John
Reed
Dieci giorni che sconvolsero il mondo
9. La vittoria
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Alle
truppe del Distaccamento di Pulkovo
Ordine n. 1 del 13 novembre 1917; ore 9,30
Dopo una lotta accanita, le truppe del distaccamento di Pulkovo
hanno messo in rotta completa le forze controrivoluzionarie che,
abbandonando disordinatamente le loro posizioni, si sono ritirate
dietro Zarskoie-Selo in direzione di Pavlosk e di Gacina.
I nostri avamposti occupavano l'estremità nord-est di Zarskoie-Selo
e la stazione Alexandrovskaia. Il distaccamento di Kolpino era
sulla nostra sinistra, quello di Krasnoie-Selo sulla nostra destra.
Ordino alle forze di Pulkovo di occupare Zarskoie-Selo e di fortificarne
le vicinanze, specialmente dalla parte di Gacina. Ordino egualmente
di occupare Pavlosk, di fortificarla al sud e di impadronirsi
della ferrovia fino a Dno.
Le truppe prenderanno tutti i provvedimenti necessari per fortificare
le posizioni occupate con trincee e con altre opere di difesa.
Esse si terranno in stretto collegamento con i distaccamenti di
Kolpino e di Krasnoie-Selo e così pure con lo Stato Maggiore
del Comandante in Capo della difesa di Pietrogrado.
Il
Comandante in capo di tutte le forze in lotta contro le truppe
controrivoluzionarie di Kerenski
Colonnello Muraviov.
Martedì
mattina. Com'è possibile? Due giorni addietro appena, la
campagna di Pietrogrado era coperta da bande senza capi, senza
viveri, senza artiglieria, che erravano a caso, senza alcun obbiettivo.
Che cosa dunque ha saldato quelle masse disorganizzate, indisciplinate,
di guardie rosse, di soldati senza ufficiali, in un esercito ubbidiente
ai capi che lui stesso si è scelti, capace di sostenere
l'urto dell'artiglieria e di spezzare l'assalto della cavalleria
cosacca?
I popoli
in rivolta sconvolgono tutte le concezioni dell'arte militare.
Si pensa agli eserciti stracciati della rivoluzione francese,
a Valmy, a Wissemburg. Le truppe sovietiche avevano di fronte
il blocco degli junker, dei cosacchi, dei grossi proprietari,
della nobiltà e dei Cento Neri, la prospettiva di un ritorno
dello zar, quella dell'Okrana e delle catene siberiane; infine
la terribile minaccia dell'imperialismo tedesco... La vittoria
era, secondo le parole di Carlyle, «apotheosis and millennium
without end!».
La
domenica sera, mentre i commissari del Comitato militare rivoluzionario
ritornavano disperati dal campo di battaglia, la guarnigione di
Pietrogrado eleggeva il suo Comitato dei cinque, il suo Stato
Maggiore di battaglia, tre soldati e due ufficiali, tutti nemici
giurati della controrivoluzione. Il comando veniva affidato al
colonnello Muraviov, vecchio patriota, uomo capace, ma che doveva
essere sorvegliato da vicino. A Kolpino, a Obukovo, a Pulkovo,
a Krasnoie-Selo erano stati formati dei distaccamenti provvisori,
che si ingrossarono con i dispersi che vi accorrevano da ogni
parte; comprendevano soldati, marinai, guardie rosse, compagnie
di reggimenti di fanteria, di cavalleria e di artiglieria, mescolati
insieme, oltre ad alcune autoblindate.
All'alba
si prese contatto con le pattuglie cosacche di Kerenski: ad ogni
scontro qualche fucilata, un ordine di resa. Nell'aria fredda
ed immobile, il rumore della battaglia si propagava sulla pianura
ghiacciata e colpiva le orecchie delle bande erranti, che si erano
riunite attorno a piccoli fuochi, aspettando... Dunque era cominciata
la battaglia - si diceva. E allora, si cominciava ad avanzare
verso la battaglia, e sulle strade diritte le orde degli operai
affrettavano il passo... Così convergevano automaticamente
su tutti i punti d'attacco degli sciami di uomini esasperati.
I commissari li ricevevano ed indicavano loro le posizioni da
occupare o i lavori da eseguire. Questa volta era la loro guerra;
lottavano per il loro mondo; i loro capi se li erano scelti da
se stessi. Le volontà multiple, incoerenti della massa
si erano saldate in una volontà sola...
I combattenti
di quelle giornate hanno descritto come i marinai bruciavano fin
la loro ultima cartuccia e poi si lanciavano all'assalto; come
gli operai non esercitati ricevevano la carica dei cosacchi e
li strappavano dalle selle; come il popolo anonimo, essendosi
riunito durante la notte attorno alla battaglia, si gonfiò
in una marea che sommerse il nemico... Il lunedì, prima
di mezzanotte, i cosacchi erano dispersi ed in fuga, avevano abbandonato
l'artiglieria. L'esercito del proletariato, avanzando allora su
tutto il fronte, entrò a Zarskoie prima che il nemico potesse
distruggere la grande stazione di T.S.F., dalla quale i commissari
di Smolni lanciarono subito al mondo un inno di trionfo...
A TUTTI I SOVIET DEI DEPUTATI OPERAI E SOLDATI
II 12 novembre, in un combattimento accanito svoltosi nei pressi
di Zarskoie-Selo, l'esercito rivoluzionario ha completamente sconfitto
le truppe controrivoluzionarie di Kerenski e di Kornilov. A nome
del governo rivoluzionario, ordino a tutti i reggimenti di proseguire
la lotta contro i nemici della democrazia rivoluzionaria e di
prendere tutti i provvedimenti necessari per arrestare Kerenski
e per impedire la ripetizione di avventure simili, che minacciano
le conquiste della rivoluzione e il trionfo del proletariato!
Il
Comandante in capo delle truppe operanti contro Kerenski
Muraviov.
Notizie
dalla provincia...
A Sebastopoli, il Soviet locale aveva preso il potere; in un immenso
comizio gli equipaggi delle corazzate che si trovavano nel porto,
avevano costretto i loro ufficiali a giurare obbedienza al nuovo
governo. Anche a Nijni-Novgorod il Soviet era padrone del potere.
