In entrambi i casi furono due guerre lampo (Blitzkrieg) a decidere le fortune della Prussia: nel 1866 le formidabili armate prussiane sbaragliarono gli austriaci a Sadowa e quattro anni dopo, a Sedan, fecero altrettanto con l’esercito francese. Lo stesso imperatore Napoleone III fu preso prigioniero e les loups avanzarono famelici verso la capitale. Di fronte a questa vergognosa disfatta, dovuta all’irresponsabilità della corona, l’istituzione imperiale fu travolta e nel settembre 1870 viene proclamata la repubblica. Immediatamente viene pubblicato un manifesto al popolo tedesco per chiedere la fine delle ostilità, ma in cui si ripete ciò che era stato proclamato nel 1793: “il popolo francese non fa la pace con un nemico che occupa.” [questa e le altre citazioni senza attribuzione sono tratte da: Édouard Dolléans, Storia del movimento operaio, 1830-1952, Sansoni, 1977] L’appello cade nel vuoto e l’assedio di Parigi si fa ogni giorno più pesante: i rifornimenti alimentari sono interrotti, la disoccupazione è alle stelle, le organizzazioni operaie si sfaldano, commercianti e artigiani non possono più lavorare, l'amministrazione pubblica è al collasso. Nel frattempo l'invasore concretizza il risultato politico cui mirava: il 18 gennaio 1871 i principi tedeschi vittoriosi si riuniscono trionfalmente a Versailles (evidente scelta simbolica) e sanciscono l'unificazione federale degli stati germanici incoronando Kaiser (imperatore) Guglielmo di Prussia: nasce il secondo Reich (il primo, o Sacro Romano Impero della Nazione Tedesca, fu fondato da Ottone I nel 962 e durò, almeno formalmente, fino al 1806). La guerra franco-prussiana era stata breve e sanguinosa, e occorre ricordare che l'unica vittoria francese era stata ottenuta a Dijon da Garibaldi, accorso in aiuto della Repubblica. Ed è proprio a lui che i comunardi poi chiesero insistentemente di assumere il comando delle truppe rivoluzionarie: il generale - che in seguito si pentì della propria decisione - non accetta, anche perché la sua salute è pessima; ma la vera ragione è un'altra: all’Aspromonte si era rifiutato di sparare sui soldati piemontesi, e sempre gli era ripugnata l’idea di combattere, anche per una giusta causa, contro dei compatrioti: come poteva immaginare, lui che, nizzardo, era stato eletto deputato di Francia, di mettersi alla testa di francesi che combattevano altri francesi? E analogamente aveva rifiutato, qualche anno prima, la richiesta di Lincoln di comandare un corpo d'armata nordista durante la guerra civile. Il rivoluzionario Garibaldi, l’alfiere del cosmopolitismo e della fratellanza, si ritrova prigioniero di una visione angusta della lotta politica e non comprende il significato universale della Comune, il suo essere comunque un paradigma per le nascenti forze della rivoluzione. In realtà la stessa maggioranza dei comunardi aveva sottovalutato questo aspetto, e fu Marx, nella Guerra civile in Francia, l’unico che si rese conto di come la Comune avesse aperto una nuova strada per l’internazionalismo proletario. L’Assemblea Nazionale, che si era trasferita a Bordeaux, nomina Adolphe Thiers capo del governo, ed egli firma una pace senza condizioni che dà il via libera all’ingresso dei prussiani a Parigi. Una capitolazione che il popolo parigino giudica come un vero e proprio tradimento, consumato in un clima di esasperazione e di miseria che l’assedio di oltre cinque mesi aveva enormemente amplificato. Il tessuto democratico che pure si era ben radicato in città sembra non reggere più e resiste quasi solo tra i soldati della Federazione Repubblicana della Guardia Nazionale (i "federati": denominazione che riprende quella assunta in seguito all'unione dei membri della Guardia Nazionale delle sezioni parigine con quelli dei Dipartimenti durante la Rivoluzione del 1789): questi eleggono un Comitato Centrale che in qualche modo si configura come un contropotere rispetto al governo Thiers (una situazione per certi versi simile a quella che si verificherà in Russia, tra il febbraio e l'ottobre del 1917, con i soviet contrapposti al governo Kerenskij). Sono