John
Reed
Dieci giorni che sconvolsero il mondo
2. La tempesta si avvicina |
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In settembre il generale Kornilov marciava su Pietrogrado con l'intenzione
di proclamarsi dittatore militare della Russia. Si riconobbe presto
dietro di lui il pugno ferrato della borghesia, pronto ad abbattersi
sulla rivoluzione. Alcuni ministri socialisti erano compromessi;
lo stesso Kerenski era sospettato. Savinkov si rifiutò
di dare le spiegazioni richiestegli dal Comitato centrale del
partito S.R. al quale apparteneva. Fu espulso dal partito. Kornilov
fu fermato dai Consigli dei soldati. Parecchi generali furono
licenziati dall'esercito. Alcuni ministri furono sospesi dalle
loro funzioni: il ministero cadde.
Kerenski
tentò allora di formare un nuovo governo comprendendovi
il partito borghese dei cadetti. Il partito S.R. di cui egli era
membro, gli ordinò di escludere i cadetti. Si rifiutò
di obbedire, minacciando di dare le dimissioni se i socialisti
insistevano. L'esasperazione popolare era però tale, che
egli esitò allora ad urtarla direttamente. Un Direttorio,
composto di cinque degli ex ministri e presieduto da Kerenski
stesso, assunse allora il potere.
L'affare
Kornilov riunì tutti i gruppi socialisti, i «moderati»
come quelli veramente rivoluzionari, in uno stesso slancio di
difesa. Dei Kornilov non se ne volevano più. Si voleva
un nuovo governo, responsabile davanti agli elementi che sostenevano
la rivoluzione. Lo Tzik invitò dunque le organizzazioni
popolari a mandare dei delegati ad una Conferenza democratica
che doveva riunirsi a Pietrogrado in settembre.
Tre
frazioni si manifestarono presto nello Tzik. I bolscevichi
domandavano le riunioni del Congresso panrusso dei Soviet e la
presa del potere da parte di questi ultimi. Il «centro»
S.R., sotto la direzione di Cernov, fece blocco coi S.R. di sinistra,
guidati da Kamkov e dalla Spiridonova, coi menscevichi internazionalisti,
guidati da Martov e con il centro menscevico, rappresentato da
Bogdanov e da Skobelev, reclamando un governo puramente socialista;
Zeretelli, Dan, e Liber, alla testa dell'ala destra menscevica,
insistevano, con Avxentiev e Gotz, rappresentanti i S.R. di destra,
sulla necessità della partecipazione delle classi possidenti
al nuovo governo.
Quasi
subito i bolscevichi conquistarono la maggioranza nel Soviet di
Pietrogrado e ben presto fu così anche nei Soviet di Mosca,
di Kiev, di Odessa e di altre città.
Allarmati,
i menscevichi e i S.R., che dominavano nello Tzik, pensarono
che in fondo Kornilov era meno pericoloso di Lenin. Essi modificarono
dunque la ripartizione dei delegati alla Conferenza democratica,
aumentando il numero dei rappresentanti delle società cooperative
e delle organizzazioni conservatrici. Ma, anche dopo questa fabbricazione
di deputati, l'Assemblea votò per un governo di coalizione,
senza i cadetti. Solamente in seguito alla minaccia di dimissioni
di Kerenski e davanti alle grida d'allarme dei socialisti «moderati»,
che dichiaravano la repubblica in pericolo, la Conferenza finì
per pronunciarsi, con una debole maggioranza, in favore del principio
della coalizione con la borghesia e per approvare la costituzione
di una specie di Parlamento consultivo. Sorse così il Consiglio
provvisorio della repubblica russa. Nel nuovo ministero le classi
possidenti ebbero, di fatto, il potere. Al Consiglio della Repubblica
esse ebbero un numero di seggi del tutto sproporzionato.
Di
fatto lo Tzik aveva cessato di rappresentare realmente
i Soviet. Si era illegalmente opposto alla convocazione del nuovo
Congresso panrusso dei Soviet che avrebbe dovuto riunirsi in settembre.
Non pensava affatto né a riunire il congresso né
ad autorizzarne la convocazione. Il suo giornale ufficiale, Izvestia
(Le notizie), lasciava anche comprendere che l'attività
dei Soviet stava per finire e che presto si sarebbe potuto scioglierli.
Difatti il nuovo governo annunciava, come uno degli articoli dei
suo programma, la liquidazione delle «organizzazioni irresponsabili»,
cioè dei Soviet.
I
bolscevichi risposero convocando i Soviet a Pietrogrado per il
2 novembre ed invitandoli a prendere il potere. Nello stesso tempo
si ritiravano dal Consiglio della Repubblica, dichiarando di non
voler far parte di un governo che tradiva il popolo.
Ma
il disgraziato Consiglio non ebbe pace neppure dal fatto che i
bolscevichi ne erano usciti. Le classi possidenti, ormai in condizioni
di agire, divennero arroganti. I cadetti dichiararono che il governo
non aveva legalmente il diritto di proclamare la repubblica in
Russia. Essi reclamavano dei provvedimenti severi contro i Consigli
dei soldati e dei marinai e lanciavano ogni sorta di accuse contro
i Soviet. Dall'altra estremità dell'Assemblea i menscevichi
internazionalisti e i S.R. di sinistra domandavano la conclusione
immediata della pace, la consegna della terra ai contadini, il
controllo operaio sull'industria… cioè il programma
bolscevico.
Ero
presente durante la risposta data da Martov ai cadetti. Mortalmente
colpito dalla malattia, con una voce che non era più che
un soffio, egli diceva, curvo sulla tribuna ed agitando il dito
verso i banchi della destra:
"Voi
ci chiamate disfattisti. Ma i veri disfattisti sono coloro che
attendono un momento più favorevole per concludere la pace,
che vogliono rinviare la pace a più tardi, quando nulla
più resterà dell'esercito, quando la Russia sarà
diventata un oggetto di mercanteggiamento tra i diversi gruppi
imperialisti... Voi tentate di imporre al popolo russo una politica
secondo gli interessi della borghesia. La questione della pace
è urgente... voi imparerete che non invano hanno lavorato
gli zimmerwaldiani, quelli che voi chiamate «agenti della
Germania» e che hanno invece preparato in tutti i paesi
il risveglio della coscienza delle masse democratiche...
