Francesco Benvenuti *

Le Russie del Novecento


Nello scorso secolo si sono succedute tre versioni della Russia, diverse per territorio, popolazione, sistema politico e ruolo internazionale: l'Impero russo (1709-1917), verso la cui fine si realizzò la sua massima espansione territoriale; l'Unione sovietica (1917-1991), che ne promosse la tumultuosa crescita economIca e ne assicurò la massima potenza militare e influenza politica nel mondo; e infine, l'attuale Federazione russa, nata dal crollo dell'Urss, che sotto ciascuno dei precedenti aspetti incarna la taglia minima tra quelle adottate dalla Russia in epoca moderna. La Russia non è mai esistita come Stato dei russi (etnicamente definiti) ma come parte di più ampie formazioni socio-culturali e statali, con le quali fino a tempi recenti i russi si sono storicamente identificati. Lo spazio originario di insediamento dei russi e il loro apporto alla cultura di tali formazioni erano più limitati, anche se difficilmente circoscrivibili.

A quelle formazioni statali essi hanno contribuito determinandone in modo decisivo la cultura e la composizione dei gruppi dirigenti. L'Impero e l'Urss hanno abbracciato non solo numerosi, diversi popoli ma anche civiltà diverse. L'immagine del centauro” russo”, frutto dell'ibridazione di “Europa” e “Asia”, si diffuse dentro e fuori l'Impero nella seconda metà del XIX secolo in contrasto con le idee del movimento slavofilo e panslavo, che poneva nella cultura etnica “slava” e nel cristianesimo ortodosso il nocciolo di un'identità monistica dell'Impero. Dopo la rivoluzione, all'idea della Russia che tiene dell'Europa e dell'Asia seguì, tra i circoli dell'emigrazione, quella dell'“eurasismo”, che alludeva ai massicci debiti che la cultura dei russi avrebbe contratto con quella turanica e persiana antica, soprattutto prima della conversione definitiva dei sovrani russi antichi al Cristianesimo (957).

Dotata di un territorio notevolmente più ristretto delle due precedenti, la Federazione russa attuale rappresenta il massimo sforzo di avvicinamento ad uno Stato-Nazione di cui la Russia si è dimostrata storicamente capace ma continua ad essere egualmente uno Stato multinazionale (20% di non-russi) ed uno in cui i nuovi ordinamenti politici democratici e federali rendono l'impatto politico dei non-russi superiore a quello da essi realizzato nella vecchia Urss centralistica. La Federazione russa è nata in un'epoca nella quale il fenomeno dello scambio e della contaminazione culturale si è fatto talmente intenso da rendere il termine “civiltà” incongruo e desueto: ma essa ospita ancora, oltre che una popolazione multiculturale, un buon numero di confessioni religiose. Una discutibile legge approvata dalla Duma nel 1997 (nonostante le perplessità del presidente Eltsyn) ha proclamato che la Federazione tutela quattro religioni, definite “tradizionali”: il Cristianesimo ortodosso, l'Islam, il Giudaismo e il Lamaismo. La legge ne ignora almeno altre quattro: il Cattolicesimo (storicamente presente in Ucraina e Lituania, oggi Stati indipendenti; e in espansione nella Federazione stessa) il Cristianesimo evangelico, il Cristianesimo uniate e il Paganesimo (nella Repubblica federale di Marii El, con una forte base etnica finnica; e presso diverse “piccole” etnie della Siberia.

Come al tempo dell'Impero, il linguaggio ufficiale dell'attuale Federazione russa è tornato a distinguere con due termini diversi i russi etnici (russkii) dai cittadini dello Stato russo (rossiyanin), laddove il regime comunista parlava elusivamente di “sovietici”, “popolo sovietico” e confinava il termine russkii al linguaggio degli storici e all'indicazione ufficiale sulla carta d'identità della nazionalità del portatore. Di conseguenza, l'Impero russo si definiva, in realtà, rossiiskii, come la Costituzione sovietica del 1918 definiva anche la prima versione dell'Unione (la Rsfsr: “Federazione socialista russa - rossiiskaya - delle repubbliche sovietiche”); e rossiiskaya si è voluta chiamare anche l'attuale Federazione post-sovietica. Allo stesso modo si erano definiti il “Partito operaio social-democratico russo” (fondato nel 1898) e la sua ala bolscevica quando, dopo la presa del potere, essa si denominò “Partito comunista russo” (1918). Nel 1925 il partito unico dell'Urss cambiò nuovamente il nome in “Partito comunista panrusso (vserossiiskii)”, con l'evidente intento di sottolineare ancora di più il carattere multietnico proprio e dello Stato che esso dirigeva. Nel 1952 ebbe luogo l'ultimo cambio di nome: “Partito comunista dell'Unione sovietica (Pcus)”.

Nei secoli XVII e XVIII, “Russia” era sinonimo in Europa di dispotismo e schiavitù. Dopo le guerre napoleoniche, a queste nozioni consolidate si aggiunsero quelle di Grande potenza militare e al tempo stesso di paese economicamente e socialmente arretrato; ciò che le guadagnò le simpatie di una parte significativa dell'opinione reazionaria e controrivoluzionaria europea. Il sistema politico autocratico russo era, in realtà, un assolutismo illuminato, anche se a illuminazione intermittente. Prima di precipitare nella sua ossessione di affermazione autocratica, nel terzo quarto del '500, lo stesso giovane Ivan IV (“il Terribile”) si era provato a dar vita a una forma monarchica temperata dalle leggi e dall'ordinamento cetuale. Il ciclo di intensa riforma nazionale rappresentato dalle innovazioni economiche, politiche e militari di Pietro il Grande, nel primo quarto del XVIII secolo, posero le basi dell'affermazione della Russia come grande potenza europea. Nella seconda metà del XIX secolo, dopo la grave sconfitta nella guerra di Crimea e la formazione della potenza tedesca, il governo imperiale cercò di conservarle il ruolo di grande potenza con un nuovo ciclo di riforme. Esso avviò la liquidazione prudente e non del tutto conseguente della sua arretratezza civile e sociale.

