PCI

Alberto Burgos

Il PCI a 100 anni dalla sua fondazione


21 gennaio 2021: cento anni fa nasceva il Partito Comunista d'Italia, e qua e là - giornali, tv, istituzioni, mostre - si ricorda l'avvenimento, più o meno sbrigativamente, e ipocritamente.

A Livorno, dove venne fondato il partito, si ritrovano militanti dei vari partiti (?) che si definiscono comunisti.
Uno di essi (l'ex PdCI) si è addirittura autonominato PCI (ma chi è stato il cialtrone PDS-DS-PD che ha concesso l'uso del nome e del simbolo?!): questo gruppuscolo, nato nel 1998 da una scissione di Rifondazione, per alcuni anni ha svolto una certa funzione, partecipando ai governi dell'Ulivo, ma continuando a considerarsi l'erede naturale del vecchio PCI: niente di male, se non fosse che il PdCI pensava davvero di essere il PCI, il partito della classe operaia, delle masse, il cuore della sinistra.
Ma il mondo cambiava rapidamente, l'anticomunismo ideologico ritornava al suo massimo splendore, in Italia si affermavano nuove forze di destra, in grado - nel vuoto "pedagogico" della sinistra - di attirare irresistibilmente la base sociale che era stata il corpo del PCI.
Ma, come nel vecchio detto, quando il saggio indica la luna lo stolto guarda il dito: e questi "comunisti" si (am)miravano in uno specchio compiacente, continuando a dirsi noi siamo i veri comunisti noi siamo i veri comunisti noi siamo i veri comunisti.
E si potrebbero citare tanti passi di Lenin e di Gramsci in cui si ridicolizza questo tipo di atteggiamento.
A Livorno, per l'anniversario, c'erano anche il Partito Democratico (a che titolo non si capisce proprio), il partito stalinista di Rizzo (che miete qualche consenso proponendo una muscolare e consolatoria versione del marxismo-leninismo), il poco che resta di Rifondazione e qualche altra minuscola formazione.
Tutti a proclamarsi i veri eredi del PCI.

In tv e sui giornali, socialisti ed ex PCI pontificano: i primi ribadendo che la scissione del '21 è stata una sciagura e che il riformismo non-comunista era l'unica strada giusta. Quella che non ha saputo opporsi al fascismo? Quella che con Craxi ha abolito la scala mobile? Eccetera.
E gli ex - tra malafede e schizofrenia - pure loro a rivendicare una qualche eredità.
E un Bertinotti qui e un Occhetto là a elargire disgustose perle di saggezza.

Insomma, uno spettacolino grottesco e desolante.


Per fortuna c'è qualche eccezione: l'inserto speciale del manifesto (21.01.2021), con numerosi interventi, seri e interessanti. Qui alcuni di essi.

PCI

Luigi Pintor

La storia non è finita, un fantasma ha tempi lunghi

L’editoriale del manifesto del 21 gennaio 2001 pubblicato in occasione dell’ottantesimo anniversario del PCd’I

Suppongo che non fosse facile decidere che cosa fare, nel 1921, avendo alle spalle la macelleria della guerra europea e di fronte la violenza incombente dei fascismi. Ma c’era in piedi, in un grande paese feudale, una rivoluzione di operai e contadini mai vista nella storia e così nacque anche un Partito Comunista Italiano. Fu battezzato a Livorno ma era già nato a Torino. È un merito dei nostri antenati, anche se oggi è considerato un errore. Noi, nel nostro tempo, non riusciamo a fare nulla di equivalente.

Finirono rapidamente in prigione o in esilio, la borghesia italiana sa essere sbrigativa contro le classi subalterne in generale. E vent’anni dopo (ma anche prima) la classe dirigente ricomincerà a guerreggiare fino alla nota catastrofe. Da ragazzino, in quegli anni, ho conosciuto un anarchico padre di un compagno di scuola ma non un comunista. Ne sentivo parlare perché bruciavano chiese spagnole ma erano fantasmi, di cui oggi si celebra l’ottantesimo compleanno.

Sbucarono a un certo punto dal nulla (ossia dalle carceri, dall’esilio, dalla clandestinità) e si moltiplicarono alla luce del sole. Adesso avevano alle spalle le bandiere rosse di Stalingrado, che arriveranno fino alla porta di Brandeburgo, ma si moltiplicarono per virtù propria, per avere a lungo e tragicamente combattuto.

Non so dare un giudizio storico e politico corretto su una vicenda che ha dominato il secolo e coinvolto mezza umanità. Continuo a pensare che sia stato il più grande tentativo mai compiuto di rovesciare l’ordine sociale che ha sempre retto il mondo e non mi spiego che un’impresa simile sia finita come risucchiata da un buco nero, apparentemente senza residui.

