Mario Tronti

Il sarto di Ulm

Ci troviamo di fronte a un libro che esplora, e che narra, la storia del PCI a tutto campo, o in campo aperto. Condizioni nazionali, condizioni internazionali, contesto esterno, vita interna, linea politica, forme di organizzazione.
Viene avanti, il racconto, come una macchina escavatrice, che smuove la materia prima e fa venire alla luce reperti archeologici, alcuni dimenticati, altri rimossi, altri ancora stravolti dalle letture correnti. Teniamo presente che l’approccio non è quello di uno storico, ma quello di un politico. Non un’autobiografia, piuttosto la biografia di un soggetto collettivo, condotta però, per rubare un pensiero femminista, a partire da sé, dalla propria esperienza diretta, da una vicenda vissuta, tra lunga appartenenza e breve separazione. La misura era difficile da trovare e possiamo dire che è stata trovata. Non ripercorrerò passo per passo tutto il percorso, non tornerò a soffermarmi sulle date, classiche, simboliche, che lo hanno definito e caratterizzato. Soprattutto, salterò un punto che nel libro è presente e determinante, il contesto internazionale, con al centro il rapporto con l’esperienza sovietica e il tentativo di costruzione del socialismo. Da solo, questo è un tema che prenderebbe l’intero spazio del discorso. E noto, e registro, soltanto che, in generale, c’è su questo punto un impressionante vuoto di pensiero.
Quei settant’anni sono stati archiviati, considerati dal buon senso intellettuale comune, insignificanti per una ricostruzione, indegni di una riflessione. È caduta su di essi una sbrigativa condanna etica e sappiamo che quando c’è sbrigativa condanna etica non c’è seria comprensione storica. Direi che per capire il movimento comunista del Novecento, il mysterium iniquitatis non va cercato nel PCI ma nel PCUS.
Il libro di Magri, già nell’Introduzione, avanza alcune osservazioni suggestive. L’intento, esplicito, è quello di riaprire una riflessione sulla “questione comunista”. La sua postazione è un po’ da “terza via” della ricerca. Né abiura né rimozione, che risultano i due atteggiamenti dominanti. Il lavoro di ricostruzione e di indagine deve invece prendere le distanze dalle due letture canoniche del PCI: la vera socialdemocrazia italiana oppure un’articolazione della politica sovietica.
Essenziale viene dichiarata la mediazione della memoria: a condizione che venga avanti come memoria disciplinata, documentata. La parola viene data continuamente e testardamente ai fatti, alle vicende così come si sono svolte. Prima dell’interpretazione, correttamente, viene la lettura della storia.
In questo bilancio, critico ma partecipato, del comunismo del Novecento, devo dire che ho apprezzato il richiamo ad Augusto Del Noce, un’acuta intelligenza reazionaria, che ha riflettuto sul “suicidio della rivoluzione”, là dove Del Noce ha detto che i comunisti hanno perduto e vinto: "hanno perduto rovinosamente nella loro prometeica ambizione di rovesciare il corso della storia, di promettere agli uomini libertà e fratellanza, anche senza Dio e riconoscendosi mortali. Ma hanno vinto come potente e necessario fattore di accelerazione della globalizzazione della modernità capitalistica e dei suoi valori: il materialismo, l’edonismo, l’individualismo, il relativismo etico" (p. 15). Io lo direi in un’altra forma: i comunisti non hanno solo tentato “l’assalto al cielo”, come i comunardi di Marx, ma, per la prima volta e per un attimo storico, l’hanno fatto intravedere come possibile, l’hanno fatto toccare come realizzabile, nell’azione e nella coscienza di milioni di esseri umani. La sconfitta di questo eroico tentativo di realizzazione ha paradossalmente prodotto il trionfo, che sembra definitivo, del capitalismo-mondo.
La globalizzazione economica, implicita nella natura storica del capitale, è diventata un inarrestabile fatto politico, supportato da una potente armatura ideologica, l’ideologia della fine delle narrazioni ideologiche. La forma borghese-capitalistica della società umana ha rotto gli argini, ha dilagato oltre tutti i muri, come forma unica della modernità, inizio e cosa ultima del Moderno. Il comunismo, non quello generico, quello degli orizzonti, ma quello storicamente determinato, il comunismo del movimento operaio è, esso, un grande tema di filosofia della storia. Ci vorrebbe, come minimo, un Hegel, per pensarlo.
Poi c’è l’altra dimensione. È contenuta e definita in quella espressione icastica: corruptio optimi massima. Viene attribuita a Gregorio Magno. Ma c’era già in Aristotele, ci sarà in Tommaso d’Aquino. La ritroviamo in Shakespeare, nel sonetto XCIV: “i gigli putrefatti puzzano più delle erbacce”. Quanto c’è di più alto, di sommo, è esposto a rovinare giù nell’inferno. Quanto c’è di più dolce, per dirla con il poeta, è destinato a divenire negli atti (by their deeds) più agro. Ivan Illich, che ha ripreso quella espressione, l’ha applicata al cristianesimo, parlando di “pervertimento” (corruption) del cristianesimo, ma sarebbe meglio dire della cristianità.
Allo stesso titolo si potrebbe applicare a quel comunismo, ma sarebbe meglio dire movimento comunista. Lucio Magri ha voluto mettere tra gli antefatti due espressioni efficaci. Una è il “fardello comunista”: il passaggio da socialisti a comunisti, con cui ha inizio il Novecento, dentro l’aprirsi e lo svolgersi dell’età delle guerre-mondo, carica sulle spalle di questi neorivoluzionari un peso storico, l’Ottobre e la costruzione del socialismo, che non tutti e non sempre saranno in grado di portare. I comunisti italiani, nello specifico della loro storia, saranno in un certo senso favoriti - è la seconda efficace espressione - dal patrimonio del “genoma Gramsci”.
Ecco, qui c’è il primo dei due punti che vorrei limitarmi a trattare, tralasciandone molti altri che pure sarebbero altrettanto interessanti. La “fortuna” di Gramsci - la straordinaria sua persona e soprattutto la sua opera - è vero che sono stati la fortuna del PCI. L’operazione di Togliatti sulla figura e sul lascito intellettuale di Gramsci è stata accusata di rozza strumentalità pratica. Non è vero. Quella di Togliatti è stata una magistrale iniziativa, che gramscianamente spostava anche sul terreno dell’egemonia culturale la lotta politica: rimanendo fedele all’ispirazione del maestro dei comunisti italiani e ottenendo dei risultati eccezionali sul piano del radicamento del partito nel tessuto nazionale. Ma voglio fare una sorta di dichiarazione, che sembra non pertinente al tema, e che invece nasce proprio in risposta e reazione al clima di conformismo culturale che caratterizza il discorso sul problema che trattiamo. Il politico Togliatti è stato per me un punto fondante di formazione intellettuale. Leggevo i suoi scritti e i suoi discorsi e quando, alcuni anni dopo, mi sono trovato a fare i conti con i classici del pensiero politico moderno, ho trovato straordinari punti di affinità e di convergenza.
Se la politica è pensiero/azione, allora come il pensatore serve ad orientare la pratica, così l’uomo politico, da un certo livello in su, serve ad orientare il pensiero. Togliatti, o Lenin, hanno il loro posto anche nella storia delle dottrine politiche. Alle giovani generazioni, oggi un po’ distratte su questo terreno e forse, dati gli esempi in vita, con una certa ragione, occorre ravvivare la memoria degli esempi che contano. Secondo me, il PCI è Togliatti. Il partito comunista italiano nasce non nel ’21 a Livorno, ma nel ’44 a Salerno. C’era il PCd’I, estinto un anno prima. Un punto alto, un’idea di quelle che veramente cambiano orizzonte: sezione italiana dell’Internazionale. Direttamente, simbolicamente, in controtendenza rispetto alla storia delle forme capitalistiche, incardinate nell’idea di nazione, e nella pratica dello Stato-nazione. L’internazionalismo operaio - i proletari non hanno Patria! - è stata una classica utopia concreta, il sogno di una cosa, un balzo di tigre nel futuro, un fine e mezzi troppo alti per poter essere in qualche modo raggiunti. E infatti Togliatti, come Lenin, si faranno carico del rapporto tra contingenza e storia, dell’agire strategico dentro il momento specifico.
La storia è una catena di congiunture, tutte da possedere, una ad una, spesso in modo diverso, lungo un processo di tempo appreso col pensiero. Il possesso della congiuntura storica: è questa la politica. Togliatti totus politicus e quindi grande politico. Perché non c’è grande politico che non sia totus politicus. La doppiezza è una grande categoria della politica. La “dissimulazione onesta” non l’ha inventata il movimento comunista. È iscritta nella pratica della modernità, sta nella struttura dominante del potere e nelle leggi di produzione della ricchezza. Non assumerla - con misura! - porta a rompere con la realtà. E la realtà con cui si rompe, non si trasforma. La mascheratura ideologica del rapporto di classe è la materia con cui ha quotidianamente a che fare la forma della politica. Non è questo che ha provocato sconfitte. Al contrario. Le poche vittorie sono tutte il risultato di una manovra delle categorie della politica moderna migliore, più efficace, più consapevole, rispetto a chi le aveva inventate.
È stato detto che il capolavoro politico di Togliatti è stata in fondo l’uscire vivo dall’universo concentrazionario staliniano. Gramsci non ne sarebbe uscito vivo. Anche questa è grande politica. Solo la grande politica ti preserva, ti salva, ti lascia uscire libero, dal contatto ravvicinato con il lato oscuro del potere. E il lato oscuro del potere c’è sempre, anche qui in modi diversi, nei sistemi autoritari come in quelli democratici. Chi non l’ha capito fa danno a se stesso e a tutti. L’altro dei due punti che voglio trattare: gli anni Sessanta. La lettura degli avvenimenti, il giudizio sulle interpretazioni, i conti con i protagonisti, sono al centro del libro di Magri, il nodo intorno a cui si lega forse il senso della narrazione.
Gli anni Sessanta, non il Sessantotto: il lungo decennio, dice Lucio. È l’anomalia positiva del caso italiano: quel circolo virtuoso di lotte, politica, economia, società, coscienza civile, dentro il decollo di un capitalismo avanzato e di una modernizzazione rampante. Dall’insorgenza neo-antifascista del luglio ‘60 alle lotte contrattuali del ’62, con gli operai Fiat di nuovo in campo aperto, all’iniziativa governativa di centro-sinistra, alla rivolta studentesca, all’irruzione femminista, fino all’esplosione dell’autunno caldo del ’69: succede di tutto in Italia e succede di tutto anche nel PCI. L’immediato dopo Togliatti è un terremoto ondulatorio dentro il palazzo delle Botteghe oscure. Bisogna dire che il gruppo dirigente di formazione togliattiana è stato un ceto politico di grande spessore. Ancora oggi i pochi vecchi rimasti sembrano quelli più in grado di capire e di pensare, nella generale devastazione che ci circonda. Perché lì c’era un modo nobile di praticare il primato della politica: il leader, che non ha bisogno di proporsi di formare i successori, ma per il fatto stesso che esista e operi, per questo solo fatto, educa e forma e depone un lascito negli uomini e nelle donne che sono intorno. Il leader non insegna, fa scuola, esistendo.
La tesi forte di Magri è questa: il PCI non ha dato risposte adeguate alle domande di quella grande trasformazione. Il partito, lasciato da Togliatti ancora in forza e in salute, poteva cambiare con i tempi che cambiavano e non cambiò. E tuttavia tutti gli anni Settante vedono un soggetto politico di tutto rispetto ancora in campo, anzi in crescita di consenso e di influenza. La seconda svolta di Salerno, quella berlingueriana dell’alternativa, doveva avvenire dieci anni prima, non alla fine ma agli inizi dei Settanta. Tesi discutibile e che fa discutere. In mezzo c’è la controversa e ancora ingiudicata, seria e ambigua, esperienza del compromesso storico. È dal suo superamento che Magri vede però l’occasione, non giocata e quindi mancata, di una possibile sopravvivenza del PCI. La sua tesi è riassunta in un passo centrale del libro, a pagina 366. Riportiamola con le sue parole:

"La svolta tentata da Berlinguer era esplicitamente mossa da un ambizioso obiettivo di medio periodo: contribuire a un effettivo passo in avanti sulla via democratica al socialismo in Italia e in Europa. Una tale ambizione, per ragioni oggettive e immaturità soggettive, al vaglio dei fatti non reggeva, l’obiettivo era fuori portata, tuttavia la forza che era riuscito a conservare, le nuove scelte e le nuove idee che vi erano penetrate permettevano al PCI di non essere travolto dalla crisi dell’Unione Sovietica, di evitare la dissoluzione e l’abiura, dunque di tenere in piedi e rifondare in Italia una sinistra di ispirazione comunista rilevante e vitale. Anche tale obiettivo era difficile, ma non impossibile. Se una tale sinistra fosse stata ancora in piedi nel momento del disfacimento della Prima repubblica, lo svolgimento non solo della storia del PCI, ma anche quello della democrazia italiana avrebbe assunto caratteri diversi da quelli che oggi costatiamo."
Prima, nell’immediato dopo Togliatti, c’era stato lo scontro tra le due anime del PCI, personificate nelle figure in diverso modo carismatiche di Amendola e di Ingrao. Fu giusto non scegliere tra i due. Il passaggio di testimone da Longo a Berlinguer sarà nello spirito della forma togliattiana, centrista fra le ali, che il partito aveva e conservava. Come definire quelle due anime? Oggi possiamo vedere con più chiarezza. L’originalità del comunismo italiano è che quelle che saranno le due sinistre stavano dentro il PCI. Dietro cera anche una storia lunga. In fondo il PCI aveva ereditato e rideclinato al suo interno sia il riformismo che il massimalismo della tradizione socialista, italiana e non solo italiana. Questo sarà la sua grande forza e questo il vero motivo per cui la tradizione socialista vivrà in maggioranza nel partito comunista. Delle due anime, nel PCI si faceva sintesi. Il “partito di lotta e di governo” era questo. Oggi ci si ride su, ma quella che si diceva allora, ed era allora, una “forza politica”, era nient’altro che questa cosa qui. La sintesi riguardava poi anche qualcosa di più.
È difficile far capire a chi ormai parla con il vocabolario dei giornali d’opinione che la formula maledetta del “centralismo democratico”, nei suoi due termini apparentemente contraddittori, teneva in sé due categorie classiche della politica moderna, rappresentanza e decisione, che se non stanno insieme in una qualsiasi forma di organizzazione, semplicemente non c’è politica, non c’è pratica realizzatrice di un bel nulla. La fine del PCI separa le due sinistre. E che cosa vediamo, che cosa abbiamo visto? Che, separate, magari esistono, ma non contano, non incidono, non si radicano, non producono forza. Perché, separate, non riescono ad aderire a tutte le pieghe della società. Ognuna, per suo conto ne tiene alcune e ne lascia fuori altre. Ma la società italiana, e direi una società capitalistica, vecchia e nuova, antica o postmoderna che sia, è sempre fatta di tante pieghe, di tanti risvolti, è composizione di contraddizioni che, o le possiedi tutte insieme o le perdi, una ad una, tutte. Che cos’è che fa sintesi? Certo, la linea politica. Si diceva: via italiana, ma al socialismo. Il percorso e l’obiettivo, la strada e la mèta. Si diceva politica delle alleanze, ma intorno alla classe operaia. Un campo e un centro.
Il PCI, ancora fino a Berlinguer, si autodefiniva partito della classe operaia, mostrando un’identità riconoscibile ad occhio nudo. Non lo era di fatto, ma spendeva questa risorsa simbolica sul mercato politico e con questo mobilitava militanza e raccoglieva consenso.
La linea quindi faceva sintesi. Ma ancora di più, se possibile, faceva sintesi la forma-partito. Altra espressione sottoposta a insulse dannazioni. Eppure, per almeno quattro decenni aveva funzionato come forma che dava, sì, senso a una storia. Primato dell’organizzazione come modo di espressione del primato della politica; partito di quadri e partito di popolo, partito di élite e partito di massa; élite politico-intellettuale diffusa nel territorio e masse concentrate, unificate, dirette; militanti e dirigenti in reciproca fiducia e, quando necessario, in divergente accordo. Quando, questo contenuto di politica e questa forma di organizzazione cominciano a perdere colpi, a logorarsi, a non corrispondere più alle condizioni reali, ai bisogni concreti, alle contraddizioni nuove.
Qui il dibattito è aperto. Magri, abbiamo visto, sembra anticipare tutto al tornante degli anni Sessanta. Posso sbagliare, ma a me pare di scorgere l’inizio della fine dentro gli anni Ottanta. Sono tutti gli anni Ottanta che portano, quasi inevitabilmente all’Ottantanove. I funerali di Berlinguer danno ancora un’immagine di potenza popolare, stretta intorno al PCI. Alle elezioni europee questo è per la prima volta il primo partito. Scrive in modo eloquente Lucio: "da quanto più in alto ( e più inconsapevolmente ) si cade, tanto più ci si fa male" (p. 402). La caduta avviene in un pugno d’anni.
Devastante è il dopo Berlinguer. Non è riuscita dopo Berlinguer l’operazione riuscita dopo Togliatti. Il ceto politico togliattiano, rimasto, commette l’errore di non gestire direttamente, magari con un compromesso interno, la transizione. Natta aveva bisogno di una direzione collegiale, con il compito di traghettare, essa, il PCI al dopo. Ci si apre invece, inaugurando una moda di cui scontiamo ancora gli esiti letali, a un cattivo rinnovamento, come passaggio di generazione.
Per una grande forza politica, il rinnovamento o è nella continuità o non è un rinnovamento, è piuttosto una mutazione. La mutazione, nei dirigenti, non ancora nei militanti, era già avvenuta prima della Bolognina: ed era avvenuta nella nuova generazione, berlingueriana, ma soprattutto post-togliattiana. Su queste fragili frontiere irrompe poi il tornante pesante degli anni Ottanta: una congiuntura non compresa, non contrastata, acquisita, subìta. Un cambio di egemonia culturale accompagnava un inedito, fascinoso, rampante, ciclo capitalistico. Era quello il nuovo che avanzava. Si erano chiusi i “trenta gloriosi” del vecchio movimento operaio. Si aprivano i trenta gloriosi del nuovo capitalismo. Lo stesso socialismo si avviava a inciampare in questo imprevisto scenario. Oggi, alla fine di quel ciclo, fine che come da manuale si esprime attraverso crisi, possiamo vedere le trasformazioni, quelle reali e quelle virtuali, di capitale e di lavoro. Ma non per sole trasformazioni strutturali il capitalismo ha vinto. Ha vinto perché ha saputo costruirvi sopra un apparato ideologico, impressionante per volume di fuoco e per movimenti di eserciti mediatici.
È l’ideologia della fine delle narrazioni ideologiche che ha imposto un modo generalizzato, più che di pensare, di sentire, un senso comune intellettuale di massa, che non è stato affatto sbagliato individuare come pensiero unico. Una delle più decisive sconfitte il postcomunismo l’ha realizzata sul piano culturale. Per il comunismo italiano questo è stato veramente un paradosso e lo ha scontato esso più di altri. Una forza che scompare lascia un vuoto. L’avvento contemporaneo di due immani processi, ascesa/trionfo del capitalismo-mondo da una parte e crisi/crollo del socialismo in paesi soli dall’altra, ha sfondato le linee e sbaragliato il campo.
Oggettivamente - va detto - era difficile, se non impossibile, il contrasto. Non ci volevano nani sulle spalle di giganti. Ci volevano proprio giganti. Non ci sono stati. Non lo siamo stati. A questo punto, le responsabilità personali impallidiscono. Ed emerge una responsabilità collettiva, di cui dobbiamo tutti farci carico.
Ma io voglio dire questo, nel modo più chiaro possibile: i comunisti sono stati gli unici che hanno messo veramente paura ai capitalisti. Non sono stati i socialisti umanitari, gli anarco-sindacalisti, la socialdemocrazia classica, le socialdemocrazie del nord; non sono stati i sessantottini, gli operaisti, gli autonomi, i movimenti no-global. Quando il marxiano spettro del comunismo si è realizzato nel movimento comunista internazionale, ha preso il potere in uno spazio di mondo, lo ha vittoriosamente difeso contro invasioni barbariche, lo ha esteso ad altri spazi di mondo, ha portato l’alternativa di sistema dentro i paesi dell’Europa occidentale, lì è emersa, giustamente minacciosa, la “grande paura” novecentesca. Il contenimento, il trattenimento, il kathecon stava dalla parte dei capitalisti, l’eschaton era comunista, il sol dell’avvenire brillava e scaldava solo da questa parte. Nessuno dice che ben prima della costruzione dei muri erano scese in mezzo all’Europa le cortine di ferro. Nessuno ricorda che mentre si chiudeva la guerra calda antinazista, si apriva la guerra fredda anticomunista.
Perché è così vivo e vegeto l’anticomunismo dopo la morte certificata del comunismo?
Ci sarà una ragione. Lo spettro è il mondo di ieri. La memoria, sacrosanta, degli orrori è purtroppo servita e serve per liquidare, azzerare, demonizzare un intero mondo di valori. Non essere stati capaci di distinzione, l’essersi accodati passivamente a un ordine del discorso totalizzante, aver rinunciato alla necessaria critica della propria storia in favore di un pentimento a buon mercato su tutta la propria posizione politica, questo ha aperto quell’età della subalternità, della non-differenza, e quindi della irriconoscibilità, che tuttora pesa, e non sappiamo fino a quando, sull’idea, sull’immagine, sull’offerta simbolica, di una possibile nuova sinistra. Non è mia quel “motto di spirito”, che ho visto ha suscitato molto autoironico consenso, in quanto mette a fuoco la condizione vera dell’attuale rapporto tra le parti. È venuta fuori in un ragionare con alcuni giovani ricercatori impegnati, quando una di loro, particolarmente brillante, ha fatto la domanda: ma perché i nostri avversari, si definiscono sempre con il prefisso “neo” e noi ci definiamo sempre con il prefisso “post”? Classica domanda che è già una risposta. Negli anni Sessanta si disse neocapitalismo, negli anni Ottanta neoliberismo. A noi è rimasto di essere postcomunisti, postideologici, e in nessun dove come dalle nostre parti si usa civettare con il postmoderno. Io ho capito, per lunga esperienza di osservatore politico, che quando si perde di forza, l’unica risorsa è giocare di abilità.
Forse si poteva cambiare la forma mantenendo la sostanza. Non bisognava svendere, bisognava reinvestire. Non chiudere bottega, ma mettere tutto, proprio tutto, il patrimonio rimasto nella nuova impresa. Non si apre un altro fronte senza buttarci dentro l’intero esercito. L’esperienza comunista del movimento operaio meritava qualcosa di più dell’alternativa che poi si è data, o una cancellazione o una rifondazione. Erano sbagliate tutte e due le soluzioni, il nuovo inizio e la vecchia identità. Una nuova altrettanto grande forza della sinistra, moderna, critica, del lavoro, differente di uomini e di donne, italiano-europea, o nasceva lì, nel frangente drammatico, come eredità, non come seppellimento, del PCI, oppure assai difficilmente avrebbe potuta essere recuperata in seguito. L’infinita, insulsa, transizione del dopo, questo ci ha detto. Lucio Magri ripubblica, in appendice, un suo testo del 1987, analitico e programmatico. Qualcuno gli aveva consigliato di ripubblicare invece la sua relazione del 1989 ad Arco di Trento. Ha fatto bene a tener fermo su quel testo. Un conto è dire quelle cose due anni prima dell’89, un conto è dirle dentro l’89. Alcuni passaggi sono profetici: non tanto nella lettura economica e sociologica, quanto nella descrizione politica.
Prendo solo due punti. Uno è quello della democrazia. " La democrazia non vive senza un sovrano collettivo, e questo sovrano collettivo non può esistere nella forma di una moltitudine atomizzata, di una somma confusa di spinte e di culture eterogenee: la frammentazione non è pluralismo, è uniformità mascherata ". E, dopo aver raccomandato uno sviluppo della democrazia come riappropriazione quotidiana e articolata delle varie funzioni di governo, come socializzazione del potere, come graduale deperimento della separatezza dello Stato, lancia un affondo, allora ancora attuale, oggi ormai confinato nell’isola di Utopia: "… per riassumere un po’ rozzamente: riconoscere la democrazia come valore universale non implica affatto ritenere superata la vecchia affermazione leninista e poi soprattutto togliattiana, di un nesso tra democrazia e socialismo" (pp. 436-43).
L’altro punto: la forma-partito. La sua tendenziale “innovazione” si presenta, nelle democrazie occidentali, come “vacua e apparente”. "Un “partito leggero” che sopperisce alla fragilità dei suoi legami di massa e alla precarietà del suo tessuto culturale con una forte accentuazione del ruolo personale del “leader” ", che è gestito da apparati di potere non meno stabili e separati di quelli antichi, e in più e in peggio da pezzi dell’establishment, che deve costruire il consenso prevalentemente con l’uso dei media e mediando corporazioni varie. Conseguenza diretta: la passivizzazione delle classi subalterne, attraverso l’assenteismo dal voto e l’impossibilità di contare. Conseguenza indiretta: " un tipo di consenso elettorale che non regge e non può reggere a prove di governo aspre, dunque una necessaria autoriduzione dei programmi, un “ascolto della società” che seleziona e rispetta i fondamentali rapporti di forza esistenti". A quel punto, " il “riformismo di basso profilo” diventa non una scelta, ma una necessità…" (p.442). Facile dire: de te fabula narratur.
L’appendice completa il quadro, conferma il percorso. Il libro porta il sottotitolo, editoriale: una possibile storia del PCI. Lucio sottolinea piuttosto - come abbiamo sottolineato subito all’inizio - il dato di aver voluto scrivere una storia “reale” del PCI. Quell’aver messo avanti prima di tutto i fatti prima di qualsiasi interpretazione, a fine lettura, possiamo considerarla un’operazione riuscita. Gliene diamo atto e merito. Ma su quei fatti, sulla nostra storia, non allentiamo l’artiglio della riflessione.