Dall'inizio degli anni 1890, la dinamica del cambiamento si intensificò in tutti i campi della vita interna della Russia, dando luogo a una gara di velocità tra due ordini di processi concorrenti. Da un lato, avanzava la modernizzazione e la europeizzazione (la graduale emancipazione civile della popolazione; uno sviluppo industriale sostenuto e la normalizzazione del modello economico di sviluppo; la crescita del movimento costituzionalista e l'inizio di una riforma del sistema autocratico; la maturazione di nuove coscienze nazionali nelle regioni non russe dell'Impero; la crescita dell'istruzione popolare e dell'alta cultura); dall'altro lato, processi regressivi e dissolutivi (lo scompenso tra le sue finanze e le sue grandi ambizioni internazionali, che si rifletterono in un'incongrua politica degli armamenti; la persistente distanza politico-morale tra paese reale e paese legale; la decisiva crisi di legittimità dell'autocrazia nello scorcio finale della sua partecipazione alla guerra mondiale; la resistenza dell'establishment zarista al costituzionalismo e al pluralismo politico e sociale; la destabilizzazione portata nella società rurale dalla riforma governativa del 1907-11, che con troppo ritardo e con troppa fretta cercò di diffondere la proprietà contadina individuale; il tentativo di eludere, o comprimere la pressione rivendicativa, civile e politica dei nuovi lavoratori industriali sull'ordine sociale e politico tradizionale dell'Impero, ancora semi-cetuale; il tentativo di neutralizzare, o combattere le crescenti tendenze all'autonomia culturale e amministrativa di alcune importanti regioni etniche, con tentativi spesso assai rozzi di trasformare l'Impero dinastico dei Romanov in un inedito “Impero dei russi”).

Il crollo dello zarismo, nel febbraio 1917, e la successiva dissoluzione della compagine multietnica e sociale imperiale significò che la sfortunata partecipazione russa alla guerra mondiale aveva creato le condizioni per la vittoria dei processi storici regressivi. Nella gravissima crisi di direzione politica, di autorità e di sicurezza nazionale che ne seguì, una temporanea coalizione radicale di lavoratori urbani, soldati e contadini di diversa condizione economica appoggiò il colpo di mano con il quale il partito bolscevico, si assicurò il potere in ottobre. La civiltà russa-imperiale fu inghiottita dalla rivoluzione e dalla guerra civile: non solo le obsolete strutture politiche autocratiche e la stagnante nobiltà russa ma l'insieme dei suoi gruppi economici e sociali dirigenti, le sue classi medie urbane, gli istituti embrionali di una società civile.

L'Unione sovietica, la versione della Russia creata da Lenin e da Stalin, la cui storia occupa la maggior parte del XX secolo, fu in parte guidata da una nuova agenda di obiettivi politici e in parte fece propria la scala di priorità dell'Impero di cui aveva preso il posto e di cui ereditò sia problemi, che ambizioni. La rivoluzione bolscevica si autogiustificò con l'intento di costruire sperimentalmente una società non basata sul capitalismo, sul mercato e sulle istituzioni del liberalismo (una società “socialista”) e di avviare una reazione a catena rivoluzionaria su scala mondiale, ispirata allo stesso ideale. Entrambi gli obiettivi si dimostrarono ben presto irrealizzabili. Il primitivo sistema economico del “comunismo di guerra”, ispirato alla duplice idea della militarizzazione economica e dell'egualitarismo redistributivo, consentì ai bolscevichi di vincere la guerra civile ma dovette essere abbandonato dopo che essi stessi lo riconobbero incapace di generare un incremento delle risorse economiche. L'ambiente internazionale negli anni '20, inoltre, era profondamente mutato rispetto all'anteguerra: ma non nel senso che i bolscevichi avevano pronosticato. Oltre a quello russo, altri tre Imperi europei si erano dissolti alla fine della guerra (austro-ungarico, ottomano, tedesco): ma in luogo di nuove formazioni statali socialiste sulle loro rovine erano nati Stati di orientamento socialmente conservatore e ideologicamente nazionalista. Nell'Europa occidentale, i risultati di democrazia e giustizia sociale che potevano essere ascritti alla sinistra nella decade postbellica, almeno in parte cospicua (l'alternanza al governo dei partiti socialisti; la repubblica di Weimar; nuovi progressi della legislazione sociale; l'allargamento del suffragio e, in particolare del suffragio universale) possono dirsi essere stati resi possibili anche dal fermento rivoluzionario prodotto dalla rivoluzione bolscevica in numerosi paesi, che stimolò una generale spinta alle riforme. Ma essi furono l'opera di partiti socialisti e organizzazioni sindacali ormai nettamente separati dal bolscevismo e addirittura di forze politiche non socialiste. Da nessuna parte si sviluppò una consistente tendenza rivoluzionaria. I risultati diretti della rivoluzione d'Ottobre si limitarono, così, alla creazione di un sistema di potere storicamente inedito in Russia e di una rete planetaria di partiti rivoluzionari ad esso legati. Si trattava pur sempre di fenomeni significativi, che avrebbero agito in profondità nella matrice storia del XX secolo. L'idea della dittatura monopartitica fu originalmente imitata dai fascisti italiani e tedeschi, che le aggiunsero i caratteristici elementi del reazionarismo e della dimensione di massa. In seguito, il messaggio della rivoluzione d'Ottobre sarebbe stato raccolto in Asia e nel mondo coloniale e arretrato, sia pure con l'interessante eccezione dell'Italia e della Francia dopo la seconda guerra mondiale. Fu questo un adattamento cruciale spontaneo della rivoluzione bolscevica all'ambiente storico planetario del '900: ma esso segnò anche una mutazione genetica del comunismo: da tendenza del socialismo europeo a corrente del nazionalismo rivoluzionario e modernizzatore.

