Ci troviamo di fronte a un libro che esplora, e che narra, la storia del PCI a tutto campo, o in campo aperto. Condizioni nazionali, condizioni internazionali, contesto esterno, vita interna, linea politica, forme di organizzazione. "La svolta tentata da Berlinguer era esplicitamente mossa da un ambizioso obiettivo di medio periodo: contribuire a un effettivo passo in avanti sulla via democratica al socialismo in Italia e in Europa. Una tale ambizione, per ragioni oggettive e immaturità soggettive, al vaglio dei fatti non reggeva, l’obiettivo era fuori portata, tuttavia la forza che era riuscito a conservare, le nuove scelte e le nuove idee che vi erano penetrate permettevano al PCI di non essere travolto dalla crisi dell’Unione Sovietica, di evitare la dissoluzione e l’abiura, dunque di tenere in piedi e rifondare in Italia una sinistra di ispirazione comunista rilevante e vitale. Anche tale obiettivo era difficile, ma non impossibile. Se una tale sinistra fosse stata ancora in piedi nel momento del disfacimento della Prima repubblica, lo svolgimento non solo della storia del PCI, ma anche quello della democrazia italiana avrebbe assunto caratteri diversi da quelli che oggi costatiamo."Prima, nell’immediato dopo Togliatti, c’era stato lo scontro tra le due anime del PCI, personificate nelle figure in diverso modo carismatiche di Amendola e di Ingrao. Fu giusto non scegliere tra i due. Il passaggio di testimone da Longo a Berlinguer sarà nello spirito della forma togliattiana, centrista fra le ali, che il partito aveva e conservava. Come definire quelle due anime? Oggi possiamo vedere con più chiarezza. L’originalità del comunismo italiano è che quelle che saranno le due sinistre stavano dentro il PCI. Dietro cera anche una storia lunga. In fondo il PCI aveva ereditato e rideclinato al suo interno sia il riformismo che il massimalismo della tradizione socialista, italiana e non solo italiana. Questo sarà la sua grande forza e questo il vero motivo per cui la tradizione socialista vivrà in maggioranza nel partito comunista. Delle due anime, nel PCI si faceva sintesi. Il “partito di lotta e di governo” era questo. Oggi ci si ride su, ma quella che si diceva allora, ed era allora, una “forza politica”, era nient’altro che questa cosa qui. La sintesi riguardava poi anche qualcosa di più. È difficile far capire a chi ormai parla con il vocabolario dei giornali d’opinione che la formula maledetta del “centralismo democratico”, nei suoi due termini apparentemente contraddittori, teneva in sé due categorie classiche della politica moderna, rappresentanza e decisione, che se non stanno insieme in una qualsiasi forma di organizzazione, semplicemente non c’è politica, non c’è pratica realizzatrice di un bel nulla. La fine del PCI separa le due sinistre. E che cosa vediamo, che cosa abbiamo visto? Che, separate, magari esistono, ma non contano, non incidono, non si radicano, non producono forza. Perché, separate, non riescono ad aderire a tutte le pieghe della società. Ognuna, per suo conto ne tiene alcune e ne lascia fuori altre. Ma la società italiana, e direi una società capitalistica, vecchia e nuova, antica o postmoderna che sia, è sempre fatta di tante pieghe, di tanti risvolti, è composizione di contraddizioni che, o le possiedi tutte insieme o le perdi, una ad una, tutte. Che cos’è che fa sintesi? Certo, la linea politica. Si diceva: via italiana, ma al socialismo. Il percorso e l’obiettivo, la strada e la mèta. Si diceva politica delle alleanze, ma intorno alla classe operaia. Un campo e un centro. Il PCI, ancora fino a Berlinguer, si autodefiniva partito della classe operaia, mostrando un’identità riconoscibile ad occhio nudo. Non lo era di fatto, ma spendeva questa risorsa simbolica sul mercato politico e con questo mobilitava militanza e raccoglieva consenso. La linea quindi faceva sintesi. Ma ancora di più, se possibile, faceva sintesi la forma-partito. Altra espressione sottoposta a insulse dannazioni. Eppure, per almeno quattro decenni aveva funzionato come forma che dava, sì, senso a una storia. Primato dell’organizzazione come modo di espressione del primato della politica; partito di quadri e partito di popolo, partito di élite e partito di massa; élite politico-intellettuale diffusa nel territorio e masse concentrate, unificate, dirette; militanti e dirigenti in reciproca fiducia e, quando necessario, in divergente accordo. Quando, questo contenuto di politica e questa forma di organizzazione cominciano a perdere colpi, a logorarsi, a non corrispondere più alle condizioni reali, ai bisogni concreti, alle contraddizioni nuove. Qui il dibattito è aperto. Magri, abbiamo visto, sembra anticipare tutto al tornante degli anni Sessanta. Posso sbagliare, ma a me