PCI

Antonio Gambino

Terremoto tra i comunisti


Per cinque giorni i dirigenti del PCI si sono dati battaglia nel Comitato Centrale
La replica degli uomini vicini a Giorgio Amendola

Quando nel pomeriggio di giovedì 28 ottobre 1965 i componenti del Comitato Centrale comunista rientrarono a via delle Botteghe Oscure per riprendere il loro dibattito, molti s'accorsero che una delle sedie del lungo tavolo della presidenza era rimasta vuota. Era quella di Pietro Ingrao. Senza far rumore il presidente del gruppo parlamentare del PCI a Montecitorio s'era infatti seduto in fondo alla sala, in uno dei posti dell'ultima fila.
Il Comitato Centrale comunista aveva cominciato i suoi lavori quarantotto ore prima, ascoltando, per cinque ore, la lettura delle centoventi pagine della relazione introduttiva del segretario generale Luigi Longo sulle tesi preparate in vista dell'XI congresso. Una serie di interventi monotoni aveva aperto il dibattito il giorno dopo. Ed egualmente privi d'interesse erano stati i discorsi della mattina di giovedì. Fino a che, pochi minuti prima dell'una, s'era alzato Pietro Ingrao. Sotto gli occhi di Gramsci e Togliatti, che lo guardavano dalle grandi fotografie appese alle pareti, il più giovane tra i cinque membri della segreteria del PCI aveva parlato solo per venti minuti. Le brevi frasi del suo discorso erano tuttavia tali da scuotere profondamente l'assemblea. Partendo dalla constatazione che il centro-sinistra non solo non dimostra segni di crisi, ma appare in grado di sopravvivere a lungo e perfino di conquistare larghi strati della classe operaia, Ingrao aveva chiesto in pratica ai suoi compagni di partito di riconoscere che la vecchia tattica del PCI, fatta di rivendicazioni indiscriminate e d'opposizione generica, era uno strumento di lotta inefficace e che quindi era necessario formulare un nuovo piano strategico. Se si voleva raggiungere questo risultato, il primo passo da fare immediatamente, era di abbandonare la concezione monolitica del PCI: solo attraverso un dibattito ampio in cui ognuno dei militanti s'assumesse la responsabilità delle proprie idee, si poteva infatti sperare di portare avanti una reale revisione ideologica.
La prima risposta ad Ingrao era venuta da Giorgio Napolitano, che lo aveva seguito alla tribuna. Napolitano, segretario regionale per la Campania, è da molti anni vicino alle posizioni di Giorgio Amendola. Nella sua replica appariva quindi per la prima volta, nei confronti del presidente dei deputati comunisti, un'accusa che nei giorni successivi sarebbe più volte risuonata nella grande sala delle riunioni di via delle Botteghe Oscure: quella d'aver usato alcuni aspetti criticabili delle tesi come un "pretesto" per attaccare il gruppo dirigente. Ma nel complesso, però, il tono di Napolitano era stato pacato; pur respingendo le idee di Ingrao le aveva esaminate con attenzione.
Longo e gli altri dirigenti del P ci non consideravano questo tipo di risposta sufficiente. Lo scontro tra Ingrao e la maggioranza della segreteria e della direzione era seguitato infatti per molti mesi.
Ora che s'era rivelato in maniera aperta, bisognava che l'intervento contro chi aveva rotto pubblicamente il fronte unico fosse estremamente deciso. In passato, quando era vivo Togliatti, sarebbero bastate poche sue frasi sprezzanti ad intimorire il dissidente e a farlo rientrare nei ranghi. Ora che il vecchio leader era morto, per ottenere lo stesso scopo era indispensabile che tutti i maggiori esponenti del partito agissero insieme con azione coordinata.
Per seguire lo sviluppo della polemica tra Ingrao e gli altri membri della segreteria, bisogna risalire alle settimane che precedono il Comitato Centrale della metà di giugno. In quel periodo, al centro del dibattito del PCI c'era il problema della formazione d'un nuovo partito unico della classe operaia. Durante tutto l'inverno se ne era scritto su Rinascita, se ne era discusso nelle sezioni. Infine, all'inizio di maggio, era stato deciso che la direzione intervenisse direttamente con un documento ufficiale, che stabilisse nelle sue linee essenziali la posizione del partito.
La stesura di questo documento non era stata impresa facile. Tutti i problemi della strategia comunista si collegano infatti con quello del partito unico; su ogni problema si constatava presto che le posizioni di Amendola e di Ingrao si trovavano spesso in aperto contrasto.
Dopo un mese, tuttavia, il lavoro era terminato e, approvato dalla direzione, il documento fu presentato al Comitato Centrale. Allora avvenne un fenomeno singolare: mentre Ingrao, con il volto imbronciato sedeva al tavolo della presidenza accanto agli altri membri della segreteria, alcuni componenti del CC notoriamente legati a lui prendevano la parola per criticare a fondo I'impostazione del testo in discussione. Al termine dei tre giorni di dibattito sette di questi dirigenti, infrangendo per la prima volta in questo dopoguerra il principio dell'unanimità delle decisioni, votavano contro I'approvazione del documento. Nonostante il silenzio di Ingrao, era il segno che quella che viene chiamata la sinistra del PCI era ormai decisa ad affrontare la battaglia con gli "amendoliani", la cui distinzione dai "centristi" riuniti intorno a Luigi Longo si andava facendo di settimana in settimana meno chiara.