Dopo gli anni in cui il nuovo organismo sovietico lottò per la propria mera sopravvivenza (1918-1921), seguì un periodo di consolidamento della dittatura monopartitica, accompagnato da concessioni alle forze di mercato, alle aspirazioni nazionali delle popolazioni dell'ex-Impero e all'esigenza di coesistere per un tempo indefinito con un ambiente internazionale che ripagava ampiamente i bolscevichi dell'ostilità che essi dimostravano verso di esso (gli anni della Nep, 1921-1928). Furono anni di incertezza, aggravata dalla scomparsa di Lenin (1924). Il suo enigmatico “testamento” non fu di grande utilità al partito. In esso si poteva scorgere l'inizio di una revisione delle ipotesi strategiche e delle ambizioni originarie del bolscevismo, sia sul piano nazionale, che internazionale: in particolare, il rinvio a tempo indeterminato dell'attuazione del programma comunista in Urss e l'allontanarsi della prospettiva della rivoluzione internazionale. Alcune personalità bolsceviche cercarono di delineare varianti diverse e originali di sviluppo socialista per la Russia: ma da questa ricerca non uscì una prospettiva politica condivisa che tenesse adeguatamente conto dell'esperienza storica. Avvenne così che, invece di una nuova strategia economica realista e gradualista, fondata sul reinserimento della Russia nel sistema internazionale e del bolscevismo nell'ambito del socialismo europeo, finì con il passare la strategia neo-rivoluzionaria di Stalin (1929-1953), che dalla smentita storica dei presupposti teorici leniniani della rivoluzione d'Ottobre traeva conseguenze politiche di segno opposto. Dal momento che l'unica carta in mano del bolscevismo era il sistema della dittatura in Russia, si trattava di rafforzarla quanto più possibile, dotandola di grandi risorse economiche e militari, in attesa di una nuova occasione storica nella quale essa potesse agire da grande protagonista su scala mondiale. Era questo il ruolo al quale il bolscevismo aveva aspirato ma che non aveva propriamente giocato nel 1917-1923 (l'anno dell'ultimo conato rivoluzionario in Germania).

A questo fine fu lanciata in Urss una travolgente industrializzazione accelerata. La società contadina fu mutilata del suo settore sociale più promettente (l'economia kulak) e sottoposta stabilmente alla sfruttamento economico da parte dello Stato. Infine, fu introdotto un regime politico propriamente totalitario. Lo Stato assorbì la società e l'attività economica, intellettuale e spirituale della popolazione fu drasticamente subordinata all'obiettivo di ricostituire la Russia in una grande potenza di nuovo tipo.

Forse, nella storia contemporanea, nessun altro paese al mondo presenta nello scorso secolo una sequenza storica di sconvolgimenti così intensa e drammatica e un così alto numero di perdite umane, sia in tempo di guerra, che di pace. Nel XX secolo la Russia ha conosciuto due guerre mondiali, da entrambe le quali è emersa dissanguata e devastata. Per ben due volte è incappata in una sorta di vicolo cieco. Nel 1905-1917 non riuscì a completare l'integrazione politica, civile e nazionale della sua popolazione; e la seconda, la perestroika di M. Gorbachev fallì nel suo tentativo di adattare un regime comunista ormai senescente all'ambiente storico di fine secolo. In questo torno di tempo la Russia ha conosciuto, inoltre, una sanguinosa guerra civile (1918-1920) e un lungo ciclo di repressioni e deportazioni di massa (1929-1953), che rappresentano la parte più significativa del pesante contributo sovietico ai crimini contro l'umanità commessi nel XX secolo; tre micidiali carestie (1922, 1932-33 e 1946), la seconda delle quali provocata dalla politica economica del suo stesso governo; due guerre limitate (Giappone, 1904-1905; Afghanistan, 1980-1988); l'antisemitismo ufficiale violento dell'ultimo quarto di secolo di vita dell'Impero e quello, sistematicamente discriminatorio, degli anni 1952 e successivi al 1967; la guerriglia basmach in Asia centrale, nella prima metà degli anni '20; le guerriglie separatiste in Ucraina e in Lituania dopo la Seconda guerra mondiale; le due recenti guerre cecene (1994-96, e 1999); due operazioni di polizia neo-imperiale, politicamente disastrose (Ungheria, 1956; Cecoslovacchia, 1968); e infine, una crisi economica nazionale (1988-1998) dalle proporzioni inaudite nel mondo industrializzato dopo la Grande depressione.

Nel corso di una tale tragica sequenza storica, la Russia è riuscita a conseguire anche rilevanti risultati. Per una parte cospicua di questi, piuttosto che di successi “nazionali”, lo storico dovrebbe più prudentemente parlare di successi del bolscevismo: di essi beneficiarono maggiormente il partito comunista sovietico e il comunismo internazionale (e forse, alcune tendenze generali di progresso nel resto del mondo), che non i popoli e i cittadini dell'Unione sovietica. Tali risultati consistono nella prolungata preservazione (eccezionale, in un quadro comparativo) della compagine etno-culturale imperiale; la continuazione a ritmi accelerati dell'industrializzazione del paese, una forma particolare di modernizzazione e la rapida diffusione dell'educazione media e superiore (1929-1939), che ispirarono forze nazionaliste e socialisteggianti in Asia, nel mondo arabo e in Africa; la vittoria contro il nazifascismo (1941-1945), in alleanza con gli Stati Uniti d'America e con la Gran Bretagna; l'acquisizione dello status di superpotenza nell'ordine internazionale “bipolare” (1945-1989), sorretto dal controllo militare e politico dell'Europa orientale (a partire 1948) e dal raggiungimento della parità nucleare con gli Stati Uniti (1970); un periodo di stabilità e di relativo benessere popolare al tempo di L. Brezhnev (1964-1982), preparato dalle riforme di N. Khrushchev (1953-1964); la dimissione del sistema totalitario dello stalinismo (1953) e, infine, della stessa dittatura monopartitica (ad opera di M. Gorbachev e B. Eltsyn, 1985-1991), che ha aperto in Russia l'epoca della democrazia e del ritorno al mercato e alla cultura mondiali.