giorni convulsi e pieni di confusione: un invasore straniero, un esercito regolare che obbedisce a Thiers, una Guardia Nazionale in cui prevalgono gli elementi democratici, un’Internazionale ancora incerta (malgrado le forti pressioni di Marx perché vi fosse un appoggio incondizionato), una popolazione allo stremo, l'economia e i servizi in grave sofferenza. Il piano di Thiers è quello di abbandonare Parigi, lasciandola in balia dei tedeschi: ciò provocherà sicuramente la violenta reazione popolare autorizzando lo stesso Thiers a intervenire con la repressione più spietata. Quando il 18 marzo 1871 il governo Thiers lascia la città, il Comitato Centrale assume tutti i poteri, ma con grande senso di responsabilità decide che l'unica soluzione democratica è convocare le elezioni generali del (ma in francese il termine è femminile) Comune di Parigi: “Questo tiepido e gaio sole che indora le bocche dei cannoni, questo odore di fiori, il fremito delle bandiere, il mormorio di questa rivoluzione che passa tranquilla e bella, come un fiume azzurro... Questa Parigi che, adottando la parola stessa di Comune, riuniva istintivamente insieme il suo patriottismo dolorante e la sua speranza in una città giusta...” (Jules Vallés) Contro il governo centrale e l'Assemblea Nazionale che avevano condotto la Francia al disastro, Parigi insorge. L'orgoglio nazionale e la rivolta contro la miseria, come nel 1789, prendono la strada impervia e senza ritorno della rivoluzione, in cui al giacobinismo "storico" e al radicalismo repubblicano si affiancano le idee del socialismo; naturalmente non c'è un corpus ideologico definito, perché i riferimenti teorici sono vari e spesso contrastanti: l'umanitarismo di Proudhon, il Blanqui intransigente e cospirativo, la solidità scientifica del comunismo di Marx, lo spirito libertario e antistatuale di Bakunin. Una ricchezza culturale indiscutibile, che tuttavia impedì all'Internazionale di svolgere un effettivo ruolo di direzione politica (la componente anarchica sarà espulsa dall'associazione: una chiarificazione che comunque non eviterà la crisi politica del movimento operaio e il conseguente scioglimento, nel 1876, dell'Internazionale; e anche quando essa verrà ricostituita, nel 1889, non avrà vita facile, perché nel 1919 i bolscevichi ne usciranno per costituire una struttura autonoma, il Comintern). Dopo il crollo dell'impero e la resa, la Guardia Nazionale aveva conservato il proprio armamento malgrado il governo pretendesse la consegna delle armi e, in particolare, dei cannoni installati sull'altura di Montmartre: contrasto che ebbe un peso determinante rispetto alla rottura delle trattative e alla proclamazione della Comune rivoluzionaria. I parigini speravano che il loro esempio fosse seguito dalle altre città francesi, ma a Lione, Marsiglia e Tolosa il tentativo fu stroncato agevolmente dalle forze governative. La
Comune, per l'importanza e l'universalità dei principi
cui si ispirò, per il lungo assedio che sostenne, per il
numero delle vittime e l'orrore delle rappresaglie, può
certo considerarsi come uno dei più audaci tentativi che
le classi subalterne abbiano mai fatto per emanciparsi. Un governo rivoluzionario piuttosto disomogeneo, dunque, e solo la forte spinta unitaria ne garantirà un chiaro indirizzo politico. Il primo compito della rivoluzione, comunque, è quello di “far vivere Parigi”, cioè organizzare i servizi essenziali di cui la città è rimasta priva: non solo ogni giorno bisognava rifornire una delle più grandi città del mondo, ma occorreva reperire le risorse finanziarie per sfamare gli oltre 300.000 disoccupati e, più in generale, per governare. E sono proprio i soldi il problema prioritario, tanto che il Ministero delle Finanze diventa il cuore del potere rivoluzionario: l'anno prima gli impiegati pubblici (poste, ferrovie, dogane, gendarmeria, catasto, sanità, igiene pubblica, ecc.) necessari per mandare avanti la città erano circa 60.000, e ora ci sono i mezzi per pagarne solo 10.000, che tuttavia garantirono il funzionamento amministrativo. Le fabbriche sono state