Karl Marx
Salario, prezzo, profitto.
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La produzione del plusvalore
Supponiamo ora che la produzione della quantità di
oggetti correnti necessari alla vita di un operaio richieda
sei ore di lavoro medio. Supponiamo inoltre che sei ore di
lavoro medio siano incorporate in una quantità d'oro
uguale a tre scellini. In questo caso tre scellini sarebbero
il prezzo o l'espressione monetaria del valore giornaliero
della forza-lavoro di quell'uomo. Se egli lavorasse sei ore
al giorno, produrrebbe ogni giorno un valore sufficiente per
comperare la quantità media degli oggetti di cui ha
bisogno quotidianamente, cioèper conservarsi come operaio.
Ma il nostro uomo è un operaio salariato. Perciò
deve vendere la sua forza-lavoro a un capitalista. Se la vende
a tre scellini al giorno, o diciotto scellini la settimana,
la vende secondo il suo valore. Supponiamo che egli sia un
filatore. Se egli lavora sei ore al giorno, egli aggiunge
al cotone un valore di tre scellini al giorno. Questo valore
che egli aggiunge giornalmente al cotone costituirebbe un
equivalente esatto del salario, o del prezzo, che egli riceve
giornalmente per la sua forza-lavoro. In questo caso però
il capitalista non riceverebbe nessun plusvalore, o nessun
sovrapprodotto.
Qui urtiamo nella vera difficoltà.
Comperando la forza-lavoro dell'operaio e pagandone il valore,
il capitalista, come qualsiasi altro compratore, ha acquistato
il diritto di consumare o di usare la merce ch'egli ha comperato.
Si consuma o si usa la forza-lavoro di un uomo facendolo lavorare,
allo stesso modo che si consuma o si usa una macchina mettendola
in movimento. Comperando il valore giornaliero o settimanale
della forza-lavoro dell'operaio, il capitalista ha dunque
acquistato il diritto di fare uso della forza-lavoro, cioè
di farla lavorare, per tutto il giorno o per tutta la settimana.
La giornata di lavoro o la settimana di lavoro hanno, naturalmente,
certi limiti; ma su questo punto ritorneremo in seguito. Per
ora voglio attirare la vostra attenzione su un punto decisivo.
Il valore della forza-lavoro è determinato dalla quantità
di lavoro necessaria per la sua conservazione o riproduzione,
ma l'uso di questa forza-lavoro trova un limite soltanto nelle
energie vitali e nella forza fisica dell'operaio.
Il valore giornaliero o settimanale della forza-lavoro è
una cosa completamente diversa dall'esercizio giornaliero
o settimanale di essa, allo stesso modo che sono due cose
del tutto diverse il foraggio di cui un cavallo ha bisogno
e il tempo per cui esso può portare il cavaliere. La
quantità di lavoro da cui è limitato il valore
della forza-lavoro dell'operaio, non costituisce in nessun
caso un limite per la quantità di lavoro che la sua
forza-lavoro può eseguire. Prendiamo l'esempio del
nostro filatore. Abbiamo visto che, per rinnovare giornalmente
la sua forza-lavoro, egli deve produrre un valore giornaliero
di tre scellini, al che egli perviene lavorando sei ore al
giorno. Ma ciò non lo rende incapace di lavorare dieci
o dodici o più ore al giorno.
Pagando il valore giornaliero o settimanale della forza-lavoro
del filatore, il capitalista ha acquistato il diritto di usare
questa forza-lavoro per tutto il giorno o per tutta la settimana.
Perciò, egli lo farà lavorare, supponiamo, dodici
ore al giorno. Oltre le sei ore che gli sono necessarie per
produrre l'equivalente del suo salario, cioè del valore
della sua forza-lavoro, il filatore dovrà dunque lavorare
altre sei ore, che io chiamerò le ore di pluslavoro,
e questo pluslavoro si incorporerà in un plusvalore
e in un sovrapprodotto. Se per esempio il nostro filatore,
con un lavoro giornaliero di sei ore, ha aggiunto al cotone
un valore di tre scellini, un valore che rappresenta un equivalente
esatto del suo salario, in dodici ore egli aggiungerà
al cotone un valore di sei scellini e produrrà una
corrispondente maggiore quantità di filo.
Poiché egli ha venduto la sua forza-lavoro al capitalista,
l'intero valore, cioè il prodotto da lui creato, appartiene
al capitalista, che è, per un tempo determinato, il
padrone della sua forza-lavoro. Il capitalista dunque anticipando
tre scellini, otterrà un valore di sei scellini, perché,
anticipando un valore in cui sono cristallizzate sei ore di
lavoro, egli ottiene, invece, un valore in cui sono cristallizzate
dodici ore di lavoro. Se egli ripete questo processo quotidianamente
il capitalista anticipa ogni giorno tre scellini e ne intasca
sei, di cui una metà sarà nuovamente impiegata
per pagare nuovi salari, e l'altra metà formerà
il plusvalore, per il quale il capitalista non paga nessun
equivalente. su questa forma di scambio tra capitale e lavoro
che la produzione capitalistica o il sistema del salariato
è fondato, e che deve condurre a riprodurre continuamente
l'operaio come operaio e il capitalista come capitalista.
Il saggio del plusvalore, dipenderà, restando uguali
tutte le altre circostanze, dal rapporto fra quella parte
della giornata di lavoro necessaria per riprodurre il valore
della forza-lavoro, e il tempo di lavoro supplementare o pluslavoro
impiegato per il capitalista. Esso dipenderà quindi
dalla misura in cui la giornata di lavoro verrà prolungata
oltre il tempo durante il quale l'operaio per mezzo del suo
lavoro riproduce unicamente il valore della sua forza-lavoro,
cioè fornisce l'equivalente del suo salario.
Il
valore del lavoro
Dobbiamo ora ritornare alla espressione "valore o prezzo
del lavoro".
Abbiamo visto che questo valore non è di fatto che
il valore della forza-lavoro, misurato sulla base dei valori
delle merci necessarie alla sua conservazione.
Poiché però il lavoratore riceve il salario
soltanto dopo aver finito il suo lavoro, e poiché egli
sa che ciò ch'egli dà realmente al capitalista
è il suo lavoro, perciò il valore o prezzo della
sua forza-lavoro gli appare necessariamente come il prezzo
o valore del suo lavoro stesso. Se il prezzo della sua forza-lavoro
è di tre scellini, nei quali sono incorporate sei ore
di lavoro, e se egli lavora dodici ore, egli considera necessariamente
questi tre scellini come il valore o il prezzo di dodici ore
di lavoro, quantunque queste dodici ore di lavoro rappresentino
un valore di sei scellini.
Di qui una duplice conseguenza.
Primo: il valore o prezzo della forza lavoro prende l'apparenza
esteriore del prezzo o valore del lavoro stesso, quantunque,
parlando rigorosamente, valore e prezzo del lavoro siano espressioni
prive di significato.