Verso la fine del XX secolo queste realizzazioni non costituivano più una garanzia che l'Urss potesse mantenersi nel nuovo ambiente storico mondiale succeduto a quello in cui essa aveva preso origine e si era affermata. Si sviluppò una crescente tensione tra i pilastri della sua potenza (il sistema autarchico ed “estensivo” dell'“economia di comando”; la struttura nazionale “neo-imperiale”; la dittatura monopartitica) e le nuove forze storiche internazionali dell'interdipendenza economica e politica e della rivoluzione tecnologica permanente (che gli ordinamenti sovietici non erano in grado di sfruttare) e le sue prospettive di prosperità in futuro. Il persistere dell'isolazionismo politico, culturale ed economico del paese, originatosi con lo stalinismo, equivaleva ad una confessione di non competitività sui nuovi mercati planetari dell'economia, della politica (incluso il campo delle attuali concezioni del socialismo) e della cultura. Riprendeva il fenomeno del ritardo storico della Russia nei confronti dei paesi avanzati. Di conseguenza, da un certo momento in poi, agli occhi di molti russi i risultati conseguiti nel periodo sovietico apparvero sproporzionati ai sacrifici subiti dalle precedenti generazioni e alle limitazioni civili e materiali di cui essi ancora soffrivano. Il dramma dei russi e dei sovietici degli anni della riforma (la perestroika, 1985-1991) è stato che i risultati conseguiti dal comunismo nel loro paese si rivelarono, in parte, insufficienti alla costituzione di una base adeguata per la riforma; e in parte, veri e propri ostacoli alla sua attuazione: di qui il crollo finale.

La Russia attuale è una formazione statale non ancora definitivamente stabilizzata. Dopo il 1991, tra i suoi 89 “soggetti federali” (repubbliche, regioni, regioni autonome) si sono manifestate tendenze autonomistiche che spesso si collocano oltre il limite superiore del margine di sovranità che una federazione democratica può ragionevolmente consentire ai suoi membri, senza rischiare la dissoluzione. Se a questa circostanza si aggiungono i fenomeni della frammentazione del mercato interno, dell'esposizione dell'economia del paese ai flussi economici speculativi dell'ambiente internazionale (come avvenne nella crisi del 1998) e infine, della scarsa coesione del governo centrale, nella seconda metà degli anni '90 l'osservatore di cose russe poteva essere colto dalla sconcertante ipotesi che, dopo tutto, la conversione ritardata della Russia al capitalismo, alla democrazia e al rifiuto della dimensione imperiale avrebbe potuto guadagnare una forza d'inerzia tale da travalicare in tempi relativamente rapidi la tappa della costituzione di uno Stato e di un mercato di tipo nazionale, per saltare in un'imprecisabile e sconcertante dimensione di tipo economicamente e politicamente transnazionale: nel caso peggiore, una galassia di “repubbliche delle banane”, squassate dalla speculazione finanziaria internazionale e da un cronico disordine interno.

Per quanto concerne la sua posizione nell'ambito delle relazioni internazionali, la modesta dimensione economica della Russia post-sovietica è ancor oggi lungi dall'assicurarle automaticamente un posto di rilievo negli affari mondiali. Anche la sua attuale panoplia militare (persistenza di un arsenale nucleare di tutto rispetto ma drastico indebolimento dell'armamento e della capacità di intervento convenzionali) non è più spendibile politicamente al modo in cui lo era il potenziale militare (nucleare e convenzionale) di cui disponeva l'Urss nel quadro del sistema internazionale bipolare (1945-1989). In particolare, in quanto interlocutore politico e diplomatico la nuova Russia è rapidamente scivolata fuori del campo visivo degli Stati Uniti.

Anche la sua nuova geografia la penalizza. La Federazione russa risulta decisamente settentrionalizzata rispetto all'Unione e all'Impero, con la conseguenza di una sua marginalizzazione logistica e strategica nel continente eurasiatico. L'indipendenza delle cinque repubbliche dell'Asia centrale ha gettato un'ombra sulle sue prospettive di partecipazione al sistema di comunicazioni internazionali terrestri che viene delineandosi lungo il corridoio medio-orientale/centro-asiatico. La fine del comunismo in Europa orientale ha spostato verso Est la frontiera dell'“Occidente” e il distacco di Moldavia, Ucraina, Bielorussia e Paesi baltici ha simultaneamente allontanato la frontiera russa dal centro dell'Europa. La larga fascia di regioni russe che ancorano il centro-nord storicamente russo al Caucaso svolge, evidentemente una funzione essenziale di intercettazione di una parte almeno delle comunicazioni tra l'Asia centrale e l'area mediterranea ed europea.