abbandonate dai dirigenti e dagli imprenditori, il commercio è in pieno caos, e tutta la sfera economica e sociale è da riorganizzare: un compito immenso, al quale il proletariato, per la prima volta nella propria storia, è chiamato a dare risposte concrete ed efficaci: “Nonostante le condizioni così sfavorevoli e la brevità della sua esistenza, la Comune riesce ad adottare alcuni provvedimenti che caratterizzano il suo vero sentimento e i suoi scopi.” Così si esprimerà Lenin, che in molti scritti (ad esempio Stato e Rivoluzione) esalterà la Comune non solo come simbolo rivoluzionario, ma come effettivo momento di governo della classe operaia, in perfetta sintonia con la definizione che ne aveva dato Marx: “Un governo della classe operaia, il prodotto della lotta della classe dei produttori contro la classe appropriatrice, la forma politica finalmente scoperta, nella quale si poteva compiere l'emancipazione economica del lavoro.” La rivoluzione, “tranquilla e bella come un fiume azzurro”, si misurava dunque con il pane, il mercato nero, le fognature, gli orari degli sportelli pubblici: “l’assalto al cielo” avveniva a partire dalla terra così com’è, e non come si vorrebbe che fosse... Malgrado l'isolamento, dunque, i comunardi tentarono diverse riforme strutturali. • L'esercito (la ferma durava dai 3 ai 5 anni) fu sciolto e sostituito con una forza armata popolare e volontaria, la Guardia Nazionale, appunto. • Fu proclamata la totale separazione fra stato e chiesa, abolendo i privilegi ecclesiastici. • Cooperative di operai gestirono le fabbriche abbandonate dai padroni. • Venne soppresso il lavoro di notte nei forni e abolita l'istituzione dei sensali del lavoro (i "caporali"). • Furono requisite le case libere e sospese le sentenze di sfratto. • Tutti gli oggetti depositati al Monte di Pietà che non avessero un valore superiore ai 25 franchi vennero restituiti alla povera gente che li aveva impegnati. • Fu stabilito che gli alti funzionari e i giudici fossero eletti e revocabili in qualsiasi momento, con una retribuzione pari a quella di un operaio qualificato. • Numerosi i decreti concernenti i servizi pubblici: dall'approvvigionamento alle ambulanze, dalla gestione dei musei e delle biblioteche all'assistenza pubblica. • Venne abolita ogni distinzione tra figli legittimi e naturali, tra coppie sposate e conviventi. • Fondamentale fu lo sforzo per l'emancipazione delle donne, che ebbero un ruolo molto importante in questo periodo: "Cittadine, sopporteremo più a lungo che la miseria e l'ignoranza facciano dei nostri figli dei nemici, che padre contro figlio, fratello contro fratello, vengano ad uccidersi fra loro sotto i nostri occhi per il capriccio dei nostri oppressori? Cittadine, noi vogliamo essere libere!" Ma i comunardi si trovavano nell'assoluta necessità di organizzare le difese in vista dell'offensiva di Versailles, e di fronte a tale priorità la gran parte di quei progetti non ebbero il tempo di essere attuati. Di carattere soprattutto simbolico furono altre iniziative come la distruzione della ghigliottina sotto la statua di Voltaire e l'abbattimento della colonna Vendôme, costruita con il bronzo fuso dei cannoni di Napoleone, e quindi emblema dell'imperialismo e del militarismo. Nel frattempo il governo Thiers prepara con cura il colpo mortale: si finge di condurre negoziati con i rivoluzionari, addirittura si arriva a ipotizzare un compromesso basato sulle dimissioni contestuali dell’Assemblea Nazionale e della Comune; in realtà Thiers vuole solo sabotare tutti gli sforzi per “far vivere Parigi” e cinicamente afferma: ”Vi sarà qualche casa danneggiata, qualcuno verrà ucciso, ma il potere resterà alla legge.” E quando dalle altre città di Francia arrivano preoccupanti segnali di conciliazione coi rivoluzionari, Thiers non esita a ordinare la sistematica esecuzione dei comunardi catturati. Sono settimane di trattative febbrili, la Comune è consapevole della propria fragilità, lo stesso arcivescovo di Parigi - certamente non sospetto di simpatie rivoluzionarie, tant'è che verrà fucilato dagli insorti - si