Le commemorazioni di Alessandro Natta (1918-2001) pubblicate sulla stampa italiana subito dopo la sua scomparsa si sono soffermate, fondamentalmente, sulle doti della sua personalità umana e politica. Pressoché da tutti è stato sottolineato – a ragione – che egli fu, in modo quasi emblematico, un rappresentante delle caratteristiche migliori della nuova classe dirigente comunista che si formò, dopo la Liberazione, alla scuola di Palmiro Togliatti. Sono stati inoltre ricordati il suo impegno di intellettuale, il suo ruolo determinante nel recupero e nella valorizzazione dell'opera di Gramsci, il suo interesse per la letteratura e più in generale per la cultura umanistica. Giustamente è stato posto l'accento, infine, sulla dirittura umana e civile che sempre caratterizzò il suo agire. Solo pochi accenni, invece, sono stati dedicati in queste commemorazioni ai gravosi problemi che Natta si trovò di fronte quando – in modo repentino e in un momento in cui si era ormai avviato a un progressivo ritiro dalla primissima linea dell'impegno pubblico – fu chiamato a raccogliere la difficile e impegnativa eredità di Enrico Berlinguer. Personalmente non credo – e mi pare opportuno sottolinearlo subito – che la sostanziale rinuncia a un bilancio più propriamente politico dell'azione di Natta, in particolare negli anni della sua segreteria, sia dovuto soltanto al fatto che una rievocazione post mortem non è la sede più adeguata per valutazioni di questi tipo. Ciò, in parte, è certamente vero. Ma nella genericità dei riferimenti all'opera di Natta come segretario si manifesta anche – a me sembra – qualcosa di più profondo: ossia il riflesso della tendenza a non fare seriamente i conti con il passato – anzi a rimuovere i problemi piuttosto che ad affrontarli in tutta la loro complessità – che è largamente prevalsa nelle forze nate dalla diaspora del PCI, e più in generale nella sinistra italiana, dopo la drammatica crisi degli inizi degli anni novanta. Una rimozione della quale, ancor oggi, si paga amaramente il prezzo. Penso perciò che un ricordo di Alessandro Natta che sia all'altezza dell'impegnativa e controversa esperienza della sua segreteria può proprio essere l'occasione per riproporre e sollecitare quella ricerca e quel confronto critico sugli anni ottanta che finora sono rimasti troppo in superficie e che sono invece indispensabili anche per meglio comprendere i problemi che si pongono oggi, per una forza di sinistra, nella società e nella politica italiana. Sono in molti a ritenere che al momento della morte di Enrico Berlinguer – avvenuta drammaticamente nel giugno del 1984, quasi al termine della campagna per le elezioni europee – la sorte del Partito comunista italiano fosse praticamente già segnata: già segnata nella direzione di un'inarrestabile decadenza, nonostante l'imponente successo ottenuto in quelle elezioni, nelle quali il PCI si affermò ( e non solo per l'ondata emotiva suscitata dalla morte di un leader di tanto prestigio) come primo partito italiano, superando la soglia del 33% dei voti e sorpassando sia pure d'un soffio, per la prima volta, la Democrazia cristiana. Alla base di quest'opinione c'è un giudizio negativo circa la capacità e la possibilità – per il PCI così come storicamente si era venuto configurando – di dare una risposta vincente ai pesanti fattori di crisi che erano emersi sempre più nettamente già a partire dal decennio precedente: sul piano interno il profondo travaglio della società e della politica italiana, che Berlinguer aveva invano cercato di fronteggiare dapprima con la strategia del compromesso storico e dei governi di solidarietà nazionale, poi con la proposta di un'alternativa democratica all'alleanza di potere tra Dc e PSI gestita da Craxi, Andreotti, Forlani (il famoso CAF); sul piano internazionale la tenaglia rappresentata da un lato dalla paralisi e dalla tendenziale disgregazione del sistema del cosidetto `socialismo reale', dall'altro dall'avvio di una nuova fase dello sviluppo capitalistico caratterizzata dalla rivoluzione informatica e dai processi di globalizzazione della produzione, del consumo, degli stessi modelli di vita. I problemi e gli interrogativi che questa realtà in radicale trasformazione poneva alla politica e – ancor prima – alla cultura del Partito comunista italiano si