Da Kazan si annunciavano combattimenti nelle strade tra gli junker
ed una brigata di artiglieria da una parte e la guarnigione bolscevica
dall'altra.
Una lotta disperata era di nuovo ingaggiata a Mosca. Gli junker e le guardie bianche che tenevano il Kremlino ed il centro della
città erano assalite da ogni parte dalle truppe del Comitato
rivoluzionario. L'artiglieria sovietica era piazzata sulla piazza
Skobelev, donde bombardava la Duma municipale, la prefettura di
polizia e l'albergo Metropol. Si erano tolti i selciati della
Tverscaia e della Nikitscaia per scavare delle trincee e innalzare
le barricate. Una tempesta di proiettili di mitragliatrici spazzava
i quartieri delle grandi banche e delle ditte commerciali. Non
vi era più luce; non vi erano comunicazioni telefoniche;
la popolazione borghese viveva nelle cantine. L'ultimo bollettino
annunciava che il Comitato militare rivoluzionario aveva intimato
un ultimatum al Comitato di Salute Pubblica, esigendo la resa
immediata del Kremlino sotto la minaccia di bombardarlo.
" Bombardare il Kremlino! - si esclamava - Non
oseranno mai!"
Da Volodga a Cita, all'altra estremità della Siberia, da
Pskov a Sebastopoli, sul Mar Nero, nelle grandi città come
nei piccoli villaggi, salivano le fiamme della guerra civile.
Da mille officine, da mille comuni contadini, dai reggimenti e
dalle navi, dagli eserciti e dal mare affluivano a Pietrogrado
i saluti di benvenuto al governo del popolo.
Il governo cosacco di Novocerkassk telegrafò a Kerenski:
II governo delle truppe cosacche invita il governo provvisorio
e i membri del Consiglio della Repubblica a venire, se è
possibile, a Novocerkassk dove si può organizzare, in comune,
la lotta contro i bolscevichi.
Anche la Finlandia cominciava a muoversi. Il Soviet di Helsingfors
ed il Tzentroball (Comitato centrale della flotta del
Baltico) proclamarono lo stato d'assedio e dichiararono che ogni
tentativo di ostacolare l'azione delle forze bolsceviche od ogni
resistenza armata agli ordini del Consiglio dei commissari del
popolo sarebbero stati severamente repressi. Nello stesso tempo
l'Unione dei ferrovieri di Finlandia dichiarò lo sciopero
generale in tutto il paese per ottenere l'applicazione delle leggi
votate dalla Dieta socialista del giugno 1917, che era stata sciolta
da Kerenski.
Il
mattino seguente mi recai di buon'ora a Smolni. Mentre passavo
sul marciapiedi di legno che conduceva dalla cancellata esterna
al palazzo, caddero dal cielo grigio i primi fiocchi di neve,
tenui ed esitanti.
"La neve! - gridò il soldato di sentinella
con una smorfia di piacere. - Niente di meglio per la salute!
"
Nell'interno, i lunghi corridoi scuri e le sale tristi sembravano
abbandonate. Nell'enorme edificio nessuno si muoveva. Un rumore
sordo, strano, colpì le mie orecchie e, guardandomi intorno,
vidi ovunque sul pavimento, lungo i muri, degli uomini che dormivano:
degli esseri rudi, sporchi, degli operai e dei soldati, veri mucchi
di fango, allungati isolatamente o a mucchi negli atteggiamenti
indifferenti della morte. Qualcuno aveva delle fasciature strappate
e sporche di sangue. Fucili e cartucciere giacevano sul suolo...
Avevo davanti l'esercito vittorioso del proletariato!
Al
buffet del primo piano erano così ammassati che
si poteva passare a stento. L'aria era viziata. Una luce pallida
filtrava dai vetri appannati. Sul banco, accanto a un samovar
ammaccato, freddo, tra i bicchieri che contenevano ancora del
fondaccio di tè, vidi un numero capovolto dell'ultimo bollettino
del Comitato militare rivoluzionario. L'ultima pagina era tutta
coperta di scarabocchi. Era l'eloquente ricordo che uno dei soldati
rivolgeva ai compagni caduti nella lotta contro Kerenski, nel
momento in cui il sonno lo aveva colto. Delle lacrime, sembrava,
erano cadute sulla carta...
Alexei
Vinogradov. D. Leonski. D. Moskin. M. Berscikov. S. Stolbikov.
V. Laidanski. D. Preobrajenski.
Questi uomini sono stati chiamati sotto le armi il 15 novembre
1916. Solo tre sono ancora in vita:
Michele
Berscikov. Alexei Vokressenski. Dimitri Leonski.
Dormite,
aquile delle battaglie!
Riposi la vostra anima in pace,
Perché voi avete meritato, o fratelli,
felicità e riposo eterni...
Solo
il Comitato militare rivoluzionario non dormiva e lavorava senza
tregua. Skrypnik uscì dall'ultima stanza ed annunziò
che Gotz era stato arrestato, ma che aveva categoricamente negato
di aver firmato, come Avxentiev, il proclama del Comitato di Salute.
Il Comitato di Salute, a sua volta, aveva ripudiato l'appello
alla guarnigione. Skrypnik aggiunse che si incontrava ancora qualche
ostilità tra i reggimenti della città; cosi il reggimento
Volynski aveva rifiutato di marciare contro Kerenski.
Parecchi
distaccamenti di truppa «neutrali», diretti da Cernov,
si trovavano a Gacina, dove tentavano di persuadere Kerenski a
rinunciare alla marcia su Pietrogrado.
Skrypnik
scoppiò in una risata.
"Non vi possono più essere dei «neutrali»,
adesso - disse - Abbiamo vinto!"
Un'esaltazione quasi religiosa illuminava il suo viso barbuto,
dai lineamenti marcati.
"Più di sessanta delegati sono arrivati dal fronte
portandoci l'assicurazione della collaborazione di tutti gli eserciti,
eccetto che dal fronte rumeno di cui non sappiamo nulla. I Comitati
dell'esercito fermano tutte le notizie che arrivano loro da Pietrogrado,
ma noi abbiamo organizzato un servizio regolare di corrieri.