pare di scorgere l’inizio della fine dentro gli anni Ottanta. Sono tutti gli anni Ottanta che portano, quasi inevitabilmente all’Ottantanove. I funerali di Berlinguer danno ancora un’immagine di potenza popolare, stretta intorno al PCI. Alle elezioni europee questo è per la prima volta il primo partito. Scrive in modo eloquente Lucio: "da quanto più in alto ( e più inconsapevolmente ) si cade, tanto più ci si fa male" (p. 402). La caduta avviene in un pugno d’anni. Devastante è il dopo Berlinguer. Non è riuscita dopo Berlinguer l’operazione riuscita dopo Togliatti. Il ceto politico togliattiano, rimasto, commette l’errore di non gestire direttamente, magari con un compromesso interno, la transizione. Natta aveva bisogno di una direzione collegiale, con il compito di traghettare, essa, il PCI al dopo. Ci si apre invece, inaugurando una moda di cui scontiamo ancora gli esiti letali, a un cattivo rinnovamento, come passaggio di generazione. Per una grande forza politica, il rinnovamento o è nella continuità o non è un rinnovamento, è piuttosto una mutazione. La mutazione, nei dirigenti, non ancora nei militanti, era già avvenuta prima della Bolognina: ed era avvenuta nella nuova generazione, berlingueriana, ma soprattutto post-togliattiana. Su queste fragili frontiere irrompe poi il tornante pesante degli anni Ottanta: una congiuntura non compresa, non contrastata, acquisita, subìta. Un cambio di egemonia culturale accompagnava un inedito, fascinoso, rampante, ciclo capitalistico. Era quello il nuovo che avanzava. Si erano chiusi i “trenta gloriosi” del vecchio movimento operaio. Si aprivano i trenta gloriosi del nuovo capitalismo. Lo stesso socialismo si avviava a inciampare in questo imprevisto scenario. Oggi, alla fine di quel ciclo, fine che come da manuale si esprime attraverso crisi, possiamo vedere le trasformazioni, quelle reali e quelle virtuali, di capitale e di lavoro. Ma non per sole trasformazioni strutturali il capitalismo ha vinto. Ha vinto perché ha saputo costruirvi sopra un apparato ideologico, impressionante per volume di fuoco e per movimenti di eserciti mediatici. È l’ideologia della fine delle narrazioni ideologiche che ha imposto un modo generalizzato, più che di pensare, di sentire, un senso comune intellettuale di massa, che non è stato affatto sbagliato individuare come pensiero unico. Una delle più decisive sconfitte il postcomunismo l’ha realizzata sul piano culturale. Per il comunismo italiano questo è stato veramente un paradosso e lo ha scontato esso più di altri. Una forza che scompare lascia un vuoto. L’avvento contemporaneo di due immani processi, ascesa/trionfo del capitalismo-mondo da una parte e crisi/crollo del socialismo in paesi soli dall’altra, ha sfondato le linee e sbaragliato il campo. Oggettivamente - va detto - era difficile, se non impossibile, il contrasto. Non ci volevano nani sulle spalle di giganti. Ci volevano proprio giganti. Non ci sono stati. Non lo siamo stati. A questo punto, le responsabilità personali impallidiscono. Ed emerge una responsabilità collettiva, di cui dobbiamo tutti farci carico. Ma io voglio dire questo, nel modo più chiaro possibile: i comunisti sono stati gli unici che hanno messo veramente paura ai capitalisti. Non sono stati i socialisti umanitari, gli anarco-sindacalisti, la socialdemocrazia classica, le socialdemocrazie del nord; non sono stati i sessantottini, gli operaisti, gli autonomi, i movimenti no-global. Quando il marxiano spettro del comunismo si è realizzato nel movimento comunista internazionale, ha preso il potere in uno spazio di mondo, lo ha vittoriosamente difeso contro invasioni barbariche, lo ha esteso ad altri spazi di mondo, ha portato l’alternativa di sistema dentro i paesi dell’Europa occidentale, lì è emersa, giustamente minacciosa, la “grande paura” novecentesca. Il contenimento, il trattenimento, il kathecon stava dalla parte dei capitalisti, l’eschaton era comunista, il sol dell’avvenire brillava e scaldava solo da questa parte. Nessuno dice che ben prima della costruzione dei muri erano scese in mezzo all’Europa le cortine di ferro. Nessuno ricorda che mentre si chiudeva la guerra calda antinazista, si apriva la guerra fredda anticomunista. Perché è così vivo e vegeto l’anticomunismo dopo la morte certificata del comunismo? Ci sarà una ragione. Lo spettro è il mondo di ieri. La memoria, sacrosanta, degli orrori è purtroppo servita e serve per liquidare, azzerare, demonizzare un intero mondo di valori. Non essere stati capaci di distinzione, l’essersi accodati passivamente a un ordine del discorso totalizzante, aver rinunciato alla necessaria critica della propria storia in favore di un pentimento a buon mercato su tutta la propria posizione politica, questo ha