Mi sento però in grado di dare un giudizio sicuro sulla liberazione e la rifondazione democratica del paese in cui viviamo. È in quel momento che i giovani di allora hanno incontrato i comunisti e l’antifascismo in generale, quello operaio e popolare in primo luogo. Nel bene e nel male, come sempre, ma nel bene in misura di gran lunga maggiore. Tuttavia, è proprio contro questo esito felice che l’anticomunismo (non il revisionismo, ma l’anticomunismo come maschera della reazione) ha compiuto la sua opera devastante.

Avere reciso questa radice, questa particolarità della storia nazionale, è la colpa imperdonabile dei nipotini e bisnipotini del 1921. È la causa dello snervamento, dello smarrimento, dell’anonimato della sinistra di oggi, ciò che le impedisce di prospettare o anche solo di desiderare una società giusta: di essere un’autentica forza riformatrice e perciò rivoluzionaria.

Così oggi 1921 e 1945 sono numeri o poco più. Piccoli giornali e una limitata forza politica di opposizione ricordano il compleanno di un fantasma (come lo chiamano i giornali) mentre la sconfitta della sinistra vergognosa di sé bussa alla porta. Il comunismo è una parola, l’anticomunismo è l’insegna del potere. Il mondo sviluppato celebra i suoi fasti al plutonio e al latte sicuro, quello meno sviluppato è in via di estinzione. È il capitalismo globale, signori.

Ma chi può dirlo? Forse questo mondo non è unificato quanto piuttosto dimezzato e storpio. Forse il fantasma che centocinquant’anni fa si aggirava in Europa oggi si aggira nell’aria in attesa di planare da qualche parte. Ha tempi lunghi, tempi ideali, quelli della «futura umanità» che cantavano gli antenati.

PCI

Luciana Castellina

Il Partito-Paese, e le riserve inesplorate del genoma Gramsci

Mi chiedo: ma c’è in Italia un altro partito oltre al PCI che per un suo anniversario - 100 anni certo è un secolo, ma anche 50 o 20 sono di solito occasione di celebrazione - sia mai stato ricordato così coralmente da tutti i possibili media: tv, radio, quotidiani, settimanali, riviste, e non solo italiane viste le interviste richieste dall’estero; e poi istituti storici e non storici, circoli, reti, centri, e non so quant’altro? Già questo mi pare basti a dire molto su questo partito, non c’è bisogno di saggi di esperti.

La migliore fra le succinte spiegazioni che del fenomeno è stata data resta per me quella che, dopo aver indagato nel nostro paese di cui era molto curioso, ebbe a dare Jean-Paul Sartre: «Adesso ho capito - disse - il PCI è l’Italia!». Voleva dire che questo partito non era una avanguardia separata, ma un corpo impastato con lo stesso sangue, le stesse emozioni, comportamenti, ricordi, del popolo italiano. Non un organismo estraneo.

Non però, intendiamoci, il «popolo» di per sé - come piacerebbe a quelli, non pochi, che negli ultimi anni si sono innamorati di un c.d. «populismo di sinistra». Perché quella coincidenza fra paese e partito, non era stabilita a partire dal nome di un leader cui ci si affida, ma, tutt’al contrario, di un partito militante, e dunque un organismo collettivo che quel popolo aveva aiutato a trasformarsi da suddito a cittadino, a soggetto orgoglioso del suo ruolo, perché si sentiva parte di un grande movimento che stava trasformando il mondo.

Non sono parole, badate. Se ripenso a questo partito nella mia città, Roma, e parlo dunque a partire da un’esperienza reale e non per indottrinamento, ricordo tutt’ora con emozione quel sottoproletariato borgataro che via via imparava a farsi valere, diventava cosciente. E fiero. Ma, del resto, se ripensate a tanti scritti di Pasolini, o ai film neorealisti dell’inizio degli anni ’50, o, ancora, alle piéces di Ascanio Celestini, non trovate forse sempre uno di questi/e popolane alle prese con la miseria, che tiene riposta fra le proprie cose preziose la tessera del PCI? E fra loro, tante donne.

Per questo quel partito raggiunse una cifra di iscritti - 2 milioni - unica in Occidente, per questo seppe reggere alle intimidazioni, discriminazioni, scomuniche, repressione che caratterizzarono la bieca stagione della guerra fredda.

Sono state illusioni? Erano speranze che si cercava di tradurre in realtà, e
Ed è per questo che quando mi chiedono perché, a 100 anni dalla nascita del PCI, mi dico ancora comunista, rispondo: innanzitutto per via della storia dei comunisti italiani, entro cui metto naturalmente anche i comunisti del Manifesto e del Pdup, che ne hanno costituito un arricchimento.

Nonostante errori anche gravi, sono stati i soli che hanno cercato di avviare quel lungo processo che avrebbe potuto portare anche in Occidente alla costruzione di una società alternativa.