"
Al
pianterreno incontrammo Kamenev, che giungeva allora; era estenuato
dalla seduta notturna della «Conferenza per la formazione
di un nuovo governo», ma felice.
"I socialisti-rivoluzionari sono ormai favorevoli alla
nostra partecipazione al nuovo governo - mi disse - I
gruppi di destra sono terrorizzati dai tribunali rivoluzionari
e reclamano il loro scioglimento... Abbiamo accettato la proposta
del Vikiel di formare un ministero socialista omogeneo;
è la questione di cui ci si occupa in questo momento. Tutto
questo è il frutto della nostra vittoria. Quando noi eravamo
i più deboli, non volevano trattare con noi, a nessun costo,
adesso, sono tutti favorevoli all'intesa con i Soviet. Ma noi
abbiamo bisogno di una vittoria veramente decisiva. Kerenski vuole
l'armistizio; è necessario che capitoli..."
Tale
era lo stato d'animo dei capi bolscevichi. Ad un giornalista straniero
che gli domandava una dichiarazione, Trotski rispose: «La
sola dichiarazione possibile in questo momento è quella
che facciamo con la bocca dei nostri cannoni!».
Ma
sotto quest'aria di vittoria si nascondeva una reale ansietà,
causata dalla questione finanziaria. Invece di aprire le banche,
ubbidendo all'ordine del Comitato militare rivoluzionario, il
sindacato degli impiegati di banca aveva tenuto un comizio e s'era
messo in sciopero. Smolni aveva chiesto circa trentacinque milioni
di rubli alla Banca di Stato, ma il cassiere aveva chiuso le casseforti
e non concedeva pagamenti che ai rappresentanti del governo provvisorio.
I reazionari si servivano della Banca li Stato come di un'arma
politica; così quando il Vikiel domandò
del denaro per pagare gli stipendi agli impiegati delle Ferrovie
follo Stato, gli si rispose di rivolgersi a Smolni...
Mi recai alla Banca di Stato per vedere il nuovo commissario,
un bolscevico ucraino, dai capelli rossi, certo Petrovic. Egli
cercava di rimettere l'ordine nel caos in cui gli scioperanti
avevano lasciato gli affari. In tutti gli uffici dell'immenso
edificio, dei volontari, operai, soldati, marinai, stanchi, sudando
sangue ed acqua, impallidivano sui grandi libri...
Il palazzo della Duma era affollatissimo. Si sentiva ancora qualche
sfida isolata al nuovo governo, ma sempre più raramente.
Il Comitato agrario centrale aveva lanciato un appello ai contadini
per ordinare loro di non riconoscere il Decreto sulla terra del
Congresso dei Soviet, con il pretesto che esso avrebbe provocato
la guerra civile. Il sindaco Schreider annunciò che, in
seguito all'insurrezione bolscevica, sarebbe stato necessario
rinviare, ad una data indeterminata, le elezioni all'Assemblea
Costituente. Sembrava che due preoccupazioni dominassero gli animi,
sconvolti dalla ferocia della guerra civile: metter fine allo
spargimento di sangue e creare un nuovo governo. Non si parlava
più di «schiacciare i bolscevichi»;
anche della loro esclusione dal governo, si parlava quasi soltanto,
ormai, negli ambienti socialisti popolari e nei Soviet contadini.
Lo stesso Comitato centrale dell'esercito, il nemico più
deciso di Smolni, telefonò da Moghilev: «Se per
costituire il nuovo ministero, è necessaria un'intesa coi
bolscevichi, noi acconsentiamo alla loro ammissione, in minoranza,
nel gabinetto».
La
Pravda richiamò ironicamente l'attenzione dei
suoi lettori sui «sentimenti umanitari» di Kerenski,
pubblicando il suo messaggio al Comitato di Salute:
In accordo con le proposte del Comitato di Salute e di tutte
le organizzazioni democratiche che esso raggruppa, ho sospeso
ogni azione militare, contro i ribelli e ho delegato il Commissario
presso il Comandante in capo Stankievic, per iniziare le trattative.
Prendete i provvedimenti necessari per impedire ogni inutile spargimento
di sangue.
Kerenski.
Il
Vikiel lanciò il seguente telegramma a tutta la
Russia:
La Conferenza tra il sindacato dei ferrovieri ed i rappresentanti
dei partiti e delle organizzazioni in lotta, che riconoscono la
necessità di un'intesa, sconfessa categoricamente l'uso
del terrorismo politico nella guerra civile, particolarmente tra
le frazioni della democrazia rivoluzionaria e dichiara che il
terrorismo, sotto qualunque forma, è in questo momento
in contrasto con il significato e con lo scopo delle trattative
che si stanno svolgendo per la formazione del nuovo governo...
La Conferenza mandò delle delegazioni al fronte, a Gacina.
Alla Conferenza stessa la soluzione definitiva sembrava vicina.
Essa aveva anche deciso di eleggere un Consiglio provvisorio del
popolo, composto di circa 400 membri; 75 dovevano rappresentare
Smolni, 75 il vecchio Tzik ed il resto ripartirsi tra
la Duma municipale, i sindacati, i Comitati agrari ed i partiti
politici. Cernov era designato come Presidente del Consiglio.
Lenin e Trotski, si diceva, sarebbero stati esclusi...
Verso mezzogiorno, mi trovai davanti a Smolni a parlare con lo
chauffeur di un'ambulanza che partiva per il fronte rivoluzionario.
Gli chiesi di accompagnarlo ed egli accettò. Era un volontario,
studente di università. Mentre l'automobile correva, mi
parlava sopra la spalla in un pessimo tedesco: «Also,
gut: Wir nach die ksernen zu essen gehen». Indovinai
che dovevamo certamente mangiare in qualche caserma.
Giunti nella Kirotscnaia entrammo in un cortile immenso circondato
da edifici militari e, per una scala oscura, salimmo fino a una
camera bassa, rischiarata da una sola finestra. Seduti attorno
a una lunga tavola di legno, una ventina di soldati mangiavano,
con cucchiai di legno, la zuppa di cavoli, servita in una catinella
di ferro bianco, pur continuando a parlare ed a ridere animatamente.