I menscevichi e i S.R. oscillavano tra questi due estremi, irresistibilmente
spinti verso sinistra dal malcontento crescente delle masse. Una
ostilità profonda divideva il Consiglio in gruppi irreconciliabili.
Tale
era la situazione quando si pose la questione della politica estera,
in seguito all'annuncio della tanto attesa Conferenza interalleata
di Parigi.
In
teoria tutti i partiti socialisti di Russia erano favorevoli ad
una pace su una base democratica, il più presto che fosse
possibile. Nel maggio 1917 il Soviet di Pietrogrado, ove dominavano
allora i menscevichi e i S.R., aveva proclamato le famose condizioni
russe di pace. Aveva reclamato una Conferenza interalleata per
la discussione degli scopi della guerra. La conferenza era stata
promessa per agosto, poi rinviata a settembre, in seguito ad ottobre
ed infine era stata fissata per il 10 novembre.
Il
governo provvisorio aveva proposto due delegati: il generale Alexeiev,
militare reazionario, e Teresctscenko, ministro degli affari esteri.
I Soviet scelsero Skobelev e gli diedero delle istruzioni particolareggiate:
il famoso nakaz. Il governo provvisorio fece delle obiezioni
alla scelta di Skobelev ed al nakaz. Gli ambasciatori
esteri protestarono. E finalmente, ad una interrogazione alla
Camera dei Comuni, Bonar Law rispose freddamente: «Per
quanto io so, la Conferenza di Parigi non discuterà degli
scopi della guerra, ma solamente dei metodi per continuare la
guerra...».
La
stampa conservatrice russa esultò ed i bolscevichi gridarono:
«Guardate ove i menscevichi e i S.R. sono stati condotti
dalla loro tattica di compromesso!».
Lungo
tutto il fronte, per più di un migliaio di chilometri,
i milioni di uomini degli eserciti russi si agitavano, come una
marea crescente, e rovesciavano sulla capitale centinaia e centinaia
di delegazioni che avevano un solo grido: «la pace!
la pace!».
Attraversai
il fiume per andare al Circolo Moderno, ad uno di quei grandi
comizi popolari che si riunivano, in tutta la città ed
in numero sempre maggiore, ogni notte. In un anfiteatro nudo e
lugubre, rischiarato da cinque piccole lampade sospese ad un filo
sottile, si ammassavano fin sotto il tetto, sulle scale sudice,
soldati, marinai, operai, donne, attenti come se le loro vite
fossero state in giuoco. Parlava un soldato della 548a Divisione:
"Compagni - gridava, e i suoi lineamenti tirati,
i suoi gesti disperati esprimevano una sincera angoscia - quelli
che sono al potere reclamano da noi sacrificio su sacrificio,
ma quelli che posseggono tutto sono lasciati tranquilli.
Noi siamo in guerra con la Germania. Forse che noi domandiamo
ai generali tedeschi di servire nel nostro Stato Maggiore? Ebbene,
noi siamo in guerra con i capitalisti, eppure noi domandiamo loro
di governarci...
Il soldato vuol sapere perché e per chi si batte. Per Costantinopoli,
per la liberazione della Russia, per la democrazia, o per i banditi
capitalisti? Provatemi che io lotto per la Rivoluzione; allora
io marcerò e mi batterò senza che vi sia bisogno
di minacciarmi della pena di morte.
Quando la terra apparterrà ai contadini, le officine agli
operai ed il potere ai Soviet, allora noi sappiamo che abbiamo
qualche cosa da difendere e ci batteremo per salvarlo."
Nelle caserme, nelle officine, agli angoli delle strade, dei soldati,
oratori instancabili, reclamavano la fine della guerra e dichiaravano
che se il governo non avesse fatto uno sforzo energico per la
pace, i soldati avrebbero abbandonato le trincee e se ne sarebbero
tornati a casa.
Il
rappresentante dell'VIII Armata si espresse così:
"Noi siamo deboli, noi non abbiamo più che pochi
uomini per ogni compagnia; ci si diano dei viveri, delle scarpe
e dei rinforzi, altrimenti le trincee saranno ben presto vuote.
Si faccia la pace oppure ci si rifornisca... Il governo finisca
la guerra, oppure mantenga gli eserciti... "
Un altro parlò a nome del 46° di artiglieria siberiana:
"Gli ufficiali non vogliono lavorare coi nostri Consigli;
ci vendono al nemico; applicano la pena di morte ai nostri agitatori
e questo governo di controrivoluzionari li sostiene.
Noi speravamo che la rivoluzione avrebbe portato la pace. Ma adesso
il governo ci proibisce perfino di parlarne. Eppure non ci da
né da mangiare né il necessario per combattere..."
Dall'Europa arrivavano voci di una pace conclusa a spese della
Russia.
Le
notizie sul trattamento fatto alle truppe in Francia aumentavano
il malcontento. La I Brigata aveva voluto sostituire gli ufficiali
con dei Consigli di soldati come i compagni di Russia ed aveva
rifiutato di partire per Salonicco, domandando di essere rimpatriata.
Era stata circondata, affamata e poi cannoneggiata. Molti erano
stati uccisi...
Il
29 ottobre mi recai al Palazzo Marinsky, nella sala di marmo bianco,
decorato di rosso, dove sedeva il Consiglio della Repubblica,
per assistere alla dichiarazione di Teresctscenko sulla politica
estera del governo. Tutto il paese, spossato ed avido di pace,
la attendeva con una terribile ansietà.
