Osservazioni preliminari Cittadini! Permettetemi, prima che mi addentri nell'argomento vero e proprio della mia esposizione, di fare alcune osservazioni preliminari. Regna oggi sul Continente una vera epidemia di scioperi e una richiesta generale di aumento di salario. La questione si presenterà al nostro congresso. Voi, che siete alla testa dell'Associazione internazionale, dovete avere opinioni molto precise su questa importante questione. Considero perciò mio dovere esaminare a fondo il problema, anche a costo di porre la vostra pazienza a dura prova. Una seconda osservazione preliminare devo fare a proposito del cittadino Weston. Egli non solo ha sviluppato davanti a voi, ma ha anche difeso apertamente concezioni che sa essere molto malviste dagli operai, ma che egli ritiene favorevoli ai loro interessi. Una tale prova di coraggio morale deve essere apprezzata altamente da ognuno di noi. Spero che, malgrado lo stile disadorno della mia esposizione, egli riconoscerà alla fine di essa che io concordo con quella che mi sembra essere la idea giusta che sta alla base delle sue tesi, le quali però, nella loro forma attuale, non posso non considerare come teoricamente false e praticamente pericolose. E passo senz'altro all'argomento in questione. Produzione e salari Il ragionamento del cittadino Weston poggia di fatto su due premesse: 1. che l'ammontare della produzione nazionale é qualcosa di fisso, una quantità o grandezza costante, come direbbe il matematico; 2. che la somma dei salari reali, cioé dei salari calcolati secondo la quantità di merci che con essi si possono comprare, é un importo fisso, é una grandezza costante. Ora, la sua prima asserzione é evidentemente errata. Voi troverete che il valore e la massa della produzione aumentano di anno in anno, che le forze produttive del lavoro nazionale aumentano, e che la quantità di denaro necessaria per la circolazione di questa produzione accresciuta cambia continuamente. Ciò che é vero alla fine dell'anno e per diversi anni confrontati fra di loro, é vero anche per ogni giorno medio dell'anno. La massa o grandezza della produzione nazionale cambia continuamente. Essa non é una grandezza costante, ma una grandezza variabile; e, pur facendo astrazione dalle variazioni della popolazione, non potrebbe non essere così, grazie al mutamento continuo dell'accumulazione di capitale e delle forze produttive del lavoro. Assolutamente giusto che se oggi si verificasse un aumento del livello generale dei salari, questo solo fatto non muterebbe immediatamente la massa della produzione, qualunque potesse essere il suo effetto ulteriore. Essa partirebbe anzitutto dallo stato di cose esistente. Ma se la produzione nazionale era variabile e non costante prima dell'aumento dei salari, essa continuerà a essere variabile e non costante anche dopo l'aumento dei salari. Ammettiamo pure, però, che la massa della produzione nazionale sia costante e non variabile. Anche in questo caso quella che il nostro amico Weston considera come una conclusione logica rimarrebbe una affermazione infondata. Se ho un numero determinato, per esempio 8, i limiti assoluti di questo numero non impediscono alle sue parti di mutare i loro limiti relativi. Se i profitti sono eguali a 6 e i salari sono eguali a 2, i salari possono salire a 6 e i profitti scendere a 2; il totale rimane sempre 8. Dunque la invariabilità della massa della produzione non proverebbe affatto l'immutabilità dell'ammontare dei salari. In quale modo il nostro amico Weston dimostra questa immutabilità? Affermandola. Ma anche se si accetta come giusta la sua affermazione, essa dovrebbe agire in due direzioni, mentre egli la fa operare da un lato solo. Se l'importo dei salari é una grandezza costante, esso non può venire n‚ aumentato n‚ diminuito. Se gli operai agiscono dunque insensatamente imponendo un aumento passeggero dei salari, non meno insensatamente agirebbero i capitalisti imponendo loro una temporanea diminuzione. Il nostro amico Weston non nega che in determinate circostanze gli operai possano strappare degli aumenti di salario; ma, poiché‚ l'importo dei salari é di sua natura fisso, all'aumento deve seguire una reazione. Egli sa però anche, d'altra parte, che i capitalisti possono imporre una diminuzione dei salari, e tentano di farlo, infatti, di continuo. Secondo il principio della immutabilità dei salari, la reazione dovrebbe verificarsi in questo caso non meno che nel caso precedente. Gli operai agirebbero