aperto quell’età della subalternità, della non-differenza, e quindi della irriconoscibilità, che tuttora pesa, e non sappiamo fino a quando, sull’idea, sull’immagine, sull’offerta simbolica, di una possibile nuova sinistra. Non è mia quel “motto di spirito”, che ho visto ha suscitato molto autoironico consenso, in quanto mette a fuoco la condizione vera dell’attuale rapporto tra le parti. È venuta fuori in un ragionare con alcuni giovani ricercatori impegnati, quando una di loro, particolarmente brillante, ha fatto la domanda: ma perché i nostri avversari, si definiscono sempre con il prefisso “neo” e noi ci definiamo sempre con il prefisso “post”? Classica domanda che è già una risposta. Negli anni Sessanta si disse neocapitalismo, negli anni Ottanta neoliberismo. A noi è rimasto di essere postcomunisti, postideologici, e in nessun dove come dalle nostre parti si usa civettare con il postmoderno. Io ho capito, per lunga esperienza di osservatore politico, che quando si perde di forza, l’unica risorsa è giocare di abilità. Forse si poteva cambiare la forma mantenendo la sostanza. Non bisognava svendere, bisognava reinvestire. Non chiudere bottega, ma mettere tutto, proprio tutto, il patrimonio rimasto nella nuova impresa. Non si apre un altro fronte senza buttarci dentro l’intero esercito. L’esperienza comunista del movimento operaio meritava qualcosa di più dell’alternativa che poi si è data, o una cancellazione o una rifondazione. Erano sbagliate tutte e due le soluzioni, il nuovo inizio e la vecchia identità. Una nuova altrettanto grande forza della sinistra, moderna, critica, del lavoro, differente di uomini e di donne, italiano-europea, o nasceva lì, nel frangente drammatico, come eredità, non come seppellimento, del PCI, oppure assai difficilmente avrebbe potuta essere recuperata in seguito. L’infinita, insulsa, transizione del dopo, questo ci ha detto. Lucio Magri ripubblica, in appendice, un suo testo del 1987, analitico e programmatico. Qualcuno gli aveva consigliato di ripubblicare invece la sua relazione del 1989 ad Arco di Trento. Ha fatto bene a tener fermo su quel testo. Un conto è dire quelle cose due anni prima dell’89, un conto è dirle dentro l’89. Alcuni passaggi sono profetici: non tanto nella lettura economica e sociologica, quanto nella descrizione politica. Prendo solo due punti. Uno è quello della democrazia. " La democrazia non vive senza un sovrano collettivo, e questo sovrano collettivo non può esistere nella forma di una moltitudine atomizzata, di una somma confusa di spinte e di culture eterogenee: la frammentazione non è pluralismo, è uniformità mascherata ". E, dopo aver raccomandato uno sviluppo della democrazia come riappropriazione quotidiana e articolata delle varie funzioni di governo, come socializzazione del potere, come graduale deperimento della separatezza dello Stato, lancia un affondo, allora ancora attuale, oggi ormai confinato nell’isola di Utopia: "… per riassumere un po’ rozzamente: riconoscere la democrazia come valore universale non implica affatto ritenere superata la vecchia affermazione leninista e poi soprattutto togliattiana, di un nesso tra democrazia e socialismo" (pp. 436-43). L’altro punto: la forma-partito. La sua tendenziale “innovazione” si presenta, nelle democrazie occidentali, come “vacua e apparente”. "Un “partito leggero” che sopperisce alla fragilità dei suoi legami di massa e alla precarietà del suo tessuto culturale con una forte accentuazione del ruolo personale del “leader” ", che è gestito da apparati di potere non meno stabili e separati di quelli antichi, e in più e in peggio da pezzi dell’establishment, che deve costruire il consenso prevalentemente con l’uso dei media e mediando corporazioni varie. Conseguenza diretta: la passivizzazione delle classi subalterne, attraverso l’assenteismo dal voto e l’impossibilità di contare. Conseguenza indiretta: " un tipo di consenso elettorale che non regge e non può reggere a prove di governo aspre, dunque una necessaria autoriduzione dei programmi, un “ascolto della società” che seleziona e rispetta i fondamentali rapporti di forza esistenti". A quel punto, " il “riformismo di basso profilo” diventa non una scelta, ma una necessità…" (p.442). Facile dire: de te fabula narratur. L’appendice completa il quadro, conferma il percorso. Il libro porta il sottotitolo, editoriale: una possibile storia del PCI. Lucio sottolinea piuttosto - come abbiamo sottolineato subito all’inizio - il dato di aver voluto scrivere una storia “reale” del PCI. Quell’aver messo avanti prima di tutto i fatti prima di qualsiasi interpretazione, a fine lettura, possiamo considerarla un’operazione riuscita. Gliene diamo atto e merito. Ma su quei fatti, sulla nostra storia, non allentiamo l’artiglio della riflessione. 25 febbraio 2010, da: http://www.centroriformastato.org/ [Il sarto di Ulm è una poesia di B. Brecht: "Vescovo, so volare", "Il sarto è deceduto",