Secondo: benché solo una parte del lavoro giornaliero
dell'operaio sia pagata, mentre l'altra parte rimane non pagata,
benché proprio questa parte non pagata, o pluslavoro,
rappresenti il fondo dal quale sorge il plusvalore o il profitto,
ciò nonostante sembra che tutto il lavoro sia lavoro
pagato.
Questa falsa apparenza distingue il lavoro salariato dalle
altre forme storiche del lavoro. Sulla base del sistema del
salario anche il lavoro non pagato sembra essere lavoro pagato.
Con lo schiavo, al contrario, anche quella parte di lavoro
che è pagata appare come lavoro non pagato.
Naturalmente lo schiavo per poter lavorare deve vivere, e
una parte della sua giornata di lavoro serve a compensare
il valore del suo proprio sostentamento. Ma poiché
fra lui e il suo padrone non viene concluso nessun patto e
fra le due parti non ha luogo nessuna compravendita, tutto
il suo lavoro sembra lavoro dato per niente.
Prendiamo, d'altra parte, il contadino servo della gleba quale
esisteva, potremmo dire, ancora fino a ieri in tutta l'Europa
orientale. Questo contadino lavorava, per esempio, tre giorni
per sé nel campo suo proprio o attribuito a lui, e
i tre giorni seguenti eseguiva il lavoro forzato e gratuito
nel podere del suo signore. In questo caso il lavoro pagato
e quello non pagato erano visibilmente separati, separati
nel tempo e nello spazio, e i nostri liberali si sdegnavano,
scandalizzati dall'idea assurda di far lavorare un uomo per
niente!
In realtà però la cosa non cambia, se uno lavora
tre giorni della settimana per s‚ nel proprio campo
e tre giorni senza essere pagato nel podere del suo signore,
oppure se lavora, nella fabbrica o nell'officina, sei ore
al giorno per s‚ e altre sei per il suo imprenditore,
anche se, in quest'ultimo caso, la parte pagata e la parte
non pagata del lavoro sono confuse in modo inscindibile, e
la natura di tutto questo procedimento è completamente
mascherata dall'intervento di un contratto e dalla paga che
ha luogo alla fine della settimana. Il lavoro non pagato,
in un caso sembra dato volontariamente, nell'altro caso sembra
preso per forza. La differenza è tutta qui. Se in seguito
userò le parole "valore del lavoro", non
si tratterà che di una espressione popolare per "valore
della forza-lavoro".
Come si crea il profitto quando una merce è
venduta al suo valore
Supponiamo che un'ora di lavoro medio cristallizzi un valore
di sei denari, cioè che dodici ore di lavoro medio
cristallizzino un valore di sei scellini.
Supponiamo inoltre che il valore del lavoro sia di tre scellini,
cioè il prodotto di sei ore di lavoro. Se nella materia
prima, nelle macchine, ecc. impiegate per una determinata
merce sono in più cristallizzate ventiquattro ore di
lavoro medio, il valore della merce ammonterà a dodici
scellini.
Se inoltre l'operaio occupato dal capitalista aggiunge a questi
mezzi di produzione dodici ore di lavoro, queste dodici ore
saranno incorporate in un valore supplementare di sei scellini.
Il valore complessivo del prodotto sarà quindi di trentasei
ore di lavoro materializzato, pari a diciotto scellini. Ma
poiché il valore del lavoro, cioè il salario
pagato all'operaio, ammonta soltanto a tre scellini, il capitalista
non ha pagato nessun controvalore per le sei ore di pluslavoro
prestate dall'operaio e incorporate nel valore della merce.
Il capitalista, vendendo questa merce al suo valore, a diciotto
scellini, realizza dunque un valore di tre scellini per il
quale non ha pagato nessun equivalente. Questi tre scellini
costituiranno il plusvalore o profitto che egli intasca. Il
capitalista otterrà dunque il profitto di tre scellini
non vendendo la merce a un prezzo superiore al suo valore,
ma vendendola al suo valore reale.
Il valore di una merce è determinato dalla quantità
totale di lavoro che essa contiene. Ma una parte di questa
quantità di lavoro rappresenta un valore per cui è
stato pagato un equivalente in forma di salari; mentre un'altra
parte è materializzata in un valore per cui non è
stato pagato nessun equivalente. Una parte del lavoro contenuto
nella merce è lavoro pagato; un'altra parte è
lavoro non pagato. Perciò quando il capitalista vende
la merce al suo valore, cioè secondo la somma totale
di lavoro in essa cristallizzato e impiegato per la sua produzione,
egli deve Necessariamente venderla con un profitto. Egli non
vende soltanto ciò che gli è costato niente,
quantunque sia costato il lavoro del suo operaio. I costi
della merce per il capitalista e i suoi costi reali sono cose
diverse. Ripeto, dunque, che si fanno profitti normali e medi
quando le merci vengono vendute non sopra il loro vero valore,
ma al loro vero valore.
Le diverse parti in cui si scompone il plusvalore
Il plusvalore, cioè quella parte del valore complessivo
della merce in cui è incorporato il pluslavoro o lavoro
non pagato dell'operaio, io lo chiamo profitto. Questo profitto
non viene intascato tutto dall'imprenditore capitalista. Il
monopolio del suolo pone il proprietario fondiario nella condizione
di appropriarsi una parte di questo plusvalore, sotto il nome
di rendita fondiaria, indipendentemente dal fatto che questo
suolo sia usato per l'agricoltura, per edifici, per ferrovie,
o per qualsiasi altro scopo produttivo. D'altra parte, il
fatto stesso che il possesso degli strumenti di lavoro dà
la possibilità agli imprenditori capitalisti di produrre
un plusvalore, o, il che è poi la stessa cosa, di appropriarsi
una certa quantità di lavoro non pagato, questo fatto
consente al proprietario dei mezzi di lavoro, che egli presta
in tutto o in parte all'imprenditore capitalista, cioÉ,
in una parola, consente al capitalista che presta il denaro
di reclamare per sè‚ un'altra parte di questo plusvalore,
sotto il nome di interesse, cosicché all'imprenditore
capitalista come tale non resta che il cosiddetto profitto
industriale o commerciale.
La questione di conoscere secondo quali leggi è regolamentata
questa ripartizione dell'importo globale del plusvalore fra
le tre categorie citate, è del tutto estranea al nostro
argomento. Ad ogni modo, da quanto abbiamo esposto risulta
quanto segue.
Rendita fondiaria, interesse e profitto industriale sono soltanto
nomi diversi per diverse parti del plusvalore della merce,
o del lavoro non pagato in essa contenuto, e scaturiscono
in ugual modo da questa fonte, e unicamente da questa fonte.
Essi non derivano dal suolo come tale o dal capitale come
tale; ma suolo e capitale danno la possibilità ai loro
proprietari di ricevere la loro parte rispettiva del plusvalore
che l'imprenditore capitalista spreme dall'operaio. Per l'operaio
è d'importanza secondaria il fatto che questo plusvalore,
risultato del suo pluslavoro o di lavoro non pagato, venga
esclusivamente intascato dall'imprenditore capitalista, oppure
che quest'ultimo sia costretto a cederne delle parti a terze
persone, sotto il nome di rendita fondiaria e di interesse.