dunque giustamente, insorgendo contro il tentativo di diminuire i salari o contro la loro diminuzione effettiva. Essi agirebbero dunque giustamente quando cercano di strappare un aumento di salario, perché‚ ogni reazione contro una diminuzione dei salari é un'azione per aumentarli. Dunque, secondo la stessa teoria del cittadino Weston, secondo la teoria, cioé, dell'immutabilità dei salari, gli operai dovrebbero, in certe circostanze, unirsi e lottare per ottenere un aumento dei salari. Se egli nega questa conclusione, egli deve rinunciare alla premessa da cui essa scaturisce. Egli non deve dire che l'ammontare dei salari é una grandezza costante, ma deve dire che esso, benché non possa e non debba salire, più e deve cadere, ogni qualvolta piaccia al capitale di abbassarlo. Se al capitalista piace nutrirsi di patate anziché‚ di carne, di farina d'avena anziché‚ di grano, dovete accettare la sua volontà come una legge dell'economia politica, e sottomettervi ad essa. Se in un paese il livello dei salari é più elevato che in un altro, negli Stati Uniti, per esempio, più che in Inghilterra, dovete spiegarvi questa differenza del livello dei salari come una differenza tra la volontà del capitalista americano e quella del capitalista inglese, metodo questo che semplificherebbe molto lo studio non solo dei fenomeni economici, ma di tutti gli altri fenomeni in generale. Ma anche in questo caso potremmo chiedere: perché‚ la volontà del capitalista americano é diversa da quella del capitalista inglese? E per rispondere a questa domanda dovete uscire dal campo della volontà. Un prete mi può raccontare che Dio vuole una cosa in Francia, un'altra in Inghilterra. Se insisto perché‚ mi spieghi la dualità di questa volontà, egli potrebbe avere la faccia tosta di rispondermi che Dio vuole avere una volontà in Francia e una diversa volontà in Inghilterra. Ma il nostro amico Weston é certamente l'ultimo a fare un argomento di una simile negazione completa di ogni ragionamento. La volontà del capitalista consiste certamente nel prendere quanto più é possibile. Ciò che noi dobbiamo fare non é di parlare della sua volontà, ma di indagare la sua forza, i limiti di questa forza e il carattere di questi limiti. Produzione, salari, profitti La conferenza che il cittadino Weston ci ha letto avrebbe potuto essere compressa in un guscio di noce. Tutta la sua argomentazione conclude a questo: - se la classe operaia costringe la classe capitalista a pagarle, sotto forma di salario in denaro, cinque scellini invece di quattro, il capitalista gli darà in cambio, sotto forma di merci, il valore di quattro scellini invece di cinque. La classe operaia dovrebbe allora pagare cinque scellini ciò che essa comperava con quattro scellini prima dell'aumento del salario. E perché questo? Perché il capitalista per cinque scellini dà soltanto il valore di quattro scellini? Perché lo ammontare dei salari é fisso. Ma perché é esso fissato al valore di quattro scellini di merci? Perché non a tre, o a due, o a qualunque altra somma? Se il limite dell'ammontare dei salari é stabilito da una legge economica, indipendente sia dalla volontà dei capitalisti come dalla volontà degli operai, la prima cosa che il cittadino Weston avrebbe dovuto fare era di esporre questa legge e di provarla. Inoltre egli avrebbe dovuto dimostrare che l'ammontare dei salari realmente pagato corrisponde sempre, in ogni momento, al necessario ammontare dei salari, e non se ne discosta mai. Se d'altra parte il limite dato dall'ammontare dei salari dipende unicamente dalla volontà del capitalista o dai limiti della sua ingordigia, in tal caso si tratta di un limite arbitrario. Esso non ha in sé nulla di necessario. Esso può venire modificato dalla volontà del capitalista, e può quindi venire modificato anche contro la sua volontà. Il cittadino Weston ha illustrato la sua teoria, raccontando che se una zuppiera contiene una determinata quantità di minestra, che deve essere mangiata da un determinato numero di persone, un aumento della grandezza dei cucchiai non porterebbe a un aumento della quantità della minestra. Egli mi permetterà di trovare che questa illustrazione é fatta un po' col cucchiaio. Essa mi ha ricordato l'apologo di cui si é servito Menenio Agrippa. Quando i plebei romani fecero sciopero contro i patrizi romani, il patrizio Agrippa raccontò loro che la pancia patrizia nutre le membra plebee del corpo politico. Agrippa non riuscì però a dimostrare che le membra