Non ci siamo riusciti, la sinistra è oggi in Italia in condizione desolante, lo so. La più grave: celebriamo 100 anni della nascita di un partito che è morto già da 30. La prima cosa che dunque in questo centenario dovremmo fare è impegnarci a condurre quella riflessione critica collettiva (per evitare autoindulgenze) sempre annunciata e poi mai fatta davvero.

Non comincerò certo con un articolo di quotidiano, ovviamente. Poiché, come era naturale, questa celebrazione ha però riproposto l’interrogativo di sempre - cosa è ancora valido della esperienza del PCI - anche io, come tutti, mi sento obbligata a dare una risposta ai ragazzi che, pur perlopiù consapevoli dell’importanza storica di questo partito, pensano non abbia più niente di utile da insegnarci. Anche per dare questa risposta servirebbe in realtà una riflessione approfondita ma una cosa a me pare possa esser detta senza rischio di sbagliare: mettete finalmente, pienamente a frutto il «genoma Gramsci» che finora ci ha protetto ma ha ancora riserve inesplorate da sfruttare.

Soprattutto su due questioni. La prima, la sua idea di partito, l’ipotesi che finalmente consentirebbe di superare la diatriba fra chi sostiene la necessità di farne lo strumento che, dall’esterno, porta la coscienza, e chi vuole invece affidarsi alla spontaneità del movimento. E cioè l’idea gramsciana del partito come «intellettuale collettivo», impegnato a ridurre via via la distanza fra dirigenti e diretti, e che la coscienza la costruisce insieme. Se gli iscritti al PCI sono così a lungo stati partecipi in prima persona della vita politica del nostro paese è perché, almeno in parte, e pur nelle condizioni primitive del dopoguerra, su questo progetto si è lavorato.

E serve ancora Gramsci per quanto egli stesso, e con lui tutto il gruppo giovanissimo dell’Ordine Nuovo, portarono avanti nella pratica concreta della Torino operaia del primo dopoguerra, dove cercarono di sperimentare le ipotesi consiliari che non erano state solo teorizzate da correnti minoritarie del movimento operaio, ma da Lenin stesso (per esempio in Stato e Rivoluzione). Costruire cioè, accanto ad altre forme organizzate di democrazia - oggi diremmo il modello di democrazia rappresentativa - forme di democrazia diretta, espresse dai movimenti di lotta che però si consolidano e si propongono di assumere anche la gestione diretta di pezzi della società, così via via riappropriandosi di un potere - per dirla con Lenin - «espropriato dallo Stato». Sì da costruire gli strumenti per ridurre l’autoreferenzialismo dei partiti, e l’arroganza dello Stato.

Negli straordinari primi anni del ’70, con i Consigli di fabbrica e poi di zona, è proprio questa ipotesi che fu riproposta nelle fabbriche dove la lotta aveva dato vita e vere forme di potere. Esperienze che purtroppo il PCI non capì e depotenziò, come del resto tutto fece con il ’68. Oggi quelle fabbriche non ci sono quasi più, ma ancor più feconda potrebbe essere questa ipotesi in rapporto a territori dove si intrecciano soggetti sociali frantumati e diversi, espressione di contraddizioni non omogenee. I consigli potrebbero essere organismi riunificanti, forme di organizzazione in qualche modo simili al «sindacato di strada» di cui Maurizio Landini ha parlato nel suo primo discorso da segretario generale della CGIL.

PCI

Guido Liguori

Quella scissione «alla livornese»

Il Partito comunista d’Italia - come inizialmente si chiamò il PCI, a significare che voleva essere una sezione dell’Internazionale comunista sorta a Mosca nel 1919 - ha la sua genesi nella Rivoluzione d’Ottobre e dunque nella Prima guerra mondiale, senza la quale la Rivoluzione russa non ci sarebbe stata, né si sarebbe determinata in Italia una situazione per molti versi esplosiva. Dopo la Grande guerra, infatti, gli equilibri sociali e politici erano cambiati.

I sacrifici patiti durante il conflitto, le promesse non mantenute (soprattutto quelle fatte ai contadini mandati in trincea), il calo dei salari reali degli operai, l’esempio e il mito della Rivoluzione russa: tutto ciò fece pensare a molti, in tutti gli schieramenti, che ci si trovasse in una situazione rivoluzionaria.

Anche il Partito socialista partecipò di questa convinzione, ma per gran parte del suo gruppo dirigente si trattò di un’adesione superficiale al clima del «biennio rosso» 1919-1920. Nella sinistra del Partito, invece, alcuni gruppi guardavano alla rivoluzione come a un evento non solo auspicabile, ma effettivamente possibile. Vi era la rivista Il Soviet di Bordiga, convinto che il solo soggetto rivoluzionario fosse un partito ristretto e ferreamente organizzato per sfruttare le contraddizioni economiche che avrebbero portato presto e inesorabilmente al socialismo.

E vi erano i torinesi dell’Ordine Nuovo di Gramsci, per il quale dovevano essere i Consigli di fabbrica, insieme al partito, i protagonisti di una rivoluzione da preparare sul piano sociale e culturale oltre che politico, prefigurando una nuova democrazia consiliarista e non più parlamentare.