 

25 febbraio 2010, da: http://www.centroriformastato.org/

[Il sarto di Ulm è una poesia di B. Brecht:

    "Vescovo, so volare",
    Il sarto disse al vescovo.
    "Guarda come si fa!"
    E salì con due arnesi
    Che parevano ali
    Sull'alto campanile.
    Fece spallucce il vescovo.
    "Non sono che menzogne,
    Mica è un uccello, l'uomo,
    Mai l'uomo volerà",
    Disse del sarto il vescovo.

    "Il sarto è deceduto",
    Disse la gente al vescovo.
    "È stata una follia.
    Le ali sono in pezzi,
    E lui s'è sfracellato
    Sui sassi del sagrato".
    "Sciogliete le campane,
    Non eran che menzogne,
    Mica è un uccello, l'uomo,
    Mai l'uomo volerà",
    Disse alla gente il vescovo.]

 

Rossana Rossanda

Appuntamenti mancati

La parabola della sinistra dallo scontro nell'XI congresso al Sessantotto, al compromesso storico di Enrico Berlinguer, quando il maggior partito della classe operaia chiude gli occhi sulla società italiana, aprendo così la strada al suo scioglimento.

Il sarto di Ulm di Lucio Magri (Saggiatore, pp. 442, euro 18) è una riflessione seria e serrata, forse la prima, sulle scelte che hanno guidato il PCI dalla seconda guerra mondiale sino alla fine. Volontaria. Altro sarebbe stato imporsi nell'89 una riflessione di fondo su di sé, altro dichiarare la liquidazione. Magri ne cerca le cause nella problematica che si apriva negli anni Sessanta e nelle divisioni del gruppo dirigente davanti ad essa. Questa è la tesi de Il sarto di Ulm.