di un uomo si nutrono quando si riempie la pancia di un altro. Il cittadino Weston ha dimenticato, a sua volta, che la zuppiera nella quale mangiano gli operai é riempita dell'intero prodotto del lavoro nazionale e che ciò che impedisce loro di prenderne di più, non é né la piccolezza della zuppiera, né la scarsità del suo contenuto, ma é soltanto la piccolezza dei loro cucchiai. Con quale artifizio il capitalista é in condizione di dare per cinque scellini il valore di quattro scellini? Con l'aumento del prezzo delle merci che egli vende. Ma l'aumento dei prezzi e, in generale, la variazione di prezzi delle merci, i prezzi delle merci insomma, dipendono essi dalla sola volontà del capitalista? Oppure é necessario il concorso di determinate circostanze perché questa volontà si realizzi? Se non è così, gli alti e bassi, le incessanti fluttuazioni dei prezzi di mercato diventano un enigma insolubile. Poiché ammettiamo che non si é prodotto assolutamente nessun cambiamento, né delle forze produttive del lavoro, né nella quantità del capitale e di lavoro impiegati, o nel valore del denaro in cui viene espresso il valore dei prodotti, ma si é prodotta soltanto una variazione nel livello dei salari, - in quale modo questo aumento dei salari ha potuto esercitare una influenza sui prezzi delle merci? Unicamente influendo sul rapporto concreto tra la domanda e l'offerta di queste merci. É un fatto incontestabile che la classe operaia, considerata nel suo insieme, spende e deve spendere tutto il suo salario in oggetti di prima necessità. Un aumento generale dei salari provocherebbe dunque un aumento delle domande di oggetti di prima necessità e, conseguentemente, un aumento dei loro prezzi di mercato. I capitalisti che producono questi oggetti di prima necessità, con l'aumento dei prezzi di mercato delle loro merci sarebbero compensati dall'aumento dei salari. Ma che ne é degli altri capitalisti, che non producono oggetti di prima necessita? E non si tratta, potete crederlo, di un piccolo numero. Se pensate che due terzi della produzione nazionale sono consumati da un quinto della popolazione, - anzi, un membro della Camera dei comuni ha calcolato recentemente che si tratta solo di un settimo della popolazione -, comprenderete quale immensa parte della produzione nazionale deve essere costituita da oggetti di lusso, o deve essere scambiata con articoli di lusso, e quale enorme massa di oggetti di prima necessità viene sciupata per lacché, cavalli, gatti e così via; uno spreco che, come l'esperienza ce lo indica, subisce sempre una forte diminuzione quando aumentano i prezzi degli oggetti di prima necessità. Ora, in quale situazione si verranno a trovare quei capitalisti che non producono oggetti di prima necessità? Essi non potrebbero rivalersi della caduta del saggio del profitto, conseguente all'aumento generale dei salari, con un aumento dei prezzi delle loro merci, perché la domanda di queste merci non sarebbe aumentata. Il loro reddito diminuirebbe, e di questo reddito diminuito essi dovrebbero spender di più per la stessa quantità di oggetti di prima necessità ma a più alto prezzo. E non sarebbe ancora tutto. Essendo diminuito il loro reddito, essi potrebbero spendere di meno anche per oggetti di lusso, e quindi diminuirebbe la domanda reciproca delle loro merci rispettive. Come conseguenza di questa contrazione della domanda, i prezzi delle loro merci cadrebbero. Perciò in questi rami di industria il saggio del profitto cadrebbe non soltanto in rapporto diretto all'aumento generale del livello dei salari, ma in rapporto all'azione combinata dell'aumento generale dei salari, all'aumento dei prezzi degli articoli di prima necessità e della caduta dei pezzi degli oggetti di lusso. Quale sarebbe la conseguenza di questa differenza nei saggi di profitto dei capitali impiegati nei differenti rami di industria? Certo, la stessa conseguenza che si verifica ogni volta che per un motivo qualsiasi si producono differenze nel saggio di profitto nei diversi campi della produzione. Capitale e lavoro si sposterebbero dai rami meno remunerativi a quelli più remunerativi; e questo processo di spostamento durerebbe sino a tanto che l'offerta in un ramo d'industria fosse salita proporzionalmente alla maggiore domanda, fosse caduta negli altri rami in ragione della domanda minore. Una volta compiuto questo cambiamento nei diversi rami dell'industria si ritornerebbe al saggio generale del profitto. Poiché tutto questo spostamento