La parabola della sinistra dallo scontro nell'XI congresso al Sessantotto, al compromesso storico di Enrico Berlinguer, quando il maggior partito della classe operaia chiude gli occhi sulla società italiana, aprendo così la strada al suo scioglimento. Il sarto di Ulm di Lucio Magri (Saggiatore, pp. 442, euro 18) è una riflessione seria e serrata, forse la prima, sulle scelte che hanno guidato il PCI dalla seconda guerra mondiale sino alla fine. Volontaria. Altro sarebbe stato imporsi nell'89 una riflessione di fondo su di sé, altro dichiarare la liquidazione. Magri ne cerca le cause nella problematica che si apriva negli anni Sessanta e nelle divisioni del gruppo dirigente davanti ad essa. Questa è la tesi de Il sarto di Ulm. Lucio Magri è una figura singolare. Era entrato nel PCI negli anni Cinquanta, poco più che ventenne, alle spalle l'esperienza della gioventù democristiana a Bergamo, assieme a Chiarante, nella temperie dei Dossetti e soprattutto di Franco Rodano, figura atipica di cattolico acuto e fuori dei ranghi. Viene accolto nella segretaria di Bergamo e poi nel regionale lombardo, e di là scenderà a Botteghe Oscure. Quando entra nel PCI molto è avvenuto dal 1945. L'Italia ha avuto una grande resistenza, nessun tribunale alleato ha processato i suoi crimini di guerra, il PCI ha partecipato da una posizione forte alla Costituente, il più della ricostruzione è stato fatto, e anche del partito. Era ancora sotto botta per il 18 aprile, quando un folle attenta alla vita di Togliatti. Attentato che suona, e non era, comandato dal governo, gli operai occupano le fabbriche in uno sciopero generale illimitato. Togliatti e Longo ordinano il ritorno al lavoro. Il furore di quella massa di operai è qualcosa che chi l'ha vissuta non scorderà: non era la conclusione di una protesta ma la dura introiezione d'un limite che non si sarebbe potuto superare. Togliatti lo subiva o ne profittò? I fatti militano per la seconda ipotesi. Perché su di esso - obbligato dai rapporti di forza mondiali, e confermato dall'infelice guerriglia greca - fondava la scelta del partito nuovo e lo innestava del «genoma gramsciano». È il tema della prima parte del volume; l'analisi di Magri è persuasiva. Anche se si può discutere su Gramsci, e non per le speculazioni sulla prima edizione delle opere che - Magri ha ragione - rese accessibili i «Quaderni», ma per la curvatura del gramscismo assunta dal partito, la lunga sottovalutazione della «sovrastruttura» avendo indotto all'offuscamento della «struttura», sbrigativamente definita «economicismo». E si potrebbe discutere sul governo interrotto nel 1947, che Magri non conobbe se non per quanto si rifletteva nella Democrazia cristiana, alla quale oggi l'Istituto Gramsci preferirebbe che il PCI si fosse alleato da subito - ipotesi fantasiosa. E sulla Costituente, nella quale le scelte comuniste sull'art.7 fecero chiasso, mentre sulla pochezza delle proposte sul terreno economico non si sollevò sopracciglio alcuno. L'interpretazione che Magri ne dà nel 2009 è, grosso modo, quella che il Partito dette di sé con alcune sfumature critiche. Ne esce rafforzata, rispetto al giudizio che formulammo negli anni '70, la figura di Togliatti nella costruzione di un partito diverso da quello leninista, mirato a un rivoluzionamento dei rapporti sociali e «utilmente costretto» alla legalità. Non è un paradosso. Soltanto un punto non mi persuade: Magri considera obbligata e positiva l'adesione incondizionata all'Unione Sovietica, questione che, a distanza e visto l'esito, andrebbe discussa più che egli non faccia, salvo la nota (che è anche la più seria di François Furet): il leninismo non ha «lasciato eredità». Su quel legame ci sarebbe molto da chiedersi. Non se schierarsi dall'altra parte o restare neutrali nella guerra fredda; lo spazio di Tito in Italia non c'era. Ma si poteva mantenere - almeno dopo la svolta all'est del '48 - uno sguardo critico che, riannodando con gli anni Venti e con il pensiero di Lenin sullo stato, tenesse aperta una problematica che già presentava i suoi conti. Peggio di come è andata non poteva andare; Togliatti era un uomo accorto, non era scomunicabile, il suo partito era il più forte d'occidente e aveva frontiere strategiche. È che sperava ancora nell'URSS, come Isaac Deutscher, ma sbagliava, come Deutscher. Il 1956, conseguenza del '48-'49, segnava una spaccatura irrimediabile, non solo nell'estate polacca e nell'insurrezione ungherese (forse meno diverse di quanto Magri ritenga) ma nell'impossibilità di Gomulka o Kadar di riannodare un qualsiasi