Le accuse a Ingrao

Questa previsione s'avverò puntualmente quando, alla metà giugno, cominciarono i lavori della commissione incaricata di trasformare il documento approvato a maggioranza dal CC nelle "tesi" per l'XI congresso, fissato per gennaio. Il dissenso tra Ingrao e Amendola e la loro polemica si fecero talmente aspri e continui che dopo poche settimane fu deciso che entrambi uscissero dalla commissione, che, altrimenti, non sarebbe mai arrivata ad una conclusione.
Questa decisione migliorò solo di poco la situazione. I rappresentanti di Ingrao, e in primo luogo il capo delle federazioni pugliesi Alfredo Reichlin, seguitarono infatti a contestare sistematica mente le formulazioni approvate dalla maggioranza. Quando all'inizio di ottobre fu stabilito di chiudere i lavori per dare il tempo alla segreteria del partito di sottoporre le tesi al CC fissato per la fine del mese, si potè farlo solo preparando un testo carico di affermazioni vaghe e di frasi di compromesso e in molti casi ricorrendo al sistema di rivelare apertamente il contrasto che fino all'ultimo, su certi temi, aveva diviso la commissione. Anche in questa stesura, però, Ingrao non si sentì di sottoscrivere le tesi. Nella riunione della direzione che precedette di pochi giorni la convocazione del CC, egli tenne a sottolineare che considerava il documento solo come una base di discussione precongressuale e nulla di più.
Nonostante questa precisazione, gli altri membri della segreteria sembravano convinti, alla vigilia del CC, che Ingrao non avrebbe dato al proprio intervento il carattere d'una contrapposizione rigida e globale. Il discorso da lui pronunciato alla fine della mattina di giovedì, quindi, non solo li preoccupò ma suscitò la loro indignazione. Longo, Pajetta, Alicata e Amendola ebbero l'impressione di non trovarsi di fronte ad un compagno che contestava la saggezza delle loro decisioni e, se si vuole, metteva in pericolo le loro posizioni di potere, ma quasi ad un eretico.
La reazione doveva essere pari alla gravità del peccato e della minaccia che esso rappresentava. La tattica da seguire fu stabilita tra le due e le quattro di giovedì, nel corso d'un pranzo a cui, tranne Ingrao e Amendola, parteciparono gli altri componenti della segreteria e molti membri della direzione. Fu deciso di cominciarla ad applicare irnmediatamente, nella seduta di quello stesso pomeriggio.
Il primo ad accorgersi del cambiamento di tono e di atmosfera fu evidentemente Ingrao. Seduto in una sedia dell'ultima fila, egli intuiva che la parola d'ordine dei dirigenti della maggioranza doveva essere stata quella di non entrare nella discussione delle sue idee, ma di accusarlo di slealtà (come ha fatto Sereni, per aver prima approvato in direzione le tesi e poi averle criticate a fondo in CC), di frazionismo (ha detto Macaluso: «L'unica differenza tra il documento di giugno; che Ingrao ha difeso, e le tesi attuali, che Ingrao critica, consiste, per quanto riguarda la democrazia interna, nel fatto che nelle tesi abbiamo aggiunto una frase che condanna apertamente la formazione delle correnti: è questo che il compagno Ingrao non può accettare?» ), d'astrattezza («Quando io ero in galera», ha detto Giancarlo Pajetta, «io stavo a lottare con gli operai del nord, tu passavi il tempo a teorizzare».
Colombi, un anziano stalinista recuperato ora alla maggioranza, il rimprovero più grave, quello di attività antipartito: non solo, infatti, aveva raccolto da alcune riviste borghesi gli argomenti per definire non democratica la situazione interna del PCI, ma aveva cominciato ad applicare le sue nuove idee per conto proprio, distribuendo fuori del CC e del partito il testo del suo intervento.