Supponiamo che l'imprenditore capitalista impieghi capitale
proprio e sia proprietario del suolo: tutto il plusvalore
si riversa allora nelle sue tasche.
L'imprenditore capitalista è colui che spreme direttamente
dall'operaio questo plusvalore, indipendentemente dalla parte
che alla fine egli potrà trattenere per sé.
Questo rapporto fra l'imprenditore capitalista e l'operaio
salariato è dunque il perno di tutto il sistema del
salario e di tutto l'attuale sistema di produzione. Quando
alcuni dei cittadini che prendevano parte alla nostra discussione
tentavano di rimpicciolire la questione e di considerare questo
rapporto fondamentale tra l'imprenditore capitalista e l'operaio
come questione subordinata, essi avevano torto, quantunque,
d'altra parte, essi avessero ragione di affermare che, in
date circostanze, un rialzo dei prezzi può interessare
in modo molto diverso l'imprenditore capitalista, il proprietario
fondiario, il capitalista finanziario, e, se volete, l'agente
delle imposte.
Da quanto abbiamo detto possiamo trarre ancora una conclusione.
Quella parte del valore della merce che rappresenta soltanto
il valore delle materie prime, delle macchine, in breve, il
valore dei mezzi di produzione impiegati, non dà nessun
reddito, ma ricostituisce soltanto il capitale.
Ma a prescindere da ciò è falso ritenere che
l'altra parte del valore della merce, quella che dà
un reddito, o che può essere distribuita sotto forma
di salario, profitto, rendita fondiaria, interessi, sia costituita
dal valore dei salari, dal valore della rendita fondiaria,
dal valore del profitto, e così via. Lasciamo ora da
parte i salari e consideriamo solo i profitti industriali,
l'interesse e la rendita fondiaria. Abbiamo appunto visto
poco fa che il plusvalore contenuto nella merce, o quella
parte del suo valore nella quale è incorporato lavoro
non pagato, si scompone in diverse parti, che portano tre
nomi diversi. Ma sarebbe contro la verità affermare
che il suo valore risulti o sia formato dalla addizione dei
valori indipendenti di queste tre parti costitutive.
Se un'ora di lavoro si incorpora in un valore di sei denari,
se la giornata di lavoro dell'operaio comprende dodici ore,
se la metà di questo tempo è lavoro non pagato,
questo pluslavoro aggiunge alla merce un plusvalore di tre
scellini, cioè un valore per il quale non è
stato pagato nessun equivalente. Questo plusvalore di tre
scellini rappresenta il fondo intero che l'imprenditore capitalista
può dividere, in una proporzione qualsiasi, col proprietario
fondiario e con colui che gli ha prestato denaro. Il valore
di questi tre scellini costituisce il limite del valore che
essi hanno da ripartire fra loro. Ma non è l'imprenditore
capitalista che aggiunge al valore della merce un valore arbitrario
come suo profitto, a cui poi viene aggiunto un altro valore,
ecc., in modo che la somma di questi valori fissati arbitrariamente
costituisca il valore globale. Voi vedete dunque quanto sia
errata l'opinione popolare, che confonde la scomposizione
di un dato valore in tre parti, con la formazione di quel
valore per mezzo della addizione di tre valori indipendenti,
e in questo modo trasforma il valore globale, dal quale scaturiscono
la rendita, il profitto e l'interesse, in una grandezza arbitraria.
Se il profitto totale realizzato dal capitalista è
uguale a cento sterline, noi chiamiamo questa somma, considerata
come grandezza assoluta, l'ammontare del profitto. Se consideriamo
invece il rapporto tra queste cento sterline e il capitale
sborsato, questa grandezza relativa la chiamiamo saggio del
profitto. evidente che questo saggio del profitto può
essere espresso in due modi.
Supponiamo che cento sterline siano il capitale anticipato
come salari.
Se il plusvalore ottenuto è pure uguale a cento sterline
- e questo ci indicherebbe che la metà della giornata
di lavoro dell'operaio consiste di lavoro non pagato - e se
misuriamo questo profitto secondo il valore del capitale anticipato
come salari, diremo che il saggio del profitto è del
100 per cento, poiché il valore anticipato è
cento e il valore ottenuto è duecento.
Se, d'altra parte, non consideriamo soltanto il capitale anticipato
come salari, ma consideriamo tutto il capitale anticipato,
per esempio cinquecento sterline, delle quali quattrocento
rappresentano il valore delle materie prime, delle macchine,
ecc., allora diremo che il saggio del profitto è soltanto
del 20 per cento, perché il profitto di cento è
soltanto la quinta parte di tutto il capitale sborsato.
La prima maniera di esprimere il saggio del profitto è
l'unica che vi indica il vero rapporto fra lavoro pagato e
lavoro non pagato, il vero grado dello sfruttamento del lavoro.
L'altra maniera di esprimersi è quella abituale, e
infatti adatta a certi scopi. In ogni caso, essa è
molto utile per nascondere il grado in cui il capitalista
spreme dall'operaio lavoro non pagato.
Nelle osservazioni che ancora ho da fare userò la parola
profitto per indicare l'ammontare totale del plusvalore che
il capitalista spreme, senza occuparmi della ripartizione
di questo plusvalore fra le diverse parti, e quando impiegherò
l'espressione saggio del profitto, lo farò sempre per
misurare il profitto secondo il suo rapporto col valore del
capitale anticipato sotto forma di salari.
Il rapporto generale tra profitti, salari e prezzi
Se dal valore di una merce togliamo il valore delle materie
prime e degli altri mezzi di produzione impiegati in essa,
cioè se togliamo il valore che rappresenta il lavoro
passato in essa contenuto, il valore che rimane si riduce
alla quantità di lavoro aggiunto dall'operaio che ha
lavorato per ultimo. Se questo operaio lavora giornalmente
dodici ore, se dodici ore di lavoro medio si cristallizzano
in una quantità di oro eguale a sei scellini, questo
valore addizionale di sei scellini èl'unico valore
che il suo lavoro avrà prodotto. Questo valore determinato
dal tempo di lavoro è l'unico fondo dal quale sia l'operaio
che il capitalista possono trarre la loro parte o quota rispettiva,
l'unico valore che deve essere ripartito in salari e profitti.
evidente che questo valore stesso non viene modificato dal
diverso rapporto secondo il quale esso può venir ripartito
fra le due parti. Inoltre, nulla sarà mutato se invece
di un operaio considereremo l'intera popolazione operaia,
e invece di una giornata di lavoro considereremo, poniamo,
dodici milioni di giornate di lavoro.
Poiché il capitalista e l'operaio hanno da suddividersi
solo questo valore limitato, cioè il valore misurato
dal lavoro totale dell'operaio, quanto più riceve l'uno,
tanto meno riceverà l'altro, e viceversa. Siccome non
esiste che una quantità , una parte aumenterà
nella stessa proporzione in cui l'altra diminuisce. Se i salari
cambiano, il profitto cambierà in direzione opposta.