Un
uomo, giovane, di alta statura, coi vestiti impeccabili, il viso
dolce e gli zigomi sporgenti, leggeva con una voce soave un discorso
accurato, prudente e perfettamente vuoto... Sempre gli stessi
luoghi comuni sullo schiacciamento del militarismo tedesco, con
l'aiuto degli alleati, sugli «interessi nazionali»
della Russia, sull'imbarazzo suscitato dal nakaz consegnato
a Skobelev. Terminò con il solito ritornello:
"La Russia è una grande potenza. È dovere
nostro, di tutti, di difenderla, di mostrare che noi siamo i difensori
di un grande ideale, i figli di una grande nazione..."
Nessuno era soddisfatto. I reazionari volevano una politica imperialista
di forza, i partiti democratici esigevano dal governo l'assicurazione
che avrebbe affrettato la pace.
Tuttavia,
all'ultimo piano della scena politica, cominciava a sorgere, dall'ombra,
una forza sinistra: i cosacchi. Kaledin. ataman dei cosacchi del
Don, era stato destituito dal governo provvisorio per la sua complicità
nell'affare Kornilov. Egli rifiutò nettamente di andarsene
e si installò a Novocerkassk, in mezzo a tre immensi eserciti
di cosacchi, complottando e minacciando. Era tanto il suo potere
che il governo chiuse gli occhi sulla sua insubordinazione e dovette
anche riconoscere formalmente il Consiglio dell'Unione degli eserciti
cosacchi e dichiarare illegale la sezione cosacca dei Soviet,
recentemente costituita.
Nella
prima metà di ottobre, una delegazione cosacca venne a
trovare Kerenski, esigendo con arroganza il ritiro delle accuse
fatte a Kaledin, e rimproverando al Presidente del Consiglio di
cedere ai Soviet. Kerenski acconsentì a non disturbare
Kaledin; egli avrebbe anche aggiunto:
"Agli
occhi dei capi dei Soviet, io sono un despota ed un tiranno...
Il governo provvisorio non solo non si appoggia sui Soviet, ma
considera come molto increscioso il solo fatto della loro esistenza.
Nello stesso tempo un'altra missione cosacca si recò dall'ambasciatore
inglese e trattò arditamente con lui in nome del «libero
popolo cosacco».
Sul
Don si era creata una specie di repubblica cosacca. Il Kuban si
dichiarò Stato autonomo. I Soviet di Rostov sul Don e di
Ekaterinenburg furono dispersi dai cosacchi e la sede del sindacato
dei minatori a Karkov, saccheggiata. In tutte le sue manifestazioni,
il movimento cosacco era antisocialista e militarista. I suoi
capi erano nobili e grandi proprietari fondiari come Kaledin,
Kornilov, i generali Deutov, Karaulov e Bardije, sostenuti dai
potenti commercianti e banchieri di Mosca.
La
vecchia Russia si decomponeva rapidamente. In Ucraina, in Finlandia,
in Polonia e nella Russia bianca, i movimenti nazionalisti si
rafforzavano e diventavano più audaci. I governi locali,
dominati dalle classi possidenti, reclamavano l'autonomia e rifiutavano
di obbedire agli ordini di Pietrogrado. A Helsingfors, la Camera
finlandese rifiutò di prestare del denaro al governo provvisorio,
proclamò l'autonomia della Finlandia e domandò il
ritiro delle truppe russe. A Kiev la Rada borghese spinse lontano
verso l'est, fino ai monti Urali, le frontiere dell'Ucraina, comprendendo
così in questa i più ricchi tenitori agricoli del
sud della Russia, e iniziò l'organizzazione di un esercito
nazionale. Il primo ministro Vinnicenko fece delle allusioni a
una pace separata con la Germania. Il governo provvisorio era
impotente. La Siberia ed il Caucaso esigevano le proprie assemblee
costituenti. In tutti questi paesi cominciava una lotta accanita
tra il potere centrale ed i Soviet locali dei deputati operai
e soldati.
La
situazione diventava di giorno in giorno più caotica. I
soldati, che disertavano il fronte a centinaia di migliaia, rifluivano
come una vasta marea ed erravano senza meta per tutto il paese.
I contadini dei governatorati di Tambov e di Tver, stanchi di
attendere le terre ed esasperati dai provvedimenti repressivi
del governo, incendiavano i castelli e massacravano gli agrari.
Serrate e scioperi immensi scuotevano Mosca, Odessa ed il distretto
minerario del Donez. I trasporti erano paralizzati, l'esercito
moriva di fame e le grandi masse mancavano di pane.
Il
governo, stiracchiato tra i democratici ed i reazionari, era nell'impossibilità
di agire. Se prendeva un provvedimento, lo faceva nell'interesse
delle classi possidenti. Mandò i cosacchi a ristabilire
l'ordine fra i contadini ed a schiacciare gli scioperi. A Tasckent
i Soviet furono soppressi dalle autorità governative. A
Pietrogrado il Consiglio Economico, istituito per riorganizzare
la vita economica del paese, si trovò preso fra le forze
nemiche del capitale e del lavoro e ridotto così all'impotenza.
Fu sciolto da Kerenski. I militari del vecchio regime, appoggiati
ai cadetti, reclamavano provvedimenti energici per ristabilire
la disciplina nell'esercito e nella marina. Invano l'ammiraglio
Verderevski, il venerabile ministro della marina, ed il generale
Verkhovski, ministro della guerra, ripetevano che solo una nuova
disciplina morale, democratica, volontariamente accettata e basata
sulla cooperazione con i Consigli dei soldati e dei marinai, poteva
salvare l'esercito e la marina. I loro consigli non furono ascoltati.
I
reazionari sembravano risoluti a sfidare la collera popolare.
Il processo di Kornilov si avvicinava. La stampa borghese difendeva
Kornilov sempre più apertamente definendolo il «grande
patriota russo». Il giornale di Burtzev, Obsctsceie
Dielo (La causa comune), reclamava una dittatura di Kornilov,
Kaledin e Kerenski.
Un
giorno, nella tribuna della stampa del Consiglio della Repubblica
ebbi un colloquio con Burtzev, un piccolo uomo curvo con la faccia
rugosa, gli occhi miopi riparati dietro un paio di occhiali spessi,
i capelli e la barba grigiastri ed in disordine.