affacciarono immediatamente all'indomani della morte di Enrico Berlinguer. Sulle sue scelte degli ultimi anni non erano mancate, nel gruppo dirigente del partito, le riserve e le divergenze: in particolare da parte della corrente riformista (o `migliorista'). Essa, infatti, mentre aveva avuto un ruolo determinante nel caratterizzare in senso moderato l'esperienza della `solidarietà nazionale', invece non condivideva la politica di `alternativa democratica', giudicando eccessiva la polemica anticraxiana, dissentendo dall'asprezza della denuncia sulla `questione morale', diffidando dell'apertura verso i `nuovi movimenti' e in generale del rischio di velleitarismo insito nel tema del `rinnovamento della politica' su cui tanto insisteva il segretario del partito. Una scelta si proponeva, perciò, ai successori di Berlinguer: o sviluppare in modo più conseguente una linea di rinnovamento culturale e politico, portando alle logiche conseguenze il distacco dall'Urss e, al tempo stesso, adeguando la critica della società alle nuove contraddizioni prodotte dalla modernizzazione capitalistica; oppure `rientrare nei ranghi', abbandonando l'apparente astrattezza della linea dell'`alternativa' e accettando come inevitabile un riformismo di basso profilo e di carattere sempre più subalterno. È difficile dire, certamente, se – qualora fosse prevalsa nettamente la prima delle due linee indicate – potessero ancora esserci, per il PCI, le condizioni per sottrarsi alle tendenze dissolutrici ormai in moto per ragioni interne e internazionali; e quindi per dar vita a una forza di sinistra che fosse compiutamente libera dai condizionamenti dell'esperienza sovietica ma al tempo stesso capace di sviluppare un ruolo non subordinato all'ideologia e alla pratica della nuova fase dello sviluppo capitalistico. Probabilmente mancava il tempo, e mancavano soprattutto le energie culturali e politiche, per realizzare un rinnovamento di tanta portata. Ma se si tiene conto dell'ampiezza e della solidità del consenso di cui ancora disponeva il PCI nel 1984 (oltre il 33% dei voti, cioè il doppio dei Democratici di sinistra oggi), dell'appassionata adesione di massa alla battaglia condotta da Berlinguer contro il craxismo e le sue degenerazioni, della solidità del radicamento ideale e culturale oltre che politico su cui poteva contare il partito, non sembra azzardato ritenere che sussistevano le condizioni per una diversa presenza della sinistra italiana – come effettiva protagonista e non come forza subalterna – nella crisi del tradizionale sistema politico che si sarebbe aperta agli inizi degli anni novanta. Ed oggi, probabilmente, non ci troveremmo, in Italia, con una sinistra più debole che in tutti gli altri principali paesi europei. Lo sforzo di Alessandro Natta (designato come candidato alla segreteria sulla base di consultazioni `riservate' in cui fu interpellato ciascuno dei membri del Comitato Centrale: in quelle consultazioni il suo nome prevalse a larga maggioranza, mentre la minoranza indicò Luciano Lama e, in un numero ancora minore, Giorgio Na no) fu di proseguire sulla linea di rinnovamento avviata da Enrico Berlinguer: sia sul piano internazionale, rendendo più netta la differenziazione dal comunismo di impronta sovietica anche attraverso l'affermazione – al Congresso di Firenze del 1986 – della collocazione del PCI nella sinistra europea; sia sul piano delle vicende italiane, cercando un rinnovato contatto con le forze avanzate del mondo cattolico o di derivazione socialista (alle quali fu dato ampio riconoscimento nelle elezioni politiche del 1987) e impegnandosi non soltanto sul piano politico ma anche sul piano culturale per valorizzare le nuove tematiche proposte dai movimenti femministi e ambientalisti. Sarebbe tuttavia opportuna una discussione (è un'osservazione che l'autore di questa nota formula anche in senso autocritico, essendo stato fra i più diretti collaboratori di Natta quale membro della segreteria eletta dopo il Congresso di Firenze del 1986) su quanto pesarono, nel limitare quell'impegno di rinnovamento, così le resistenze che emersero nel partito e più in generale nella società italiana come le insufficienze soggettive del nuovo gruppo dirigente. Sono molti i punti sui quali sarebbe utile indagare. Mi limito qui a ricordarne due. Il