La scissione di Livorno del 21 gennaio 1921, guidata da Bordiga - che per tempo aveva organizzato a questo scopo una frazione -, fu numericamente un fallimento. Al XVII Congresso socialista, dei 172mila votanti (su 215mila iscritti) gli «unitari» guidati da Serrati ebbero 98mila voti, i comunisti 59mila, i riformisti 15mila. Al nuovo Partito comunista aderirà solo un quarto degli iscritti.

La scissione alla livornese non piacque a Mosca e «non fare come a Livorno» divenne uno slogan diffuso ai vertici dell’Internazionale. La scissione era stata minoritaria a causa della rigidità e del settarismo di Bordiga, ma anche perché avvenne (come rilevò Gramsci) quando era già passata l’ondata rivoluzionaria, quando il movimento dei Consigli era stato sconfitto con la complice sordità di tutto il PSI, a eccezione dell’Ordine Nuovo. La fondazione del nuovo partito si era infine palesata inevitabile anche per Gramsci. Ma i ritardi accumulati sul piano organizzativo fecero sì che il suo peso risultasse, nei mesi e anni seguenti, inferiore a ciò che avrebbe potuto e dovuto essere.

La rigidità di Bordiga s’innestava in un’altra rigidità, quella delle «21 condizioni» che l’Internazionale aveva dettato l’anno prima ai partiti che volevano farne parte. Nel giro di pochi mesi però la situazione politica era mutata: svanita la speranza dell’estendersi della rivoluzione, Lenin aveva capito che non era più il tempo dell’offensiva, che bisognava consolidare le posizioni: veniva lanciata a livello internazionale la politica del «fronte unico» e, su quello interno, la Nep, il parziale ritorno al mercato.

Separatevi da Turati e poi alleatevi con lui, consigliava il capo bolscevico ai rivoluzionari italiani. Più facile a dirsi che a farsi: le scissioni lasciano odi e risentimenti. Bordiga poi, col suo settarismo, complicò le cose. Il correntone massimalista unitario di Serrati, che avrebbe voluto restare nell’Internazionale ma non espellere i riformisti, come richiesto dalle «21 condizioni», fu respinto. Nacque un Partito comunista piccolo, disciplinatissimo, ideologicamente rozzo e poco capace di fare politica. Tornato a Torino dal congresso, Gramsci si sfogò con Camilla Ravera dicendole: «Livorno, che disastro!».

I primi anni della gestione bordighista del Partito furono pieni di errori. Incapace di una «analisi differenziata» della situazione e delle forze in campo, Bordiga più di altri sottovalutò il fascismo, respinse l’invito dell’Internazionale a cercare l’unità coi socialisti, impedì persino ai militanti comunisti di unirsi agli Arditi del Popolo, che intendevano combattere gli squadristi con le armi.

Solo nel 1923-1924 Gramsci riuscì a prendere (con l’appoggio dell’Internazionale) la guida del Partito, ricreando in parte quel gruppo ordinovista che si era disperso: la rottura col «destro» Tasca era stata definitiva, mentre Terracini e Togliatti dovettero essere sottratti all’influenza della personalità di Bordiga e della sua impostazione politica e ideologica.

La critica gramsciana si indirizzò allora al «come» era stato costruito il Partito comunista (minoritario, settario, militarizzato), non certo alla fondazione del nuovo partito in sé - che restava per il comunista sardo, pur coi suoi limiti, il nucleo iniziale «di una più vasta formazione, di un esercito che, per servirsi del linguaggio storico italiano, possa far succedere la battaglia del Piave alla rotta di Caporetto».

La lotta interna contro Bordiga durò fino al 1925-1926. Nel gennaio 1926 a Lione vi fu un vero e proprio Congresso di rifondazione del Partito, ora guidato da Gramsci e Togliatti su una linea politica molto diversa da quella del «primo periodo» bordighista: un partito che (sia pure ancora con forti limiti di settarismo) guardava ai rapporti con le altre forze politiche e soprattutto era molto più attento alla presenza nelle fabbriche e nel Mezzogiorno, impegnato in quella «ricognizione del terreno nazionale», storica e sociale, necessaria per svolgere proficuamente la propria battaglia.

Ma ormai era troppo tardi, il fascismo aveva vinto. Nell’ottobre 1926 Gramsci venne arrestato. Nonostante tutti i suoi limiti ed errori, il piccolo partito nato a Livorno restò comunque l’unica forza attiva nel Paese per lottare contro la dittatura. E alla fine fu determinante per la «Vittorio Veneto» della democrazia.