filo con le loro società. È vero che una critica al modello dell'est traspariva attraverso Gramsci, ma anche a Gramsci dovettero sfuggire le dimensioni del disastro fino al '34, quando Piero Sraffa poté parlargliene senza testimoni. Di quel che si dissero non sappiamo nulla. E non appare gran che, a distanza, la famosa intervista di Togliatti su Nuovi Argomenti e tragico il suo «non sapevamo, non potevamo sapere». Avrebbe aperto il discorso soltanto nel 1964, andando più a fondo di Berlinguer nel 1981, nel memoriale che voleva discutere con Krusciov. Ma in quegli stessi giorni morì. Il solo che ebbe il coraggio di pubblicare il memoriale fu Longo. Poi tutto si richiuse. E a Longo fu spesso informalmente vicino Magri negli anni seguenti - quando la sua testimonianza diventa diretta e, per così dire, interna corporis. Al centro stanno gli anni Sessanta. È allora che si decide la successione a Togliatti, e soprattutto che cosa deve essere il PCI quando il dopoguerra è finito, Kennedy sembra allentare la guerra fredda, la Chiesa si spalanca al Vaticano II, l'avanzata del PCI nel 1963 fa piangere Moro, la crescita è trainata dall'edilizia, le automobili e gli elettrodomestici, il paese ha cambiato composizione sociale con le grandi migrazioni e l'entrata delle donne nell'industria, mentre radio e tv sono ancora più mezzo di comunicazione che di spappolamento. E tutto questo in un crescere di popolo convinto di avere dei diritti e deciso a conquistarli con le sue braccia, il suo sindacato e il suo partito. Di questa, che è la vera egemonia dei comunisti, è prova la proletarizzazione dei contadini che vanno al nord. Sono loro a formare l'«operaio massa», sul quale disquisiremo assieme ai francesi André Gorz e Serge Mallet, la Cfdt più che la Cgt, agli inizi del decennio. Nel 1962, al Convegno sul capitalismo italiano del Gramsci si evidenziano due ottiche, quella di Amendola e quella di Trentin e Magri, appoggiata da Longo. Oggi Magri sottolinea i limiti delle posizioni difese anche da lui, ma è un fatto che per la prima volta viene contestata la tesi amendoliana di un capitalismo italiano torpido e tendenzialmente fascista. Così mentre la DC capisce la dimensione del cambiamento, si apre al Partito socialista, e si affiderà d'ora in poi più a La Malfa che alla Coldiretti, il vertice del PCI si limita a constatare «bene, ora passano i socialisti, domani passiamo noi». Così mi accolse Botteghe Oscure nel 1963, e mi parve un umore delirante (se formalmente contavo più di Lucio, ne sapevo di meno, salvo qualche colloquio mattutino con Togliatti, che non era uomo da dire mezza parola più che non volesse. E che mi calò un fendente quando intervenni contro Amendola su «Rinascita»). Ma, per grezze che fossero, le critiche alla linea amendoliana non cessarono più e si andarono aggregando - Magri lo descrive esattamente - in modo informale attorno a Ingrao, che è tutto fuorché un capocorrente. Ad ogni modo il PCI al centrosinistra non aderisce e non sabota. Ma Togliatti si è appena spento che Amendola propone di cancellare l'errore del congresso di Livorno e unificare PCI e PSI. Inimmaginabile Togliatti vivente. Il Partito sobbalza, il gruppo dirigente non approva ma non attacca. Amendola non pagherà alcun prezzo. Da allora all'XI Congresso, due anni, il partito è determinato a distruggere qualsiasi alternativa al centrosinistra nel quale punta a inserirsi da una posizione forte: Ingrao, che non non è d'accordo, è il bersaglio. Al congresso Ingrao oppone all'unificazione fra PCI e PSI un coinvolgimento delle sinistre dei partiti e dei sindacati e i movimenti sociali nonché la breccia aperta, più che nella DC, fra i cattolici - solo possibile blocco storico delle «riforme» di struttura. E termina con il diritto al dissenso, accolto da un'immensa ovazione della sala e da un immenso gelo della presidenza. Seguirà un fuoco di contestazioni, il suo isolamento e la diaspora dei sospetti di ingraismo. Magri, non difeso da cariche elettive, viene scaraventato fuori. Oggi egli considera che è stata la domanda di legittimare il dissenso a riuscire indigeribile per le Botteghe Oscure. Ne dubito, il dissenso più clamoroso era venuto da Amendola, e senza conseguenze per il reo. La resistenza più spessa, come diranno gli anni seguenti, è di linea. E comporterà il progressivo perdere di peso di Longo. Sul quale cadono due sessantotto, quello degli studenti e quello cecoslovacco. Non è vero che il PCI abbia favorito il primo, non fosse che per la differenza radicale di cultura, ma è vero che non lo ha attaccato. Amendola e Sereni obiettano, ma le federazioni si sono aperte agli studenti e Longo li riceve. L'anno seguente, quando esplode l'«autunno caldo» in contenuti e forme del tutto fuori dalla