primo è che proprio mentre era più che mai necessario affrettare i tempi di una separazione dal comunismo sovietico, operando in anticipo rispetto al crollo che già era prevedibile e che avvenne nell'89-'92, l'avvento al potere di Gorbaciov ebbe un effetto di rallentamento di ogni possibile iniziativa; non solo perché riaccese la discussione sulla riformabilità della società sovietica (che invece da molti decenni era ormai irriformabile, e proprio il fallimento della `perestroika' l'avrebbe rapidamente dimostrato), ma perché sembrò ingeneroso negare al nuovo leader di Mosca una pausa di fiducia proprio mentre poneva in discussione gli errori del passato. Andò così perduta l'occasione per mettere in evidenza che il PCI aveva avviato ormai da decenni una sua elaborazione culturale e politica autonoma nella quale era deciso a procedere con decisione; e non era perciò in alcun modo coinvolto nel processo degenerativo e dissolutivo che si veniva evidenziando in Urss e nei paesi satelliti. Il secondo punto è che la più che comprensibile preoccupazione di Natta di garantire come condizione prioritaria l'unità del partito si trasformò, presto, in un limite per la possibilità di sviluppare in modo più approfondito un'azione di radicale rinnovamento culturale e politico. Infatti non solo la corrente `migliorista', ma molti quadri centrali e periferici che aspiravano a farsi avanti, mostrarono presto di non essere disposti ad accettare – da un segretario che non aveva l'autorevolezza e il carisma di Enrico Berlinguer – la prosecuzione di quella politica di `alternativa democratica' che, a loro avviso, non aveva sbocchi politici ravvicinati per quel che riguardava la possibilità di una partecipazione al potere. L'occasione per manifestare questo dissenso fu data dai risultati delle elezioni regionali e amministrative del 1985, che si svolsero il 15 maggio. In realtà l'arretramento dei voti comunisti in quelle elezioni fu piuttosto limitato rispetto alle precedenti votazioni della stessa natura che si erano svolte nel 1980. Infatti nelle regionali il PCI scese dal 31,3 al 30,2 per cento, nelle provinciali dal 31,8 al 29,9; solo nelle comunali la flessione fu più marcata, dal 30,7 al 27,6. Nonostante ciò l'attacco alla linea del segretario fu condotto con insolita durezza, sia nel dibattito che si aprì sull'«Unità» e su altri giornali, sia nelle riunioni degli organi regionali e provinciali. In particolare fu rimproverato a Natta e alla sua segreteria l'eccessivo irrigidimento sulle posizioni di Berlinguer in materia economico-sindacale; fu criticata la mancata ricerca, nell'area della maggioranza governativa, di `interlocutori politici' per la costruzione di un'alternativa; fu soprattutto attaccato il presunto carattere `moralistico' dell'insistenza `sulla denuncia della corruzione e del malgoverno'. Ciò che in sostanza da più parti si chiedeva era non solo una maggiore `flessibilità' verso il PSI di Craxi; ma, soprattutto un'apertura ai temi, ormai di moda, della `modernità' e dell'`innovazione'. La conseguenza immediata di questa aspra campagna di critiche fu di annullare quasi del tutto l'impegno del partito in vista del referendum abrogativo del decreto che tagliava la scala mobile – richiesto proprio dai comunisti – che si sarebbe celebrato poche settimane più tardi. Il paradosso fu che, nonostante quel disimpegno (e nonostante la smobilitazione sostanziale anche della CGIL), i sì a favore dell'abolizione del decreto giunsero egualmente al 46 per cento. Quella sconfitta, proprio per il suo carattere risicato, dimostrò che le divisioni interne paralizzavano l'iniziativa del partito e giocavano come acceleratore del declino del PCI: che infatti divenne più evidente con le elezioni politiche della primavera del 1987, quando il PCI discese al 28,3 per cento al Senato e al 26,6 per cento alla Camera, tornando al livello di 20 anni prima. L'arretramento elettorale, assieme alle cattive condizioni di salute di Natta, ebbe come conseguenza di affrettare il ricambio generazionale nella direzione del partito: un ricambio che, del resto, lo stesso Natta aveva preparato, favorendo l'ascesa di quadri di una generazione più giovane, a partire da Occhetto, D'Alema, Livia Turco, chiamati nella segreteria costituita dopo il Congresso di Firenze. Già nell'estate