Se i salari diminuiscono, aumenteranno i profitti; se i salari
aumentano, i profitti diminuiranno. Se l'operaio, come abbiamo
supposto precedentemente, riceve tre scellini, la metà
del valore che egli ha creato, o se la intera giornata di
lavoro consiste per metà in lavoro pagato e per l'altra
metà in lavoro non pagato, il saggio del profitto sarà
del 100 per cento, perché il capitalista riceverà
tre scellini. Se l'operaio riceve solo due scellini, cioè
lavora per s‚ solo un terzo della giornata, il capitalista
riceverà quattro scellini e il saggio del profitto
sarà del 200 per cento. Se l'operaio riceve quattro
scellini, il capitalista ne riceverà solo due e il
saggio del profitto cadrà allora al 50 per cento; ma
tutte queste variazioni non esercitano nessuna influenza sul
valore della merce.
Un aumento generale dei salari provocherebbe dunque una caduta
del saggio generale del profitto, ma non eserciterebbe nessuna
influenza sul valore.
Sebbene i valori delle merci, che debbono regolare in ultima
analisi il loro prezzo di mercato, vengono determinati unicamente
dalla quantità complessiva del lavoro in esse cristallizzato,
e non dalla ripartizione di questa quantità in lavoro
pagato e in lavoro non pagato, non ne deriva affatto che i
valori di singole merci o di un certo numero di merci che
vengono prodotte, per esempio, in dodici ore, restino costanti.
Il numero o la massa di merci prodotte in un determinato tempo
di lavoro e con una determinata quantità di lavoro,
dipende dalla forza produttiva del lavoro impiegato per la
loro fabbricazione, e non dalla sua estensione o dalla sua
durata.
Con un determinato grado di forze produttive del lavoro di
filatura, per esempio, con una giornata di lavoro di dodici
ore si producono dodici libbre di filo; con un grado inferiore
di forze produttive soltanto due libbre.
Quindi, se nel primo caso dodici ore di lavoro medio sono
incorporate in un valore di sei scellini, le dodici libbre
di filo costeranno sei scellini; nell'altro caso, le due libbre
di filo costeranno pure sei scellini. Una libbra di filo costerà
dunque sei denari nel primo caso, e tre scellini nel secondo.
La differenza di prezzo sarebbe una conseguenza della differenza
delle forze produttive del lavoro impiegato. Nel caso della
maggiore forza produttiva, in una libbra di filo sarebbe incorporata
un'ora di lavoro, mentre nel caso della minore forza produttiva
in una libbra di filo sarebbero incorporate sei ore di lavoro.
Il prezzo di una libbra di filo sarebbe, nel primo caso, soltanto
di sei denari, quantunque i salari siano relativamente alti
e basso il saggio del profitto. Nell'altro caso sarebbe di
tre scellini, quantunque i salari siano bassi e alto il saggio
del profitto. E avverrebbe così perché il prezzo
della libbra di filo É determinato dalla quantità
complessiva del lavoro che essa contiene e non dal rapporto
fra lavoro pagato e lavoro non pagato in cui questa quantità
complessiva si scompone.
Il fatto menzionato sopra, che il lavoro ben pagato può
produrre merci a buon mercato, e il lavoro mal pagato merci
care, perde perciò la sua apparenza paradossale. Esso
è soltanto l'espressione della legge generale secondo
cui il valore di una merce è determinato dalla quantità
di lavoro in essa incorporata, ma che questa quantità
di lavoro dipende esclusivamente dalle forze produttive del
lavoro impiegato e perciò varia con ogni variazione
della produttività del lavoro.
I casi principali in cui vengono richiesti aumenti
e combattute diminuzioni di salario
Vogliamo ora esaminare seriamente i casi principali in cui
si tenta o di ottenere un aumento, o di opporre una resistenza
alla diminuzione dei salari.
Primo. Abbiamo visto che il valore della forza-lavoro, o,
in linguaggio ordinario, il valore del lavoro, è determinato
dal valore degli oggetti di prima necessità o dalla
quantità di lavoro richiesta per la loro produzione.
Se dunque in un Paese determinato il valore degli oggetti
di prima necessità consumati in media giornalmente
dall'operaio è di sei ore di lavoro, pari a tre scellini,
l'operaio dovrebbe lavorare sei ore al giorno per produrre
l'equivalente del suo sostentamento quotidiano. Se la intera
giornata di lavoro fosse di dodici ore, il capitalista gli
pagherebbe il valore del suo lavoro dandogli tre scellini.
La metà della giornata sarebbe lavoro non pagato e
il saggio del profitto sarebbe del 100 per cento.
Ma supponiamo ora che, in seguito a una riduzione della produttività
, occorra più lavoro per produrre, poniamo, la stessa
quantità di prodotti del suolo, di modo che il prezzo
dei mezzi di sussistenza consumati in media ogni giorno aumenti
da tre a quattro scellini. In questo caso il valore del lavoro
salirebbe di un terzo, o del 33 per cento. Occorrerebbero
allora otto ore della giornata di lavoro per produrre l'equivalente
del sostentamento giornaliero dell'operaio, secondo il suo
tenore di vita di prima. Il pluslavoro cadrebbe dunque da
sei ore a quattro ore e il saggio del profitto dal 100 al
50 per cento. Chiedendo un aumento di salario, l'operaio esigerebbe
soltanto il maggior valore del suo lavoro, come ogni altro
venditore di una merce il quale, non appena sono aumentati
i costi della sua merce, cerca di farsi pagare questo maggior
valore. Se i salari non aumentassero, o se non aumentassero
abbastanza per compensare il maggior valore degli oggetti
di prima necessità , il prezzo del lavoro cadrebbe
al di sotto del valore del lavoro e il tenore di vita dell'operaio
peggiorerebbe.
Ma può aver luogo una modificazione anche in senso
opposto. Grazie all'aumentata produttività del lavoro,
la stessa quantità di oggetti di prima necessità
per il consumo medio giornaliero potrebbe cadere da tre a
due scellini, cioè non sarebbero più necessarie
sei ore ma solo quattro ore della giornata di lavoro per produrre
l'equivalente del valore di questi oggetti di prima necessità.
L'operaio sarebbe allora in grado di comperare con due scellini
tanti oggetti di uso corrente quanti ne comperava prima con
tre. In realtà il valore del lavoro sarebbe diminuito,
ma a questo minor valore corrisponderebbe la stessa quantità
di merci di prima. In tale caso il profitto salirebbe da tre
a quattro scellini e il saggio del profitto dal 100 al 200
per cento.
Benché il tenore di vita assoluto dell'operaio fosse
rimasto immutato, il suo salario relativo, e perciò
la sua condizione sociale relativa sarebbe peggiorata rispetto
a quella del capitalista. Se l'operaio opponesse resistenza
a questa diminuzione dei salari relativi, egli non tenderebbe
ad altro che a conseguire una partecipazione all'aumento delle
forze produttive del suo lavoro, e a mantenere la sua precedente
condizione sociale relativa.