" Salute al Comitato del 6° battaglione di riserva
del Genio! " gridò il mio compagno, e mi presentò
come un socialista americano. Tutti si alzarono per stringermi
la mano; un vecchio soldato mi abbracciò. Mi diedero un
cucchiaio di legno e mi misi a tavola. Fu portata un'altra catinella
piena di kascia, un'enorme pagnotta di pane nero e le inevitabili
teiere. E subito cominciarono a farmi domande sull'America. Era
vero che, in quel paese libero, i cittadini vendevano i voti per
denaro? Come ottenevano allora ciò che volevano? E la «Tammany-Hall »? Era vero che in un paese libero, un piccolo gruppo di
uomini poteva dominare tutta una città e sfruttarla per
il suo profitto? Perché il popolo tollerava ciò?
In Russia, anche sotto lo zar, fatti simili erano impossibili;
la corruzione vi era certamente sempre stata, ma comprare e vendere
un'intera città coi suoi abitanti! In un paese libero!
Il popolo non aveva dunque alcuno spirito rivoluzionario?
Cercai di spiegare come, nel mio paese, il popolo cercasse di
realizzare le riforme per mezzo di leggi.
"Molto bene - disse un giovane sergente, certo Baklanov,
che parlava francese, - ma con la forza che possiede la vostra
classe capitalista, essa deve esercitare il suo controllo sulla
legislazione e sulla giustizia; come può allora il popolo
ottenere delle riforme? Vorrei lasciarmi convincere, perché
io non conosco il paese, ma ciò mi sembra incredibile...
"
Dissi che andavo a Zarskoie-Selo.
"Anch'io, " aggiunse bruscamente Baklanov.
"Anch'io... anch'io..."
Tutti decisero, immediatamente di recarsi a Zarskoie-Selo. In
quell'istante qualcuno bussò. Si aprì la porta e
comparve il colonnello. Nessuno si alzò, ma grida di benvenuto
lo accolsero.
"Si può entrare? - domandò il colonnello.
" Ma certamente, entrate pure, " risposero
cordialmente.
Alto, distinto, con il berretto di pelliccia gallonato d'oro,
il colonnello entrò, sorridente.
"Voi dicevate, mi sembra, compagni, che volete andare
a Zarskoie-Selo? Posso accompagnarvi?"
Baklanov pensò un istante.
"Mi sembra che non ci sia niente da fare qui, oggi
- rispose. - Certamente, compagno, saremo felicissimi di avervi
con noi."
Il colonnello ringraziò, e, sedendosi, si versò
un bicchiere di té.
A bassa voce, per non ferire l'amor proprio del colonnello, Baklanov
mi spiegò: - Io sono il presidente del Comitato; abbiamo
noi la direzione assoluta del battaglione, eccetto che per le
operazioni, per le quali noi deleghiamo il comando al colonnello.
Tutti devono allora obbedire ai suoi ordini, ma egli è
responsabile davanti a noi. In caserma egli non può fare
nulla senza consultarci... In un certo senso è un esecutore
d'ordine... "
Ci distribuirono le armi, revolver e fucili - potevamo incontrare
i cosacchi; poi ci stringemmo nell'ambulanza accanto a tre enormi
pacchi di giornali, destinati al fronte. Filammo diritto per la
Liteini, poi per la Zagorodni. Ero seduto accanto ad un giovanotto
che portava distintivi di tenente e che sembrava parlare, con
eguale facilità, tutte le lingue d'Europa. Faceva parte
del Comitato del battaglione.
"Non sono bolscevic, - mi disse energicamente -
La mia famiglia è di nobiltà antichissima. Io
sono, diciamo, un cadetto..."
"Perché allora? " interruppi, sorpreso.
"Eppure sono membro del Comitato. Non nascondo le mie opinioni
politiche, ma gli altri non vi danno importanza perché
sanno che non credo che sia bene resistere alla vostra maggioranza...
Non ho voluto prendere parte a questa guerra civile, perché
non credo utile prendere le armi contro i miei fratelli russi."
"Provocatore! Kornilovista! " gli gridarono
gli altri scherzando e battendogli sulla spalla.
Dopo aver varcato l'arco di trionfo della Porta di Mosca, monumento
colossale di pietra grigia, ornato di geroglifici d'oro, di enormi
aquile imperiali e dei nomi degli zar, ci inoltrammo sulla larga
strada diritta, bianca per la prima neve. Era ingombra di guardie
rosse a piedi. Gli uni, cantando, si recavano sul fronte rivoluzionario;
gli altri ne ritornavano, coperti di fango, il viso ferreo. La
maggior parte sembravano dei ragazzi. Vi erano anche donne con
delle vanghe; alcune avevano fucili e cartucce; altre portavano
i bracciali della Croce Rossa; donne dei tuguri, curve e fiaccate
dal lavoro. Gruppi di soldati, che non si curavano di andare al
passo, scherzavano amichevolmente con le guardie rosse. Vi erano
anche dei marinai dalla faccia severa, dei ragazzi che portavano
da mangiare ai parenti e tutti sguazzavano nel fango biancastro,
spesso parecchi centimetri, che ricopiava la strada. Oltrepassammo
dell'artiglieria, che si dirigeva verso il sud con un gran rumore
di ferraglia; dei camion si incrociavano, irti di uomini armati;
delle ambulanze, cariche di feriti, tornavano dal campo di battaglia;
vedemmo un carretto da contadino, che avanzava traballante e sul
quale un giovanotto, ferito al ventre, si teneva piegato in due,
pallido e gemente di dolore. Nei campi, dalle due parti della
strada, donne e vecchi scavavano le trincee e disponevano i reticolati
di filo di ferro spinato.
Le nubi correvano drammaticamente verso il nord. Bruscamente apparve
un sole livido. Pietrogrado scintillava all'altra estremità
della pianura pantanosa: a destra risplendevano le cupole a bulbo
e le guglie bianche, dorate, multicolori; a sinistra, le alte
ciminiere vomitavano il loro fumo nero; nello sfondo, un cielo
basso pesava sulla Finlandia. Chiese e monasteri sfilavano da
ciascun lato della strada. Qualche volta vedevamo un monaco che
sorvegliava, silenzioso, il polso dell'esercito proletario...