del 1988 Achille Occhetto fu eletto vicesegretario, con una sostanziale designazione alla segreteria. Ma proprio le posizioni che prevalsero attraverso questo ricambio generazionale misero in evidenza il vero vuoto che si era aperto nel PCI nel corso degli anni ottanta. Era un vuoto di cultura e di progetto politico, che apriva la strada a una crescente penetrazione di quella che era ormai l'ideologia prevalente: ossia l'ideologia di una `modernità' e di un'`innovazione' intese come valore in sé, destinate perciò ad essere qualificate essenzialmente in funzione del dinamismo della nuova fase dello sviluppo capitalistico. Naturalmente quel vuoto non era casuale: era il frutto del logoramento di una cultura e di una pratica politica, che avevano caratterizzato con una loro specificità il comunismo italiano, ma che subivano ora il contraccolpo da un lato della disgregazione del sistema del socialismo reale, dall'altro dell'esaurimento delle più avanzate esperienze socialdemocratiche di Welfare. Sarebbe stata necessaria, per reggere in queste condizioni all'offensiva conservatrice, una capacità rinnovata di critica della società e di iniziativa politica, in pratica un coraggioso ripensamento – di fronte ai nuovi problemi – delle idee di fondo della sinistra del Novecento: che invece mancò. E questa mancanza fu la breccia attraverso la quale passò, sempre più largamente, la tendenza a una crescente omologazione ai comportamenti politici e agli orientamenti culturali e ideali che più facilmente raccoglievano consenso. È così che ancor prima della svolta della Bolognina, nel nuovo gruppo dirigente comunista che si venne formando attorno alla segreteria di Occhetto la critica della degenerazione del sistema dei partiti con cui Enrico Berlinguer aveva aperto il decennio, lanciando la parola d'ordine dell'alternativa democratica e del `rinnovamento della politica', si venne progressivamente riducendo alla proposta di un mutamento del `sistema politico' in senso stretto: un mutamento da attuare attraverso il cambiamento delle regole istituzionali o elettorali. Veniva in tal modo spalancata la strada alla deriva decisionista: in particolare all'idea che bastasse `sbloccare' il sistema politico per realizzare l'alternanza e modernizzare il paese. E per sbloccare il sistema politico chi doveva fare il primo passo era il PCI, mettendo in discussione se stesso, ponendo fine al `partito diverso', omogenizzandosi agli altri partiti. Erano così mature le condizioni perché, prendendo lo spunto dalla caduta del muro di Berlino, si ponesse in liquidazione il PCI e si desse vita, coi congressi di Bologna e di Rimini, a quel partito senza volto che, adottando via via i nomi di Pds e Ds, non è mai giunto ad assumere una vera identità e una più solida consistenza politica. Un partito che per questo era destinato a svolgere, negli anni novanta, il ruolo che, nelle fasi di `rivoluzione passiva', è sempre affidato a una sinistra che giunga al governo accettando una posizione di subalternità ideale e politica: ossia il ruolo di `modernizzare' il paese, di risanare le contraddizioni più aspre, ma senza incidere in profondità sui rapporti sociali e politici, sui modelli di comportamento, sulle condizioni su cui si fonda l'egemonia delle classi dirigenti. Oggi questa transizione si è conclusa, il processo ha purtroppo avuto il suo compimento con la netta vittoria della destra di Berlusconi e con la riduzione della sinistra al minimo storico: in una condizione di crisi in cui non mancano i pericoli di una vera e propria dissoluzione. Ma per chiarire questo processo, per capire la genesi, per fronteggiare i pericoli incombenti, non basta – come anche di recente lo stesso Natta ha ricordato – fermarsi alle vicende tattiche degli ultimi anni; è essenziale tornare agli anni ottanta, ai problemi che la conclusione di quel decennio lasciò insoluti. Di qui il valore di una riflessione sugli anni della segreteria Natta: perché già allora emersero i nuovi problemi che oggi dominano l'orizzonte e cominciò ad affacciarsi l'esigenza – ora più attuale che mai – di lavorare per dare alla sinistra un fondamento ideale e politico oltre i confini dell'esperienza del `900, così da porla in grado di riaprire il confronto per l'egemonia. la Rivista del Manifesto, luglio-agosto 2001 |