Le speranze del primo corpo diplomatico post-sovietico di riacquistare rapidamente una qualche influenza sostanziale sui paesi della Comunità degli stati indipendenti (Csi: l'associazione assai elastica che dal dicembre 1991 riunisce formalmente molte repubbliche dell'ex Urss, meno i paesi baltici), sono finora andate deluse. Con la “rivoluzione arancione” (gennaio 2005), l'Ucraina ha voluto compiere un'implicita dichiarazione di uscita definitiva dal campo gravitazionale russo, anche se non è chiaro se essa abbia le basi economiche e il consenso interno sufficienti per una tale politica (e la zona a oriente del fiume Dnieper è di cultura prevalentemente russa). In Asia centrale, presso le repubbliche dimostratesi più restie ad abbandonare l'Urss al momento del crollo, quel tanto di formale legame comune rappresentato dalla Csi è insidiato sia dal manifestarsi di fenomeni di destabilizzazione politica (la “rivoluzione dei tulipani”, in Kirgyzstan e i moti di Andjon, in Uzbekistan, nella prima metà del 2005, sanguinosamente repressi), sia dal timore che la stessa Csi possa divenire veicolo di pressioni per la liberalizzazione di quei regimi politici (l'autosospensione dell'Uzbekistan dalla Csi, nel 2002; e l'autorecessione da membro a “membro aggiunto” della Csi da parte del Kazakhstan, nell'agosto 2005).

La presenza del corpo di spedizione multinazionale autorizzato dall'Onu in Afghanistan (2001) è stato così un mixed blessing per la Federazione russa. Con la sua partecipazione a tale impresa, essa si è visto riconoscere dagli organismi internazionali e dagli Stati Uniti un qualche ruolo superstite nella supervisione degli affari dell'Asia centrale ma non l'esclusività delle operazioni di peace-keeping che si rendessero qui necessarie, alla quale aspirava. D'altra parte, la presenza delle forze della coalizione ha ufficialmente portato importanti vettori militari dell'influenza statunitense (una base militare in Uzbekistan) in un'area dove essa era stata, dalla fine degli anni '70 in poi, solo molto indiretta (il sostegno clandestino alla resistenza anti-russa afgana). In base ad un recente accordo con il nuovo establishment politico insediatosi in Georgia dopo la “rivoluzione delle rose” (2003), la Russia smobiliterà le due basi militari concessele a scopi di peace-keeping agli inizi degli anni '90 in Abkhazia e nell'Ossezia meridionale. Non esiste, inoltre, in Russia, alcuna profonda pulsione “eurasista” che la spinga fatalmente verso una “comunità di destino” con l'India, l'Iran, o la Repubblica popolare cinese: come argomentavano, in modo erudito ma incorreggibilmente fatuo, alcuni profeti autoctoni di una grandeur russa post-sovietica (tra i quali l'istrionico V. Zhirinovskii). Esistono, invece, circostanze di natura politica, strategica e geopolitica alla base del prudente ma crescente rapprochément cino-russo dell'ultimo decennio, culminato delle manovre militari congiunte dell'agosto 2005; e nel simultaneo appoggio prestato da Russia e Cina alla richiesta rivolta dal presidente uzbeko Karimov agli Stati Uniti di sgombrare al più presto la loro base in questo paese.

La Russia è oggi impegnata a completare una transizione senza precedenti dalla dimensione imperiale a quella nazionale, dagli ordinamenti del comunismo sovietico alla democrazia e alla società di mercato. Questa strada fu aperta dalle riforme dell'ultimo segretario del Pcus, Gorbachev nel 1985-1991 e dopo di lui è stata percorsa dai presidenti B. Eltsin (1991-1999) e V. Putin. È una strada che nel complesso è stata percorsa con successo anche se ha richiesto, e richiede ai russi (ancora una volta nella loro storia…), grandi sacrifici: un considerevole impoverimento materiale e culturale, un penoso sforzo di adattamento alle nuovi condizioni di vita e di lavoro, gravi conflitti etnici e politici. Si stima che, alla metà degli anni '90, almeno un terzo della popolazione vivesse sotto la soglia di povertà e che la durata della vita media delle donne e degli uomini, già bassa in epoca tardo-sovietica, continui a scendere.

La struttura economica formatasi dopo il crollo sovietico rappresenta una sfida alla capacità analitica degli economisti. Un'ideologia iper-liberista, ispirata alle severe (e largamente incongrue) ricette di ricostruzione economica dell'IMF e alle dottrine del Washington Consensus, ha favorito l'assenza di regole e di istituzioni economiche (cui solo da poco si è posto rimedio) e un'anomala sproporzione nella distribuzione sociale della ricchezza. Un'impressionante influenza economica e politica è venuta a concentrarsi nelle mani di un ristretto gruppo di “oligarchi”, uomini d'affari emersi dalla privatizzazione e dalla marchetizzazione, provvisti di cospicue entrature governative e, fino a qualche anno fa, di una forte presenza proprietaria nel campo dei media. Inoltre, il tentativo di effettuare la “transizione” riducendo i sacrifici (in parte, inevitabili) per la massa della popolazione ha portato i primi governi post-sovietici a cercare di eludere le misure richieste dagli occidentali e a favorire la conservazione di alcune caratteristiche della vecchia organizzazione industriale statalista: un marcato assetto monopolistico, un forte condizionamento della gestione di numerose aziende privatizzate da parte dei dipendenti, un alto grado di influenza dello Stato sulle aziende nella forma del possesso diretto di pacchetti azionari e la permanenza di una politica dei sussidi statali mascherata.