Lucio Magri è una figura singolare. Era entrato nel PCI negli anni Cinquanta, poco più che ventenne, alle spalle l'esperienza della gioventù democristiana a Bergamo, assieme a Chiarante, nella temperie dei Dossetti e soprattutto di Franco Rodano, figura atipica di cattolico acuto e fuori dei ranghi. Viene accolto nella segretaria di Bergamo e poi nel regionale lombardo, e di là scenderà a Botteghe Oscure. Quando entra nel PCI molto è avvenuto dal 1945. L'Italia ha avuto una grande resistenza, nessun tribunale alleato ha processato i suoi crimini di guerra, il PCI ha partecipato da una posizione forte alla Costituente, il più della ricostruzione è stato fatto, e anche del partito. Era ancora sotto botta per il 18 aprile, quando un folle attenta alla vita di Togliatti. Attentato che suona, e non era, comandato dal governo, gli operai occupano le fabbriche in uno sciopero generale illimitato. Togliatti e Longo ordinano il ritorno al lavoro. Il furore di quella massa di operai è qualcosa che chi l'ha vissuta non scorderà: non era la conclusione di una protesta ma la dura introiezione d'un limite che non si sarebbe potuto superare. Togliatti lo subiva o ne profittò? I fatti militano per la seconda ipotesi. Perché su di esso - obbligato dai rapporti di forza mondiali, e confermato dall'infelice guerriglia greca - fondava la scelta del partito nuovo e lo innestava del «genoma gramsciano».

È il tema della prima parte del volume; l'analisi di Magri è persuasiva. Anche se si può discutere su Gramsci, e non per le speculazioni sulla prima edizione delle opere che - Magri ha ragione - rese accessibili i «Quaderni», ma per la curvatura del gramscismo assunta dal partito, la lunga sottovalutazione della «sovrastruttura» avendo indotto all'offuscamento della «struttura», sbrigativamente definita «economicismo». E si potrebbe discutere sul governo interrotto nel 1947, che Magri non conobbe se non per quanto si rifletteva nella Democrazia cristiana, alla quale oggi l'Istituto Gramsci preferirebbe che il PCI si fosse alleato da subito - ipotesi fantasiosa. E sulla Costituente, nella quale le scelte comuniste sull'art.7 fecero chiasso, mentre sulla pochezza delle proposte sul terreno economico non si sollevò sopracciglio alcuno.

L'interpretazione che Magri ne dà nel 2009 è, grosso modo, quella che il Partito dette di sé con alcune sfumature critiche. Ne esce rafforzata, rispetto al giudizio che formulammo negli anni '70, la figura di Togliatti nella costruzione di un partito diverso da quello leninista, mirato a un rivoluzionamento dei rapporti sociali e «utilmente costretto» alla legalità. Non è un paradosso. Soltanto un punto non mi persuade: Magri considera obbligata e positiva l'adesione incondizionata all'Unione Sovietica, questione che, a distanza e visto l'esito, andrebbe discussa più che egli non faccia, salvo la nota (che è anche la più seria di François Furet): il leninismo non ha «lasciato eredità».

Su quel legame ci sarebbe molto da chiedersi. Non se schierarsi dall'altra parte o restare neutrali nella guerra fredda; lo spazio di Tito in Italia non c'era. Ma si poteva mantenere - almeno dopo la svolta all'est del '48 - uno sguardo critico che, riannodando con gli anni Venti e con il pensiero di Lenin sullo stato, tenesse aperta una problematica che già presentava i suoi conti. Peggio di come è andata non poteva andare; Togliatti era un uomo accorto, non era scomunicabile, il suo partito era il più forte d'occidente e aveva frontiere strategiche. È che sperava ancora nell'URSS, come Isaac Deutscher, ma sbagliava, come Deutscher. Il 1956, conseguenza del '48-'49, segnava una spaccatura irrimediabile, non solo nell'estate polacca e nell'insurrezione ungherese (forse meno diverse di quanto Magri ritenga) ma nell'impossibilità di Gomulka o Kadar di riannodare un qualsiasi filo con le loro società.

È vero che una critica al modello dell'est traspariva attraverso Gramsci, ma anche a Gramsci dovettero sfuggire le dimensioni del disastro fino al '34, quando Piero Sraffa poté parlargliene senza testimoni. Di quel che si dissero non sappiamo nulla. E non appare gran che, a distanza, la famosa intervista di Togliatti su Nuovi Argomenti e tragico il suo «non sapevamo, non potevamo sapere». Avrebbe aperto il discorso soltanto nel 1964, andando più a fondo di Berlinguer nel 1981, nel memoriale che voleva discutere con Krusciov. Ma in quegli stessi giorni morì. Il solo che ebbe il coraggio di pubblicare il memoriale fu Longo. Poi tutto si richiuse. E a Longo fu spesso informalmente vicino Magri negli anni seguenti - quando la sua testimonianza diventa diretta e, per così dire, interna corporis.

Al centro stanno gli anni Sessanta. È allora che si decide la successione a Togliatti, e soprattutto che cosa deve essere il PCI quando il dopoguerra è finito, Kennedy sembra allentare la guerra fredda, la Chiesa si spalanca al Vaticano II, l'avanzata del PCI nel 1963 fa piangere Moro, la crescita è trainata dall'edilizia, le automobili e gli elettrodomestici, il paese ha cambiato composizione sociale con le grandi migrazioni e l'entrata delle donne nell'industria, mentre radio e tv sono ancora più mezzo di comunicazione che di spappolamento. E tutto questo in un crescere di popolo convinto di avere dei diritti e deciso a conquistarli con le sue braccia, il suo sindacato e il suo partito. Di questa, che è la vera egemonia dei comunisti, è prova la proletarizzazione dei contadini che vanno al nord. Sono loro a formare l'«operaio massa», sul quale disquisiremo assieme ai francesi André Gorz e Serge Mallet, la Cfdt più che la Cgt, agli inizi del decennio.

Nel 1962, al Convegno sul capitalismo italiano del Gramsci si evidenziano due ottiche, quella di Amendola e quella di Trentin e Magri, appoggiata da Longo. Oggi Magri sottolinea i limiti delle posizioni difese anche da lui, ma è un fatto che per la prima volta viene contestata la tesi amendoliana di un capitalismo italiano torpido e tendenzialmente fascista. Così mentre la DC capisce la dimensione del cambiamento, si apre al Partito socialista, e si affiderà d'ora in poi più a La Malfa che alla Coldiretti, il vertice del PCI si limita a constatare «bene, ora passano i socialisti, domani passiamo noi».

Così mi accolse Botteghe Oscure nel 1963, e mi parve un umore delirante (se formalmente contavo più di Lucio, ne sapevo di meno, salvo qualche colloquio mattutino con Togliatti, che non era uomo da dire mezza parola più che non volesse. E che mi calò un fendente quando intervenni contro Amendola su «Rinascita»). Ma, per grezze che fossero, le critiche alla linea amendoliana non cessarono più e si andarono aggregando - Magri lo descrive esattamente - in modo informale attorno a Ingrao, che è tutto fuorché un capocorrente. Ad ogni modo il PCI al centrosinistra non aderisce e non sabota. Ma Togliatti si è appena spento che Amendola propone di cancellare l'errore del congresso di Livorno e unificare PCI e PSI.

Inimmaginabile Togliatti vivente. Il Partito sobbalza, il gruppo dirigente non approva ma non attacca. Amendola non pagherà alcun prezzo. Da allora all'XI Congresso, due anni, il partito è determinato a distruggere qualsiasi alternativa al centrosinistra nel quale punta a inserirsi da una posizione forte: Ingrao, che non non è d'accordo, è il bersaglio. Al congresso Ingrao oppone all'unificazione fra PCI e PSI un coinvolgimento delle sinistre dei partiti e dei sindacati e i movimenti sociali nonché la breccia aperta, più che nella DC, fra i cattolici - solo possibile blocco storico delle «riforme» di struttura. E termina con il diritto al dissenso, accolto da un'immensa ovazione della sala e da un immenso gelo della presidenza. Seguirà un fuoco di contestazioni, il suo isolamento e la diaspora dei sospetti di ingraismo. Magri, non difeso da cariche elettive, viene scaraventato fuori.

Oggi egli considera che è stata la domanda di legittimare il dissenso a riuscire indigeribile per le Botteghe Oscure. Ne dubito, il dissenso più clamoroso era venuto da Amendola, e senza conseguenze per il reo. La resistenza più spessa, come diranno gli anni seguenti, è di linea. E comporterà il progressivo perdere di peso di Longo.

Sul quale cadono due sessantotto, quello degli studenti e quello cecoslovacco. Non è vero che il PCI abbia favorito il primo, non fosse che per la differenza radicale di cultura, ma è vero che non lo ha attaccato. Amendola e Sereni obiettano, ma le federazioni si sono aperte agli studenti e Longo li riceve. L'anno seguente, quando esplode l'«autunno caldo» in contenuti e forme del tutto fuori dalla tradizione del partito e del sindacato, il PCI è occupato nel cacciare «il manifesto», pratica che il segretario avrebbe volentieri evitato. Già l'anno prima si erano dovuti registrare molti voti contro le Tesi del XII congresso, in centro e in periferia, e il districarsi malamente dall'intervento sovietico in Cecoslovacchia. Ed è con questo pretesto che il manifesto viene fatto fuori. È di Magri l'editoriale «Praga è sola» nel settembre 1969 e saremo radiati in capo a tre comitati centrali.