PCI

Michele Prospero

Alla Bolognina si è chiusa la Repubblica

Prima ancora che i pezzi di muro lo graffiassero, il PCI aveva già subito una mutazione. L’inizio anagrafico del partito risale al gennaio del ’21. E al mito dell’ottobre è connessa la formazione del suo primo gruppo dirigente, per tanti versi eroico. Ma la nascita, per così dire, logica del soggetto politico è databile solo 1944. Il congresso di Lione e altre fantasiose ricostruzioni di oggi, suggerite pigramente dal Gramsci, c’entrano ben poco. [Si noti la diversità di giudizio rispetto all'articolo precedente. N.d.r.] Un partito clandestino in dottrina non è infatti considerato un vero partito, o lo è in un senso molto sui generis. Un organismo deve partecipare al voto competitivo, svolgere attività pubblica per essere una forma-partito.

È quindi il ’44, ovvero la lotta armata contro il nazifascismo e la ricostruzione dello Stato in virtù del moderno Principe, che segna la genesi reale del PCI da avanguardia combattente a partito con vocazione maggioritaria. Le categorie politiche del nuovo partito sono quelle messe a punto da Togliatti: rinnovato mito sovietico, che si proietta dalla epica trincea di Stalingrado all’armata rossa liberatrice che alza la bandiera con la falce e martello sopra Berlino, partito di massa, democrazia rappresentativa, elementi di socialismo graduali. Il realismo politico e il radicamento nella società, l’insediamento nella cultura alta e in quella di massa: questi sono gli ingredienti della giraffa. Capace di pubblicare Rinascita e Vie nuove, Società e il Calendario del popolo, il PCI sapeva come calibrare alto e basso, élite e massa, propaganda e pensiero.

Questo modello di partito, ideato nel ’44 per saldare classe dirigente e popolo, ha retto per quarant’anni e ha espresso un ceto politico di prim’ordine. La assorbente sintesi togliattiana, entro cui si distinguevano sensibilità plurali con differenziazioni anche accentuate come quelle sorte tra Ingrao e Amendola, che si affrontavano sul piano dell’analisi e però lo facevano nella condivisione dei pilastri di una stessa enciclopedia teorica, esplode negli anni Ottanta. Più che con la morte di Berlinguer è con l’elezione di Occhetto alla segreteria che il PCI subisce una irreversibile alterazione del marchio identitario delle origini.

Di recente Occhetto ha dichiarato che egli apparteneva, per cultura politica, a un filone molto eccentrico, eterodosso rispetto al ceppo togliattiano. E, in effetti, come leader ha rivoltato per intero il paradigma togliattiano, cercandone un altro. Da Togliatti a Flores, dal partito di integrazione alla cosa-carovana, dalle sezioni ai club, dalla democrazia che si organizza alla società civile che invia fax: ha tentato, da leader della discontinuità, una metamorfosi che va oltre la riarticolazione degli scopi, evoca una sostituzione dei fini, un altro sistema di credenze.

Quando Veltroni ha asserito che non è mai stato comunista in effetti, sia pure con il ricorso all’assurdo sotto il profilo della certificazione dell’itinerario biografico, diceva a suo modo una verità. Toccava anche a lui celebrare i sessant’anni dell’Ottobre al teatro Adriano o mostrare quanto meno di condividere gli altri riti dell’ortodossia rossa che andavano rappresentati in pubblico. Ma la generazione politica dei quadri del dopo ’68 non ha mai compreso o assorbito il nucleo del togliattismo, che poi è l’anima autentica del PCI. Il canone del realismo politico, secondo una retorica della svolta di Salerno concepita sempre più come un accomodamento furbesco, è stato recepito ma esso, depurato dalla strategia togliattiana di un cambiamento radicale della società, si riduce a semplice ambizione di carriera, a gioco tattico per alimentare incentivi di status.

Con la conquista del comando a Botteghe Oscure, questo nuovo gruppo dirigente non ha cambiato soltanto simbolo, nome, organizzazione. Ha destrutturato anche le «cose» che il PCI ha edificato lungo la storia repubblicana. Quando Occhetto ha inaugurato la «fuoriuscita dal sistema politico» ha intrecciato la rinuncia all’orizzonte del comunismo con la critica alla democrazia «consociativa» togliattiana in una miscela di elementi rivelatasi da subito, con il trionfo annunciato di Berlusconi, micidiale.

La Bolognina non ha soltanto spezzato il mito salvifico del grande salto, per cui ai militanti spaesati, e senza più la meta ultima promessa a chi viene da lontano e va lontano, tocca percepire che sanza speme vivemo in disio. La svolta ha avviato un’onda lunga che ha lesionato le strutture dell’organizzazione statale. A compimento della sua impresa Occhetto non a caso invocò la necessaria «rivolta profonda contro la società politica». Con la sua candidatura a dirigere «una alternativa al regime, non solo alla DC» aveva appiccato la miccia per far deflagrare ogni cosa.