Così i padroni delle fabbriche inglesi, dopo l'abolizione
delle leggi sul grano e violando apertamente le solenni promesse
fatte durante la propaganda contro queste leggi, ridussero
i salari, in generale del 10 per cento.
In un primo tempo essi riuscirono a far fronte alla resistenza
degli operai; ma in seguito, per circostanze sulle quali non
posso ora soffermarmi, gli operai riguadagnarono questo 10
per cento che avevano perduto.
Secondo. I valori degli oggetti di prima necessità
e per conseguenza il valore del lavoro, possono restare gli
stessi, ma il loro prezzo in denaro subire una variazione
in seguito a una precedente variazione del valore del denaro.
Se si scoprissero miniere d'oro più ricche, e così
via, la produzione di due once d'oro, per esempio, non costerebbe
maggior lavoro di quanto ne costava prima un'oncia. Il valore
dell'oro cadrebbe allora della metà , cioè del
50 per cento. Poiché i valori di tutte le altre merci
sarebbero allora espressi dal doppio del loro primitivo prezzo
in denaro, lo stesso avverrebbe anche del valore del lavoro.
Dodici ore di lavoro, che erano prima espresse in sei scellini,
sarebbero ora espresse in dodici scellini.
Se i salari dell'operaio rimanessero a tre scellini, invece
di salire a sei, il prezzo in denaro del suo lavoro non corrisponderebbe
più che alla metà del valore del suo lavoro
e il suo tenore di vita peggiorerebbe in modo spaventoso.
Questo avverrebbe in misura più o meno grande anche
se il suo salario, pur aumentando, non aumentasse nella stessa
proporzione in cui il valore dell'oro è diminuito.
In questo caso non si sarebbe verificato nessun cambiamento,
né delle forze produttive del lavoro, né della
domanda e nell'offerta, né nei valori. Nulla sarebbe
cambiato, all'infuori delle denominazioni monetarie di questi
valori. Sostenere in tali casi che l'operaio non deve chiedere
con insistenza un aumento proporzionale dei salari, equivale
a dirgli che egli deve accontentarsi di essere pagato con
dei nomi invece che con delle cose. Tutta la storia passata
prova che ogni volta che si produce una simile svalutazione
della moneta, i capitalisti sono immediatamente pronti ad
approfittare di questa occasione per frodare gli operai. Una
scuola molto numerosa di economisti afferma che, in seguito
alla scoperta di nuovi paesi ricchi di miniere d'oro, al migliore
sfruttamento di quelle d'argento e alla fornitura del mercurio
più a buon mercato, il valore dei metalli preziosi
è nuovamente caduto. Ciò spiegherebbe la lotta
generale e simultanea sul continente per ottenere salari più
alti.
Terzo. Abbiamo supposto finora che la giornata di lavoro abbia
limiti determinati.
Ma la giornata di lavoro non ha in s‚ nessun limite
costante. La tendenza continua del capitale è di prolungarla
fino al suo estremo limite fisico, perché nella stessa
misura aumentano il pluslavoro e quindi il profitto che ne
deriva. Più il capitale riesce ad allungare la giornata
di lavoro, più grande è la quantità di
lavoro altrui di cui esso si appropria. Durante il secolo
diciassettesimo, e anche nei primi due terzi del diciottesimo,
una giornata di dieci ore era la giornata di lavoro normale
in tutta l'Inghilterra.
Durante la guerra contro i giacobini, che fu in realtà
una guerra dei baroni britannici contro le masse operaie inglesi,
il capitale celebrò delle orge, e prolungò la
giornata di lavoro da dieci a dodici, quattordici, diciotto
ore. Malthus, che non può in nessun modo essere sospettato
di essere un sentimentale piagnucoloso dichiarò, in
un opuscoletto apparso verso il 1815, che se le cose fossero
continuate in quel modo, la vita della nazione sarebbe stata
minacciata alle sue radici. Qualche anno prima dell'introduzione
generale delle macchine di nuova invenzione, verso il 1765,
apparve in Inghilterra un opuscoletto dal titolo: Saggio
sull'industria. L'anonimo autore, nemico giurato della
classe operaia, si diffonde sulla necessità di estendere
i limiti della giornata di lavoro. Tra l'altro, egli propone
a questo scopo la istituzione di case di lavoro, le quali,
come egli dice, dovrebbero essere case di terrore. E quanto
dovrebbe essere lunga la giornata di lavoro, che egli propone
per queste case di terrore? Dodici ore: precisamente il tempo
dei capitalisti, dagli economisti e dai ministri fu richiesto
nell'anno 1832 non soltanto come la giornata di lavoro esistente
nella realtà , ma come il tempo di lavoro necessario
per un ragazzo al di sotto di dodici anni.
L'operaio, quando vende la sua forza-lavoro, e nel sistema
attuale egli è costretto a farlo, concede al capitalista
l'uso di questa forza, ma entro certi limiti ragionevoli.
Egli vende la sua forza-lavoro per conservarla, - lasciando
a parte il suo logorì o naturale -, ma non per distruggerla.
Quando egli vende la sua forza-lavoro al suo valore giornaliero
e settimanale, è implicito che questa forza lavoro
non sarà soggetta in un giorno o in una settimana al
consumo o al logorì o di due giorni o di due settimane.
Prendiamo una macchina del valore di mille sterline. Se essa
si consuma in cinque anni, aggiungerà a questo valore
duecento sterline all'anno, cioè il valore del suo
logorio annuo è inversamente proporzionale al tempo
in cui essa si consuma. Ma ciò distingue l'operaio
dalla macchina. La macchina non si consuma esattamente nella
stessa proporzione in cui viene utilizzata, mentre l'uomo
deperisce in misura molto maggiore di quanto sia visibile
dalla semplice addizione quantitativa del lavoro. Nei loro
sforzi per riportare la giornata di lavoro alla sua primitiva,
ragionevole durata, oppure, là dove non possono strappare
una fissazione legale della giornata di lavoro normale, nei
loro sforzi per porre un freno all'eccesso di lavoro mediante
un aumento dei salari e mediante un aumento che non sia soltanto
proporzionale all'eccesso di lavoro spremuto, ma gli sia superiore,
gli operai adempiono solamente un dovere verso s‚ stessi
e verso la loro razza. Essi non fanno altro che porre dei
limiti alla appropriazione tirannica, abusiva del capitale.
Il tempo è lo spazio dello sviluppo umano.
Un uomo che non dispone di nessun tempo libero, che per tutta
la sua vita, all'infuori delle pause puramente fisiche per
dormire e per mangiare e così via, è preso dal
suo lavoro per il capitalista, è meno di una bestia
da soma. Egli non è che una macchina per la produzione
di ricchezza per altri, è fisicamente spezzato e spiritualmente
abbrutito. Eppure, tutta la storia dell'industria moderna
mostra che il capitale, se non gli vengono posti dei freni,
lavora senza scrupoli e senza misericordia per precipitare
tutta la classe operaia a questo livello della più
profonda degradazione.