aveva avuto origine da un semplice mutamento intervenuto nel rapporto fra la domanda e l'offerta delle varie merci, col cessare della causa dovrebbe cessare anche l'effetto, e i prezzi dovrebbero ritornare al loro livello e al loro equilibrio primitivi. La caduta del saggio del profitto, conseguente all'aumento dei salari, diventerebbe così generale, invece di rimanere limitata solo ad alcuni rami di industria. Secondo la nostra supposizione, non si sarebbe verificato nessun mutamento né nelle forze produttive del lavoro, né nell'ammontare totale della produzione; quella data massa di produzione avrebbe soltanto cambiato la sua forma. Una parte maggiore della produzione esisterebbe ora sotto la forma di oggetti di prima necessità, una parte minore sotto la forma di oggetti di lusso, o, il che é poi la stessa cosa, una parte minore verrebbe scambiata con merci di lusso straniere e consumata nella sua forma originaria, o, il che é ancora la stessa cosa, una parte minore verrebbe scambiata con merci di lusso straniere e consumata nella sua forma originaria, o, il che é ancora la stessa cosa, una parte maggiore della produzione indigena verrebbe scambiata con oggetti di prima necessità importati dall'estero, invece di essere scambiata con oggetti di lusso. L'aumento generale del livello dei salari, non porterebbe dunque ad altro, dopo un turbamento temporaneo dei prezzi di mercato, che alla caduta generale del saggio del profitto, senza alcuna variazione durevole nel prezzo delle merci. Se mi si dice che la mia dimostrazione é fondata sul presupposto che tutto l'aumento dei salari venga speso in oggetti di prima necessità, risponderò che ho fatto l'ipotesi più favorevole alla concezione del cittadino Weston. Se l'aumento dei salari venisse speso in oggetti che prima non facevano parte del consumo degli operai, l'aumento reale della loro forza di acquisto non avrebbe più bisogno di essere provato. Ma poiché questo aumento non é che la conseguenza dell'aumento dei salari, esso deve corrispondere esattamente alla diminuzione della forza di acquisto dei capitalisti. La domanda complessiva di merci quindi non aumenterebbe; cambierebbero solo le parti costitutive di questa domanda. La crescente domanda da una parte sarebbe compensata dalla domanda decrescente dall'altra parte. In tal modo, rimanendo invariata la domanda complessiva, nessuna variazione potrebbe verificarsi nei prezzi di mercato delle merci. Vi trovate quindi di fronte a un dilemma. O l'aumento dei salari é ripartito ugualmente su tutti gli oggetti di consumo, e in questo caso l'aumento della domanda da parte della classe operaia deve essere compensato dalla caduta della domanda da parte della classe capitalista. Oppure lo aumento dei salari è speso soltanto per determinati oggetti, i cui prezzi di mercato aumenteranno temporaneamente, e in tal caso l'aumento del saggio del profitto in alcuni rami di industria e la caduta del saggio del profitto in altri rami, che ne conseguono, provocheranno un mutamento nella ripartizione di capitale e di lavoro, il quale durerà sino a che l'offerta si sarà adattata alla maggiore domanda in un ramo d'industria, e alla minore domanda nell'altro ramo. Secondo la prima ipotesi, non si avrà nessun cambiamento nei prezzi delle merci. Secondo l'altra, i valori di scambio delle merci, dopo alcune oscillazioni dei prezzi di mercato, ritorneranno al loro livello primitivo. Secondo le due ipotesi l'aumento generale del livello dei salari non avrà infine altra conseguenza che una caduta generale del saggio del profitto. Per eccitare la vostra fantasia, il cittadino Weston vi ha invitati a pensare alle difficoltà che sorgerebbero da un aumento generale dei salari degli operai agricoli inglesi da nove a diciotto scellini. Pensate dunque, egli ha esclamato, all'enorme aumento della domanda di oggetti di prima necessità e allo spaventoso aumento dei prezzi che ne seguirebbe! Orbene, voi tutti sapete che i salari medi degli operai agricoli americani sono alti più del doppio di quelli degli operai agricoli inglesi, quantunque i prezzi dei prodotti agricoli siano più bassi negli Stati Uniti che in Inghilterra, quantunque negli Stati Uniti regnino gli stessi rapporti generali fra capitale e lavoro che in Inghilterra, e quantunque la massa della produzione annua sia negli Stati Uniti molto più piccola che in Inghilterra. Perché dunque il nostro amico suona questa campana d'allarme? Soltanto per spostare la vera questione