A Pulkovo, la strada si biforcava; ci fermammo in mezzo ad una
folla, nella quale si fondevano tre correnti umane. Degli amici
si ritrovavano, contenti, si felicitavano, si descrivevano scambievolmente
la battaglia. Alcune case, nel crocicchio, portavano le tracce
di proiettili e la terra era calpestata per una lega all'intorno.
La battaglia qui aveva infierito... a qualche distanza, dei cavalli
cosacchi, senza cavalieri, correvano da molto tempo attorno, in
cerca di nutrimento, perché l'erba era scomparsa dalla
pianura. Dinanzi a noi una guardia rossa tentava di montarne uno,
ma cadeva continuamente con grande divertimento di un migliaio
di quei grandi ragazzi.
La strada di sinistra, per la quale i cosacchi sopravvissuti avevano
battuto in ritirata, conduceva, attraverso un piccolo sperone,
ad un casolare donde si godeva il panorama grandioso dell'immensa
pianura, grigia come un mare senza vento, dominata dall'accavallamento
tumultuoso delle nuvole, e della città imperiale, che rovesciava
le sue migliaia di uomini per tutte le strade. Nel fondo, sulla
sinistra, si trovavano la piccola collina di Krasnoie-Selo, il
campo di parata della guardia e la villa imperiale. Nulla rompeva
la monotonia della pianura, eccetto alcuni monasteri e conventi
circondati da muri, alcune officine isolate ed alcuni grandi edifici
con le terre coltivate, degli asili e degli orfanotrofi.
"È qui - disse lo chauffeur, mentre
salivamo una collina, nuda - è qui che è morta
Vera Slutskaia. Sì, la deputatessa bolscevica della Duma.
Era di mattina, presto. Era in automobile con Zaldkind e con qualche
altro. Si era fatta una tregua e si recavano al fronte. Parlavano
e ridevano quando bruscamente, dal treno blindato sul quale si
trovava Kerenski stesso, qualcuno, vedendo l'automobile, sparò
un colpo di fucile. Il proiettile colpì Vera Slutskaia,
uccidendola sul colpo... "
Arrivammo a Tzarskoie, animatissima per l'agitazione turbolenta
degli eroi dell'esercito proletario. Nel palazzo, dov'era installato
il Soviet, ferveva la più grande attività. Guardie
rosse e marinai occupavano il cortile, le sentinelle custodivano
le porte ed un'ondata ininterrotta di corrieri e di commissari
entrava e usciva. Nella sala del Soviet, attorno ad un samovar,
una cinquantina di operai, di soldati, di marinai e di ufficiali,
discutevano rumorosamente, bevendo il té. In un angolo
due operai, maldestri, cercavano di servirsi di un ciclostile.
Alla tavola di mezzo, l'immenso Dibenko era curvo sulla carta,
segnando con matite rosse e blu le posizioni da occupare. La sua
mano libera serrava, come sempre, il suo enorme revolver di acciaio
blu. Improvvisamente si sedette davanti ad una macchina da scrivere
e cominciò a picchiettare con un dito; ogni tanto si fermava,
prendeva il suo revolver e giocava amorosamente con il grilletto.
Su un giaciglio, lungo il muro, era coricato un giovane operaio.
Due guardie rosse stavano curve su di lui, ma nessun altro gli
badava. Aveva un buco nel petto; ad ogni battito del cuore, il
sangue scorreva attraverso i vestiti. I suoi occhi erano chiusi
e il giovane viso, barbuto, era verdastro. Respirava ancora debolmente,
lentamente, ripetendo a ciascun soffio, in un sospiro:
"La pace viene! La pace! "
Dibenko alzò gli occhi quando noi entrammo:
"Ah! - disse rivolgendosi a Baklanov. - Compagno,
andate all'ufficio del comandante e assumete il comando. Aspettate;
vi do io un ordine di servizio. "
Andò alla macchina e si mise a scrivere cercando le lettere.
Mi recai al Palazzo di Caterina, accompagnato dal nuovo comandante
di Zarskoie-Selo. Baklanov era eccitatissimo e tutto contento
della sua importanza. Nell'elegante sala bianca, che io conoscevo
già, alcune guardie rosse esaminavano il luogo, frugando
dovunque curiosamente. Il mio vecchio amico, il colonnello, in
piedi, accanto alla finestra, si mordicchiava i baffi. Mi accolse
come un fratello alla fine ritrovato. Il francese di Bessarabia
era seduto ad una tavola accanto alla porta. I bolscevichi gli
avevano ordinato di rimanere e di continuare il suo lavoro.
"Che cosa potevo fare? - mi sussurrò. - Uomini
come me non possono battersi né da una parte né
dall'altra in una guerra come questa, qualunque sia il disgusto
istintivo che noi proviamo per la dittatura della massa... Mi
rincresce solo di essere così lontano da mia madre e dalla
Bessarabia. "
Il colonnello dovette rimettere ufficialmente il comando a Baklanov.
"Ecco - gli disse nervosamente - le chiavi
dell'ufficio."
Una guardia rossa l'interruppe.
"Dov'è il denaro? " domandò brutalmente.
Il colonnello parve sorpreso.
"Il denaro? Che denaro? Ah! voi volete parlare della
cassaforte? Eccola, come l'ho trovata quando ho preso il comando,
tre giorni fa."
"Le chiavi?"
Il colonnello alzò le spalle.
"Non ci sono le chiavi."
La guardia rossa sogghignò, maliziosa.
"È molto comodo, " disse.
" Apriam, - disse Baklanov. - Andate a cercare una scure.
Il compagno americano che è qui farà saltare lui
stesso il coperchio e registrerà quello che vi si troverà."
Brandii la scure... La cassaforte era vuota.
"Bisogna arrestarlo - gridò la guardia rossa,
con accento di odio. - È un partigiano di Kerenski.
Ha rubato il denaro e l'ha consegnato a Kerenski."