Il capitalista, prolungando la giornata di lavoro, può
pagare salari più elevati, e ciò nonostante
ridurre il valore del lavoro se l'aumento del salario non
corrisponde alla maggiore quantità di lavoro estorto
e al conseguente più rapido declino della forza-lavoro.
Questo risultato può essere conseguito anche in altro
modo. I vostri statistici borghesi vi racconteranno, per esempio,
che i salari medi delle famiglie che lavorano nelle fabbriche
del Lancashire sono aumentati. Essi dimenticano però
che ora, al posto dell'uomo, capo della famiglia, vengono
gettati sotto le ruote del Juggernaut capitalista anche sua
moglie e forse tre o quattro bambini, e che l'aumento dei
salari globali non corrisponde al plusvalore totale estorto
alla famiglia. Anche entro determinati limiti della giornata
di lavoro, quali esistono in tutte le branche di industria
soggette alla legislazione di fabbrica, un aumento dei salari
può diventare necessario, sia pure soltanto per mantenere
il vecchio livello del valore del lavoro. Se si aumenta l'intensità
del lavoro un uomo può essere costretto a consumare
in un'ora tanta forza vitale quanta ne consumava prima in
due ore. Ciò si è prodotto realmente, in un
certo grado, nelle industrie soggette alla legislazione di
fabbrica, in seguito al ritmo più celere delle macchine
e al maggior numero di macchine in azione che un solo individuo
deve ora sorvegliare. Se l'aumento dell'intensità del
lavoro o l'aumento della massa di lavoro consumata in un'ora
marcia di pari passo con la diminuzione della giornata di
lavoro, sarà l'operaio che ne trarrà beneficio.
Ma se questo limite viene superato, egli perde da una parte
ciò che guadagna dall'altra; e dieci ore di lavoro
possono essere per lui altrettanto dannose quanto lo erano
prima dodici ore.
Opponendosi a questi sforzi del capitale con la lotta per
gli aumenti di salario corrispondenti alla maggiore tensione
del lavoro, l'operaio non fa niente altro che opporsi alla
svalutazione del suo lavoro e alla degenerazione della sua
razza.
Quarto. Voi tutti sapete che la produzione capitalistica,
per ragioni che non occorre spiegarvi ora, attraversa determinati
cicli politici. Essa attraversa successivamente un periodo
di calma, di crescente animazione, di prosperità ,
di saturazione del mercato, di crisi e di stagnazione. I prezzi
di mercato delle merci e i saggi di profitto del mercato seguono
queste fasi, ora cadendo al di sotto della loro media, ora
superandola.
Se considerate il ciclo intero, troverete che uno scarto del
prezzo di mercato è compensato da un altro, e che nella
media del ciclo i prezzi di mercato delle merci sono regolati
dai loro valori. Ebbene, durante la fase della discesa dei
prezzi di mercato e durante le fasi della crisi e della stagnazione,
l'operaio, quando non perde del tutto la sua occupazione,
deve contare sicuramente su una diminuzione dei salari.
Per non essere defraudato, egli deve persino, quando i prezzi
di mercato scendono a tal punto, contrattare con il capitalista
per determinare in quale proporzione una diminuzione dei salari
è divenuta necessaria. Se durante le fasi della prosperità
, allorché si realizzano extraprofitti, egli non ha
lottato per un aumento dei salari, non riuscirà certamente,
nella media di un ciclo industriale, a mantenere neppure il
suo salario medio, cioè il valore del suo lavoro. Sarebbe
il colmo della pazzia pretendere che l'operaio, il cui salario
nella fase discendente del ciclo è necessariamente
trascinato nella corrente generale sfavorevole, si debba escludere
da un compenso corrispondente durante la fase del buon andamento
degli affari.
In generale i valori di tutte le merci si realizzano solo
attraverso la compensazione dei prezzi di mercato, che variano
incessantemente, grazie alle continue oscillazioni della domanda
e dell'offerta.
Sulla base del sistema attuale, il lavoro non è che
una merce come le altre.
Esso deve quindi subire le stesse oscillazioni per raggiungere
un prezzo medio che corrisponda al suo valore. Sarebbe sciocco
considerarlo da una parte come una merce, e d'altra parte
volerlo porre al di fuori delle leggi che determinano i prezzi
delle merci. Lo schiavo riceve una quantità fissa e
costante di mezzi per il suo sostentamento; l'operaio salariato
no. Egli deve tentare di ottenere, in un caso, un aumento
di salari, non fosse altro, almeno, che per compensare la
diminuzione dei salari nell'altro caso. Se egli si rassegnasse
ad accettare la volontà , le imposizioni dei capitalisti
come una legge economica permanente, egli condividerebbe tutta
la miseria di uno schiavo, senza godere la posizione sicura
dello schiavo.
Quinto. In tutti i casi che ho considerato, e che sono il
99 su 100, avete visto che una lotta per l'aumento dei salari
si verifica soltanto come conseguenza di mutamenti precedenti
ed è il risultato necessario di precedenti variazioni
della quantità della produzione, delle forze produttive
del lavoro, del valore del lavoro, del valore del denaro,
della estensione o dell'intensità del lavoro estorto,
delle oscillazioni dei prezzi di mercato, dipendenti dalle
oscillazioni della domanda e dell'offerta e corrispondenti
alle diverse fasi del ciclo industriale: in una parola, sono
reazioni degli operai contro una precedente azione del capitale.
Se considerate la lotta per un aumento dei salari indipendentemente
da tutte queste circostanze, e prendete in considerazione
solo i mutamenti dei salari, trascurando tutti gli altri mutamenti
dai quali essi derivano, partite da una premessa falsa per
arrivare a false conclusioni.
La lotta tra capitale e lavoro e i suoi risultati
Primo. Dopo aver dimostrato che la resistenza periodica opposta
dagli operai contro la diminuzione dei salari e gli sforzi
che essi fanno di tempo in tempo per avere degli aumenti di
salario sono inseparabili dal sistema del salario e dettati
dal fatto stesso che il lavoro è parificato alle merci,
e che perciò è soggetto alle leggi che regolano
il movimento generale dei prezzi; dopo aver mostrato, in seguito,
che un rialzo generale dei salari provocherebbe una caduta
del saggio generale del profitto, senza esercitare alcuna
influenza sui prezzi medi delle merci o sui loro valori, sorge
ora infine la questione di sapere fino a qual punto, in questa
lotta incessante tra capitale e lavoro, quest'ultimo ha delle
prospettive di successo.
Potrei rispondere con una generalizzazione, e dire che il
prezzo di mercato del lavoro, come quello di tutte le altre
merci, si adatterà a lungo andare al suo valore; che
perciò, malgrado tutti gli alti e bassi, e malgrado
tutto ciò che l'operaio possa fare, in ultima analisi
egli non riceverà in media che il valore del suo lavoro,
il quale si risolve nel valore della sua forza-lavoro, determinato
a sua volta dal valore degli oggetti d'uso necessari per la
sua conservazione e la sua riproduzione, valore che, infine,
è regolato dalla quantità di lavoro necessaria
per la loro produzione.