che sta davanti a noi. Un aumento improvviso di salari da nove a diciotto scellini sarebbe un aumento improvviso del 100 per cento del loro ammontare. Ma noi non discutiamo affatto se il livello generale dei salari in Inghilterra possa essere aumentato improvvisamente del 100 per cento. La misura dell'aumento, che in ogni caso pratico dipende dalle circostanze determinate, alle quali deve adattarsi, non ci interessa affatto. Dobbiamo soltanto ricercare quale influenza esercita un aumento generale del livello dei salari, anche se limitato all'uno per cento. Lasciando dunque da parte l'aumento fantastico del 100 per cento dell'amico Weston, voglio attirare la vostra attenzione sul reale aumento dei salari che si é verificato in Gran Bretagna dal 1849 al 1859. Conoscete tutti la legge delle dieci ore, o meglio la legge delle dieci ore e mezzo, che entrò in vigore nel 1848. Fu uno dei più grandi rivolgimenti economici cui abbiamo assistito. Fu un aumento improvviso e obbligatorio dei salari, non in alcune industrie locali, ma nei rami principali dell'industria, con i quali l'Inghilterra domina i mercati mondiali. Fu un aumento dei salari in circostanza singolarmente sfavorevoli. Il dottor Ure, il professor Senior e tutti gli altri portavoce ufficiali della economia della classe borghese dimostrarono - e, son costretto a dirlo, con argomentazioni molto più solide di quelle del nostro amico Weston - che questa legge avrebbe suonato la campana a morte dell'industria inglese. Essi dimostrarono che non si trattava soltanto di un semplice aumento dei salari, ma di un aumento dei salari che si iniziava e si fondava su una diminuzione della quantità di lavoro impiegato. Essi asserivano che la dodicesima ora che si voleva togliere al capitalista, era proprio l'unica ora dalla quale egli traeva il proprio profitto. Essi minacciavano una diminuzione dell'accumulazione del capitale, aumento dei prezzi, perdita di mercati, riduzione della produzione, conseguente ripercussione sui salari, e infine la rovina. Essi affermavano che in realtà la legge di Massimiliano Robespierre sui prezzi massimi era una inezia al confronto di ciò, e in un certo senso avevano ragione. Ora, quale fu il risultato? Un aumento dei salari in denaro degli operai di fabbrica malgrado la diminuzione della giornata di lavoro, un aumento notevole del numero degli operai di fabbrica occupati, una caduta costante dei prezzi dei loro prodotti, un mirabile sviluppo delle forze produttive del loro lavoro, un allargamento costante e inaudito dei mercati per le loro merci. A Manchester, in una adunanza della società per l'incoraggiamento della scienza ho udito io stesso nel 1860 il signor Newman confessare che egli, il dottor Ure, Senior e tutti gli altri rappresentanti ufficiali della scienza economica si erano sbagliati, mentre l'istinto del popolo aveva visto giusto. Mi riferisco la signor W. Newman, e non al professore Francis Newman, perché egli occupa un posto eminente nella scienza economica, come collaboratore ed editore della Storia dei prezzi del signor Thomas Tooke, quest'opera magnifica, che traccia la storia dei prezzi dal 1793 al 1856. Se l'idea fissa del nostro amico Weston circa un ammontare fisso dei salari, una quantità fissa di produzione, un grado fisso della forza produttiva del lavoro, una volontà fissa e costante dei capitalisti, e tutte le altre sue cose fisse e definitive fossero giuste, sarebbero state giuste anche le previsioni sinistre del professor Senior, e avrebbe avuto torto Robert Owen, che già nel 1816 richiedeva una diminuzione generale della giornata di lavoro come primo passo per preparare la liberazione della classe operaia, e nonostante il pregiudizio generale la introdusse realmente, di sua iniziativa, nella sua fabbrica tessile di New Lanark. Nel momento stesso in cui si introduceva la legge delle dieci ore e aveva luogo l'aumento dei salari che ne conseguì, si verificò in Inghilterra, per motivi che non è ora il caso di enumerare, un aumento generale dei salari degli operai agricoli. Quantunque non sia necessario per il mio scopo immediato, pure, per non indurvi in errore, voglio fare alcune osservazioni preliminari. Se alcuno riceveva un salario settimanale di due scellini e il suo salario viene portato a quattro scellini, il livello del salario sarà aumentato del 100 per cento. Dal punto di vista del livello del salario, parrebbe una cosa meravigliosa, quantunque l'ammontare reale dei salari, quattro scellini