Lo scioglimento del PCI, unito alla decapitazione giudiziaria e referendaria dei partiti storici, è stato l’elemento più traumatico dell’Italia repubblicana che ha finito per travolgere l’ordinamento, le culture, la società civile. Senza Partito, è ovvio, niente democrazia dei partiti, puro conteggio delle schede. E quindi, a conclusione della nefasta parabola discendente, da un sistema di partito in cui nei tempi migliori la sinistra alle elezioni aveva il volto di Berlinguer, De Martino, Magri e il centro moderato contava su Zaccagnini, La Malfa, Saragat, Zanone, oggi tocca scegliere tra Conte, Renzi, Salvini, Meloni. Una tragedia che affonda le radici anche nel sacrificio del PCI ordinato in nome della rimozione della democrazia bloccata.

Più che la nostalgia di ciò che è venuto a mancare, il sentimento di oggi dovrebbe essere ispirato a un senso di vergogna, nella accezione marxiana del concetto. «La vergogna è una sorta di ira che si rivolge contro se stessa. Chi si vergogna realmente è come il leone, che prima di spiccare il balzo si ritrae su se stesso». Per ricominciare un giorno a spiccare il balzo serve ritrarsi in un principio di vergogna per ciò che la chiusura del PCI ha provocato in una repubblica senza più una striscia di rosso e perciò sfregiata e irriconoscibile.

PCI

Andrea Fabozzi: intervista a Luciano Canfora

Togliatti, i cattolici, l’occidente. La lunga lezione della svolta

Non c’è alcun centenario da celebrare. È questo il dubbio che viene, una volta chiuso l’ultimo libro di Luciano Canfora - La metamorfosi (Laterza). Non solo non c’è più, da trent’anni, il partito che dovrebbe compierne cento, ma anche la data di nascita di quel partito comunista che fu andrebbe spostata in avanti, dal 1921 fino al 1944, fino al «partito nuovo» di Palmiro Togliatti.

Canfora, santifichiamo le feste e cominciamo dal Pcd’I, quello di Livorno. Nasce in realtà da una sconfitta, il “biennio rosso” e l’occupazione delle fabbriche.

La prospettiva della rivoluzione era del tutto irrazionale rispetto ai rapporti di forza. Anche se alle elezioni del novembre ’19, le prime con il suffragio universale maschile, il partito socialista aveva ottenuto un trionfo, la maggioranza assoluta e si proponeva di aderire alla Terza Internazionale. Il pomo della discordia con i comunisti, pienamente di casa nel partito, è il ventunesimo punto del Comintern, accettarlo avrebbe comportato l’espulsione dei riformisti: Turati, Treves, Matteotti.

È su questo che al congresso di Livorno non si riesce a trovare l’accordo. Turati dice a Terracini «Noi e voi vogliamo le stesse cose, ma la rivoluzione subito è sbagliata». Gramsci non interviene ed è profondamente deluso dalla scissione. Il programma degli scissionisti del Pcd’I è ultra rivoluzionario. Cito: «Il proletariato non può infrangere né modificare il sistema dei rapporti capitalistici di produzione da cui deriva il suo sfruttamento senza l’abbattimento violento del potere borghese». Pochi anni ancora e il problema sarà agire nella clandestinità, sopravvivere.

Quando Togliatti torna da Mosca nel ‘44 c’è una seconda fondazione?

Sì, a cominciare dal nome. Nel ‘21 è Partito comunista d’Italia, sezione della Terza internazionale. Il Pcd’I è un pezzo dell’internazionale che incidentalmente si trova in Italia. Partito comunista italiano con il tricolore nel simbolo vuol dire un’altra cosa. Il partito nasce veramente nel ’44 con una dimensione nazionale ed è il frutto della riflessione di Togliatti sul ventennio fascista. Riflessione che si nutre largamente dei Quaderni di Gramsci, anche se le Lezioni sul fascismo che Togliatti tiene a Mosca nel ’35 espongono tesi perfettamente in sintonia con quelle di Gramsci, che ancora non conosceva.

Partito nazionale italiano, eppure il Togliatti che sbarca a Napoli è a tutti gli effetti «l’uomo di Mosca».

Nel ’44 la base originaria del partito immagina di ricominciare dal ’26, da quando era stata costretta alla clandestinità. Per quella base Togliatti è un oggetto sacro. Ed è la sua forza, gli consente di imporre al partito di diventare una cosa completamente diversa. Anche perché nel frattempo il partito delle origini si è allargata a chi proveniva dalla lotta di liberazione o direttamente dal fascismo. Togliatti riesce a usare il suo carisma per una cambiare tutto, questo fa di lui un grande politico.

Professore, per lei al centro dell’azione di Togliatti c’è la ricerca del rapporto con i cattolici, pensiero già di Gramsci. Ma questa opzione strategica fallisce in soli tre anni, nel ’77 i comunisti vengono cacciati dal governo.