La mattina dopo l'attacco si sposta sul piano politico. E qui la proposta più grave, per Ingrao e i suoi, è contenuta nel discorso di Gerardo Chiaromonte, un esponente comunista di Napoli molto vicino ad Amendola: la necessità di formare, dopo l'XI congresso, una direzione unitaria, non più divisa da incertezze e dissensi interni. Accanto alla minaccia politica continua tuttavia anche I'intimidazione personale: gli oratori favorevoli ad Ingrao vengono lasciati parlare davanti ad una sala semivuota (come accade a Rossana Rossanda) o vengono sistematicamente disturbati da interruzioni polemiche (come accade a Luigi Pintor). Il clima è tale che Vittorio Vidali, salito alla tribuna, dice ironicamente: «In passato ricordo che di tanto in tanto capitava nel nostro partito che con le pressioni e il richiamo alla disciplina si cercava di costringere un compagno che aveva sbagliato a fare l'"autocritica". lo stesso ho partecipato ad operazioni del genere. Poi alcuni dirigenti mi hanno spiegato che nel PCI il clima era cambiato e che certe cose non dovevano più avvenire. Mi meraviglio di vedere che proprio alcuni di coloro che mi hanno dato questa lezione applicano ora tali metodi nei confronti d'un valoroso compagno»
Nel pomeriggio di venerdì la situazione era ormai matura per l'intervento di Giorgio Amendola. Il suo esordio («Coesistenza pacifica, via italiana al socialismo, programmazione democratica, nuova maggioranza, partito unico dei lavoratori: questo è il contenuto delle tesi, questa è la linea generale del partito. lo sono col partito») è quello d'un vincitore. E il suo discorso, che non si limita ad accusare Ingrao di slealtà o d'astrattezza, ma contrappone alle sue critiche una visione strategica elaborata e complessa, è quello del vero leader della maggioranza. E da vero leader della maggioranza egli apre, ad un certo punto, il colloquio diretto con il suo avversario: dopo avergli sprezzantemente ricordato che nessuno «ha il diritto di presentarsi come il portabandiera della democrazia nel partito», gli dice: «anch'io, in passato, ho potuto commettere degli errori, so per esperienza personale quanto sia duro e amaro sentirseli rinfacciare e vedersi, per questo, isolato dai compagni. Ma in simili circostanze l'unica cosa da fare è avere la modestia di riconoscere subito le proprie posizioni sbagliate e ritrovare il contatto con il partito
È su questo problema dell"'atto di modestia" che lngrao dovrebbe compiere, che l'indomani mattina s'accende la discussione, non più al Comitato Centrale, i cui lavori sono stati sospesi per alcune ore, ma in una riunione della direzione. Per tre ore Longo, Arnendola e gli altri membri della segreteria cercano di convincere il presidente dei deputati comunisti a riprendere la parola di fronte al CC, e, in sostanza, a ritrattare le sue critiche. Le minacce e le parole dure (le stesse che Ingrao in passato aveva a sua volta usato nei confronti di taluni compagni dissidenti) non sono assenti da questo dialogo. Ma Ingrao rifiuta: spiega che voterà per l'approvazione delle tesi, ma che non ha nulla da aggiungere o correggere a quanto ha detto due giorni prima.
Il dibattito si trasferisce così, a tre mesi dall'Xl congresso, alla base del partito. L'unica possibilità di non essere schiacciato dalla maggioranza del Comitato Centrale è infatti per Ingrao quella di spiegare ai militanti comunisti l'esatto significato dello scontro tra lui e Amendola.