Il modo in cui è venuto formandosi il sistema politico post-sovietico ha dato luogo alla preminenza al suo interno della figura del Presidente, grazie all'attribuzione ad esso di un'influenza sulle istituzioni legislative, giudiziarie e amministrative sconcertante nel confronto con i sistemi presidenziali occidentali. Al tempo di Eltsyn, sotto la pressione di esigenze di stabilità politica e della priorità di prevenire un ritorno del vecchio regime, la nuova macchina statale ha funzionato in modo di trasformare il vecchio dirigismo integrale sovietico in un sistema discrezionale di aiuti governativi alle nuove imprese sia private, che ancora statali, senza che il governo nutrisse eccessivi scrupoli per le opportunità che un tale sistema creava alla diffusione di illegalità, corruzione, criminalità e indebita influenza privata sulla politica.

L'inizio del XXI secolo ha colto la Russia post-sovietica a uno snodo difficile del suo cammino. L'amministrazione Putin appare determinata a costruire uno Stato autorevole, come quadro per il compimento della transizione del paese verso la democrazia e l'integrazione della Russia nel mondo; e a correggere gli squilibri civili, politici ed economici stabilitisi sotto la presidenza Eltsyn, la cui condotta è stata improvvisata ed eccessivamente condizionata da una miriade di interessi particolaristici. Putin afferma di operare per conferire allo Stato una nuova robustezza e una nuova funzione regolatrice, intesa a prescrivere un funzionamento ordinato e legale alla struttura economico-sociale emersa dalla privatizzazione e dalla liberalizzazione dei primi anni '90. Lo scopo è di farle compiere il passaggio dalla caotica fase rivoluzionaria della formazione di una economia di mercato civilizzata a quella del suo funzionamento a regime. Infine, egli ha inteso a correggere i minacciosi fenomeni del “federalismo asimmetrico” e del “federalismo segmentato”, che rappresenta una ulteriore forma di degenerazione del principio federale: l'attribuzione ai “soggetti federali” di prerogative diverse, a seconda del potere contrattuale dimostrato da ciascuno di essi nel corso di crudi negoziati politici con il centro della Federazione. Si tratta di un sistema federativo assai eccentrico, evidentemente incostituzionale, adottato originariamente da Eltsyn per cercare di riassorbire le forti spinte autonomistiche (spesso al limite dell'indipendentismo) manifestate lungo tutto il corso dell'ultimo quindicennio da numerose regioni e repubbliche, sia a base etno-culturale russa che non-russa.

L'intento di Putin di portare ordine ed equità nella vita amministrativa, economica e sociale sembra talvolta suggerire motivazioni politiche di tipo autoritario. Dopo l'attentato di Beslan (settembre 2004), al culmine di anni di atti terroristici che hanno sanguinosamente colpito la stessa Mosca, il parlamento ha approvato due disegni di legge presidenziali che diversi osservatori interni e internazionali hanno giudicato come misure minacciose per la democrazia. I governatori delle regioni della Federazione non saranno più eletti a suffragio popolare (come è avvenuto dalla metà degli anni '90) ma designati dal Presidente, sulla base di una consultazione preventiva con i rappresentanti delle assemblee legislative locali. La legge elettorale per le consultazioni politiche federali, che finora divideva equamente i seggi alla Duma tra eletti in collegi uninominali e sulla base del voto di lista, è stata mutata in senso integralmente proporzionale, corretta da una soglia di ben il 7%. La legge prevede anche requisiti assai esigenti per le liste al momento della registrazione. Putin ha giustificato tali provvedimenti con l'esigenza di rafforzare l'integralità dell'amministrazione statale nel suo insieme e di accelerare la formazione di grandi partiti politici nazionali, più compresi del senso degli interessi nazionali di quanto non si dimostrerebbero diversi partiti attualmente esistenti. Si spera, così, di liquidare la tendenza del corpo elettorale a disperdere gran parte del voto tra candidati “indipendenti”, scarsamente responsabili, e una miriade di piccole formazioni particolaristiche e lobbiste. I critici interni e internazionali di Putin fanno anche osservare che la lotta agli oligarchi da parte dell'amministrazione presidenziale ha avuto l'inquietante conseguenza di concentrare la proprietà dei media elettronici nelle mani dello Stato; e che le severe forme con cui il segreto di Stato è tutelato in Russia ha già dato luogo a vistosi episodi di violazione della libertà di informazione, soprattutto in relazione alla guerra in Cecenia. Infine, proprio in Cecenia le forze militari e di polizia federali si sarebbero rese colpevoli negli ultimi anni di una sistematica e indiscriminata violazione dei diritti umani, ai danni della popolazione civile autoctona.

In Russia e fuori di essa ci si chiede se la strada delle trasformazioni democratiche e di mercato sia stata percorsa fino in fondo, fino alla realizzazione di una piena corrispondenza dei nuovi assetti economici e politici russi a quelli dell'Europa: cioè, allo spazio civile e culturale del mondo attuale al quale i russi e la loro classe politica sentono appassionatamente di appartenere; oppure, se la nuova Russia, soprattutto sotto Putin, non abbia ormai già imboccato una via di sviluppo diversa da quella europea, in una preoccupante alternanza tra anarchismo e autoritarismo: una via di sviluppo marcata da peculiari distorsioni storico-nazionali, che le attuali forze di governo russe potrebbero essere tentate di legittimare in chiave eccezionalista ed autarchica, di tipo nazionalista. Nelle preoccupazioni di qualche osservatore, sia interno che straniero, una tale propensione potrebbe far blocco con una tendenza auto-assertiva nel campo delle relazioni internazionali che, originatasi nella classe politica eltsyniana della seconda metà degli anni '90, si sarebbe sviluppata in questi ultimi anni nell'aspirazione a ricostituire per la Russia un vero e proprio status di grande potenza, regionale o globale, velleitariamente incline a porre in discussione l'egemonia politico-militare degli Stati Uniti.