"
Ricordatevi delle mie parole, giovanotto. Ciò che manca
alla Russia è l'uomo forte. Bisognerebbe adesso finirla
col pensare alla Rivoluzione e concentrare la nostra attenzione
sulla Germania. Kornilov avrebbe dovuto vincere..."
All'estrema destra, giornali quasi dichiaratamente monarchici,
il Narodni Tributi (Il tribuno del popolo) di Purisckevic,
la Novaia Russ (La nuova Russia), ed il Jìvoie
Slovo (La parola vivente), propugnavano apertamente la liquidazione
della democrazia rivoluzionaria...
Il
23 ottobre si svolse la battaglia navale del golfo di Riga contro
una squadra tedesca. Con il pretesto che Pietrogrado era in pericolo,
il governo provvisorio preparò la evacuazione della capitale.
Dovevano anzitutto partire le grandi fabbriche di munizioni che
si volevano disperdere in tutta la Russia. Il governo stesso doveva
trasferirsi a Mosca. Ma i bolscevichi smascherarono subito i veri
motivi della decisione del governo che voleva abbandonare la capitale
rossa per indebolire la rivoluzione. Si era già abbandonata
Riga ai tedeschi; adesso si consegnava Pietrogrado.
La
stampa borghese esultava. A Mosca, diceva il giornale cadetto
Riec (La parola), il governo potrà continuare
la sua opera in un'atmosfera di calma senza essere minacciato
dai nemici dello Stato. Rodzianko, il capo dell'ala destra del
partito cadetto, dichiarò nell'Utro Rosii (L'alba
della Russia), che la presa di Pietrogrado da parte dei tedeschi
sarebbe stata un vantaggio perché avrebbe avuto per conseguenza
la caduta dei Soviet e avrebbe sbarazzato la Russia della flotta
rivoluzionaria del Baltico.
"
Pietrogrado è in pericolo - scriveva - ebbene,
lasciamo a Dio la cura di proteggere Pietrogrado! Si teme che
la perdita di Pietrogrado causi la morte delle organizzazioni
centrali rivoluzionarie. Per conto mio rispondo che mi rallegrerò
della loro disparizione perché esse non apporteranno alla
Russia che il disastro...
La presa di Pietrogrado provocherà, si dice, la liquidazione
della flotta del Baltico. Ma non vi sarà là nulla
da rimpiangere. La maggioranza degli equipaggi è completamente
demoralizzata..."
Lo sdegno popolare scoppiò così violento che i progetti
di evacuazione dovettero essere abbandonati.
Il
Congresso dei Soviet appariva intanto all'orizzonte, come una
nube burrascosa percorsa da lampi. Vi si opponevano non solo il
governo, ma tutti i socialisti «moderati». I Comitati
centrali dell'esercito e della flotta, quelli di alcuni sindacati,
i Soviet contadini e soprattutto lo Tzik stesso, nulla
risparmiavano per impedirne la riunione. Le Isvestia
ed il Golos Soldata (Voce del soldato), giornali fondati
dal Soviet di Pietrogrado e passati nelle mani dello Tzik,
l'attaccavano accanitamente. Così pure il partito socialista
rivoluzionario nei suoi due organi, Dielo Naroda (La
causa del popolo) e Volia Naroda (La volontà del
popolo).
Si
inviarono in tutto il paese dei delegati, si lanciarono ordini
telegrafici ai Comitati dei Soviet locali e ai Consigli dell'esercito
per sospendere o per ritardare le elezioni. Risoluzioni solenni
venivano votate contro il Congresso; si dichiarava che la riunione
del Congresso a una data così vicina a quella dell'Assemblea
Costituente era in opposizione coi principi democratici. Ovunque
si elevavano le proteste di delegati del fronte, della Unione
degli zemstvo, dell'Unione dei contadini, dell'Unione degli eserciti
cosacchi, dell'Unione degli ufficiali, dei Cavalieri di San Giorgio,
dei Battaglioni della morte ecc. Il Consiglio della repubblica
russa non aveva che un grido unanime di disapprovazione. Tutto
l'apparato sorto dalla rivoluzione di Marzo, era mobilitato contro
la riunione del Congresso dei Soviet.
Contro
questa opposizione si elevava la volontà ancora informe
del proletariato - operai, semplici soldati e contadini poveri.
Molti dei Soviet locali erano già bolscevichi. Vi erano
poi le organizzazioni degli operai industriali, i Consigli di
fabbrica e le organizzazioni rivoluzionarie dell'esercito e della
flotta. In alcuni luoghi il popolo, cui si impediva di eleggere
regolarmente i propri delegati, improvvisava dei comizi parziali
ed eleggeva un rappresentante da inviare a Pietrogrado. In altri
luoghi disperdeva gli antichi Comitati che facevano l'ostruzionismo
e li sostituiva con nuovi organi. Come un'ondata la rivolta montava;
la crosta che si era lentamente formata sulla lava rivoluzionaria,
durante i mesi precedenti, cominciava a spezzarsi. Solo un movimento
spontaneo delle masse poteva assicurare la riuscita del Congresso
panrusso dei Soviet.
Ogni
giorno gli oratori bolscevichi giravano le caserme e le fabbriche,
denunciando con violenza «il governo di guerra civile».
Una domenica ci recammo ad un comizio alle officine di Obukhovo,
fabbrica di munizioni dello Stato, posta fuori della città
sulla strada di Schlusselburg. Il nostro tram, con il suo tetto
pesante, avanzava penosamente tra grandi mura di officine e di
chiese immense, attraverso oceani di fango.
Il
comizio si svolse tra gli alti muri di mattoni di un enorme edificio
incompiuto: diecimila uditori, uomini e donne, vestiti di nero,
arrampicati sui mucchi di legna e di mattoni o appollaiati sulle
traverse, si affollavano attorno ad un palco drappeggiato di rosso,
appassionatamente attenti e manifestanti con una voce di tuono.