adopera per trovare una soluzione politica: ma gli agenti provocatori di Thiers lavorano assiduamente dentro la città per seminare malcontento e panico, mentre i tedeschi chiudono volentieri entrambi gli occhi di fronte alle truppe di Versailles che si preparano all’attacco finale. Thiers, infatti, ottiene dal vecchio nemico Bismarck la restituzione dei prigionieri di guerra e li riorganizza in vista della repressione: 130.000 uomini perfettamente equipaggiati contro i battaglioni federati con poche munizioni e privi di qualsiasi supporto logistico. Il destino della rivoluzione è segnato. I soldati del generale Mac-Mahon, gli stessi che si erano arresi ai boches, sferrano l'attacco decisivo e dal 21 al 28 maggio, in quella che sarà ricordata come "settimana di sangue", riuscirono ad annientare la resistenza di Parigi. Il 24 maggio la Comune lancia un ultimo, disperato appello: ”Tutti alle barricate!” E si combatte in ogni strada, senza speranza. Migliaia
di comunardi presi
prigionieri (e
tra essi, naturalmente, donne, vecchi, bambini) sono fucilati
sul posto o condotti a Versailles per essere massacrati sotto
gli occhi dei borghesi esultanti; al
cimitero del Père-Lachaise circa 5.000
persone furono trucidate in un sol giorno. Complessivamente i
morti nei combattimenti furono 30.000, 50.000 i fucilati e 25.000
i deportati.
Così
lo storico Lissigaray nella
sua Histoire de la Commune aveva
scritto di Eugène Varlin, uno degli internazionali
che ebbero un ruolo di primissimo piano: “Instancabile,
modesto, parla poco, ma sempre al momento opportuno, e allora
con una sola parola chiarisce la discussione confusa. Dovunque
la sua presenza assicura l’ordine, la sua autorità
è fatta di simpatia e di semplicità.”
In occasione del 150esimo anniversario della Comune di Parigi (18 marzo – 28 maggio 1871), Edizioni Clichy pubblica “La Comune", il resoconto dalle barricate scritto da Louise Michel. Maestra elementare e rivoluzionaria del primo governo socialista della storia, Michel è la “Vergine Rossa” cantata da Hugo e Verlaine. Nata nel 1830, si rifiuta di giurare fedeltà all’imperatore e fonda una delle prime scuole laiche a Parigi. Anche per questo è considerata tra le pioniere dell’educazione moderna, nonché del femminismo. Nel 1871, dopo essere stata in prima linea sulle barricate della Comune, finisce davanti al Consiglio di guerra del governo di Francia e dice: “Non fatemi grazia, perché se dovessi un giorno recuperare la libertà, sarebbe per vendicare le vittime da voi sacrificate“. Verrà così condannata alla deportazione in Nuova Caledonia. Ilfattoquotidiano.it pubblica l’introduzione integrale di Chiara Di Domenico che ha curato la nuova traduzione dell’opera: “Non fate di Louise Michel un’icona per bambine ribelli. Lei le bambine le istruiva. Piuttosto, statela a sentire come si fa con le maestre, quelle brave”. Parigi, 2021. Là dove c’erano le barricate, oggi c’è la città. A Saint-Sulpice, per esempio, al posto di un negozio di saponette e souvenir c’era forse quella bottega di articoli sacri da cui la pallida signora Richoux esortò a prendere le statue dei santi per farne i basamenti di una delle ultime barricate della Comune. C’è la collina del Sacro Cuore dove la gioventù di tutto il mondo viene a prendere il sole nelle ore calde della giornata. La basilica del Sacro Cuore che, seduta sopra Montmartre, sorveglia la città nell’esatto punto da cui il popolo per la prima volta poté ribellarsi ai padroni. Ci vorrebbe un cartello che, assiemeal pregio dei marmi ridondanti, illustrasse a tutto il mondo che furono quegli stessi padroni a erigerla, come ex voto, dopo aver ammazzato trentamila concittadini. Parigi, 1870. La città dei boulevard, delle strade grandi fatte per il progresso: basta col pavé, buono al massimo per qualche barricata o sassaiola estemporanea, e viva il moderno bitume adatto allo scorrimento veloce dei mezzi. Basta con l’angustia delle vie strette del Quartiere Latino, o peggio, delle latrine a cielo aperto dei quartieri periferici, specialmente quelli a Est come Belleville, Montmartre o Neuilly. È la