In realtà, la Russia non è ancora al riparo dalle tentazioni difensive tipiche dell'era della globalizzazione: essa è ancora alla ricerca della politica ottimale che le consenta di integrarsi nell'economia e nella politica mondiali senza mettere a repentaglio la propria esistenza come Stato nazionale. Il problema è quello di conferire allo Stato russo una nuova efficienza e compattezza, senza che esso entri in contrasto con gli standard democratici universalmente accettati e senza l'adozione di una protezione anacronistica e controproducente contro i flussi economici e politici internazionali. È perciò una circostanza importante che, dal maggio 2004, la Federazione russa sia membro del Wto.

Anche lo sforzo di ricerca di una nuova collocazione del paese nell'ambito delle relazioni internazionali, al tempo stesso cooperativa e rispettosa della dignità nazionale russa, è stata spesso percepita dagli altri Stati e dagli osservatori internazionali come velleitaria e perfino revanscista. La logica delle attività anti-terrorismo e anti-guerriglia dell'esercito federale nella Repubblica della Cecenia, parte della Federazione, spingere l'amministrazione Putin su di una posizione simpatetica per le ragioni dell'unilateralismo statunitense in Iraq. Ma su di un piano più vasto, essa è in realtà preoccupata da questo stesso unilateralismo, che vorrebbe vedere corretto da un maggiore ruolo delle Nazioni unite. A chi vorrebbe sottoporre la questione cecena a qualche forma di arbitrato internazionale (Osce) e a chi consiglia un atteggiamento politicamente più attivo verso la guerriglia separatista, Putin replica che la Cecenia è ineccepibilmente affare interno della Stato russo; laddove, egli contrattacca, la guerra irachena è fatto internazionale e perciò soggetto al diritto internazionale. Il senso della debolezza della propria posizione internazionale e, forse, un'eredità più o meno consapevole della cultura politica sovietica, ha reso i governi russi post-sovietici diffidenti verso la metodologia dell'intervento politico e militare internazionale nel nome di obiettivi umanitari o politici-universali, alla quale Stati Uniti e Unione europea sono più volte ricorsi dopo la fine della guerra fredda (l'operazione Desert Storm; quelle in Bosnia, 1994-95, e in Kossovo, 1999). Tuttavia, un atteggiamento non critico è stato da essi tenuto verso Restore Hope, sotto egida Onu, e verso la formazione della coalizione militare anti-talibana del 2001 in Afghanistan, della quale la stessa Federazione ha voluto far parte.

La dottrina della sicurezza internazionale che ha cominciato e prendere forma al tempo della conduzione degli affari esteri della Federazione da parte di E. Prymakov (1996-1998) e sviluppata sotto la presidenza Putin è fortemente anti-unipolarista e anti-unilateralista. È in questo spirito che oggi la Russia chiede il ristabilimento e il rafforzamento del ruolo dell'Onu nel mantenimento dell'ordine internazionale, pur essendo aperta all'ipotesi di una riforma del Consiglio di sicurezza. Fino dalla metà degli anni '90, i governi russi hanno difeso risolutamente il principio della sovranità nazionale anche nei casi nei quali la comunità internazionale avesse a che fare con i paesi indicati dagli Stati Uniti come rogue States, o che sono ansiosamente monitorati da agenzie internazionali con diverse competenze. La Russia sta attualmente giocando un ruolo di mediazione tra di esse e la Corea del Nord in un negoziato la cui posta è la garanzia che l'energia nucleare qui prodotta sia esclusivamente impiegata a fini civili: un ruolo nel quale essa sembra essere stata recentemente sopravanzata dalla Cina. Dalla seconda metà dello scorso decennio essa difende il proprio diritto di fornire tecnologia nucleare all'India e all'Iran, nel quadro dei normali rapporti commerciali esistenti con questi paesi, affermando che non esisterebbero le prove per stabilire se questa forma di dual technology venga effettivamente sviluppata da questi paesi a scopi militari.

Le metamorfosi della Russia nel XX secolo hanno suscitato ondate di interesse di diversa natura. Qui ci limiteremo a richiamare solo quelle che hanno avuto luogo dalla seconda guerra mondiale ai nostri giorni.

Con rare eccezioni, gli studiosi che si occupavano dell'Impero russo costituivano un campo storiografico affatto diverso da quello dei “sovietologi”, segnalando in tal modo la peculiare temperie intellettuale e morale della guerra fredda. La rivoluzione d'Ottobre era considerato dai primi uno spartiacque non solo storico-politico ma morale, spingersi oltre il quale avrebbe comportato il rischio di una vera e propria compromissione con l'ideologia e la politica del bolscevismo. Quanto ai sovietologi, essi giudicavano il periodo prerivoluzionario come un mero prologo alla successiva era sovietica, del quale sarebbe bastato ricordare per sommi capi soltanto l'ottusità del governo autocratico e la durezza delle condizioni sociali: il resto sarebbe stato degno di un interesse più erudito che storico.

Si verificava, infine, un fenomeno paradossale, che fino al 1989 ha ristretto il numero di coloro che si sono occupati della storia dell'Urss. Sia i suoi amici, che i suoi nemici si sono ritrovati spaccati al loro interno sull'opportunità di dedicarle un'attenzione propriamente scientifica. Per quanto riguarda i marxisti, si direbbe che si siano divisi in due gruppi. Da una parte, stavano coloro che ritenevano la ricostruzione della storia dell'Urss impresa prematura e addirittura incongrua, dal momento che, comunque si fosse dipanata la sua vicenda politica ed economica effettuale, l'importanza di tale esperienza consisteva esclusivamente nel suo carattere di sperimentazione degli ideali socialisti e che il suo contenuto essenziale, di conseguenza, sarebbe stato apprezzabile solo in un futuro non ancora prossimo. Dall'altra parte stavano, invece, quei marxisti che per mezzo della ricerca storica cercavano di sceverare gli elementi ritenuti transeunti e troppo marcati in senso “nazionale” dell'esperienza russo-sovietica da quelli di carattere socialista-universale. A loro volta, i non-marxisti e gli antimarxisti si dividevano tra coloro che ritenevano che lo scrittore di cose sovietiche dovesse limitarsi alla denuncia dell'intrinseca fallacia del socialismo marxista; e coloro per i quali era addirittura preferibile non fare senz'altro dell'Urss un oggetto di storia: il solo accingersi a tale impresa avrebbe costituito un implicito e indesiderato riconoscimento della legittimità della rivoluzione bolscevica.