Magri spende poche parole sul «manifesto», ma senza di lui non sarebbe nato, come senza Pintor non avremmo il giornale. Non credo per le divisioni e amarezze che conoscemmo nel tempo: sono passati quarant'anni da quando fummo messi fuori dal PCI e una trentina da quando alcuni di noi separarono il giornale dal Pdup. Anni che non hanno risparmiato nessuno. La verità è che gli iniziatori del «manifesto» sono stati sconfitti nell'essenziale: non ci è mai bastata la buona coscienza, volevamo cambiare il corso delle cose, e la strada più percorribile sembrava quella di costringere, da dentro o da fuori, il PCI a elaborare i fermenti del '68 e del '69; insomma indurvi un cuneo profondo. Questo avrebbe salvato il comunismo da pesanti continuità e salvato dalla fragilità e dalle derive le spinte del '68 e del '69. Magri sperò che saremmo stati per il PCI come il Vietnam per gli Stati Uniti, Pintor puntò sul quotidiano come la forma politica più capace di penetrazione, i compagni spinsero per mietere un trionfo nelle elezioni del '72. Non mietemmo trionfi, non dividemmo il PCI, non costruimmo fuori di esso una grossa alternativa. Oggi Magri riconosce le ragioni di Natoli, che si oppose a ogni accelerazione, insistendo perché lavorassimo sui tempi lunghi. Concordo. Ma avremmo dovuto essere assieme più compatti ed aperti. Magri vide via via nel manifesto delle concessioni all'estremismo che avrebbero impedito ogni ascolto nel PCI, io vedevo nel PCI un ostinato chiudersi alle forze che dovevano esserne il blocco sociale moderno. Minacce di intervento esterno erano ormai da escludere.

Sta di fatto che dagli anni Ottanta il PCI tracolla, nessuna sinistra fuori di esso riesce a durare, il manifesto scivola verso la figura attuale di libero giornale di diverse opinioni.

Poteva non andare così, sostiene Il sarto di Ulm. Anzi per quanto riguarda il PCI, forse non è andata così fino alla morte di Berlinguer. Che aveva accumulato molti errori, specie con il compromesso storico e la politica dell'unità nazionale, ma nel 1979 tentò una svolta di 180 gradi, e ne fu impedito dalla maggioranza del gruppo dirigente. Magri rifiuta la tesi che fa delle Brigate Rosse ls'artefice del suo destino: uccidendo Moro avrebbero precluso al PCI la strada al governo. Moro - egli ritiene - al governo non ve l'avrebbe portato, né andarvi gli avrebbe evitato la crisi, che veniva dal non intendere il mutare delle condizioni interne e internazionali. I fatti parlano: se la scelta del '73 a lungo covata (e Il sarto di Ulm lo documenta) era già «senza avvenire», l'astensione del 1976 al governo Andreotti è uno sbaglio rovinoso. Come la sordità ai movimenti sociali, anche più convulsi: per inaccettabili che fossero i gruppi armati, bisognava chiedersi perché si fossero formati allora. E che senso aveva gettare sul '77, che rovinoso non era, l'accusa di diciannovismo?

Più grave è nel PCI di allora la ormai insufficiente attrezzatura intellettuale e il dubbio su di sé. Se si aggiunge che le scelte diventano interamente di vertice e affidate a diplomazie segrete e snervanti, è chiaro che Berlinguer cerca di cambiar rotta fuori tempo massimo.

Volere o no una riflessione seria riporta al '64 e al '66. E il metodo seguito da Magri - l'attenzione ai mutamenti internazionali, macroscopici dal 1974 in poi, e alle condizioni interne, sociali e di governo - lo porta a prenderne atto.

L'89 segna una conclusione, non un capovolgimento. Anche se egli cerca fino all'ultimo i margini che eviterebbero la catastrofe: il documento del 1987, in appendice al volume, poco prima della caduta del Muro, è ancora una proposta. Che non trova portatori, come non li troverà la sua relazione ad Arco, sulla quale Ingrao scarta. E comincia male la vicenda di Rifondazione comunista.

La domanda che il suo lavoro induce è fino a quando c'era realmente tempo e se il materiale, di cui era fatta la proposta di cambiamento non era logorato. Lo era, risponderei oggi al compagno ed amico di tanto lavoro e tante zuffe. E a me stessa. Magri no, pensa che non tutto era giocato, anche se il suo giudizio su Berlinguer è non meno definitivo del mio. Specie sugli anni '70 e i guasti che vennero dal compromesso storico, al quale non si oppose nessuno, salvo un Longo inascoltato, e c'è chi lo difende ancora. Il gruppo dirigente che bloccò il tardivo cambio di politica del segretario nel '79 ne è un frutto. Berlinguer che va ai cancelli della Fiat, in appoggio a un movimento destinato a perdere, pare a me l'immagine di una solitudine. Sbagli, oppone Magri, era determinato; e non aveva con sé Lama ma la base popolare del partito. E la leva giovane? Gli Occhetto? Obietto. Così continua fra noi la discussione di una vita.

grazie a: il manifesto, 7.10.2009

Valentino Parlato

Continuons le combat

Lucio Magri da molto tempo ci aveva comunicato la sua decisione di togliersi la vita. Avevamo discusso e cercato di dissuaderlo perché avevamo bisogno di lui, della sua intelligenza e del suo impegno. Non ci siamo riusciti. È stata una decisione di estrema razionalità. A quasi 80 anni, la perdita della compagna Mara era stata tremenda. La vita non era più vita. Anche la situazione generale non incoraggiava. Con razionalità addirittura estremistica Lucio prese la decisione (e quando decideva non cambiava idea) e attuò quel che aveva stabilito. Il suicidio è una fondamentale libertà della persona. Chi è padrone della propria vita, come ogni umano lo è, può legittimamente e moralmente decidere di mettere la parola fine.
Lucio è stato anima e mente della nostra vita. Insieme abbiamo cominciato con la rivista e poi con il quotidiano. Ci fu una breve separazione ai tempi del Pdup, ma i legami sono rimasti forti, anche quando c'era polemica.
L'interrogativo è: che cosa ci lascia, a che cosa ci incita Lucio con il suo suicidio. Provo a rispondere. Innanzitutto a criticare e combattere la società presente. La sua cultura, la sua politica e gli scritti ci danno stimoli e conoscenza. Il sarto di Ulm, che tentò anzitempo di volare si sfracellò, ma poi gli uomini cominciarono a volare. Questo il messaggio e il suo suicidio, ancorché dovuto ai sentimenti, è un atto di rifiuto, di combattimento. Tutto il contrario della passiva rassegnazione.
Questo nostro giornale, «quotidiano comunista», è oggi nella più grave delle sue tante crisi e dal gesto e dall'opera di Lucio trae motivazioni e forza nel rifiutare lo stato presente delle cose. Le analisi di Lucio, la lettura della storia sono alimento essenziale e per questo ci impegniamo a pubblicarne gli scritti inediti, tanti e importanti. Utilizzeremo meglio che nel recente passato gli insegnamenti, per rinnovarci e combattere più efficacemente. Per affrontare l'attuale, e storica, crisi della sinistra, per ridare alle donne e agli uomini la speranza di un cambiamento, di una uscita dall'attuale stato di mortificazione degli esseri umani.
Il suicidio di Lucio non è stato un fatto personale, di chiusura in se stesso. Lucio ne aveva ripetutamente parlato con noi e anche alla fine del percorso è stato accompagnato da Rossana Rossanda.
Domani è un altro giorno e, come si diceva nel '68, continuons le combat.

grazie a: il manifesto 20.11.11

Pietro Ingrao

Quella notte insieme prima dell'XI Congresso

Scrivo sgomento, pensando al modo in cui Lucio ha voluto lasciare la vita. Penso a quella ferita così dolorosa, che anch'io ho subito otto anni fa, della perdita della propria compagna. Penso al senso tragico di sconfitta che ha dominato i suoi ultimi anni. Sono pensieri, non spiegazioni: un gesto come il suo rimarrà sempre insondabile, chiede rispetto e silenzio.
Sarebbe però profondamente ingiusto dare addio a Lucio Magri solo con il silenzio. Bisogna dire, ricordare, trasmettere il ricordo ai più giovani e continuare ad ascoltare la sua voce e i suoi pensieri, che ancora hanno tanto da dirci.
Con lui ho condiviso un percorso lungo, appassionante, intenso: non avrebbe senso, tentare di ripercorrerlo in poche righe. Mi limiterò solo a brevi immagini.
Erano gli anni '60, Lucio era stato licenziato da Botteghe Oscure, era momentaneamente senza lavoro. Veniva a pranzo a casa nostra, quasi tutti i giorni. Mia moglie si interrogava, molto prosaicamente: forse non ha i soldi per mangiare. Era solo una battuta: in quei pranzi e in quelle ore passate insieme, si consolidava fra me e Lucio una comune visione del mondo, una tensione al cambiamento che vedeva nel partito il suo soggetto centrale, ma che delle regole del partito sentiva ormai troppo rigidi i vincoli e le liturgie.
Ricordo nitidamente la nottata passata con Lucio nella mia casa di via Balzani a preparare l'intervento che avrei pronunciato all'XI Congresso del PCI, pesando con cura ogni parola: era la prima volta che nel partito veniva rivendicato il diritto al dissenso. Terminammo di lavorare alle due di notte, ed io ero convinto che all'angolo di strada di casa mia ci fosse un compagno della cosiddetta "vigilanza" del partito, a controllare chi a quell'ora veniva da me. Non era vero, naturalmente; ma a questo ci portava, sentire addosso la condanna ossessiva del cosiddetto "frazionismo", che nel PCI demonizzava ogni sodalizio, ogni condivisione di pensiero, ogni vero dibattito interno.
Fu quella condanna a portare alla drammatica espulsione dal partito di lui e degli altri compagni del Manifesto: è per me ancora una ferita, ricordare che allora non ebbi il coraggio di oppormi. Prevalse in me un'errata concezione dell'unità del partito. Un errore che ancora mi brucia dentro, anche se poi, nei lunghi anni seguiti a quella rottura, fra me e Lucio, e con tutti i compagni del Manifesto si ricostruì nuovamente uno scambio intenso e fattivo, che prese ancora più slancio dopo la svolta dell'89 e la fine del PCI.
Oggi Lucio ci ha lasciati, in giorni bui dominati da gelide dispute sulla Borsa e i bilanci. Un altro ricordo: era il maggio del 1962, in un convegno dell'Istituto Gramsci sulle tendenze del capitalismo. Si discusse animatamente, la nostra critica alla relazione di Amendola fu uno dei primi segni visibili della nostra ricerca di un nuovo sguardo sul mondo. In quell'occasione, Lucio parlò del bisogno di una critica a quella che lui chiamò "la società opulenta": la pervasività del mito dell'opulenza in ogni luogo della vita, a colpire l'autonomia dei bisogni umani. In questo presente così aspro e difficile, in cui la politica sembra aver ceduto le armi di fronte ai luoghi della finanza, ho risentito l'eco di quelle parole: non più solo nei miei ricordi, ma negli slogan di chi si accampa davanti a Wall Street.
Caro Lucio, carissimo compagno di tante lotte e di tante sconfitte: nessuna sconfitta è definitiva, finché gli echi delle nostre passioni riescono a rinascere in forme nuove, perfino di fronte al tempio del capitalismo mondiale.