Parigi delle luci, questa di Napoleone III, il piccolo imperatore che con malcelato fastidio tollera gli epiteti del popolo che lo chiama Badingue, come un famoso nano dell’epoca. Lo stesso Napoleone che ha tradito e trucidato la Repubblica romana vent’anni prima. È la città di Haussmann, urbanista che guarda avanti, e pensa (in grande) alle capitali d’Europa come centro di grandi scambi, di ottimi affari, del benessere per tutti, a patto che siano disposti a tutto per averlo. I cittadini devono abituarsi a vedere ciò che non possono permettersi, per abituarsi a desiderarlo: vetrine scintillanti, bellissime donne, mezzi sempre più veloci. La città della Grandeur, la Parigi di quell’ultimo impero che per tenersi giovane prepara la solita guerra ai cugini tedeschi, quella che poi finirà con la disfatta di Sedan, l’assedio prussiano di Parigi, la nascita della Comune il 18 marzo, il crollo dell’impero, la nascita di una Repubblica reazionaria che sgozzerà la Comune nella settimana di sangue. Ma intanto, nei quartieri popolari dove meno di una casa su dieci è collegata alle fogne e otto su dieci sono illuminate a candela, una signorina minuta dai tratti mascolini, gli occhi grandissimi e l’espressione seria cammina di buon passo come ogni giorno verso la sua scuola. Una scuola per ragazze, per insegnar loro un lavoro, a scrivere due righe, a far di conto. Quanto basta, insomma, per non farsi fregare. La scuola è a Montmartre e la gestisce, insieme a sua madre, Louise Michel, la signorina minuta che in queste righe abbiamo già visto imbracciare una carabina a Père-Lachaise e camminare svelta verso le sue alunne. Sono venute a Parigi dall’Alta Marna, da un castello diroccato dove la madre era a servizio e dove Louise è cresciuta serena: è figlia di un amore illegittimo, ma anche sincero, così sincero da darle forza per una vita intera. Ora abitano in una piccola casa contigua alla scuola che Louise ha fondato coi soldi della sua dote: ha deciso che, coi tempi che corrono, meglio insegnare come stare al mondo a centinaia di ragazzini del popolo, anziché a due o tre soli tutti suoi. Insegna geografia antica, lettere, disegno, ma è facile che le maestre si scambino le materie tra loro. A proposito, Louise è maestra perché, all’epoca, quello di insegnante è l’unico diploma che la società riconosce alle donne. E se Louise apre una scuola laica e privata è perché ha avuto il capriccio di non giurare fedeltà a Badingue: niente giuramento, niente posto alla scuola statale. Ma per fortuna ha una dote e decide di fondarla da sola, libera e aperta a tutte e a tutti. Per capire la tempra della donna di cui stiamo parlando basta guardare il suo ritratto più noto, una fotografia a mezzobusto. Seduta, le braccia conserte, si intravede lo schienale di una seggiola, si vede un vestito austero e decoroso, senza fronzoli. Come i suoi capelli tirati indietro e disordinati, la bocca che non cede a un sorriso da fotografia, gli occhi vivi che ci fissano intensamente. Come a dire: «Via, ’sta foto falla bene e falla alla svelta, che c’è un mondo da cambiare e non ho tempo da perdere con queste frivolezze da cocotte e Napoleoni». Soffermandosi a guardarlo, quel ritratto, si ha la sensazione che sia vivo. Come certi crocifissi in certe vecchie chiese, che ti seguono tra le navate con lo sguardo. Tanto animo non se ne va in quattr’e quattr’otto da questo mondo, e poi lei aspetta ancora, perché il suo lavoro non è finito. «La folla oggi è muta, ma domani ruggirà come l’Oceano.Torneremo, fiumana senza numero, spettri vendicatori, verremo tenendoci per mano». Louise sa che c’è ancora tanto lavoro da fare, forse non finirà mai. In effetti, per tutta la vita, non si è fermata mai. Dal 1830, anno della sua nascita, al 1873, anno della sua deportazione in Nuova Caledonia, vede appena il piccolo paese natale di Vron-court-la-Côte e Parigi, e poi, nel maremoto degli eventi, la Comune, la prigione e la condanna alla deportazione e in seguito l’amnistia nel 1880: l’Oceania, Sidney, il Capo di Buona Speranza, il Canale di Suez, Londra. Quell’Internazionale a cui