Negli anni della minaccia nazionalsocialista e della seconda guerra mondiale, gli autori occidentali inclinavano a vedere nella Russia sovietica un paese retto da un governo essenzialmente “normale”, guidato da un ethos politico di natura nazionalista. Dopo l'avvento della guerra fredda, si è visto nell'Urss un sistema politico ed economico alternativo a quello prevalente nei paesi occidentali, nel bene e nel male. Gli studiosi si sono, così, indirizzati verso la pianificazione economica sovietica e il sistema monopartitico, dividendosi tra gli assertori della natura “totalitaria” dell'Urss e quelli di un più sofisticato approccio, che ne poneva in risalto l'affinità con le linee di sviluppo economico dei sistemi economici avanzati e cercava di documentare l'articolazione interna del suo sistema politico e sociale. Tra questi approcci si era stabilita una tensione sinergetica, di carattere sia scientifico che politico-morale. Da un lato, stava l'idea che il duro regime sovietico fosse in qualche modo una conseguenza degli imperativi storico-economici che incalzavano la Russia e numerosi altri paesi “arretrati”; e che altre forme di governo meno spietate (anche se non per questo più liberali) si erano rivelate incapaci di soddisfare. Dall'altro lato, stava l'altra idea, ancora più semplice (e forse per questo, più diffusa) che il totalitarismo del XX secolo, incluso quello sovietico, si fosse rivelato una forza cieca e sostanzialmente svincolata da dalle condizioni materiali di vita delle società, dotata di una dinamica che si autoalimentava.

Dopo il crollo del 1991 sembra che i punti di vista capaci di ordinare storicamente la vicenda russa del '900 siano divenuti ancora più limitati. Come spesso avviene in storia, i problemi non vengono propriamente risolti una volta per tutte ma archiviati, lasciando il posto a interrogativi nuovi: così è avvenuto per la querelle tra “totalitaristi” e “modernizzatori autoritari”. Il fatto è, tuttavia, che questi nuovi interrogativi hanno scarsi rapporti l'uno con l'altro; e la letteratura sulla storia russa del '900 sembra aver perduto, assieme alle sue motivazioni appassionatamente politiche e certamente deformanti anche l'approccio unitario proprio della disciplina storica. Le domande che vengono oggi rivolte alla Russia del XX secolo sono eterogenee e tendono a disporsi su tre diversi registri. La ricerca sul sistema politico ed economico sovietico è praticamente scomparsa, mentre si afferma quella sulle risposte culturali degli individui e dei gruppi sociali all'azione del regime comunista (come i sovietici abbiano sviluppato forme di “resistenza”, o di adattamento psicologico all'ideologia e all'opera brutalmente trasformatrice del potere sovietico. Si cerca, poi, di ricostruire l'entità dell'attività repressiva di esso, negli anni della guerra civile, dell'industrializzazione, del dopoguerra e anche del governo di Khrushchev (1955-1964): un periodo quest'ultimo, in ogni caso, che alla luce di alcuni recenti lavori risulta essere stato a suo tempo infondatamente idealizzato. Il crollo sovietico (e la guerra civile jugoslava …) ha anche dato origine a un indirizzo di ricerca che può essere definito di “imperiologia comparata”: quale sia stato il condizionamento esercitato dalla struttura etnica dell'ex Impero russo sullo Stato successore; e quale siano state la natura e le conseguenze della politica, rispettivamente russo-imperiale e sovietica delle nazionalità, spesso nel confronto con l'Impero austro-ungarico, ottomano e i domini coloniali delle potenze europee. Infine, i fondi archivistici nuovamente accessibili hanno incoraggiato l'estensione di vaste biografie di Lenin e di Stalin. La Russia del '900 è venuta così a presentarsi agli occhi dei nostri contemporanei non solo come una successione di paesi diversi all'interno di un medesimo territorio ma anche un insieme di campi di studio slegati tra loro: la mutazione culturale, le politiche genocidiali, i processi di Nation-building nell'epoca moderna e contemporanea e infine, il genere biografico: con il suo caratteristico rischio di stabilire uno iato tra ricostruzione delle motivazioni psicologiche del protagonista e le condizioni del suo tempo.

Ma in quanto oggetto unitario di storia la Russia contemporanea sembra essere andata perduta. Si tratta di un fenomeno che affligge anche l'insegnamento della storia nelle scuole superiori e nelle Università dell'attuale Federazione russa stando, almeno, agli incerti contenuti dei manuali che vi circolano. Tenere insieme le tre versioni della Russia che si sono succedute nel '900 in un discorso storico nazionale e mondiale compatto si sta evidentemente rivelando un compito difficile per la coscienza nazionale russa e per gli studiosi russi e stranieri, nonostante che la fine del secolo abbia visto il distacco del fenomeno comunista dalla storia in fieri della nazione russa attuale; e nonostante il momento che i fenomeni dell'interdipendenza e della globalizzazione sono venuti crescentemente prendendo nel corso di esso, ponendo il problema di una storia veramente planetaria.

* Professore ordinario di Storia e Istituzioni dell’Europa orientale
presso la Facoltà di Conservazione dei beni culturali dell’Università di Bologna

da Storia e Futuro