Ma Baklanov non era di questo parere.
"No, no - disse, - è il kornilovista
che era qui prima di lui. Lui non è colpevole."
"Ma Dio buono! - replicò la guardia rossa.
- Vi dico che lui è per Kerenski. Se non volete arrestarlo,
ce ne incaricheremo noi. Lo condurremo a Pietro e Paolo. È
il suo posto!"
Le altre guardie rosse fecero sentire un mormorio di consenso
il colonnello, che gettava verso di noi degli sguardi che chiedevano
pietà, fu condotto via...
Davanti
al palazzo dei Soviet, un camion si preparava a partire il fronte.
Una mezza dozzina di guardie rosse, alcuni marinai ed un paio
di soldati, comandati da un operaio dalla figura gigantesca, si
arrampicarono gridandomi di salire con loro. Le guardie rosse,
che uscivano dal Quartier generale con le braccia piene di piccole
bombe cariche di grubit, esplosivo, dicevano, dieci volte
più violento e cinque più pronto della dinamite,
gettarono i loro ordigni nell'autocarro. Poi un cannone da tre
pollici, caricato, fu attaccato dietro il veicolo per mezzo di
corde e li filo di ferro.
In mezzo alle esclamazioni partimmo a tutta velocità. Il
pesante autocarro si gettava da destra a sinistra, il cannone
ballonzolava sulle ruote e le bombe di grubit ci rotolavano
sui piedi andando ad urtare, rumorosamente, i fianchi dell'autocarro.
L'operaio gigantesco, che si chiamava Vladimiro Nicolaievic, ci
opprimeva di domande sull'America. Perché l'America aveva
fatto la guerra? Gli operai americani erano pronti ad abbattere
i capitalisti? A che punto era il processo Mooney? Berkman sarebbe
stato consegnato a San Francisco? Cento altre questioni di questo
genere, molto imbarazzanti, urlate a piena voce per superare fracasso
dell'autocarro, mentre ci tenevamo aggrappati gli uni agli altri,
sballottati in mezzo al rotolare delle bombe.
Qualche volta una pattuglia voleva fermarci. I soldati si mettevano
in mezzo alla strada e gridavano: «Alto là!».
"Andate al diavolo! - rispondevano le guardie rosse.
- Noi non ci fermiamo! Siamo delle guardie rosse. "
E proseguivano fieramente la nostra corsa, mentre Vladimiro Nicolaievic
mi urlava nell'orecchio qualche riflessione a proposito dell'internazionalizzazione
del canale di Panama o qualche cosa simile.
A cinque miglia circa da Zarskoie, incrociando una squadra di
marinai che ritornavano, ci fermammo.
"Dov'è il fronte, fratelli?"
Colui che marciava in testa si fermò e si grattò:
"Questa mattina - disse - era a cinquecento
metri di qua. Adesso non è più in nessuna parte,
l'animale. Noi abbiamo inutilmente camminato e camminato; è
impossibile trovarlo!"
Salirono con noi e ripartimmo. Dopo un miglio Vladimiro Nicolaievic
tese l'orecchio e gridò al conducente di fermare.
"Colpi di fucile - disse - Sentite? "
Per qualche minuto, un silenzio di morte. Poi un poco avanti e
sulla sinistra tre detonazioni risuonarono, una dopo l'altra.
Una spessa foresta fiancheggiava la strada dalle due parti. Attentissimi
riprendemmo la marcia lentamente, parlando a voce bassa. All'altezza
del luogo dove si era sparato, scendemmo e, poi, schierati entrammo,
cauti, nella foresta.
Frattanto due compagni staccavano il cannone e lo mettevano in
posizione; naturalmente lo puntarono in pieno su di noi.
Il silenzio regnava nel bosco. Le foglie erano cadute ed i tronchi
erano giallastri sotto il debole ed obliquo sole d'autunno. Nulla
si muoveva, solo il ghiaccio delle piccole pozzanghere scricchiolava
sotto i nostri passi. Era un'imboscata? Marciammo senza nulla
incontrare fino a che gli alberi si diradarono; poi ci fermammo.
A qualche distanza, in una piccola radura, tre soldati, assolutamente
noncuranti, erano seduti attorno ad un fosso.
Vladimiro Nicolaievic avanzò verso di loro.
"Buongiorno, compagni! " gridò con la
sicurezza che danno un cannone, venti fucili ed una provvista
di grubit, pronti ad entrare in azione, I soldati scattarono in
piedi.
"Perché si sono sparate delle fucilate, qui, un
momento fa?"
Rassicurato, uno dei soldati rispose:
"Oh! siamo stati noi, compagni, che abbiamo sparato su
un paio di conigli."
Il camion ripartì nella direzione di Romanovo. Al primo
crocicchio, due soldati ci si piantarono davanti, brandendo i
fucili. Rallentammo, poi fermammo.
"I vostri lasciapassare, compagni?"
Le guardie rosse cominciarono ad urlare.
Noi siamo delle guardie rosse. Non abbiamo bisogno di lasciapassare...
Avanti! Non seccateci!..."
Ma un marinaio osservò:
"Noi facciamo male, compagni! Bisogna rispettare la disciplina
rivoluzionaria. Supponete che dei controrivoluzionari arrivino
in camion e dicano: «Noi non abbiamo bisogno di lasciapassare».
I compagni non ci conoscono. "
Cominciò una discussione. Tuttavia ad uno ad uno marinai
soldati si persuasero. Mormorando, tirarono fuori le loro carte
sudice. Erano tutte eguali, eccetto la mia, rilasciatami dallo
Stato Maggiore rivoluzionario di Smolni. Le sentinelle mi ordinarono
di seguirle. Le guardie rosse protestarono energicamente, ma il
marinaio che aveva parlato prima, dichiarò:
" Noi sappiamo perfettamente che questo compagno è
un vero compagno!. Ma vi sono degli ordini del Comitato, ai quali
si deve obbedire. È la disciplina rivoluzionaria...
"
Per non creare difficoltà, discesi. Guardai l'autocarro
che si allontanava sulla strada: tutti mi facevano dei segni di
addio. I soldati discussero un momento a voce bassa, poi mi condussero
verso un muro, contro il quale mi collocarono. Di colpo compresi:
volevano fucilarmi.