tradizione del partito e del sindacato, il PCI è occupato nel cacciare «il manifesto», pratica che il segretario avrebbe volentieri evitato. Già l'anno prima si erano dovuti registrare molti voti contro le Tesi del XII congresso, in centro e in periferia, e il districarsi malamente dall'intervento sovietico in Cecoslovacchia. Ed è con questo pretesto che il manifesto viene fatto fuori. È di Magri l'editoriale «Praga è sola» nel settembre 1969 e saremo radiati in capo a tre comitati centrali. Magri spende poche parole sul «manifesto», ma senza di lui non sarebbe nato, come senza Pintor non avremmo il giornale. Non credo per le divisioni e amarezze che conoscemmo nel tempo: sono passati quarant'anni da quando fummo messi fuori dal PCI e una trentina da quando alcuni di noi separarono il giornale dal Pdup. Anni che non hanno risparmiato nessuno. La verità è che gli iniziatori del «manifesto» sono stati sconfitti nell'essenziale: non ci è mai bastata la buona coscienza, volevamo cambiare il corso delle cose, e la strada più percorribile sembrava quella di costringere, da dentro o da fuori, il PCI a elaborare i fermenti del '68 e del '69; insomma indurvi un cuneo profondo. Questo avrebbe salvato il comunismo da pesanti continuità e salvato dalla fragilità e dalle derive le spinte del '68 e del '69. Magri sperò che saremmo stati per il PCI come il Vietnam per gli Stati Uniti, Pintor puntò sul quotidiano come la forma politica più capace di penetrazione, i compagni spinsero per mietere un trionfo nelle elezioni del '72. Non mietemmo trionfi, non dividemmo il PCI, non costruimmo fuori di esso una grossa alternativa. Oggi Magri riconosce le ragioni di Natoli, che si oppose a ogni accelerazione, insistendo perché lavorassimo sui tempi lunghi. Concordo. Ma avremmo dovuto essere assieme più compatti ed aperti. Magri vide via via nel manifesto delle concessioni all'estremismo che avrebbero impedito ogni ascolto nel PCI, io vedevo nel PCI un ostinato chiudersi alle forze che dovevano esserne il blocco sociale moderno. Minacce di intervento esterno erano ormai da escludere. Sta di fatto che dagli anni Ottanta il PCI tracolla, nessuna sinistra fuori di esso riesce a durare, il manifesto scivola verso la figura attuale di libero giornale di diverse opinioni. Poteva non andare così, sostiene Il sarto di Ulm. Anzi per quanto riguarda il PCI, forse non è andata così fino alla morte di Berlinguer. Che aveva accumulato molti errori, specie con il compromesso storico e la politica dell'unità nazionale, ma nel 1979 tentò una svolta di 180 gradi, e ne fu impedito dalla maggioranza del gruppo dirigente. Magri rifiuta la tesi che fa delle Brigate Rosse ls'artefice del suo destino: uccidendo Moro avrebbero precluso al PCI la strada al governo. Moro - egli ritiene - al governo non ve l'avrebbe portato, né andarvi gli avrebbe evitato la crisi, che veniva dal non intendere il mutare delle condizioni interne e internazionali. I fatti parlano: se la scelta del '73 a lungo covata (e Il sarto di Ulm lo documenta) era già «senza avvenire», l'astensione del 1976 al governo Andreotti è uno sbaglio rovinoso. Come la sordità ai movimenti sociali, anche più convulsi: per inaccettabili che fossero i gruppi armati, bisognava chiedersi perché si fossero formati allora. E che senso aveva gettare sul '77, che rovinoso non era, l'accusa di diciannovismo? Più grave è nel PCI di allora la ormai insufficiente attrezzatura intellettuale e il dubbio su di sé. Se si aggiunge che le scelte diventano interamente di vertice e affidate a diplomazie segrete e snervanti, è chiaro che Berlinguer cerca di cambiar rotta fuori tempo massimo. Volere o no una riflessione seria riporta al '64 e al '66. E il metodo seguito da Magri - l'attenzione ai mutamenti internazionali, macroscopici dal 1974 in poi, e alle condizioni interne, sociali e di governo - lo porta a prenderne atto. L'89 segna una conclusione, non un capovolgimento. Anche se egli cerca fino all'ultimo i margini che eviterebbero la catastrofe: il documento del 1987, in appendice al volume, poco prima della caduta del Muro, è ancora una proposta. Che non trova portatori, come non li troverà la sua relazione ad Arco, sulla quale Ingrao scarta. E comincia male la vicenda di Rifondazione comunista. La domanda che il suo lavoro induce è fino a quando c'era realmente tempo e se il materiale, di cui era fatta la proposta di cambiamento non era logorato. Lo era, risponderei oggi al compagno ed amico di tanto lavoro e tante zuffe. E a me stessa. Magri no, pensa che non tutto era giocato, anche se il suo giudizio su Berlinguer è non meno definitivo del mio. Specie sugli anni '70 e i guasti che vennero dal compromesso storico, al quale non si oppose nessuno, salvo un Longo inascoltato, e c'è chi lo difende ancora. Il gruppo dirigente che bloccò il tardivo cambio di politica del segretario nel '79 ne è un frutto. Berlinguer che va ai cancelli della Fiat, in appoggio a un movimento destinato a perdere, pare a me l'immagine di una solitudine. Sbagli, oppone Magri, era determinato; e non aveva con sé Lama ma la base popolare del partito. E la leva giovane? Gli Occhetto? Obietto. Così continua fra noi la discussione di una vita. grazie a: il manifesto, 7.10.2009