Non direi. Tenga presente che oggi, passati già trent’anni dalla fine dell’Unione sovietica, possiamo parlarne come storia antica. In questi decenni la storiografia ha assodato che è stata la guerra fredda a imporre nel ‘47 la rottura dell’unità antifascista. I fatti sono noti: l’ambasciatrice americana Boothe Luce che preme su Scelba perché metta fuori legge il PCI e Scelba resiste - parliamo di Scelba non di Dossetti! - De Gasperi si rifiuta di avvallare la lega elettorale anticomunista di Sturzo, con dentro i fascisti, e rompe anche con Pio XII. Tra De Gasperi e Togliatti, nonostante tutto, anche nella nuova divisione del mondo resta un filo di comunicazione che fa capo ai rapporti del 44-47.

Se in Italia i comunisti non sono stati messi fuori legge, com’è accaduto in Germania, e hanno potuto crescere fino a diventare quarant’anni dopo il primo partito italiano, questo è dovuto all’accettazione da parte democristiana di una condizione molto più articolata della semplice contrapposizione governo-opposizione. Nella sostanza l’ottica togliattiana è rimasta vincente. Quando Togliatti parla a Bergamo per la sua ultima campagna elettorale, quella del ‘63, dice che salvare l’umanità è un proposito comune di comunisti e cattolici. Nel preambolo del programma di Bad Godesberg della Spd c’è scritta la stessa cosa.

Togliatti polemizzò con quel programma. Ma secondo lei il Partito Comunista Italiano era in realtà già dal ’44 sulla rotta della socialdemocrazia?

Arrivarci era faticosissimo, ma già concepire un partito di massa e non di militanti rivoluzionari di professione significava aver cambiato l’identità. Un partito di massa è per forza riformista. In un certo senso il vero disastro della storia politica italiana è stata la scissione di Saragat che ha reso sconveniente un termine nobilissimo come socialdemocratico, il nome del partito di Engels e Marx, di Kautsky, di Rosa Luxemburg.

Questa linea riformista del PCI, la linea della democrazia progressiva, è la ragione per cui il partito si è fatto sempre sorprendere in una posizione di diffidenza verso i movimenti, per esempio nel luglio ’60 e poi nel ’68?

In realtà anche nel ’60 Togliatti agisce con molta intelligenza quando spinge per la tregua e per riportare la polizia nelle caserme. Lui sa che Tambroni sta perdendo l’appoggio democristiano e infatti da quella vampata genovese nella quale si ritrovarono tutti insieme Pertini, Parri, Longo, viene fuori quel centrosinistra che la destra DC e la destra americana volevano impedire. Gli equilibri politici dopo il luglio 60 si spostano in avanti, tanto che Togliatti era molto tentato dall’astensione rispetto al primo governo di centrosinistra.

E nel ’68?

Tutt’altra storia, parliamo di un movimento internazionale, molto più durevole e profondo. Da noi diventò fenomeno di massa e provocò la risposta eversiva della destra, da piazza Fontana al golpe Borghese. Il ’68 ha attraversato la società italiana cambiando dall’interno le forze politiche. Ha avuto un peso anche nella DC, Moro era interessatissimo al fenomeno e lo seguiva con occhio addirittura partecipe. Longo fece la scelta di aprire al movimento studentesco, quella che si rivelò inadeguata fu la Federazione giovanile comunista. Avrebbe dovuto intercettare, capire, al limite guidare i movimenti ma non fece nulla di tutto questo. Fu solo l’anticamera della carriera nel partito.

Lei descrive Berlinguer come un leader ondivago, ma è lui che nel ’73 porta l’opzione togliattiana del rapporto con i cattolici alle estreme conseguenze.

L’idea del compromesso storico era errata fin dalla sua formulazione. C’è poco da fare, la parola significa accordo di vertice. Magari l’intuizione era giusta, dopo il Cile gli USA hanno gettato la maschera e bisogna agire tempestivamente per evitare che Kissinger possa fare la stessa cosa in Italia. Togliatti però non avrebbe mai parlato di compromesso, ma di incontro con le masse cattoliche. Ammettiamo pure che sia stato solo un errore lessicale, che Berlinguer volesse dire una cosa diversa, ma allora perché dopo il pessimo risultato delle elezioni del ‘79 abbandona tutto, cambia e torna all’alternativa di sinistra?

A quel punto la DC è quella di Cossiga, Forlani e Andreotti; Moro è stato ammazzato e il compromesso storico è sepolto assieme a lui.

Che la battaglia criminale l’avessero vinta quelli che volevano fare fuori Moro non era motivo sufficiente per cambiare strategia. Abbandonando il compromesso storico Berlinguer lo smaschera come un tentativo strumentale. Fu solo il primo di una lunga serie di errori dell’ultimo PCI. Dalla questione morale, in pratica l’ammissione di non avere una linea politica, all’incapacità di fare un discorso serio sul finanziamento ai partiti durante la vicenda, tutt’ora oscura, di Mani pulite. Fino alla follia occhettiana di sciogliere il partito e all’appoggio alle leggi elettorali maggioritarie.