grazie a: il manifesto 20.11.11

Luciana Castellina

Il suo peccato più grande, andarsene in quel modo

Non è facile per me scrivere in morte di Lucio Magri: oltre ad aver condiviso più di mezzo secolo di impegno politico, siamo stati anche compagni di vita, sia pure in un tempo ormai molto remoto. E tuttavia scrivo, cedendo alla richiesta dei compagni del giornale, perché Lucio era ormai fuori dalla vita politica pubblica da moltissimi anni, e in tanti mi domandavano cosa stesse facendo, dove stava.
Luciana Castellina In un'epoca in cui tutta la politica è immagine lui aveva perso visibilità: perché aveva rinunciato ad essere rieletto parlamentare già nel '94, ormai non scriveva più sui giornali, solo raramente raccoglieva l'invito a partecipare a qualche iniziativa. I più giovani, poi, quelli nati quando il PCI stava sciogliendosi e il Pdup aveva già posto fine alla sua storia, forse non l'avevano nemmeno mai sentito nominare, se non dai padri sessantottini.
Per questo vorrei raccontare, soprattutto a chi non l'ha conosciuto, o conosciuto male. Non era disimpegnato, Lucio, neppure ora, tutt'altro. Intanto ci sono gli anni più recenti, quelli in cui fu pubblicata la seconda serie della Rivista del manifesto, fatta assieme al vecchio gruppo che aveva fatto la prima e ad alcuni compagni che allora erano restati nel PCI, fra loro Ingrao e Tortorella. Durò cinque anni, dal 1999 al 2003, e poi, per tante ragioni, cessò. Peccato, perché vi invito a rileggerla, è piena di scritti, di Lucio e di altri compagni, molto interessanti. Fino a qualche tempo fa era leggibile nell'archivio del sito del manifesto, credo ci sia ancora.
Da allora Lucio si è impegnato a scrivere il libro che è uscito due anni fa, ora in edizione economica, già tradotto in Inghilterra da Verso, in Spagna, in Argentina, attualmente in traduzione in Brasile. Un grosso lavoro, non una autobiografia, una ricerca documentata sul comunismo italiano visto nel contesto internazionale, una riflessione attenta, forse la sola che c'è stata, sul più grande partito comunista d'occidente, sulle ragioni del suo successo e su quelle che lo hanno portato a scomparire. Non manca - e questo di continuare ad interrogarsi sul proprio stesso operato era un pregio di Lucio - anche una riflessione critica su alcune semplificazioni nostre, del gruppo del Manifesto, anche se di questa esperienza non si parla direttamente. Il libro si chiama Il sarto di Ulm, titolo di una parabola di Bertold Brecht: il sarto diceva che l'uomo avrebbe volato, il vescovo principe non ci credeva, alla fine, stufo delle insistenze, gli dice «provaci, vai sul campanile e buttati». Il sarto si butta e si sfracella. Ma chi aveva ragione? Perchè è vero che allora il sarto non era riuscito a volare, ma poi l'uomo ha volato. La parabola vale per il comunismo: per ora non ce l'ha fatta, ma domani forse ce la farà.
Non è pessimista né disfattista il libro di Lucio sul comunismo italiano. C'è anzi la testarda dimostrazione che sebbene fosse necessario un rinnovamento profondo del PCI, c'erano motivi validissimi per andare avanti e, in appendice, il documento che aveva scritto nel 1988 come piattaforma per il XVIII congresso che, anche a leggerlo adesso, dopo più di vent'anni, appare documento strategico attualissimo.
Perché Lucio aveva una grande capacità anticipatrice: con Famiano Crucianelli e Aldo Garzia, negli ultimi tempi, aveva cominciato a raccogliere tanti scritti e documenti della nostra storia, quella di prima del '68, l'epoca della cosidetta corrente ingraiana, poi del Manifesto e del Pdup, moltissimi redatti da lui stesso. Sono di grande interesse perché molte tematiche che sembrano scoperte da poco sono già esplicitate: dalla questione ecologica, alla crisi della democrazia, al declino della supremazia americana e le sue conseguenze. Le "nuove contraddizioni della nostra epoca" non sono invocate come è rituale, ma finalmente analizzate e spunto per una nuova strategia. Credo che dovremmo raccoglierli e farli circolare questi scritti, magari cogliendo così l'occasione di ricordarlo che ora ci manca perché ci ha lasciato detto che non voleva cerimonie funerarie.
Andando in giro per l'Italia trovo tanti, davvero tante compagne e compagni, che mi dicono che la stagione politica vissuta assieme è stata decisiva nella loro formazione. Anche la storia del Pdup, nato come proseguimento di quello che si era chiamato "Movimento Organizzato del Manifesto" quando ci unificammo con il gruppo ex psiuppino di Vittorio Foa, penso dovrebbe esser rivisitata e fatta conoscere.
Questo partito l'avevamo sempre pensato transitorio, perché ci premeva ricomporre le fila del comunismo italiano e non cristallizzare un partitino, una scelta difficile e che molti gruppi della nuova sinistra non capirono e ne fecero anzi motivo di irrisione. Nell'84 avviammo la discussione per decidere se rientrare o meno nel PCI: si era in pieno regime craxiano e un nuovo anticomunismo conquistava terreno, restare divisi non aveva senso, anche perché c'era stata quella che fu chiamata la "seconda svolta di Salerno", quando Berlinguer aveva posto fine all'unità nazionale, denunciato la deriva della politica, e rotto definitivamente con l'Unione sovietica. Fu proprio Berlinguer che, senza preavviso, venne ad ascoltare la relazione di Lucio al nostro congresso del 1984, e poi ci chiese di rientrare, visto che i dissensi che ci avevano diviso erano ormai largamente superati. Forse avvertiva che c'era bisogno, nel PCI, dell'energia dei nostri quadri, per combatterne le derive normalizzatrici . Ma pochi mesi dopo morì e ci ritrovammo in un PCI che era oramai altra cosa, peggiore di quello che ci aveva cacciati. E così fu Lucio a trovarsi in realtà alla testa della contestazione - non conservatrice ma rinnovatrice - allo scioglimento del partito. Il rapporto che tenne ad Arco, dove si tenne l'ultima assemblea della mozione del no alla svolta per il XXI congresso del PCI, quello del gennaio '91, è - anche questo - un lucido e moderno programma per la sinistra. Anch'esso andrebbe riletto.
Lucio non aveva un carattere facile. Il suo più grande amico, Michelangelo Notarianni, diceva di lui che aveva grandissime qualità, ma gli mancavano i sentimenti intermedi. Era assolutamente vero: intellettualmente generosissimo - una quantità di testi non firmati sono in realtà suoi, ma non gliene importava niente che gli venissero attribuiti, gli interessava che quelle idee circolassero - sembrava sgarbato e arrogante; pronto a riflettere sui suoi errori, non perdonava quelli degli altri, perché era oltremodo, fastidiosamente integralista.
Ma il suo peccato maggiore è stato di andarsene così come se ne è andato. Riteneva di non poter più dare niente per una rinascita della sinistra di cui diceva «ci sarà, ma ci vorranno decenni e io comunque non sono più in grado di dare alcun conributo». Sbagliava, naturalmente, perché avrebbe potuto ancora aiutarci. Ma la depressione che lo aveva colto dopo aver seguito giorno per giorno, per tre anni, la terribile agonia di Mara, la compagna con cui ha trascorso gli ultimi 25 anni e che amava moltissimo, l'ha spezzato. Non aveva più motivi che lo trattenessero e noi amici e compagni non siamo riusciti a dargliene di sufficienti.