Lucio Magri da molto tempo ci aveva comunicato la sua decisione di togliersi la vita. Avevamo discusso e cercato di dissuaderlo perché avevamo bisogno di lui, della sua intelligenza e del suo impegno. Non ci siamo riusciti. È stata una decisione di estrema razionalità. A quasi 80 anni, la perdita della compagna Mara era stata tremenda. La vita non era più vita. Anche la situazione generale non incoraggiava. Con razionalità addirittura estremistica Lucio prese la decisione (e quando decideva non cambiava idea) e attuò quel che aveva stabilito. Il suicidio è una fondamentale libertà della persona. Chi è padrone della propria vita, come ogni umano lo è, può legittimamente e moralmente decidere di mettere la parola fine. grazie a: il manifesto 20.11.11
Scrivo sgomento, pensando al modo in cui Lucio ha voluto lasciare la vita. Penso a quella ferita così dolorosa, che anch'io ho subito otto anni fa, della perdita della propria compagna. Penso al senso tragico di sconfitta che ha dominato i suoi ultimi anni. Sono pensieri, non spiegazioni: un gesto come il suo rimarrà sempre insondabile, chiede rispetto e silenzio. grazie a: il manifesto 20.11.11
Non è facile per me scrivere in morte di Lucio Magri: oltre ad aver condiviso più di mezzo secolo di impegno politico, siamo stati anche compagni di vita, sia pure in un tempo ormai molto remoto. E tuttavia scrivo, cedendo alla richiesta dei compagni del giornale, perché Lucio era ormai fuori dalla vita politica pubblica da moltissimi anni, e in tanti mi domandavano cosa stesse facendo, dove stava. grazie a: il manifesto 20.11.11
Tra le fisse di Lucio c'era quella di pensare che le autobiografie non interessano a nessuno (proprio il contrario dell'opinione di Saverio Tutino, un altro mio «maestro» che se ne è andato lo stesso giorno di Magri). Per questo, nel suo Il sarto di Ulm aveva lasciato pochi cenni autobiografici: un'estate particolarmente gioiosa passata con Luigi Pintor in Sardegna, il dubbio che avesse ragione Aldo Natoli nel predicare di non avventurarsi nella costruzione di un partito dopo la radiazione dal PCI, qualche cenno al sodalizio con Pietro Ingrao accompagnato però dall'elenco impietoso di tutti gli appuntamenti politici mancati dallo stesso Ingrao, pochi ricordi sui primi anni Sessanta passati a Botteghe Oscure e sul ritorno nel PCI pochi mesi prima della morte di Enrico Berlinguer. Questa ritrosia ai ricordi e agli affetti faceva parte della scorza dura di Lucio, per il quale doveva essere sempre la politica - anche nella memoria - ad avere il primato sui personalismi.
Un anno fa in questi giorni Lucio Magri metteva fine alla sua vita. Era una decisione meditata a lungo, da quando lo spegnersi di una creatura molto cara aveva aggiunto un personale dolore alla deludente vicenda politica di fine secolo, cui non si riteneva più in grado di portare un contributo. C'è ancora qualcuno cui non basta vivere, deve vivere per un fine, e se il fine sembra smarrirsi preferisce andarsene. Lucio era di questi Ora esce per la casa editrice Il Saggiatore una raccolta dei suoi scritti, Alla ricerca di un altro comunismo (Il Saggiatore, pagine 288, € 18,50), rinviando al sito a suo nome l'opera intera, una quantità di articoli, saggi, relazioni sempre «per un fare». Al sito sono consegnati anche gli articoli giovanissimi usciti sulla rivista «Il ribelle e il conformista»: Lucio viene infatti dalla DC di sinistra di Bergamo, riferimento Dossetti. Ma presto ha maturato, assieme a Giuseppe Chiarante, Mario Melloni (Fortebraccio) e Ugo Bartesaghi, il passaggio nel PCI. Lucio era sceso infatti da Bergamo prima a Milano, incontrando alcuni di noi, poi a Roma e presto in Botteghe Oscure, accompagnato da un'aura un po' eretica, sicuro di sé e - pochi lo immaginavano - intimidito per essere «arrivato dopo». Fece un curioso percorso, più vicino di altri al gruppo dirigente, specie a Longo e poi a Pietro Ingrao, ma non inquadrato bene nell'apparato. Se si aggiunge che era un gran bel ragazzo, sempre in testa nello sci e nel nuoto - cosa che gli uomini perdonano ai loro fratelli di sesso meno di quanto le donne perdonino alle loro più avvenenti sorelle -, si capisce perché rimanesse a lungo un outsider. Così, attraverso la guerra fredda, conobbe la