aderì già negli anni Sessanta dell’Ottocento la prende in parola scaraventandola nella storia e nel mondo, e lei è davvero la Vergine Rossa, dedita anima e corpo all’Idea. A vent’anni intraprende una corrispondenza con Victor Hugo, a cui seguirà qualche incontro di persona su cui i più maliziosi non hanno mancato di piazzare l’immancabile pettegolezzo, arrivando ad attribuirle una figlia frutto dell’infallibile caccia dello scrittore. Anche Paul Verlaine le dedicherà una ballata. Sarà al centro delle cronache della Comune, proprio grazie al suo carattere indomito, alla parlantina sciolta che la porta a mettersi in mostra – suo malgrado – al processo, dove chiede per se stessa la pena di morte visto che, dichiara, appena libera la prima cosa che farà sarà vendicare i suoi compagni e proseguire la lotta per la rivoluzione sociale. Lupa assetata di sangue per i giornali della reazione, «Bonne Louise» per quelli della rivoluzione. È tra le poche donne, forse l’unica che, dalla prigione, riesce a scrivere lettere di fuoco ai suoi stessi carnefici esigendo e ottenendo ascolto. Lettere come questa: Alla Commissione di Grazia Signori, Louise Michel
Ma che cos’è questa rivoluzione sociale, questa Comune i cui centocinquant’anni cadono in un ventunesimo secolo che ha visto l’Internazionale trasformarsi in globalizzazione e il capitalismo cambiare forma come fosse un mostro imbattibile? Marx definisce la Comune il primo governo del popolo operaio, Bakunin la prima rivoluzione della città operaia contro lo Stato dei proprietari nobili e dei borghesi. Di certo, è la prima vera guerra civile operaia, proletaria: a nemmeno cent’anni dalla Rivoluzione francese, Parigi è la capitale di quel «socialismo del sentimento» che non fa strategie, come invece succederà più tardi in Russia, ma assalta il cielo, annega nel sangue, resta nella storia come un mito, una leggenda, e continua ad accendere gli animi come solo chi muore giovane sa fare. Invece di fare uno Stato, la Comune fa letteratura. O il successo, o la gloria: questo è il dilemma. La Comune è, prima di tutto, una tragedia. Intesa come messa in scena di un dramma umano che ancora oggi ci parla. A differenza della tragedia greca, dura non un giorno, ma nove settimane. Nove settimane in cui una città messa sotto assedio dall’ennesima guerra decide, anziché recitare la parte del solito coro di vittime, di diventare protagonista corale di una rivoluzione. Tante cose succedono per la prima volta a Parigi tra il 18 marzo e il 28 maggio 1871. È anche la prima volta delle immagini che fanno la storia: insieme alla lotta contro il brigantaggio in Italia, la Comune è forse il primo caso europeo in cui giornali e fotografie hanno un ruolo di primo piano. In Italia si fotografano i briganti per propaganda, agghindandoli come criminali da baraccone a uso e consumo del consenso savoiardo; in Francia si fotografano i «briganti comunardi» al muro, o già nelle bare, mentre reazionari e rivoluzionari si contendono l’opinione pubblica a colpi di affissioni pubbliche e, soprattutto, di articoli di giornale. Tutto il libro di Louise Michel è venato di questi resoconti, di una parte e dell’altra. Un’avvertenza per chi si appresta a leggere queste pagine. Non aspettatevi una scrittrice. Louise Michel non aveva tempo, e credo nemmeno un’eccessiva simpatia, per gli intellettuali e gli intellettualismi. Per lei le Lettere dovevano essere utili, non necessariamente belle. In più, non aveva una grande opinione degli artisti coevi: tranne Hugo e Courbet, altri come Zola si guardarono bene dallo sporcarsi le ghette nell’affare della Comune e dal lottare al fianco di chi sapeva di andare a morire.Se sui moti del ’48 è un florilegio di contributi, sulla Comune regna un silenzio degli scrittori quasi imbarazzante. Perché per la prima volta non sono loro i protagonisti, e chi gli ha rubato la scena sono operai, piccoli artigiani, carrettieri e vinai semianalfabeti, troppo diversi da loro e che non amano che si venga a far poesia su miserie che di poetico non hanno niente. Loro non amano la bohème, invenzione da