Ma vi sono alcune circostanze particolari, che differenziano
il valore della forza-lavoro o il valore del lavoro dai valori
di tutte le altre merci. Il valore della forza-lavoro è
costituito da due elementi, di cui l'uno è unicamente
fisico, l'altro storico o sociale. Il suo limite minimo è
determinato dall'elemento fisico, il che vuol dire che la
classe operaia, per conservarsi e per rinnovarsi, per perpetuare
la propria esistenza fisica, deve ricevere gli oggetti d'uso
assolutamente necessari per la sua vita e per la sua riproduzione.
Il valore di questi oggetti d'uso assolutamente necessari
costituisce quindi il limite minimo del valore del lavoro.
D'altra parte anche la durata della giornata di lavoro ha
il suo limite estremo, quantunque assai elastico. Questo limite
estremo è dato dalla forza fisica dell'operaio. Se
l'esaurimento giornaliero della sua forza vitale supera un
certo limite, questa non può rimettersi ogni giorno
in attività. Però, come abbiamo detto, questo
limite è molto elastico. Una successione rapida di
generazioni deboli e di breve esistenza può servire
il mercato del lavoro così bene come una serie di generazioni
robuste e di lunga esistenza.
Oltre che da questo elemento puramente fisico, il valore del
lavoro è determinato dal tenore di vita tradizionale
in ogni paese. Esso non consiste soltanto nella vita fisica,
ma nel soddisfacimento di determinati bisogni, che nascono
dalle condizioni sociali in cui gli uomini vivono e sono stati
educati.
Il tenore di vita inglese potrebbe essere abbassato a quello
degli irlandesi, il tenore di vita di un contadino tedesco
a quello di un contadino della Livonia. L'importanza della
parte che assumono, a questo riguardo, la tradizione storica
e le abitudini sociali, potete rilevarla dal libro del signor
Thornton sulla sovrappopolazione, nel quale egli mostra che
i salari medi nelle diverse regioni agrarie dell'Inghilterra
sono ancora oggi differenti, a seconda delle circostanze più
o meno favorevoli nelle quali queste regioni hanno scosso
il giogo del servaggio.
Questo elemento storico o sociale, che entra nel valore del
lavoro, può aumentare o diminuire, e anche annullarsi,
in modo che non rimanga che il limite fisico. Al tempo della
guerra antigiacobina, la quale, come usava dire l'incorreggibile
divoratore di imposte e di sinecure, il vecchio Gorge Rose,
fu fatta per salvare i comodi della nostra santissima religione
dagli assalti dei francesi miscredenti, gli onesti agrari
inglesi - che in una precedente nostra seduta abbiamo trattato
con tanto riguardo -, ridussero i salari dei lavoratori agricoli
persino al di sotto di questo minimo puramente fisico, e fecero
aggiungere, mediante le tasse in favore dei poveri, il rimanente
necessario per la conservazione fisica della razza. Fu questo
un modo brillante per trasformare l'operaio salariato in uno
schiavo, e il fiero libero contadino di Shakespeare in un
povero.
Se confrontate tra loro i salari normali o i valori del lavoro
in diversi Paesi e in diverse epoche storiche dello stesso
Paese, troverete che il valore del lavoro non è una
grandezza fissa, ma una grandezza variabile, anche se si suppone
che i valori di tutte le altre merci rimangano costanti.
Lo stesso confronto per quanto riguarda i saggi del profitto
del mercato, dimostrerebbe che non solo essi cambiano, ma
che cambiano anche i loro saggi medi. In quanto ai profitti,
non esiste nessuna legge che ne determini il minimo.
Non possiamo dire qual è il limite ultimo al quale
essi possono cadere. E perché non possiamo stabilire
questo limite? Perché siamo in condizioni di stabilire
i salari minimi, ma non quelli massimi. Possiamo soltanto
dire che dati i limiti della giornata di lavoro, il massimo
del profitto corrisponde al limite fisico minimo dei salari,
e che, dati i salari, il massimo del profitto corrisponde
a quella estensione della giornata di lavoro che è
ancora compatibile con le forze fisiche dell'operaio. Il massimo
del profitto è dunque limitato solamente dal minimo
fisico dei salari e dal massimo fisico della giornata di lavoro.
chiaro che fra questi due limiti del saggio massimo del profitto
è possibile una serie immensa di variazioni. La determinazione
del suo livello reale viene decisa soltanto dalla lotta incessante
tra capitale e lavoro; il capitalista cerca costantemente
di ridurre i salari al loro limite fisico minimo e di estendere
la giornata di lavoro al suo limite fisico massimo, mentre
l'operaio esercita costantemente una pressione in senso opposto.
La cosa si riduce alla questione dei rapporti di forza delle
parti in lotta.
Secondo. Per quanto riguarda la limitazione della giornata
di lavoro in Inghilterra e in tutti gli altri paesi, essa
non è mai stata regolata altrimenti che per intervento
legislativo. Senza la pressione costante degli operai dall'esterno,
questo intervento non si sarebbe mai verificato. Ad ogni modo,
il risultato non avrebbe potuto essere raggiunto per via di
accordi privati fra gli operai e i capitalisti. proprio questa
necessità di una azione politica generale che ci fornisce
la prova che nella lotta puramente economica il capitale è
il più forte.
In quanto al limite del valore del lavoro, la sua determinazione
reale dipende sempre dalla domanda e dall'offerta, intendo
dire dalla domanda di lavoro da parte del capitale, e dall'offerta
di lavoro da parte degli operai. Nei paesi coloniali la legge
della domanda e dell'offerta è favorevole all'operaio.
Ciò spiega il livello relativamente alto dei salari
negli Stati Uniti d'America. In questo paese il capitale può
tentare tutto quello che vuole; esso non può impedire
che il mercato del lavoro si svuoti continuamente in seguito
alla trasformazione continua degli operai salariati in contadini
indipendenti, che provvedono a se stessi. La condizione di
operaio salariato è per una parte molto grande degli
americani soltanto uno stadio transitorio, che essi sicuramente
abbandonano dopo un tempo più o meno breve. Per far
fronte a questo stato di cose che esiste nelle colonie, il
paterno governo britannico ha fatto propria durante un certo
periodo di tempo la cosiddetta teoria moderna della colonizzazione,
che consiste nell'innalzare artificialmente il prezzo delle
terre nelle colonie, per impedire in tal modo la trasformazione
troppo rapida dell'operaio salariato in un contadino indipendente.
Passiamo ora ai paesi di vecchia civiltà , nei quali
il capitale domina interamente il processo della produzione.
Prendiamo, per esempio, l'aumento dei salari degli operai
agricoli in Inghilterra dal 1849 al 1859. Quale ne fu la conseguenza?