A tratti il sole rompeva le nubi pesanti e scure, inondando di
una luce rossastra, attraverso i buchi delle finestre, quella
massa di visi semplici rivolta verso di noi.
Lunaciarski,
dalla svelta sagoma di studente e dal fine viso d'artista, spiegò
perché il potere doveva essere preso dai Soviet. Niente
altro poteva garantire la rivoluzione contro i suoi nemici che
rovinavano deliberatamente il paese e l'esercito, preparando la
via a un nuovo Kornilov.
Un
soldato del fronte rumeno, magro, tragico, appassionato gridò:
"Compagni,
al fronte noi moriamo di fame e di freddo. Ci si fa morire senza
ragione. Prego i compagni americani di dire in America che i russi
abbandoneranno la loro Rivoluzione, solo quando saranno tutti
morti. Noi difenderemo la nostra fortezza con tutte le nostre
forze fino a che tutti i popoli si leveranno e ci verranno in
aiuto. Dite agli operai americani di alzarsi e di combattere per
la rivoluzione sociale."
Dopo
di lui parlò lo svelto Petrovski, con una piccola voce
lenta, implacabile:
"Non
è più l'ora delle parole, ma è quella dell'azione!
La situazione economica è cattiva; bisogna fronteggiarla.
I nostri avversari tentano di prenderci per fame e per freddo;
essi vogliono provocarci. Ma sappiano che andrà loro male.
Se essi osano toccare le nostre organizzazioni, noi li spazzeremo
come immondizie dalla faccia della terra."
La
stampa bolscevica ebbe, di colpo, un nuovo slancio. Oltre ai giornali
del partito, La voce degli operai ed il Soldato,
cominciarono a pubblicarsi due nuovi organi: l'uno per i contadini,
I contadini poveri (Deverenscaia Biednota), che stampava
tutti i giornali mezzo milione di copie, e l'altro intitolato
L'operaio ed il soldato (Raboci i Soldat). Quest'ultimo
riassumeva nel suo primo numero, il 17 ottobre, il programma bolscevico:
"Un
quarto anno di guerra significherebbe l'annientamento dell'esercito
e del paese... Pietrogrado rivoluzionaria è in pericolò.
I controrivoluzionari si rallegrano dei mali del popolo e si preparano
a colpirlo mortalmente. I contadini, disperati, sono entrati in
aperta rivolta; i proprietari ed il governo li fanno massacrare
dalle spedizioni punitive. Le fabbriche e le miniere cessano il
lavoro; gli operai sono minacciati dalla fame. La borghesia ed
i suoi generali vogliono ristabilire con provvedimenti implacabili
una disciplina cieca nell'esercito. Sostenuti dalla borghesia,
i partigiani di Kornilov si preparano apertamente a disperdere
l'Assemblea Costituente.
Il governo di Kerenski è il governo della borghesia. Tutta
la sua politica è diretta contro gli operai, i soldati
ed i contadini. Rovinerà il paese... Il nostro giornale
compare in giorni gravidi di minacce. Sarà la voce del
proletario e della guarnigione di Pietrogrado. Sarà il
difensore instancabile dei contadini poveri... Bisogna che il
popolo sia salvato, che la rivoluzione sia condotta al suo termine.
Bisogna che il potere sia strappato dalle mani criminali della
borghesia e rimesso alle organizzazioni degli operai, dei soldati
e dei contadini rivoluzionari. Bisogna che la guerra maledetta
finisca.
Il
programma del Raboci
i Soldat è quello del Soviet dei Deputati operai e
soldati di Pietrogrado, cioè:
Tutto
il potere ai Soviet nella capitale come in provincia.
Tregua immediata su tutti i fronti, pace leale fra i popoli.
La terra ai contadini, senza indennità ai proprietari.
Un'assemblea Costituente eletta con onestà."
Riproduciamo
ancora un altro brano interessante dello stesso giornale - l'organo
dei bolscevichi che erano definiti da tutto il mondo come gli
agenti della Germania:
"L'imperatore
tedesco, sporco del sangue di milioni di uomini, vuole spingere
il suo esercito fino a Pietrogrado. Rivolgiamoci agli operai,
ai soldati, ed ai contadini tedeschi che desiderano la pace non
meno di noi, affinché essi insorgano contro questa guerra
maledetta.
Questo potrà essere fatto solo da un governo rivoluzionario,
che parlerà veramente a nome degli operai, dei soldati
e dei contadini russi, che si rivolgerà, al disopra dei
diplomatici, direttamente agli eserciti tedeschi e riempirà
le loro trincee di proclami in lingua tedesca... I nostri aviatori
inonderanno tutta la Germania con questi proclami..."
Al
Consiglio della Repubblica, l'abisso tra i due estremi si faceva
sempre più profondo.
Le classi possidenti, gridava Karelin, a nome dei S.R. di sinistra,
vogliono servirsi dell'apparato rivoluzionario dello Stato per
legare la Russia al carro di guerra degli alleati! I partiti rivoluzionari
si oppongono risolutamente a tale politica.
Il
vecchio Nicola Ciaikovski, rappresentante dei socialisti popolari
(trudoviki), parlò contro la divisione delle terre
tra i contadini e si mise con i cadetti.
"Noi
dobbiamo immediatamente ristabilire una salda disciplina nell'esercito.
All'inizio della guerra non ho cessato di ripetere che è
criminale iniziare delle riforme economiche e sociali in tempo
di guerra. ’È questo il delitto che noi commettiamo.
Eppure io non sono nemico di queste riforme, perché sono
socialiste. (Grida a sinistra) Non vi crediamo!"
(Tempesta di applausi a destra).
Adijemov
dichiarò a nome dei cadetti che non era affatto necessario
dire all'esercito perché esso combatteva: ciascun soldato
doveva comprendere che suo primo dovere era di cacciare il nemico
dal territorio russo.
Lo
stesso Kerenski venne due volte a perorare appassionatamente per
l'Unione Nazionale e si sciolse in lagrime alla fine dei suoi
discorsi. L'Assemblea lo ascoltò freddamente, interrompendolo
con osservazioni ironiche.