grazie a: il manifesto 20.11.11

Aldo Garzia

Agire nella realtà senza subirla

Tra le fisse di Lucio c'era quella di pensare che le autobiografie non interessano a nessuno (proprio il contrario dell'opinione di Saverio Tutino, un altro mio «maestro» che se ne è andato lo stesso giorno di Magri). Per questo, nel suo Il sarto di Ulm aveva lasciato pochi cenni autobiografici: un'estate particolarmente gioiosa passata con Luigi Pintor in Sardegna, il dubbio che avesse ragione Aldo Natoli nel predicare di non avventurarsi nella costruzione di un partito dopo la radiazione dal PCI, qualche cenno al sodalizio con Pietro Ingrao accompagnato però dall'elenco impietoso di tutti gli appuntamenti politici mancati dallo stesso Ingrao, pochi ricordi sui primi anni Sessanta passati a Botteghe Oscure e sul ritorno nel PCI pochi mesi prima della morte di Enrico Berlinguer. Questa ritrosia ai ricordi e agli affetti faceva parte della scorza dura di Lucio, per il quale doveva essere sempre la politica - anche nella memoria - ad avere il primato sui personalismi.
Quello che lo faceva più soffrire (politicamente parlando) negli ultimi anni era l'annotazione secondo cui per «magrismo», nella vicenda del gruppo del Manifesto, si dovesse intendere una certa predilezione per la manovra politica a breve, gli schieramenti, le alleanze e qualche obiettivo immediato: il sacrificare cioè all'opportunismo di fase la ricerca e l'azione di una strategia. Questa nomea lo mandava in bestia (sarebbe stato contento nel leggere che negli articoli a lui dedicati da Norma Rangeri e da altri si riconosce il ruolo di «stratega» o «cervello» del nostro gruppo). Lucio riteneva infatti di non aver mai fatto una scelta per opportunità politica e di essere stato invece per tutta la vita perseguitato dall'assoluta coerenza tra analisi e azione. Da qui anche la convinzione che dopo la radiazione dal PCI nel 1969 - le «Tesi del Manifesto» del '70 che portano la sua impronta sono da questo punto di vista esemplari - bisognasse tenere insieme l'idea dell'autonomia di una organizzazione con quella di agire e influire sul maggior partito della sinistra. La pura ricerca teorica o anche un semplice giornale senza bussola non lo interessavano granché: bisognava sempre cercare di intervenire sulla realtà senza adagiarvisi, cogliendo le opportunità di una azione senza perdere la coerenza.
Ecco, forse, perché negli anni Settanta il «magrismo» è apparso di «destra» quando i gruppi della nuova sinistra non si preoccupavano della mediazione politica e negli anni Ottanta è sembrato poi troppo indulgente nella manovra politica, fino a motivare il rientro nel PCI sull'onda della «svolta» di Berlinguer e della politica di Yuri Andropov a Mosca che Lucio considerava la vera occasione sprecata prima dell'arrivo di Mikhail Gorbaciov (Berlinguer e Andropov sono morti nello stesso anno, proprio nel mezzo di un nuovo inizio politico abbiamo più volte commentato insieme).
Lettore onnivoro (negli ultimi mesi si è riletto tutto Lev Tolstoj), scrittore instancabile di saggi, articoli (qualche volta donati ad altri), documenti congressuali o relazioni a convegni e a congressi - insegnando a noi più giovani che bisogna sempre prepararsi al meglio quando si scrive o si parla in pubblico - a Lucio non andava proprio giù di essere dipinto negli anni della direzione del Pdup e poi del ritorno nel PCI come una sorta di politico-politicante. Le sue idee potevano risultare datate ma non dovevano esserci dubbi sul fatto che la coerenza intellettuale fosse assoluta nella ricerca di un rinnovamento comunista senza abiure. Per fatalità della sorte, Il sarto di Ulm è un testo in cui tocca a Magri, comunista modo eretico, rifare la storia del comunismo e difendere memoria e originalità dei comunisti italiani più di quanto abbiano fatto altri, pur avendo passato una vita senza scosse nel PCI.
Questa visione della politica di Magri aveva però un limite: non tutto è riducile al pensiero e all'azione, non può sempre prevalere il totus politicus. Poi ci sono le individualità con il loro temperamento e le proprie contraddizioni esistenziali. E poi bisogna saper guardare il mondo coltivando pure altri interessi oltre alla politica: la musica, il cinema, la letteratura, la pittura, le nuove tecnologie informatiche, la psicanalisi Per farlo arrabbiare bastava dirgli: «Tu, a differenza di Ingrao, non diresti mai: voglio sedermi a un bar per vedere la gente che passa e poter chiedere a ognuno che storia ha e dove pensa di andare». E aggiungere, quando controbatteva ricordando l'esito del convegno di Arco del '91 come l'ultimo errore di Ingrao e il più rilevante fatto da se stesso per non aver contestato l'idea del «gorgo» in cui restare, che comunque bisognava essere indulgenti con Ingrao a scapito dell'efficacia di ingraismo e ingraiani.

Contravvenendo alle raccomandazioni di Lucio sui personalismi da evitare, come faccio infine a non ricordare il settembre 1969 quando suonai al campanello di piazza del Grillo 10 per aderire al Manifesto e fu lui ad aprirmi? Come evitare di ripensare agli anni in cui ero il suo assistente parlamentare (1976-1979) e ho iniziato per scherzo a imitarne la voce? E poi a quelli passati nel Centro studi voluto da lui e Claudio Napoleoni che produsse la rivista «Pace e guerra»? E come non ricordare il viaggio fatto a Cuba con Lucio e Mara? E i lunedì degli ultimi due anni passati a registrare su nastro con lui e Famiano Crucianelli considerazioni sulla storia del Manifesto, del Pdup e della sinistra italiana? E i viaggi recenti insieme a Barcellona e Madrid per presentare l'edizione spagnola del Sarto di Ulm? È stato pure il primo lettore critico dei miei libri su Olof Palme e Ingmar Bergman rimproverandomi un'eccessiva compiacenza senile per la Svezia e la storia della socialdemocrazia europea. È stato perfino l'amico generoso che mi ha aiutato in un momento di difficoltà economica.
Gli episodi che tornano alla mente sono innumerevoli. L'ultimo è di giovedì scorso 24 novembre: una stretta di mano nel suo salotto, la considerazione di aver vissuto insieme una perigliosa avventura politica, intellettuale, umana durata quattro decenni. Poi sono andato via trattenendo le lacrime - in ottemperanza allo stile del «magrismo» - dopo aver chiuso la porta alle spalle.
Caro Lucio, mi sforzerò di restare un inguaribile «magriano.»

Rossana Rossanda

Lucio Magri, il tormento di un comunista eretico

Un anno fa in questi giorni Lucio Magri metteva fine alla sua vita. Era una decisione meditata a lungo, da quando lo spegnersi di una creatura molto cara aveva aggiunto un personale dolore alla deludente vicenda politica di fine secolo, cui non si riteneva più in grado di portare un contributo. C'è ancora qualcuno cui non basta vivere, deve vivere per un fine, e se il fine sembra smarrirsi preferisce andarsene. Lucio era di questi

Ora esce per la casa editrice Il Saggiatore una raccolta dei suoi scritti, Alla ricerca di un altro comunismo (Il Saggiatore, pagine 288, € 18,50), rinviando al sito a suo nome l'opera intera, una quantità di articoli, saggi, relazioni sempre «per un fare». Al sito sono consegnati anche gli articoli giovanissimi usciti sulla rivista «Il ribelle e il conformista»: Lucio viene infatti dalla DC di sinistra di Bergamo, riferimento Dossetti. Ma presto ha maturato, assieme a Giuseppe Chiarante, Mario Melloni (Fortebraccio) e Ugo Bartesaghi, il passaggio nel PCI.
Di cui aveva letto molto - in punto di teoria ne sapeva, come succede, più di chi vi era nato dentro - e aveva colto la distanza dal PCUS che Togliatti poteva prendere dal momento in cui la divisione delle sfere di influenza a Yalta collocava l'Italia da questa parte del mondo. Il PCI portava con sé Antonio Gramsci, che, in quanto «fondatore del nostro partito», non sarebbe stato mai consacrato ma neanche maledetto dall'Internazionale. Con Gramsci passava nei comunisti italiani la riflessione più acuta e inquietante sulla natura delle società occidentali. Che cosa era stata la rivoluzione mancata in Europa nel primo dopoguerra? E perché era mancata? Che cosa le avrebbe consentito di vincere in un Paese complesso, con una vasta, acculturata e contraddittoria società civile? Non era soltanto questione di come prendere il potere, ma di come trasformare i rapporti sociali. Non sarebbe potuto essere come nella Russia del 1917.
Domande che lo sviluppo del capitalismo avrebbe reso più pressanti. Quando, nel 1962, l'Istituto Gramsci organizzò un convegno sulle tendenze del capitalismo italiano - stava finendo il dopoguerra, si squadernava il problema di che cosa eravamo destinati ad essere nel disegno della classe dominante e come il partito vi si doveva attrezzare - Magri aveva letto in questa chiave l'Italia che cambiava, suscitando le ire di Giorgio Amendola. Quel suo intervento, pubblicato negli atti del convegno ma poi ampliato per «Les Temps Modernes» di Sartre, è il primo degli scritti proposti ora, ed è la sua sigla. Di più, rispondeva alle domande di molti, sia nel partito sia nel sindacato, di fronte ai mutamenti che il boom provocava, specie nell'allora «triangolo industriale» del Nord.