I coltivatori non poterono, come avrebbe consigliato loro
il nostro amico Weston, aumentare il valore del grano, e nemmeno
i suoi prezzi di mercato. Al contrario, dovettero accomodarsi
alla loro caduta.
Ma durante questi undici anni essi introdussero ogni sorta
di macchine e nuovi metodi scientifici, trasformarono una
parte del terreno arato in pascolo, aumentarono le dimensioni
delle aziende agricole e perciò il volume della produzione,
e con questi e altri mezzi avendo ridotto la domanda di lavoro
accrescendone la forza produttiva, fecero sì che la
popolazione lavoratrice delle campagne diventò di nuovo
relativamente sovrabbondante.
É questo il metodo generale secondo il quale, nei Paesi
vecchi, dove il suolo è occupato, si compiono più
o meno rapidamente le reazioni del capitale agli aumenti di
salario. Ricardo ha giustamente osservato che la macchina
si trova in continua concorrenza col lavoro e spesso può
essere introdotta solo quando il prezzo del lavoro ha raggiunto
una certa altezza; ma l'adozione della macchina non è
che uno dei molti metodi per aumentare la forza produttiva
del lavoro. Lo stesso processo che rende relativamente superfluo
il lavoro abituale semplifica, d'altra parte, il lavoro qualificato
e perciò lo svaluta.
La stessa legge si fa valere anche in un'altra forma. Con
lo sviluppo delle forze produttive del lavoro, l'accumulazione
di capitale è molto accelerata, anche se il livello
dei salari sia relativamente alto. Si potrebbe dunque concludere
- come ha ritenuto A. Smith, ai tempi del quale l'industria
moderna si trovava ancora ai suoi albori - che questa accumulazione
accelerata di capitale deve far traboccare la bilancia a favore
dell'operaio, in quanto crea una domanda crescente del suo
lavoro. Per questa stessa ragione molti scrittori contemporanei
si sono meravigliati che, sebbene il capitale inglese sia
aumentato in questi ultimi venti anni molto più rapidamente
della popolazione inglese, i salari non siano più aumentati.
Ma parallelamente all'accumulazione progressiva del capitale
ha luogo una modificazione crescente nella composizione del
capitale. Quella parte del capitale che è formata da
capitale fisso, macchine, materie prime, mezzi di produzione
d'ogni genere, aumenta più rapidamente di quell'altra
parte del capitale che viene investita in salari, cioè
per comperare lavoro. In forma più o meno precisa,
questa legge è stata stabilita da Barton, Ricardo,
Sismondi, dal professor Richard Jones, del professor Ramsay,
da Cherbuliez e altri.
Se il rapporto primitivo fra questi due elementi del capitale
era uno a uno, col progredire dell'industria esso diventa
cinque a uno, ecc. Se di un capitale globale di seicento,
si investono trecento parti in strumenti di lavoro, materie
prime, e così via, e trecento in salari, basta raddoppiare
il capitale globale per creare una domanda di seicento operai
invece che di trecento. Ma se di un capitale di seicento,
cinquecento parti sono investite in macchine, materie prime,
e così via e soltanto cento in salari, questo capitale
deve salire da 600 a 3.600 per creare una domanda di seicento
operai invece che di trecento. Con lo sviluppo dell'industria
la domanda di lavoro non procede dunque di pari passo con
l'accumulazione del capitale.
Essa aumenta indubbiamente, ma in proporzione continuamente
decrescente rispetto all'aumento del capitale.
Queste poche indicazioni basteranno per dimostrare che proprio
lo sviluppo dell'industria moderna deve far pendere la bilancia
sempre più a favore del capitalista, contro l'operaio,
e che per conseguenza la tendenza generale della produzione
capitalistica non è all'aumento del livello medio dei
salari, ma alla diminuzione di esso, cioè a spingere
il valore del lavoro, su per giù, al suo limite più
basso. Se tale è in questo sistema la tendenza delle
cose, significa forse ciò che la classe operaia deve
rinunciare alla sua resistenza contro gli attacchi del capitale
e deve abbandonare i suoi sforzi per strappare dalle occasioni
che le si presentano tutto ciò che può servire
a migliorare temporaneamente la sua situazione? Se essa lo
facesse, essa si ridurrebbe al livello di una massa amorfa
di affamati e di disperati, a cui non si potrebbe più
dare nessun aiuto. Credo di aver dimostrato che le lotte della
classe operaia per il livello dei salari sono fenomeni inseparabili
da tutto il sistema del salario, che in 99 casi su 100 i suoi
sforzi per l'aumento dei salari non sono che tentativi per
mantenere integro il valore dato del lavoro, e che la necessità
di lottare con il capitalista per il prezzo del lavoro dipende
dalla sua condizione, dal fatto che essa è costretta
a vendersi come merce. Se la classe operaia cedesse per viltà
nel suo conflitto quotidiano con il capitale, si priverebbe
essa stessa della capacità di intraprendere un qualsiasi
movimento più grande.
Nello stesso tempo la classe operaia, indipendentemente dalla
servitù generale che è legata al sistema del
lavoro salariato, non deve esagerare a s‚ stessa il
risultato finale di questa lotta quotidiana. Non deve dimenticare
che essa lotta contro gli effetti, ma non contro le cause
di questi effetti; che essa può soltanto frenare il
movimento discendente, ma non mutarne la direzione; che essa
applica soltanto dei palliativi, ma non cura la malattia.
Perciò essa non deve lasciarsi assorbire esclusivamente
da questa inevitabile guerriglia, che scaturisce incessantemente
dagli attacchi continui del capitale o dai mutamenti del mercato.
Essa deve comprendere che il sistema attuale, con tutte le
miserie che accumula sulla classe operaia, genera nello stesso
tempo le condizioni materiali e le forme sociali necessarie
per una ricostruzione economica della società. Invece
della parola d'ordine conservatrice: "Un equo salario
per un'equa giornata di lavoro", gli operai devono
scrivere sulla loro bandiera il motto rivoluzionario: "Soppressione
del sistema del lavoro salariato".
Dopo questa lunga e, temo, affaticante esposizione, alla quale
non potevo sottrarmi senza nuocere all'argomento, concludo
proponendovi l'approvazione della seguente risoluzione:
Primo. Un aumento generale del livello dei salari provocherebbe
una caduta generale del saggio generale del profitto, ma non
toccherebbe, in linea di massima, i prezzi delle merci.
Secondo. La tendenza generale della produzione capitalistica
non è di elevare il salario normale medio, ma di ridurlo.
Terzo. Le Trade Unions compiono un buon lavoro come centri
di resistenza contro gli attacchi del capitale; in parte si
dimostrano inefficaci in seguito a un impiego irrazionale
della loro forza. Esse mancano, in generale, al loro scopo,
perché si limitano a una guerriglia contro gli effetti
del sistema esistente, invece di tendere nello stesso tempo
alla sua trasformazione e di servirsi della loro forza organizzata
come di una leva per la liberazione definitiva della classe
operaia, cioè per l'abolizione definitiva del sistema
del lavoro salariato.
Karl Marx
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