settimanali, resti pur sempre un salario di fame, infimo, miserabile. Non dovete dunque lasciarvi accecare da questa altisonante percentuale di aumento nel livello dei salari, ma dovete sempre chiedere quale era l'importo originario. Dovete comprendere inoltre che se dieci operai ricevono settimanalmente due scellini ciascuno, altri cinque operai cinque scellini ciascuno, e altri cinque operai ancora undici scellini ciascuno, i venti operai assieme ricevono settimanalmente cento scellini, cioé cinque sterline. Se la somma totale dei loro salari settimanali aumenta, mettiamo, del 20 per cento, vi sarà un aumento da cinque a sei sterline. Se prendiamo la media, potremo dire che il livello generale del salario é aumentato del 20 per cento, ma in realtà i salari di dieci operai sono rimasti immutati, i salari di un primo gruppo di cinque operai sono saliti da cinque a sei scellini, e la somma dei salari di un secondo gruppo di cinque operai é aumentata da 55 a 70 scellini settimanali. La metà degli operai non avrebbe affatto migliorato la propria condizione, un quarto l'avrebbe migliorata in misura impercettibile, e soltanto un quarto l'avrebbe migliorata realmente. Se però si calcola la media, l'importo totale dei salari di questi venti operai sarebbe aumentato del 20 per cento; e, per quanto riguarda il capitale complessivo che li occupa e i prezzi delle merci che essi producono, sarebbe perfettamente la stessa cosa se ciascuno di essi avesse partecipato in eguale misura all'aumento medio dei salari. Nel caso degli operai agricoli, i cui salari normali sono molto differenti nelle singole contee d'Inghilterra e di Scozia, l'aumento si verificò in modo molto disuguale. Infine, nel periodo in cui ebbe luogo quell'aumento dei salari si manifestarono delle influenze contrarie, come ad esempio le nuove imposte in conseguenza della guerra contro la Russia, la vasta distruzione delle case d'abitazione degli operai agricoli e così via. Dopo tutte le premesse che ho fatto, passo a constatare che dal 1849 al 1859 si verificò nella Gran Bretagna un aumento di circa il 40 per cento del livello medio dei salari agricoli inglesi. Potrei citarvi molti particolari a prova della mia asserzione, ma per lo scopo che mi propongo ritengo sufficiente rimandarvi alla esposizione coscienziosa e critica fatta dal defunto signor John C. Morton nel 1860 alla Società londinese delle Arti sulle forze impiegate nell'agricoltura. Il signor Morton espone tutti i dati statistici che egli ha raccolto esaminando i conti e altri documenti autentici di circa cento coltivatori di dodici contee scozzesi e trentacinque contee inglesi. Secondo l'opinione del nostro amico Weston, e tenuto conto dell'aumento contemporaneo dei salari degli operai di fabbrica, nel decennio 1849-59 avrebbe dovuto prodursi un enorme aumento dei prezzi dei prodotti agricoli. Invece, che avvenne in realtà? Malgrado la guerra contro la Russia e i cattivi raccolti successivi dal 1854 al 1856, il prezzo medio del grano, che é il principale prodotto agricolo dell'Inghilterra, cadde da circa tre sterline al quarter per gli anni dal 1838 al 1848, a circa due sterline e dieci scellini al quarter per gli anni dal 1849 al 1859. Ciò significa una caduta del prezzo del grano di più del 16 per cento, parallelamente a un aumento medio dei salari degli operai agricoli del 40 per cento. Durante lo stesso periodo, se ne confrontiamo la fine con il principio, cioé il 1859 con il 1849, il numero dei poveri registrati ufficialmente cadde da 934.419 a 860.470, con una differenza di 73.949; diminuzione lo confesso assai lieve, e che scomparve nuovamente negli anni seguenti, ma pur tuttavia una diminuzione Si potrebbe dire che in seguito alla abolizione delle leggi sul grano l'importazione di grani esteri é raddoppiata nel periodo dal 1849 al 1859 in confronto al periodo dal 1838 al 1848. Ma che significa questo? Secondo il modo di vedere del cittadino Weston si sarebbe dovuto attendere che questa domanda improvvisa, enorme, in continuo aumento, sui mercati stranieri, spingesse i prezzi dei prodotti agricoli a un'altezza spaventosa, dato che gli effetti di una domanda accresciuta sono gli stessi, venga essa dall'esterno o dall'interno. Che cosa accadde invece? A eccezione di qualche annata di cattivo raccolto, la caduta rovinosa del prezzo del grano fu in Francia, per tutto il periodo, oggetto di costanti lamentele; gli americani furono costretti a più riprese a bruciare i loro prodotti