Professore, il suo libro precedente era dedicato all’Unione europea descritta come il trionfo del capitale finanziario. Un esito al quale può aver contribuito anche il disinteresse per l’Europa del Partito Comunista Italiano, magari proprio in conseguenza di quel carattere di partito nazionale di cui abbiamo parlato all’inizio. Berlinguer nel ’76 aveva tentato con l’«eurocomunismo», questo glielo riconosce?

L’eurocomunismo era solo una forma velata per alludere alla trasformazione del PCI, una declinazione dello strappo da Mosca, un modo per dire «noi con i sovietici non abbiamo più a che fare». Non c’entra niente con la nascita della Comunità europea né con la proposta di una linea politica alternativa a quella liberista che ha ispirato l’unificazione. Tenga conto che all’epoca della presidenza Mitterand i ministri del partito comunista francese, il principale e quasi l’unico interlocutore di Berlinguer, erano zelanti riformisti quanto e più dei socialisti. Rispetto all’Europa, mi lasci concludere ricordando che sono state l’Inghilterra e la Russia ad averla salvata prima da Bonaparte e poi da Hitler. Oggi Inghilterra e Russia sono entrambe fuori dall’Europa. Decisamente c’è qualcosa che non va.

PCI

Arianna Petrosino *

Luoghi collettivi per immaginare il mondo che verrà


Per chi oggi va a scuola o all’università quella del PCI è una storia lontana, che non abbiamo mai vissuto. Una storia che a scuola non si studia, che ritroviamo a volte nei racconti di compagni e compagne molto più grandi di noi, oppure che si fa memoria collettiva e sembra quasi scritta in alcune strade, in alcuni palazzi delle nostre città, ma che parla di un mondo che non esiste quasi più.
Negli ultimi decenni l’attacco neoliberista al welfare, al lavoro, ai luoghi e alle organizzazioni collettive ha consolidato l’idea che il conflitto di classe fosse qualcosa di stantio, da lasciar passare con il ’900, e che la società del nuovo millennio si sarebbe dovuta fondare sugli individui, sul merito, non certo su divisioni di classe e contrapposizioni.

Il ruolo pedagogico delle organizzazioni politiche, la necessità di condividere strumenti di lettura e alfabeti alternativi a quelli dominanti oggi non esiste quasi più, disertando sempre più il terreno dell’egemonia. L’idea della sezione come luogo di dibattito, formazione, organizzazione e militanza ha lasciato il posto a una politica piegata alla velocità del dibattito e al dogma dell’efficienza, che può fare a meno di presidi territoriali e spazi collettivi.
Gli ultimi spazi a resistere alla frammentazione estrema e restare luoghi collettivi sono stati le scuole, ed è a partire da qui che organizzazioni studentesche come l’Unione degli Studenti già da metà degli anni 90 hanno provato a immaginare un modo di fare politica in grado di sperimentarsi, di prendere il meglio dal passato, puntando lo sguardo al futuro e con i piedi nelle contraddizioni del presente.

Abbiamo sempre avvertito la necessità di spazi fisici, di sedi, non per sostituire le sezioni in cui per ragioni anagrafiche non siamo mai entrati, ma per rispondere a un’esigenza che continuiamo a sentire come nostra: quella di avere un luogo in cui incontrare chi vive la nostra stessa condizione, in cui, anche nella periferia del piccolo comune di una delle tante aree interne del nostro paese, fosse ancora possibile discutere di ciò che accade nel mondo, dei processi economici che lo animano, dei cambiamenti nella storia.

Luoghi in cui accompagnare all’analisi la pratica mutualistica, la socialità, la formazione, in cui costruire scuole di politica, dove coniugare la militanza quotidiana con la tensione a immaginare un mondo diverso da quello che abbiamo visto come unico modello da quando siamo nati. Esiste ancora la voglia di attivarsi, riconoscendo l’urgenza di un cambiamento di sistema per rispondere alle crisi del nostro tempo, costruendolo attraverso l’organizzazione collettiva e la condivisione delle lotte.

Un’esigenza che si scontra spesso con il vuoto, con l’assenza di progetti politici in grado di dare una visione organica e alternativa di società, capaci di non scendere a compromessi su analisi e radicalità e di parlare ai molti, di ricostruire le «connessioni sentimentali» senza le quali la politica resta distante e chiusa.

Non so se possiamo essere nostalgici di un’esperienza che non solo non abbiamo vissuto, ma che non abbiamo neanche mai incrociato. Credo però che alla nostalgia si possano sostituire la curiosità e una memoria in grado di farsi studio, conoscenza e immaginazione. E soprattutto la consapevolezza che anche nelle miserie del presente si possa costruire la possibilità di una politica e di un futuro diversi.

* Coordinatrice nazionale Rete della Conoscenza che raccoglie Unione degli studenti e Link