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Julius Fucik
Scritto sotto la forca |
Capitolo Primo
VENTIQUATTR'ORE
Essere seduti in posizione di attenti, con il corpo teso, immobile, le mani
incollate ai ginocchi, gli occhi fissi fino ad accecare sul muro giallo del
Deposito nel palazzo Petschek a Praga - non è certo l'atteggiamento più
favorevole per riflettere. È un po' difficile costringere un'idea a restare
in quella posizione, seduta, sull'attenti.
Qualcuno in qualche posto - non riusciremo mai, forse, a stabilire chi e quando
- ha soprannominato questo deposito del palazzo Petschek "il cinema",
un soprannome davvero geniale. Una sala spaziosa, sei lunghe panche, in file
serrate, occupate dai corpi immobili degli imputati, e dinanzi a loro il muro
vuoto, come lo schermo di un cinema. Tutte le case produttrici del mondo non
hanno potuto girare tanti film quanti ne hanno proiettati su quel muro gli occhi
degli imputati in attesa di un nuovo interrogatorio, della tortura, della morte.
I film della vita intera e non dei piccoli particolari della vita, quelli della
madre, della moglie, dei figli, del focolare distrutto, d'un'esistenza perduta,
i film del compagno coraggioso e del tradimento, il film dell'"a chi ho
dato quel volantino?", del sangue che scorrerà ancora, d'una forte
stretta di mano, pegno di fedeltà. Film pieni di terrore e di risoluzione,
di odio e di amore, d'angoscia e di speranza. Ognuno, con la schiena voltata
alla vita, muore qui dinanzi ai propri occhi. Ma non ognuno rinasce.
Ho visto cento volte il mio proprio film, mille volte i suoi particolari, e
cercherò ora di raccontarlo. Se il nodo scorsoio mi si stringe al collo
prima che finisca, resteranno ancora milioni di uomini per concludere questo
film con un " lieto fine ".
Fra cinque minuti l'orologio suonerà le dieci, è una bella sera
fresca di primavera, esattamente il 24 aprile 1942.
Affretto il passo, nei limiti della mia parte, quella d'un signore attempato
che zoppica - affretto il passo per
arrivare dagli Jelinek prima che il portone si chiuda. Mi aspetta là
il mio secondo, Mirek. So che per questa volta non ha nulla di importante da
dirmi, né io a lui, ma mancare a un appuntamento potrebbe provocare il
panico e appunto bisogna evitare inutili preoccupazioni alle due anime buone
che ci accolgono.
Mi ricevono con una tazza di tè. Mirek già aspettava, in più
ci sono i coniugi Fried. Un'altra imprudenza. Certo che mi fa piacere vedervi,
compagni, ma non cosi insieme. È la strada migliore per la prigione e
la morte. O rispettate le regole cospirative, o smetterete di lavorare, perché
mettete in pericolo voi stessi e gli altri. Capite?
- Capito.
- Cosa mi avete portato?
- Il numero del 10 maggio del Rude Pravo.
- Ottimo, e tu, Mirek?
- Va tutto bene, niente di nuovo, il lavoro marcia...
- Niènt'altro, ci rivedremo dopo il 10 maggio, vi lascerò un rigo,
arrivederci.
- Un'altra tazza di tè, principale.
- No, no, signora Jelinek, siamo in troppi, qui.
- Solo una tazzina, prego.
Il vapore s'alza dal tè appena versato.
Bussano. A quest'ora, di notte? Chi può essere?
I visitatori sono impazienti.
- Aprite, polizia.
- Presto, alle finestre, scappate. Ho delle rivoltelle, vi coprirò la
fuga.
Troppo tardi, la Gestapo è già sotto le finestre, con le pistole
puntate nella nostra direzione. Forzando le porte, traversando il corridoio,
le guardie penetrano rapidamente nella cucina, poi nella camera. Uno, due, tre,
nove uomini. Non mi vedono perché sono dietro le loro spalle, dietro
la porta che hanno spalancato. Posso dunque comodamente tirare, ma le loro nove
pistole sono puntate su due donne e tre uomini disarmati, se tirassi per primo
i compagni cadrebbero prima di me, e anche se volessi tirare contro di me la
sparatoria comincerebbe e i compagni ne sarebbero le prime vittime. Se non tiro,
potranno rinchiuderli per sei mesi, per un anno forse, e la Rivoluzione li libererà.
Soltanto Mirek ed io non abbiamo probabilità di uscirne, ci tortureranno
- da me non caveranno nulla. E da Mirek?
L'ex-combattente della Spagna repubblicana, l'uomo che ha fatto due anni di
campo di concentramento in Francia e che in piena guerra è passato illegalmente
dalla Francia a Praga, no, non tradirà. Ho due secondi per riflettere,
o magari tre secondi...