Visione saragattiana

Ciò che questi due uomini hanno in comune non è certo meno di quanto li divide. Sostenere che la loro differenza è nel desiderare (Arnendola) o respingere (Ingrao) la formazione d'un partito unico nel quale il PCI possa confluire, è altrettanto arbitrario quanto affermare che il primo rifiuta il riesame ideologico e democratico del PCI, la cui necessità è stata ora difesa, a grave rischio personale, dal secondo di fronte al CC. Chi conosce Ingrao lo ha sentito parlare, già da almeno due anni, della necessità d'una "costituente socialista "; e d'altra parte l'articolo pubblicato da .Arnendola su Rinascita lo scorso inverno, in cui si sosteneva il fallimento ideologico del comunismo non meno che della socialdemocrazia, era indubbiamente sincero.
Ciò che divide i due uomini è che Arnendola ritiene che questa trasformazione non possa e non debba essere fatta attraverso un processo di revisione critica, che rischierebbe solo di sgretolare il PCI, ma debba essere affidata alla evoluzione della situazione italiana, debba nascere dall'ammorbidimento della posizione del PCI, della sua capacità di non proporsi mete astrattamente rivoluzionarie ma di mantenersi strettamente legato alla realtà del paese e alle aspirazioni del lavoratori, e di combattere, ogni volta che è possibile, battaglie unitarie con le altre forze interessate a sconfiggere i gruppi conservatori. Sia pure con diversa accentuazione, Amendola sembra condividere, insomma, quella visione) che, dal suo maggior teorizzatore, è necessario chiamare "saragattiana": una visione secondo la quale la formazione d'un nuovo partito unitario della sinistra non si svilupperà, da un giorno all'altro, da un atto di volontà dei dirigenti, ma lentamente, dal progressivo accostamento delle forze
presenti sulla scena politica: e che questo partito, qualunque siano le caratteristiche iniziali, finirà necessariamente per assumere il carattere di forza d'opposizione e d'alternativa alla DC, in quanto le sue stesse dimensioni gli impediranno di rimanere a lungo in posizione di dipendenza.
Per Ingrao, al contrario, il partito unico potrà formarsi solo attraverso una profonda e radicale revisione ideologica, che proprio ai comunisti, come forza più consapevole, spetta di portare avanti.
Preso atto della durevolezza del centro-sinistra, egli ritiene necessario formulare un nuovo programma che non si proponga solo alcuni ritocchi limitati del regime neocapitalista ma contrapponga alla società del benessere una società qualitativamente diversa.
Queste diverse impostazioni spiegano gli attuali rapporti di forza tra i due esponenti comunisti. S'è detto più volte, nelle ultime settimane, che Amendola, con la sua capacità organizzativa e manovriera, era riuscito a mettere in minoranza il suo competitore. La realtà, piuttosto, è che la maggioranza del PCI s'è schierata spontaneamente intorno a chi, pur non rinunciando alla visione d'un rinnovamento (la cui necessità oggi nessuno nega), per ora lo invita alla cautela, alla difesa della tradizione, al patriottismo di partito, e fa apparire le trasformazioni future come il frutto d'una lenta evoluzione, d'una svolta indolore. Ingrao, che propone invece una rottura con il passato e lo sforzo d'una revisione ideologica, se vorrà uscire dall'isolamento in cui è stato spinto alla fine dell'ultimo Comitato Centrale, non avrà un compito facile.

 

l'Espresso, 7.11.1965