri. «Trasformare, qui ed ora, questo mondo nel quale viviamo e combattiamo». L’utopia del quotidiano, la chiama. La matrice è quella azionista ma la dicotomia tra giustizia e libertà, l’ircocervo di Benedetto Croce, Trentin la scioglie senza esitazione: la libertà viene prima.
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