Se tiro non salvo nulla, mi risparmio le torture ma" sacrifico inutilmente
la vita di quattro compagni. E' cosi? Si. È deciso.
Esco dal mio nascondiglio.
- Ah, eccone un altro.
Primo pugno in faccia, forse era per mettermi knok-out
- Hände auf! (Mani in alto!)
Secondo, terzo pugno.
Proprio come avevo immaginato.
Un appartamento in ordine è ridotto già ad un guazzabuglio di
mobili spaccati, di vasellame rotto. Ancora pugni e calci.
- Marsch!
Mi hanno messo nell'auto, con la pistola sempre puntata addosso. Durante il
tragitto comincia l'interrogatorio.
- Chi sei?
- Il professor Horak.
- Non è vero.
Alzo le spalle.
- Sparate.
- Sta' seduto o sparo!
Ma invece di una pallottola un altro pugno.
Passiamo accanto a un tram, mi sembra che sia inghirlandato di fiori bianchi.
Un tram di nozze a questa ora, in piena notte? Credo che mi stia cominciando
la febbre.
Nel palazzo di Petschek avevo sperato di non entrarci mai vivo: eccoci invece,
di galoppo, al quarto piano. Ah! il famigerato Ufficio II A I, la sezione anticomunista.
Mi sembra di essere perfino curioso.
Il commissario lungo e magro che ha guidato l'operazione di quella squadra speciale
contro di noi, si mette la pistola in tasca e mi prende con sé nel suo
ufficio. Mi accende una sigaretta.
- Chi sei?
- Il professor Horak.
- Non è vero.
Il suo orologio da polso segna le undici.
- Frugatelo.
Cominciano a frugarmi, mi spogliano.
- Ha dei documenti.
- A che nome?
- Professor Horak.
- Fate prendere informazioni.
Suona il telefono.
- Evidentemente, non è dichiarato, i documenti sono falsi.
- Chi te li ha dati?
- La direzione di polizia.
Prima bastonata. Seconda. Terza. A che scopo contarle? È una statistica
che non pubblicherai in nessun posto, caro il mio ragazzo.
- Il tuo nome? Parla! Il tuo indirizzo? Parla! Con chi eri in rapporti? Parla!
Le abitazioni? Parla! Parla! Se no ti bastoneremo a morte.
Quante bastonate può sopportare un uomo sano?
Alla radio si sente suonare mezzanotte, i caffè chiudono, gli ultimi
clienti se ne vanno a casa, gli innamorati indugiano davanti alle porte e non
si decidono a dirsi arrivederci.
Il commissario lungo e magro entra nella stanza con un sorriso gaio.
- Tutto bene, signor giornalista?
Da chi lo hanno saputo? Da Jelinek? Dai Fried? ma il mio nome, loro, non lo
sanno.
- Lo vedi, sappiamo tutto. Parli? Sii intelligente!
Che modo di ragionare! Essere intelligente: tradire. Io non sono intelligente.
- Legatelo! e dategliene ancora.
È l'una, gli ultimi tram rientrano al deposito.
Le strade si vuotano, la radio augura la buona notte ai suoi ascoltatori più
fedeli.
- Chi è ancora membro del Comitato Centrale? Dove sono le radio trasmittenti?
Dove sono le tipografie? Parla! Parla! Parla!
Ora sono in grado di contare i colpi più tranquillamente, il solo dolore
che provi è il morso dei miei denti sulle mie labbra.
- Mettetelo scalzo.
È vero, la pianta dei piedi è ancora sensibile. Ora lo sento.
Cinque, sei, sette, ed uno, ora, come se il bastone mi attraversasse fino al
cervello.
Le due. Praga dorme, forse in qualche posto un bambino dà il primo vagito
e un uomo carezza il fianco di una donna.
- Parla!
Mi passo la lingua sulle gengive e cerco di contare i denti spezzati. Impossibile
fare il calcolo. Dodici, quindici, diciassette? No, è il numero dei commissari
che "m'interrogano" ora. Qualcuno di loro è già visibilmente
stanco, ma la morte continua a non venire.
Le tre. Il primo chiarore del mattino arriva dai sobborghi. Gli ortolani si
avvicinano al mercato e gli spazzini entrano nelle loro strade. Forse vivrò
abbastanza per vedere ancora un'altra mattina.
Portano dentro mia moglie.
- Lo conoscete?
Inghiotto il sangue perché non lo veda... Che stupido! il sangue mi cola
da tutti i pori della faccia e perfino dalla punta delle dita.
- Lo conoscete?
- Non lo conosco.