Nessuno in vista. Il solo segno di vita era un filo di fumo che
alzava da una casetta di legno, ad un quarto di miglio sulla rada.
I due soldati si diressero verso la strada. Disperatamente, li
seguii.
" Ma, compagni, guardate! Ecco il timbro del Comitato
militare rivoluzionario."
Fissarono con occhio ebete il mio lasciapassare, poi si guardarono.
" Non è come gli altri, - disse uno di loro, testardo.
- Noi non sappiamo leggere, fratello. "
Lo presi per il braccio.
" Andiamo, - gli risposi, - fino a quella casa;
vi sarà certamente qualcuno che sa leggere."
Esitarono.
"No" disse uno.
L'altro mi squadrò.
" Perché no? - borbottò. - È
sempre un grande delitto uccidere un innocente."
Andammo così fino alla porta della casa e bussammo.
Una piccola donna grassa venne ad aprire e si tirò subito
indietro, spaventata.
" Non so nulla, non li ho visti, " cominciò
a balbettare.
Una delle sentinelle le tese il mio lasciapassare. La donna gettò
un grido.
" Vogliamo solo che voi ci leggiate questo!, compagna."
Esitante essa prese la carta e lesse molto svelta:
Il latore di questo lasciapassare, John Reed, è un
rappresentante della socialdemocrazia americana, un internazionalista...
Di
nuovo, sulla strada i soldati ricominciarono a discutere.
" Bisogna che voi veniate con noi al Comitato del Reggimento,
" decisero.
Nel crepuscolo che si oscurava rapidamente, riprendemmo a sguazzare
sulla strada fangosa. Ogni tanto incontravamo dei gruppi di soldati;
si fermavano, circondandomi e minacciandomi con gli sguardi, e
facevano circolare tra di loro il mio lasciapassare discutendo
se si doveva o no fucilarmi.
Era
ormai notte quando arrivammo alla caserma del 2° fucilieri
di Zarskoie-Selo, dove la via maestra era fiancheggiata da costruzioni
basse. I soldati che passeggiavano davanti alle porte si affrettarono
a fare un mucchio di domande. Una spia? Un provocatore? Salimmo
una scala a chiocciola ed arrivammo in una grande sala nuda. Una
enorme stufa ne occupava il centro e, su dei giacigli o sul suolo,
un migliaio di soldati giocavano. Nel soffitto, i cannoni di Kerenski
avevano aperto una larga breccia.
Mi
fermai sulla porta: si fece di colpo silenzio nei gruppi che si
volsero verso di me. Cominciarono quindi a muoversi, dapprima
adagio, lanciandosi poi con un rumore di tuono, con i visi pieni
d'odio.
" Compagni! compagni! - gridava uno dei miei guardiani.
- Comitato! Comitato!"
Si fermarono, serrandosi, attorno a me e mormorando. Un giovanotto,
che portava un bracciale rosso, si aprì il passo.
" Che cosa c'è? " domandò rudemente.
Le sentinelle spiegarono.
" Fatemi vedere questo lasciapassare."
Dopo averlo letto attentamente, mentre mi lanciava delle rapide
occhiate, sorrise e mi porse la carta.
" Compagni, è un compagno americano. Sono il presidente
del Comitato e vi do il benvenuto nel nostro reggimento..."
Si alzò un sospiro generale di sollievo, che si trasformò
subito in un ruggito di benvenuto. Tutti si urtavano per stringermi
la mano.
" Non avete ancora cenato? Noi abbiamo già mangiato.
Vi conduciamo nella sala degli ufficiali: qualcuno sa la vostra
lingua. "
Mi
condussero attraverso il cortile fino alla porta di un altro edificio.
In quel momento stava entrando un giovanotto, dal viso aristocratico,
che portava i distintivi di tenente. Il presidente mi presentò
e, dopo una stretta di mano, si allontanò:
"Mi chiamo Stepan Georgevic Morovski. Sono a vostra completa
disposizione, " mi disse il tenente in ottimo francese.
Dal
vestibolo, riccamente decorato, un sontuoso scalone, rischiarato
da specchi scintillanti, conduceva al secondo piano, dove si aprivano
sul pianterreno delle sale da biliardo, delle sale da gioco ed
una biblioteca. Entrammo nella sala da pranzo: al centro, attorno
ad una lunga tavola, avevano preso posto una ventina di ufficiali:
erano in grande uniforme, con le spade dalle impugnature d'oro
e d'argento, i nastri e le croci degli ordini imperiali. Tutti
si alzarono cortesemente al mio ingresso. Mi fu assegnato un posto
accanto al colonnello, un uomo di alta statura e di aspetto imponente,
dalla barba brizzolata. Ordinanze rigide ed eleganti servivano
il pranzo. L'atmosfera era quella di tutte le mense di ufficiali
di Europa. Dov'era dunque la rivoluzione?
"
Voi non siete bolscevichi? " domandai a Morovski.
Un sorriso girò attorno alla tavola, ma sorpresi uno o
due sguardi furtivi verso le ordinanze.
" No, — rispose il mio amico. - Vi è
un solo ufficiale bolscevico nel reggimento. È a Pietrogrado,
questa sera. Il colonnello è menscevico, il capitano Kerlov,
laggiù, è cadetto. Io sono un S.R. di destra...
Credo che la maggioranza degli ufficiali dell'esercito non sono
bolscevichi, ma, come me, democratici; pensano che devono seguire
la massa dei soldati... "
Dopo
il pranzo, vennero portate delle carte che il colonnello spiegò
sulla tavola. Tutti gli si raggrupparono intorno.
" Ecco, - disse il colonnello, indicando dei segni
di matita, - dove si trovavano le nostre posizioni questa
mattina. Vladimiro Kirillovic, dov'è la vostra compagnia?"
Il capitano Kerlov mise il dito sulla carta.
" Secondo gli ordini, ci siamo stabiliti sul fianco di
questa strada. Karsavin mi ha dato il cambio alle cinque.