borghesi. Un miserabile che si veste bene è progresso, un ricco che si veste da miserabile o è un santo o gioca. Per la prima volta, i miserabili hanno deciso di prendersi insieme al potere anche la parola. Louise Michel non si fida troppo degli artisti. Parlano, parlano, ma che lavoro fanno? È il lavoro che garantisce la libertà a tutti, indipendentemente dal ceto. Dunque, se non lavori, o sei ricco o, peggio, sei cortigiano. E se sei cortigiano, non puoi essere libero. Anche per questo, La Comune di Louise Michel è un testo quasi dimenticato. Perché non è bello, e a dirla tutta, nemmeno lei lo è. E nemmeno la storia che stiamo per raccontare, così piena di sangue e di dolore, di rabbia e di addii. Questo libro vuole testimoniare. Nella letteratura dell’epoca è considerato un ibrido tra un diario, un racconto corale, un saggio e una cronaca. I fatti riportati vengono raccolti dalla Michel al ritorno dalla colonia penale in Nuova Caledonia, nel 1898, e dopo un’ulteriore reclusione di qualche anno. Molti dei suoi scritti sono andati persi, come ammette lei stessa. Resta un ricco epistolario, alcune opere poetiche, alcune opere teatrali. Ecco il teatro che torna. Leggete questo lungo racconto come la mise en éspace di un immenso coro di protagonisti. Non lasciatevi impressionare dalla mole capillare di fatti raccontati, dalla pletora di nomi: lo fa perché è l’unico modo per permettere di vivere in eterno a chi è morto per l’eternità dell’Idea. Tutti devono essere ricordati, tutti sono importanti. L’edizione che avete tra le mani nasce sulla traccia di quella italiana più popolare, pubblicata da Editori Riuniti e allegata in omaggio agli abbonati di «Rinascita», nel 1969. Alcune parti sono state espunte per non appesantire le cronache con eccessivi appunti militari, politici ed economici e mostrare al lettore, quanto più possibile, l’umanità che respira ancora in queste pagine, con qualche recupero dal testo francese originale. Quell’umanità, che senza pensarci troppo centocinquant’anni fa ha preferito nove settimane di vita vera a una vita intera di sopravvivenza, è ancora con noi. Ci invita a imparare dai suoi errori, senza dimenticarci mai che vivere non è sopravvivere, e che non bastano un intellettuale e un aperitivo per fare la rivoluzione, né un artista milionario senza volto e senza nome e la sua barca in mezzo al mare, anche se la barca in questione si chiama per ironia del destino «Louise Michel». La rivoluzione si fa in città, nelle strade e nelle scuole, nelle case e nei giorni anonimi della gente con un nome e un cognome; la gente, appunto, Comune. Infine, voglio dedicare il ritorno di questo libro, e di Louise Michel in Italia, a quell edonne che, in mezzo al chiasso delle battaglie cosiddette «di genere» e «di orgoglio», ogni giorno in silenzio lavorano armate di grazia e pazienza per recuperare pezzetto per pezzetto una civiltà vecchia e scricchiolante e consegnarla a chi verrà dopo. Civiltà del lavoro, dell’istruzione, dell’amore. La lotta di queste donne non ha niente a che fare col potere, ha a che fare con la pazienza e con l’attenzione, con la fatica e con l’intelligenza. Questo libro è per chi non brandisce la sua femminilità come un’arma per il potere, per chi non usa i mezzi del potere per combattere il potere. È per chi preferisce gli eroi alle vittime, l’azione ai piagnistei, il coraggio all’indignazione. Louise Michel diceva che dove c’è rivoluzione non c’è potere, e dove c’è potere non c’è rivoluzione. «Le donne non si chiedevano se qualcosa fosse possibile o impossibile: se ce n’era bisogno, riuscivano a farlo. Hanno voluto far delle donne una casta, e sotto la pressa degli eventi che le schiacciava, la divisione si è compiuta. Di certo non ci hanno consultato al riguardo, e noi non dobbiamo consultare nessuno. Non valiamo più degli uomini, ma a differenza loro il potere non ci ha ancora corrotte». Quindi non fate di Louise Michel un’icona per bambine ribelli. Lei le bambine le istruiva. Piuttosto, statela a sentire come si fa con le maestre, quelle brave. da Il Fatto Quotidiano, 18.03.2021 |