L'Istituto
Smolni, quartiere generale dello Tzik e dei Soviet di
Pietrogrado, si trova ad alcune miglia dal centro, alla fine della
città, sulla riva dell'ampia Neva. Presi un tram ricolmo
di viaggiatori, che serpeggiava gemendo lungo strade fangose e
mal selciate. Alla fine della linea si innalzavano le graziose
cupole azzurrine, filettate d'oro smorto del Convento Smolni,
così belle, e di fianco la grande facciata, in stile da
caserma, dell'Istituto Smolni, lungo circa duecento metri ed alto
tre piani, che portava, sopra l'entrata, un enorme ed insolente
stemma imperiale, scolpito nella pietra.
Le
organizzazioni rivoluzionarie dei soldati e degli operai si erano
installate in quell'istituto, celebre pensionato per giovanette
nobili sotto il vecchio regime, sotto il patronato della zarina.
Aveva più di un centinaio di vaste camere, bianche e nude;
sulle porte alcune placche smaltate indicavano ancora ai visitatori
la «quarta classe», e la «sala dei professori».
Ma altre scritte, tracciate frettolosamente, testimoniavano della
nuova attività che regnava nell'edificio: «Comitato
centrale del Soviet di Pietrogrado», «Tzik»,
«Commissione degli Affari Esteri», «Unione dei
soldati socialisti», «Consigli di fabbrica»,
«Comitato centrale dell'esercito»; altre stanze erano
occupate dagli uffici centrali e servivano per le riunioni dei
partiti politici.
Nei
lunghi corridoi, dal soffitto ricurvo, rischiarati di tanto in
tanto da lampade elettriche, circolava una folla affaccendata
di operai e di soldati. Qualcuno era piegato sotto il peso di
enormi pacchi di giornali, di proclami, di propaganda stampata
di ogni genere. Il rumore delle loro scarpe pesanti sul pavimento
sembrava un incessante brontolio di tuono. Ovunque erano poste
delle scritte: «Compagni, nell'interesse della vostra
stessa salute, osservate da pulizia!». A ciascun piano,
alla cima delle scale e sui pianerottoli erano installate delle
lunghe tavole dove si vendevano dei mucchi di opuscoli e di pubblicazione
politiche.
Il
vasto refettorio, dal soffitto basso, che si trovava al pianterreno
rialzato, era diventato una sala di ristorante. Per due rubli
mi si diede uno scontrino che dava diritto ad un pasto; poi presi
posto tra un migliaio di altri che attendevano di poter accedere
ad uno dei lunghi tavoli dove una ventina di uomini e di donne
servivano la zuppa coi cavoli, presa in immense caldaie insieme
con dei pezzi di carne e distribuivano delle montagne di kascia e delle fette di pane nero. Per cinque copechi si riceveva una
porzione di the in tazza di stagno. Si prendeva da sé stessi,
in un paniere, un cucchiaio di legno poco pulito. Sulle panche,
lungo le tavole di legno, proletari affamati inghiottivano il
loro pasto, pur chiacchierando fra di loro e lanciandosi attraverso
la sala delle frasi scherzose.
Al
primo piano vi era un altro buffet, riservato allo Tzik,
ma dove andavano tutti. Vi si potevano avere delle tartine generosamente
imburrate e dei bicchieri di the a volontà.
Nell'ala
sud, al secondo piano, si trovava la grande sala delle riunioni,
l'antica sala da ballo dell'istituto. Una stanza alta, con i muri
tutti bianchi, rischiarata da centinaia di globi elettrici lavorati,
fissati su candelabri verniciati e divisa da due file di colonne
massicce. Ad un'estremità un baldacchino fiancheggiato
da due alte lampade a molti bracci, e, dietro, un quadro d'oro
da cui si era tolto il ritratto dello zar. Qui nei giorni di festa
campeggiavano le sontuose uniforme militari ed ecclesiastiche;
era un ambiente fatto per le granduchesse.
Dall'altro
lato del corridoio, dinanzi alla sala delle riunioni, si verificavano
i mandati dei delegati al Congresso dei Soviet. Osservai l'arrivo
dei nuovi delegati: vigorosi soldati barbuti, operai in blusa
nera, alcuni contadini con i capelli lunghi. Una giovane donna,
aderente all’Edinstvo di Plekhanov, dirigeva l'operazione.
Sorrideva sdegnosa:
«Non
rassomigliano affatto ai delegati al primo Congresso diceva. Guardate
che aria grossolana ed ignorante! Che massa incolta...».
Era
esatto. La Russia era stata scossa fin nel più profondo
e gli strati bassi erano venuti alla superficie. Il Comitato di
verifica, nominato dall'antico Tzik, contestava a ciascun
delegato la legalità del suo mandato. Karakhan, membro
del comitato bolscevico, sorrideva.
"Non inquietatevi - diceva - al momento buono
vi faremo riconoscere."
Era
evidente che il numero legale non sarebbe stato raggiunto per
il 2 novembre e si rinviò quindi il Congresso al 7. Ma
tutto il paese era già in agitazione ed i menscevichi ed
i socialisti rivoluzionari, comprendendo di essere battuti, cambiarono
improvvisamente tattica. Telegrafarono ovunque a tutte le loro
organizzazioni provinciali di eleggere il maggior numero possibile
di socialisti «moderati». Nel medesimo tempo il Comitato
esecutivo dei Soviet contadini convocò, d'urgenza, un Congresso
per il 13 dicembre in modo da rendere vana ogni eventuale azione
degli operai e dei soldati.
Che
cosa avrebbero fatto i bolscevichi? In città correva la
voce che gli operai ed i soldati preparavano una dimostrazione
armata. La stampa borghese e reazionaria profetizzava l'insurrezione
e reclamava dal governo l'arresto del Soviet di Pietrogrado od
almeno la proibizione del Congresso. Alcuni giornali, come la Novaia Russ, predicavano il massacro generale dei bolscevichi.