In
quel momento la porta si aprì ed entrò il presidente
del Comitato di reggimento, seguito da un altro soldato. Si unirono
al gruppo che circondava il colonnello e seguirono la discussione
sulla carta."
" Bene, bene! I cosacchi si sono ritirati per dieci chilometri
nel nostro settore. Non credo che sia necessario occupare delle
posizioni avanzate. Perciò, signori, tenete questa notte
la linea attuale, rafforzando le posizioni con..."
"Permettete, - interruppe il presidente del Comitato.
- Gli ordini prescrivono di portarsi avanti con la massima rapidità
e di prepararsi ad ingaggiare la battaglia con i cosacchi al nord
di Gacina, domani mattina. Abbiamo assolutamente bisogno di una
vittoria schiacciante. Vogliate prendere le disposizioni necessarie."
Seguì un breve silenzio. Il colonnello si rivolse verso
la carta.
" Benissimo, - disse in tono diverso. - Stepan
Georgevic per favore..."
Tracciando rapidamente nuovi segni con la matita blu, diede gli
ordini, che un sergente stenografava. Poi il sergente uscì
e, dopo dieci minuti, riportò due copie dattilografate
degli ordini. Il
presidente del Comitato ne prese una copia e si mise a studiare
la carta.
" Benissimo, - disse alzandosi. - Piegò
il foglio e se lo mise in tasca, poi, dopo aver firmato l'altro
e dopo averlo timbrato con un sigillo rotondo che aveva con sé,
lo consegnò al colonnello. "
Adesso, riconoscevo la Rivoluzione!
Tornai
al Palazzo del Soviet nell'automobile dello Stato Maggiore del
reggimento. Sempre la stessa folla di operai, di soldati e di
marinai che entravano ed uscivano, sempre lo stesso ammucchiarsi
di autocarri, di autoblindate, di cannoni, davanti alla porta
e dovunque la gioia traboccante della vittoria attesa da sì
lungo tempo. Una decina di guardie rosse, che aveva in mezzo un
prete, si apriva il passo. Era il padre Ivan che aveva, dicevano,
benedetto i caosacchi alla loro entrata nella città. Seppi
dopo che era stato fucilato.
Dibenko
usciva, dando rapidi ordini a destra ed a sinistra. Aveva in mano
il suo grosso revolver. Una automobile lo aspettava accanto al
marciapiede con il motore in marcia. Prese posto, solo, nel sedile
posteriore. Andava a Gacina a battere Kerenski.
Al
cadere della notte egli arrivò alle prime case della città
e continuò a piedi. Ciò che Dibenko disse ai cosacchi
nessuno lo sa, ma il fatto è che il generale Krasnov ed
il suo Stato Maggiore, insieme con parecchie migliaia di cosacchi,
si arresero e diedero a Kerenski il consiglio di fare lo stesso.
Per
quanto riguarda Kerenski, riprodurrò qui la deposizione
fatta dal generale Krasnov il mattino del 14 novembre:
Gacina,14
novembre 1917. - Oggi, verso le tre del mattino, fui chiamato
dal comandante supremo Kerenski. Era molto agitato e molto nervoso.
" Generale - mi disse, - voi mi avete tradito! I
vostri cosacchi parlano di arrestarmi e style="mso-spacerun:
yes"> di consegnarmi ai marinai."
" Sì - risposi, - si parla effettivamente
di questo e so che voi non godete le simpatie di nessuno."
" Ma gli ufficiali dicono lo stesso?"
" Sì, gli ufficiali sono particolarmente malcontenti
di voi."
" Che cosa devo fare? Non mi resta che suicidarmi."
" Se voi siete un galantuomo, dovete andare immediatamente
a Pietrogrado, innalzare la bandiera bianca e presentarvi al Comitato
militare rivoluzionario per parlamentare con esso, come capo del
governo."
" Va bene, farò così, generale."
" Vi darò una scorta e domanderò che un marinaio
vi accompagni."
" No, no, soprattutto nessun marinaio. Voi sapete che Dibenko
è qui."
" Non so chi sia Dibenko. "
"È il mio nemico."
" Questo non ha importanza. Poiché voi giocate un
grosso gioco, bisogna che sappiate prendere le vostre responsabilità."
" Senza dubbio. Partirò questa notte."
" Perché? Sembrerà che voi fuggiate. Partite
con calma e fate in modo che tutti si persuadano che voi non fuggite."
" Bene, molto bene. È necessario solo che voi mi diate
una scorta sicura."
"È inteso. "
Uscii, chiamai il cosacco Russakov, del X reggimento del Don
e gli ordinai di designare otto cosacchi per scortare il Comandante
supremo. Dopo mezz'ora i cosacchi vennero a dirmi che non trovavano
più Kerenski e che era scappato. Diedi l'allarme ed ordinai
di ricercarlo supponendo che non avesse potuto fuggire da Gacina
e che dovesse nascondersi in qualche angolo. Ma fu impossibile
ritrovarlo.
Così
scappò Kerenski, solo, travestito da marinaio, perdendo
gli ultimi resti della popolarità, che aveva potuto conservare
fra le masse russe...
Ritornai
a Pietrogrado sul sedile anteriore di un autocarro, guidato da
un operaio e carico di guardie rosse. Siccome non avevamo petrolio,
le lanterne non erano accese. La strada era ostruita dall'esercito
proletario che andava a riposarsi e dalle riserve che venivano
a dargli il cambio. Camion enormi, colonne di artiglieria, carri,
senza lanterne come noi, sorgevano nella notte. Filavamo nella
notte, malgrado tutto, con una velocità indiavolata, gettandoci
a destra ed a sinistra, sfuggendo a collisioni che sembravano
inevitabili, urtando altre ruote, seguiti dalle ingiurie di pedoni.
All'orizzonte
scintillavano le luci della capitale, incomparabilmente più
bella di notte che di giorno, come una diga di pietre preziose
che tagliasse la pianura nuda. Il
vecchio operaio teneva il volante con una mano e con l'altra indicava,
in un gesto allegro, la capitale che brillava lontano.
" Tu sei mia! - gridava, il viso tutto illuminato.
" Tu sei mia adesso, mia Pietrogrado! "
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