esuberanti; e la Russia, se dobbiamo credere al signor Urquhart, fomentò la guerra civile negli Stati Uniti perché la sua esportazione di prodotti agricoli sui mercati europei era paralizzata dalla concorrenza degli Yankee. Ridotta alla sua forma astratta, l'argomentazione del cittadino Weston si riduce a quanto segue: - ogni aumento della domanda avviene sempre sulla base di una data quantità di produzione. Essa quindi non può mai aumentare l'offerta dell'articolo richiesto, essa può soltanto aumentarne il prezzo in denaro. L'esperienza più elementare dimostra invece che un aumento della domanda in taluni casi lascia completamente invariati i prezzi di mercato delle merci, mentre in altri casi provoca un aumento temporaneo dei prezzi di mercato, al quale segue un aumento dell'offerta; il che provoca di nuovo una caduta dei prezzi al loro livello di prima e in molti casi anche al di sotto del loro livello di prima. Che l'aumento della domanda dipenda dall'aumento dei salari o da qualsiasi altra ragione, ciò non cambia niente ai termini del problema. Secondo il modo di vedere del cittadino Weston, il fenomeno generale era tanto difficile da spiegare quanto il fenomeno avvenuto durante le eccezionali circostanze di un aumento dei salari. Il suo argomento non fornisce quindi la minima prova, in rapporto col tema che stiamo trattando. Esso esprime soltanto il suo imbarazzo allorché egli deve spiegare le leggi secondo le quali un aumento della domanda provoca un aumento dell'offerta e non un aumento definitivo dei prezzi sul mercato. Salari e denaro Nel secondo giorno di discussione il nostro amico Weston ha rivestito le sue vecchie affermazioni di forme nuove. Egli ha detto: come conseguenza di un aumento generale dei salari in denaro é necessario più denaro in contanti per pagarli. E poiché la massa del denaro circolante é fissa, come potete con questa quantità fissa di denaro che é in circolazione pagare una maggiore quantità di salari in denaro? Prima la difficoltà sorgeva dal fatto che, anche aumentando i salari in denaro, la quantità di merci che spetta agli operai rimane però costante; ora la difficoltà sorge dall'aumento dei salari in denaro nonostante rimanga costante la massa delle merci. Naturalmente, se respingete il suo dogma fondamentale, anche questa difficoltà secondaria sparirà. Pur tuttavia voglio dimostrarvi che questa questione del denaro non ha assolutamente niente che fare con l'argomento che stiamo trattando. Il meccanismo dei pagamenti é nel vostro paese molto più perfezionato che in qualsiasi altro paese d'Europa. Grazie all'espansione e alla concentrazione del sistema bancario, occorre una massa molto più piccola di circolante per mettere in circolazione la stessa somma di valori o per concludere lo stesso numero o un maggior numero di affari. Per quanto riguarda i salari, ad esempio, l'operaio industriale inglese versa settimanalmente il suo salario al bottegaio, il quale lo passa ogni settimana al banchiere, che lo trasferisce di nuovo settimanalmente al fabbricante, il quale lo paga di nuovo ai suoi operai, e così via. Per mezzo di questo meccanismo il salario annuo di un operaio, che ammonti per esempio a 52 sterline, può essere pagato con una sola sterlina, la quale percorre tutte le settimane lo stesso ciclo. Nella stessa Inghilterra questo meccanismo non é così perfezionato come in Scozia, e non è dappertutto ugualmente perfezionato. Per questo noi vediamo, ad esempio, che in talune contrade agricole per mettere in circolazione un minor numero di valori occorre molta maggiore quantità di circolante che in contrade nettamente industriali. Se traversate la Manica, troverete che i salari in denaro sono molto più bassi che in Inghilterra, ma che la loro circolazione richiede, in Germania, in Italia, nella Svizzera e in Francia, una massa molto più grande di circolante. La stessa sterlina non viene così rapidamente assorbita dalle banche o rinviata al capitale industriale; perciò, invece di una sterlina per la circolazione annua di 52 sterline, ne occorrono forse tre per far circolare salari annui che si elevano a 25 sterline. Se confrontate in questo modo i paesi del Continente con l'Inghilterra, vedrete subito che salari in denaro bassi richiedono talora per la loro circolazione una maggiore massa di circolante che non ne occorra per salari elevati, e che questa é effettivamente una questione puramente tecnica, del tutto lontana dal nostro argomento. Secondo i migliori calcoli che