Lo ha detto, e senza che nemmeno uno sguardo tradisse il suo orrore. Ha rispettato
il nostro accordo che non avrebbe mai dichiarato di conoscermi, benché
ormai sia inutile. Ma chi ha detto loro il mio nome? L'hanno riportata via,
mi sono congedato da lei con lo sguardo più lieto di cui fossi ancora
capace; forse non era lieto; non so.
Le quattro del mattino. Comincia a far giorno o no? le finestre schermate non
rispondono. E la morte continua a non arrivare. Devo andarle incontro? e come?
Ho colpito qualcuno e sono caduto per terra, mi danno delle pedate, mi camminano
sopra. Beh, la fine sarà rapida, ormai. Il commissario nero mi solleva
per la barba e ride contento mostrandomi le mani piene di peli strappati. È
davvero una cosa comica. E ora non sento già più dolore.
Le cinque, le sei, le sette, le dieci, mezzogiorno, gli operai sono andati al
lavoro e ne sono usciti. I bambini sono stati a scuola e ne sono ritornati.
Le botteghe vendono, nelle case viene preparato il pranzo, forse in questo momento
mia madre pensa a me, forse i compagni sanno già che sono arrestato e
prendono forse delle precauzioni:.. Se, nonostante tutto, dovessi parlare
No, non temete, non parlerò, credetemi. E dopo tutto, la morte non dev'essere
lontana. Ormai è solo un sogno, un incubo febbricitante, le bastonate
cadono, poi mi lavano con l'acqua, e ancora bastonate, e ancora: "Parla!
Parla! Parla!" e ancora bastonate, non riesco a morire. Madre, padre, perché
mi avete fatto cosi forte?
Le cinque del pomeriggio. Tutti sono già stanchi, i colpi non cadono
ora se non di tanto in tanto, a lunghi intervalli, solo per forza d'inerzia.
E a un tratto, odo di lontano, da molto lontano, una voce placida, dolce, tenera
come una carezza:
- Er hat schon genug! (Ne ha già abbastanza!)
Qualche tempo dopo, sono seduto davanti a una tavola che mi si alza e abbassa
dinanzi agli occhi, qualcuno mi dà da bere, qualcuno mi propone una sigaretta,
che le mie labbra non reggono, e qualcuno tenta di mettermi le scarpe e dice
che non è più possibile; poi mi conducono, quasi portandomi a
braccia lungo una scala. Scendiamo; in auto, partiamo, qualcuno mi punta di
nuovo la pistola addosso, la cosa mi fa ridere, oltrepassiamo un tram inghindarlato
di fiori bianchi, è il tram dello sposalizio, ma forse tutto quanto è
solo un incubo oppure è solo la febbre, o l'agonia, o finalmente la morte.
Dunque l'agonia è talmente difficile? Ma non è difficile affatto,
è una cosa vaga e senza forma, lieve come una piuma, ancora un soffio
e tutto sarà terminato.
Tutto veramente? Per sempre? Non ancora. Nello stesso istante eccomi di nuovo
in piedi, in piedi da solo, veramente in piedi, da solo, senza l'appoggio di
nessuno, e accanto mi si allunga un muro d'un giallo sporco, innaffiato da qualcosa,
da che? mi sembra che sia sangue... si, è sangue, alzo il dito e cerco
di stenderlo, ce la faccio, è fresco, è il mio...
Qualcuno alle mie spalle mi picchia sulla testa e mi ordina di alzare le mani
e di fare delle flessioni, alla terza cado... .
Un lungo SS mi sta sopra e mi tira delle pedate per costringermi a alzarmi,
ma è inutile; qualcuno mi lava ancora una volta. Sono seduto, Una donna
qualsiasi mi dà un medicamento e mi chiede dove sento male, e mi sembra
che tutto il mio male sia al cuore.
- Tu non hai cuore - mi dice il lungo SS.
- Malgrado tutto ce l'ho, - gli risposi. E improvvisamente mi sento molto fiero,
di aver avuto ancora abbastanza forza per prendere la difesa del mio cuore.
Ma poi, tutto mi si cancella davanti agli occhi, anche il muro, anche la donna
della medicina, anche il lungo SS...
La porta d'una cella si spalanca dinanzi a me ed un grosso SS mi trascina dentro,
mi tira via i brandelli della camicia, mi mette su un pagliericcio, tasta il
mio corpo gonfio e ordina che mi vengano fatte delle pezzette.
- Guarda - dice al suo compagno, e scuote la testa - guarda cosa sono capaci
di fare.
E ancora una volta di lontano, da molto lontano, odo la voce placida e dolce,
tenera come una carezza:
- Non arriverà a domattina.
Fra cinque minuti gli orologi suoneranno le dieci, è una bella serata
fresca di primavera, il 2 aprile 1943. |