ripresa delle lotte negli anni Sessanta che seguiva alla grande migrazione dal Mezzogiorno. L'Italia cambiava ancora, ma Togliatti morì d'improvviso e ogni analisi e scelta venne colorata dal profilo di chi ne sarebbe stato il successore, Longo essendo un interim. Ingrao o Amendola? Nel 1966 l'XI Congresso vide una specie di «esecuzione» di Ingrao, e lo sterminio di quelli che gli erano più vicini, tutti retrocessi a incarichi laterali. Magri, l'outsider sospetto, fuori da ogni incarico. Fu un esilio, e tale era ancora quando l'Italia fu attraversata dall'onda degli studenti nel '68 e dei nuovi operai nel '69, la sola che sfondasse i limiti sindacali, alla Fiat, alla Dalmine, a Porto Marghera, dovunque. Erano figure sociali nuove, prodotte dallo sviluppo, e premevano alle frontiere dei partiti e dei sindacati. Il PCI non attaccò quel movimento ma non lo apprezzò, doveva ancora lanciare Berlinguer. Ed erano mesi tempestosi. Alla contesa russo-cinese si aggiungeva la minaccia sovietica sul nuovo corso a Praga e la questione del Vietnam divideva i Paesi socialisti e, in sordina, lo stesso PCI. Comincia allora la vicenda del «manifesto», gruppo politico e giornale, che Luciana Castellina delinea con limpidezza ed equilibrio nella prefazione al volume, non facile perché non esente da rotture. Magri lavora sul gruppo, Pintor sul giornale; eravamo troppi per restare una rivista, e perfino un giornale (anche se il quotidiano fu un'avventura clamorosa), e troppo pochi per essere un partito. Del resto non avevamo voluto esserlo, non invitammo a una scissione, l'ambizione era di meno e di più: saremmo stati, come ebbe a dire Lucio, il Vietnam del PCI, una insorgenza che non lo metteva in pericolo ma che non sarebbe stato in grado di chiudere. Non andò così. Non solo il PCI ma il lungo decennio Settanta e la crisi della sinistra ci resero assieme inaffondabili e laterali. Sia il pezzo di Castellina sia la lunga intervista fatta a Lucio nell'ultimo anno da Famiano Crucianelli e Aldo Garzia, suoi compagni ed amici di sempre, ricostruiscono le tappe e i dilemmi di oltre un ventennio, attraverso le loro domande e il suo rispondere, a volte un poco reticente, di chi sente ancora la responsabilità di un dirigente. Sta di fatto che Magri e i molti che lavoravano al gruppo, nel quale ci raggiunse Lidia Menapace, si trovarono subito stretti tra una base che voleva esistere, e non solo come lettore o in un'organizzazione indefinita, e chi si misurava, ma soltanto con la scrittura, sui grandi problemi. Il primo dilemma fu se andare o no alle elezioni del '72, prevalse il sì e «riempimmo le piazze ma lasciammo vuote le urne», e non è così paradossale come può sembrare. Soprattutto Lucio Magri non accettava il radicalismo spesso sommario di una nuova sinistra «vogliamo tutto» e un Partito comunista in permanenza preoccupato di una reazione di destra, alimentata dall'esito cileno del '73 e dal formarsi di gruppi armati. Su questo ci fu una divisione anche fra lui e me, che gli sottrassi nel modo più illegittimo il gioiello del gruppo che era il giornale (ma non cessai di essere la sorella grande, quella con cui azzuffarsi fino all' ultimo). Allo stesso modo Berlinguer tentò un incontro fra il movimento cattolico, mal individuato nella nomenclatura democristiana, e il comunismo italiano, contro una modernizzazione senza valori coltivata dal PSI di Craxi. Tentativo fallito non solo perché l'interlocutore, che egli vedeva in Aldo Moro, non aveva la DC con sé, e finì ucciso dalle Br, ma per un errore di valutazione sulla natura del partito cattolico e sulla fase - cominciava in quegli anni, nonostante i successi elettorali, la crisi del PCI, sulla quale Magri e Filippo Maone scrissero un saggio decisivo, e si delineava, nella stagnazione brezneviana, quella dell'Urss. Ritiratosi dalla vita politica, ha lavorato, solitario e indolenzito, a una ricostruzione problematica della storia del PCI. L'ha titolata Il sarto di Ulm (Il Saggiatore, 2009), dall'aneddoto di Brecht sull'artigiano che, persuaso di poter volare, s'era schiantato a terra - ma ora gli uomini sono giunti ad alzarsi in volo. E l'aveva conclusa con un saggio che, in parte provocato dalla esperienza di Arco, si riallaccia all'intervento del '62 che apre il volume attuale. Sempre sulle possibilità di una formazione rivoluzionaria dei nostri tempi, così lontani dal 1917, e che ci hanno lasciati con le ossa rotte. Il suo discorso non lascia spazio a risentimenti o accuse, non attiene a una fede ma a un ragionare acerbo sul volgere del mondo. Finito il libro - che resterà, afferma Perry Anderson - Lucio ha orgogliosamente chiuso i suoi giorni. grazie a: Corriere della Sera, 14.12.2012
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