Il
giornale di Gorki, la Novaja Zhìzn, riconosceva,
d'accordo con i bolscevichi, che i reazionari tentavano di soffocare
la rivoluzione e che, se necessario, bisognava loro opporre la
forza delle armi; ma, prima di tutto, era necessario che tutti
i partiti della democrazia rivoluzionaria presentassero un fronte
unico. Gorki faceva osservare che sia i giornali reazionari, sia
quelli del governo eccitavano i bolscevichi alla violenza; e che
una insurrezione avrebbe aperto la via ad un nuovo Kornilov. Gorki
scongiurava i bolscevichi a smentire le voci messe in circolazione.
Nell'organo menscevico il Den' (II giorno), Potressov
pubblicò una informazione sensazionale, con una carta,
pretendendo svelare il piano segreto dei bolscevichi.
Come
per incanto le mura si coprirono di avvisi, di proclami, di appelli
dei Comitati centrali dei «moderati» e dei conservatori.
Lo Tzik denunciava qualsiasi «dimostrazione»
da qualunque parte fosse promossa e scongiurava i soldati e gli
operai di non dare ascolto agli agitatori.
Il
28 ottobre mi trattenni nei corridoi di Smolni con Kamenev, un
piccolo uomo dalla barbetta rossastra, tagliata a punta e dal
gestire latino. Egli non era affatto sicuro che vi sarebbe stato
un numero sufficiente di delegati.
"Se
il congresso avrà luogo - mi disse - rappresenterà
la volontà della maggioranza del popolo. Se, come penso,
la maggioranza sarà bolscevica, noi domanderemo che il
potere sia rimesso ai Soviet ed il governo provvisorio dovrà
ritirarsi."
Volodarski,
un giovanottone pallido, colorito malsano ed occhiali, era più
categorico:
"I
Liber, i Dan e gli altri opportunisti stanno sabotando il Congresso.
Ma se essi riusciranno ad impedirne la riunione, noi saremo abbastanza
realisti, da non farci fermare egualmente."
Nel
mio taccuino trovo, sotto la data del 29 ottobre, questi brani
di giornali:
Moghilev (Gran Quartiere generale). Là sono concentrati
i reggimenti lealisti della Guardia, la Divisione Selvaggia, i
cosacchi ed i Battaglioni della Morte.
Gli junker di Pavlovsk, di Sarkoie Selo e di Petergof
hanno ricevuto dal governo l'ordine di tenersi pronti a partire
per Pietrogrado. Gli junker d'Oranienbaum arrivano nella
capitale.
Una parte della divisione delle automobili blindate della guarnigione
di Pietrogrado è accasermata al Palazzo d'Inverno.
In seguito ad un ordine firmato da Trotski parecchie migliaia
di fucili sono stati consegnati dalla fabbrica d'armi di Sestroretsk
a delegati operai di Pietrogrado.
Ad un comizio della milizia municipale di Pietrogrado, nel quartiere
di Bas-Liteini, una risoluzione ha reclamato il passaggio del
potere ai Soviet.
Tutto questo è solo un esempio della confusione che regnava
in quei giorni febbrili, quando tutti sapevano che qualche cosa
stava per succedere e nessuno poteva dire esattamente che cosa.
Durante
una riunione del Soviet di Pietrogrado a Smolni, nella notte del
30 ottobre, Trotski smentì le affermazioni della stampa
borghese circa i progetti di insurrezione dei Soviet, definendole
un «tentativo reazionario per screditare e per far fallire
il Congresso dei Soviet».
"Il
Soviet di Pietrogrado - dichiarò a nome del Soviet
stesso - non ha dato alcun ordine di insurrezione. Se sarà
necessario noi daremo tale ordine, e noi avremo l'appoggio della
guarnigione di Pietrogrado... Il governo prepara un movimento
controrivoluzionario; noi risponderemo con una offensiva, che
sarà decisiva e senza pietà."
Era
esatto che il Soviet di Pietrogrado non aveva ordinato alcuna
dimostrazione armata, ma il Comitato centrale del partito bolscevico
stava esaminando la eventualità della insurrezione. La
notte del 23 sedette in permanenza. Tutti gli intellettuali del
partito, tutti i capi, e così pure parecchi delegati degli
operai e della guarnigione di Pietrogrado erano presenti. Tra
gli intellettuali solo Lenin e Trotski erano per l'insurrezione.
Anche i militari erano contrari. Si votò. La insurrezione
fu battuta.
Allora
un operaio si levò, il viso contratto per il furore:
"Parlo
a nome del proletariato di Pietrogrado - disse rudemente
- Noi siamo per l'insurrezione. Fate quello che volete, ma
io vi dichiaro che se voi lasciate schiacciare i Soviet, voi siete
finiti per noi."
Alcuni
soldati lo appoggiarono... Si rimise ai voti la insurrezione...
Trionfò.
Tuttavia
l'ala destra dei bolscevichi, guidata dai Riazanov, Kamenev e
Zinoviev, continuava la sua campagna contro la sollevazione armata.
Il mattino del 31 dicembre il Raboci Put cominciò
la pubblicazione della «Lettera ai compagni» di Lenin,
uno dei più audaci scritti di agitazione politica che il
mondo abbia conosciuto. Lenin vi esponeva tutti gli argomenti
in favore dell'insurrezione, partendo dalle obiezioni di Kamenev
e di Riazanov.
"O noi passeremo nel campo di Liber e di Dan ed abbandoneremo
la nostra parola d'ordine Tutto il potere ai Soviet - scriveva
- o noi faremo l'insurrezione. Non c'è via di mezzo..."
Nel pomeriggio dello stesso giorno, il capo dei cadetti, Miliukov,
pronunciò un brillante ed agro discorso al Consiglio della
Repubblica. Vi stigmatizzava la germanofilia del nakaz a Skobelev, dichiarava che la «democrazia rivoluzionaria»
stava rovinando la Russia, e, schernendo Teresctscenko, non esitava
ad affermare che preferiva la diplomazia tedesca a quella russa...