Lucio era sceso infatti da Bergamo prima a Milano, incontrando alcuni di noi, poi a Roma e presto in Botteghe Oscure, accompagnato da un'aura un po' eretica, sicuro di sé e - pochi lo immaginavano - intimidito per essere «arrivato dopo». Fece un curioso percorso, più vicino di altri al gruppo dirigente, specie a Longo e poi a Pietro Ingrao, ma non inquadrato bene nell'apparato. Se si aggiunge che era un gran bel ragazzo, sempre in testa nello sci e nel nuoto - cosa che gli uomini perdonano ai loro fratelli di sesso meno di quanto le donne perdonino alle loro più avvenenti sorelle -, si capisce perché rimanesse a lungo un outsider.

Così, attraverso la guerra fredda, conobbe la ripresa delle lotte negli anni Sessanta che seguiva alla grande migrazione dal Mezzogiorno. L'Italia cambiava ancora, ma Togliatti morì d'improvviso e ogni analisi e scelta venne colorata dal profilo di chi ne sarebbe stato il successore, Longo essendo un interim. Ingrao o Amendola? Nel 1966 l'XI Congresso vide una specie di «esecuzione» di Ingrao, e lo sterminio di quelli che gli erano più vicini, tutti retrocessi a incarichi laterali. Magri, l'outsider sospetto, fuori da ogni incarico.

Fu un esilio, e tale era ancora quando l'Italia fu attraversata dall'onda degli studenti nel '68 e dei nuovi operai nel '69, la sola che sfondasse i limiti sindacali, alla Fiat, alla Dalmine, a Porto Marghera, dovunque. Erano figure sociali nuove, prodotte dallo sviluppo, e premevano alle frontiere dei partiti e dei sindacati. Il PCI non attaccò quel movimento ma non lo apprezzò, doveva ancora lanciare Berlinguer. Ed erano mesi tempestosi. Alla contesa russo-cinese si aggiungeva la minaccia sovietica sul nuovo corso a Praga e la questione del Vietnam divideva i Paesi socialisti e, in sordina, lo stesso PCI.

Per la prima volta la sinistra interna si oppose alle Tesi per il XII Congresso, liberando il dibattito in diverse federazioni. A Pintor, Natoli, Rossanda fu consentito di parlare anche al Congresso, nel silenzio e poi applausi scroscianti della sala, perché i comunisti amavano le opposizioni di sinistra a condizione che a un certo punto rientrassero. Sulle scalinate, perché neppure delegato, c'era Magri. Non eravamo una frazione ma una rete comune di idee, formatasi negli anni, sostenuta - sembrava - da un sussulto internazionale, e stavolta fiduciosa di passare. Ma l'onda congressuale che pareva portarci si ritirò. Fummo battuti e ci si tolse ogni residuo incarico.
Decidemmo di dar vita a un mensile, costruire un polo politico e culturale attorno a una rivista della quale Magri ed io prendevamo formalmente la direzione, ma con Pintor, Natoli, Castellina, Parlato, Maone a Roma, Eliseo Milani e Petenzi a Bergamo, Vermicelli e Alberganti a Verbania, Usai e Montani ed altri a Torino, un folto gruppo a Napoli con Tecce, e così in altre province italiane. Vendemmo troppo, decine di migliaia di copie, e il partito (e il PCUS) non lo sopportarono. Quando Magri scrisse, nel settembre 1969, l'articolo «Praga è sola», denunciando l'isolamento in cui erano stati lasciati Dubcek e i protagonisti della Primavera cecoslovacca a un anno dall'invasione sovietica, venne giù il mondo. Due comitati centrali, discussione in tutte le federazioni, e un terzo comitato centrale per bloccarla: avevamo colto un bisogno reale. In breve fu la radiazione, termine più soave per espulsione.

Comincia allora la vicenda del «manifesto», gruppo politico e giornale, che Luciana Castellina delinea con limpidezza ed equilibrio nella prefazione al volume, non facile perché non esente da rotture. Magri lavora sul gruppo, Pintor sul giornale; eravamo troppi per restare una rivista, e perfino un giornale (anche se il quotidiano fu un'avventura clamorosa), e troppo pochi per essere un partito. Del resto non avevamo voluto esserlo, non invitammo a una scissione, l'ambizione era di meno e di più: saremmo stati, come ebbe a dire Lucio, il Vietnam del PCI, una insorgenza che non lo metteva in pericolo ma che non sarebbe stato in grado di chiudere.

Non andò così. Non solo il PCI ma il lungo decennio Settanta e la crisi della sinistra ci resero assieme inaffondabili e laterali. Sia il pezzo di Castellina sia la lunga intervista fatta a Lucio nell'ultimo anno da Famiano Crucianelli e Aldo Garzia, suoi compagni ed amici di sempre, ricostruiscono le tappe e i dilemmi di oltre un ventennio, attraverso le loro domande e il suo rispondere, a volte un poco reticente, di chi sente ancora la responsabilità di un dirigente. Sta di fatto che Magri e i molti che lavoravano al gruppo, nel quale ci raggiunse Lidia Menapace, si trovarono subito stretti tra una base che voleva esistere, e non solo come lettore o in un'organizzazione indefinita, e chi si misurava, ma soltanto con la scrittura, sui grandi problemi. Il primo dilemma fu se andare o no alle elezioni del '72, prevalse il sì e «riempimmo le piazze ma lasciammo vuote le urne», e non è così paradossale come può sembrare.

Soprattutto Lucio Magri non accettava il radicalismo spesso sommario di una nuova sinistra «vogliamo tutto» e un Partito comunista in permanenza preoccupato di una reazione di destra, alimentata dall'esito cileno del '73 e dal formarsi di gruppi armati. Su questo ci fu una divisione anche fra lui e me, che gli sottrassi nel modo più illegittimo il gioiello del gruppo che era il giornale (ma non cessai di essere la sorella grande, quella con cui azzuffarsi fino all' ultimo). Allo stesso modo Berlinguer tentò un incontro fra il movimento cattolico, mal individuato nella nomenclatura democristiana, e il comunismo italiano, contro una modernizzazione senza valori coltivata dal PSI di Craxi. Tentativo fallito non solo perché l'interlocutore, che egli vedeva in Aldo Moro, non aveva la DC con sé, e finì ucciso dalle Br, ma per un errore di valutazione sulla natura del partito cattolico e sulla fase - cominciava in quegli anni, nonostante i successi elettorali, la crisi del PCI, sulla quale Magri e Filippo Maone scrissero un saggio decisivo, e si delineava, nella stagnazione brezneviana, quella dell'Urss.

Magri ed altri perseguirono la formazione di un partito, il Pdup, con la sinistra socialista di Vittorio Foa, l'ex PSIup, e gli aclisti di sinistra di Giangiacomo Migone. Ci dividemmo di nuovo. In verità Magri non si era accontentato mai delle scorciatoie pratiche e ideali della nuova sinistra e tantomeno ne capì gli estremismi (non condivise la parola d'ordine «né con le Br né con lo Stato») né tollerava il «compromesso storico», pur apprezzando l'accento di Berlinguer sulla questione morale. E perfino sull'austerità, che i più fra noi, me inclusa, interpretarono come una premessa al rigore ma cui egli dava il senso di rifiuto d'una produzione ormai di spreco. La sua riflessione più compiuta sul «che fare» è quella presente nel volume appena uscito, nel saggio «Valori e limiti del riformismo». Ma quando Berlinguer, dopo l'uccisione di Moro, modificò il suo giudizio sulla DC e, messo spalle al muro da una direzione incline all'unità nazionale, andò alla svolta che lo avrebbe portato ai cancelli della Fiat occupata, Magri guardò a lui con interesse. E avvenne anche il reciproco.
Il Pdup negoziò un ritorno nel PCI, entrando fin nella direzione. Ma Berlinguer morì d'improvviso e gli immensi funerali di popolo fu come se dicessero addio a un'epoca. A Magri non restò che dibattersi contro la devastazione del PCI fra cambiamenti di nome e di fisionomia, poi passare a Rifondazione e anche in quella sede dibattere e dibattersi. Non si dette pace nella battaglia fra un rivoluzionarismo che considerava di poco spessore e un riformismo dall'orizzonte sempre più ridotto; la storia, del resto, avrebbe gettato a margine l'uno e l'altro negli anni che seguirono. Più tardi si sarebbe interrogato su due «occasioni» mancate: la prima, se muovendoci con più prudenza, saremmo riusciti a restare un Vietnam dentro al PCI, e credo che su questo sbagliasse, la seconda quando, nella riunione per il «no» al cambiamento di nome e identità del PCI ad Arco, Ingrao non se la sentì di lasciare il partito ed egli non ebbe il coraggio o la presunzione di prenderne il posto. Non so se la storia del PCI sarebbe stata diversa, certo quella di Rifondazione.

Ritiratosi dalla vita politica, ha lavorato, solitario e indolenzito, a una ricostruzione problematica della storia del PCI. L'ha titolata Il sarto di Ulm (Il Saggiatore, 2009), dall'aneddoto di Brecht sull'artigiano che, persuaso di poter volare, s'era schiantato a terra - ma ora gli uomini sono giunti ad alzarsi in volo. E l'aveva conclusa con un saggio che, in parte provocato dalla esperienza di Arco, si riallaccia all'intervento del '62 che apre il volume attuale. Sempre sulle possibilità di una formazione rivoluzionaria dei nostri tempi, così lontani dal 1917, e che ci hanno lasciati con le ossa rotte. Il suo discorso non lascia spazio a risentimenti o accuse, non attiene a una fede ma a un ragionare acerbo sul volgere del mondo. Finito il libro - che resterà, afferma Perry Anderson - Lucio ha orgogliosamente chiuso i suoi giorni.

grazie a: Corriere della Sera, 14.12.2012