Un tumulto violento scosse tutta la sinistra.
Il
governo, da parte sua, non poteva misconoscere la importanza dei
successi della propaganda bolscevica. Il 29, una commissione mista
di rappresentanti del governo e del Consiglio della Repubblica
redigeva affrettatamente due progetti di legge: l'uno accordava
temporaneamente la terra ai contadini, l'altro gettava le basi
di una energica politica di pace. L'indomani Kerenski sospendeva
la pena di morte nell'esercito. Nello stesso giorno si apriva
solennemente la prima seduta della nuova «Commissione per
il rafforzamento del regime repubblicano e per la lotta contro
l'anarchia e la contro-rivoluzione», di cui la storia non
doveva registrare in seguito la più piccola traccia...
Il mattino seguente intervistai Kerenski, in compagnia di altri
due giornalisti; fummo gli ultimi corrispondenti di giornali ricevuti
da lui.
"Il
popolo russo - disse con amarezza - soffre di spossamento
e di disillusione nei riguardi degli alleati. Il mondo pensa che
la rivoluzione sta per finire. Non ingannatevi, la rivoluzione
è appena cominciata.
Parole più profetiche, senza dubbio, di quanto egli pensasse."
La
riunione dei Soviet di Pietrogrado, alla quale assistei, durò
tutta la notte del 30 ottobre e fu molto tempestosa. Socialisti
«moderati», intellettuali, ufficiali, membri dei Consigli
dell'esercito e dello Tzik vi erano venuti numerosi.
Dinanzi ad essi operai, contadini, soldati, semplici ed ardenti.
Un
contadino raccontò i disordini di Tver, provocati, secondo
lui, dall'arresto dei Comitati agrari.
"Questo Kerenski non è che lo «scudo»
dei grossi proprietari agrari! - gridò - Essi
sanno bene che all'Assemblea Costituente noi prenderemo egualmente
le terre ed è per questo che si sforzano oggi di ammazzarla."
Un
meccanico delle officine Putilov spiegò che i direttori
chiudevano ad una ad una tutte le officine, con il pretesto che
mancavano o il carbone o le materie prime; invece il Consiglio
di fabbrica ne aveva scoperte delle enormi riserve nascoste.
"È
una provocazione - disse - vogliono affamarci per spingerci
alla violenza."
Un
soldato cominciò:
"Compagni,
vi porto il saluto di quelli che, laggiù, scavano le loro
tombe, che si chiamano trincee."
Seguì
un giovane soldato, grande, alto, lo sguardo scintillante; una
vampata di entusiasmo lo accolse. Era Ciudnovski, dato morto nei
combattimenti di luglio, che risuscitava...
"La
massa dei soldati non ha più fiducia nei suoi capi. Anche
i Comitati dell'esercito, che hanno rifiutato di riunire il nostro
Soviet, hanno tradito. I soldati vogliono che l'Assemblea Costituente
si riunisca alla data fissata. Guai a coloro che oseranno rinviarla.
E questa non è una minaccia platonica: l'esercito ha dei
cannoni!"
Parlò
poi della campagna elettorale che infuriava nella quinta armata.
"Gli
ufficiali, soprattutto i menscevichi e i S.R. lavorano sistematicamente
a liquidare il partito bolscevico. Si proibisce la circolazione
dei nostri giornali nelle trincee. Si arrestano i nostri oratori..."
"
Perché non parlate anche della mancanza di pane?
"interruppe un altro soldato.
"L'uomo
non vive di solo pane" rispose gravemente Ciudnovski.
Dopo
di lui prese la parola un ufficiale, un menscevico guerrafondaio,
delegato del Soviet di Vitebsk:
"
Poco importa chi attualmente detenga il potere. Non si tratta
del governo, si tratta della guerra. Nessun cambiamento è
possibile; bisogna prima di tutto vincere la guerra. (Fischi
ed esclamazioni ironiche). Gli agitatori bolscevichi sono
dei demagoghi!"
A
queste parole la sala scoppiò dalle risate.
"
Dimentichiamo per un momento la lotta di classe... -
Non potè proseguire. Una voce lanciò:
"
Potete contarci... "
Pietrogrado presentava allora uno spettacolo curioso. Nelle officine
le sale dei Consigli erano piene di fucili; corrieri; andavano
e venivano; la Guardia Rossa si addestrava. In tutte caserme si
svolgevano ogni notte dei comizi e le giornate scorrevano in discussioni
interminabili ed appassionate. Nelle strade la folla si addensava
verso sera; si spandeva in lente ondate sulla prospettiva Nevski,
disputandosi i giornali. Nella Sadovaia ho visto, in pieno pomeriggio!,
una folla di parecchie centinaia di persone inseguire e battere
un soldato preso in flagrante reato di furto... individui misteriosi
s'aggiravano attorno alle donne, tremanti per il freddo nelle
code per il pane e per il latte, sussurrando che gli ebrei avevano
accaparrato le provviste di viveri e che i membri dei Soviet vivevano
nell'opulenza, mentre il popolo moriva di fame...
A
Smolni, all'entrata ed alla cancellata esterna, un posto di guardia
verificava minuziosamente i lascia-passare. Nelle sale di riunione,
vi era (giorno e notte), un rumore ininterrotto; centinaia di
operai e di soldati dormivano sui pavimenti, come potevano. Al
primo piano, un migliaio di uditori si affollavano alle sedute
tumultuose del Soviet di Pietrogrado...
Dal
crepuscolo all'alba si giocava febbrilmente nei club, lo champagne
scorreva a fiotti, le poste raggiungevano i ventimila rubli. Le
strade ed i caffè del centro rigurgitavano di prostitute
coperte di brillanti e di pellicce lussuose...
Complotti
monarchici, spioni tedeschi, contrabbandieri che facevano dei
progetti...
Nel
freddo e sotto la pioggia, che un cielo grigiastro rovesciava
senza sosta, la grande città, tutta palpitante, accelerava
la sua corsa... Verso dove?
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