io conosco, il reddito annuo della classe operaia di questo paese può essere valutato a 250 milioni di sterline. Questa somma enorme É messa in circolazione da circa tre milioni di sterline. Supponiamo che si verifichi un aumento dei salari del 50 per cento. Saranno allora necessari quattro milioni e mezzo di circolante invece di tre milioni. Poiché una parte notevole delle spese quotidiane dell'operaio sono effettuate in monete di argento e di rame, cioé in semplici segni monetari, il cui valore rispetto all'oro è fissato arbitrariamente dalla legge, come avviene per la carta moneta non convertibile, un aumento dei salari in denaro del 50 per cento significherebbe al massimo un aumento della circolazione di sterline, poniamo, di un milione. Un milione, che ora giace nei sotterranei della Banca d'Inghilterra o di banche private, sotto forma di oro in verghe o monetato, entrerebbe in circolazione. Ma anche la spesa minima che provocherebbe la coniatura o l'accresciuto logorio di questo milione potrebbe venire evitata e verrebbe evitata in realtà, se dovesse sorgere un qualsiasi disagio dal bisogno di maggior circolante. Voi tutti sapete che il denaro circolante in questo paese si divide in due grandi gruppi. L'uno, costituito da banconote delle specie più diverse, viene usato nelle transazioni fra commercianti e, nei grossi pagamenti, anche fra consumatori e commercianti, mentre un'altra specie di circolante, la moneta metallica, circola nel piccolo commercio. Quantunque siano diverse, queste due specie di circolante si mescolano l'una all'altra. Così avviene che una grandissima parte delle monete d'oro circola anche nei grandi pagamenti per tutte le somme inferiori a cinque sterline. Se domani venissero emessi biglietti, da quattro, da tre o da due sterline, l'oro che riempie ora questi canali di circolazione ne verrebbe immediatamente respinto e sarebbe diretto a quei canali nei quali ne esisterebbe il bisogno in seguito all'aumento dei salari in denaro. In questo modo, il milione in più richiesto dall'aumento dei salari del 50 per cento verrebbe ottenuto senza l'apporto di una sola sterlina. Lo stesso effetto potrebbe essere ottenuto senza l'aumento di un solo biglietto di banca, con una maggiore circolazione cambiaria, come é avvenuto per un lungo periodo di tempo nel Lancashire. Se un aumento generale del livello dei salari, per esempio del 100 per cento, come il cittadino Weston suppone per i salari dei lavoratori agricoli, provocasse un forte aumento dei prezzi degli oggetti di prima necessità e, secondo il suo modo di vedere, richiedesse una quantità di mezzi di pagamento, impossibile a procurarsi, una caduta generale dei salari dovrebbe provocare lo stesso effetto, nella stessa misura, ma in direzione opposta. Benissimo! Voi tutti sapete che gli anni dal 1858 al 1860 furono gli anni di maggior prosperità per l'industria del cotone, e che particolarmente l'anno 1860 resta, a questo riguardo, insuperato negli annali del commercio, mentre in pari tempo anche tutti gli altri rami dell'industria godevano di una grande prosperità. I salari degli operai dell'industria del cotone e di tutti gli altri operai legati a questa industria erano nel 1860 più alti di quanto non fossero mai stati. Sopravvenne allora la crisi americana e tutti questi salari furono di colpo ridotti a un quarto circa del loro importo primitivo. Ciò avrebbe significato, nella direzione opposta, un aumento del 300 per cento. Quando i salari salgono da cinque a venti diciamo che sono aumentati del 300 per cento; quando essi cadono da venti a cinque, diciamo che sono diminuiti del 75 per cento; ma l'importo dell'aumento in un caso e della diminuzione nell'altro caso, sarebbe lo stesso, e cioé quindici scellini. Si trattò dunque di un cambiamento improvviso del livello dei salari, come non si era mai verificato prima; inoltre, se teniamo conto non soltanto degli operai occupati nell'industria del cotone, ma anche degli operai dipendenti indirettamente da questa industria, il cambiamento si estese a una massa di operai di una metà più grande del numero dei lavoratori agricoli. Orbene, cadde forse il prezzo del grano? Esso salì da un prezzo medio annuo di 47 scellini e 8 denari al quarter durante il triennio 1858-60 al prezzo medio annuo di 55 scellini e 10 denari durante il triennio 1861-63. Per quanto riguarda il circolante, nel 1861 furono coniate dalla zecca 8.673.232 sterline, contro 3.378.102 sterline nel 1860, il che vuol dire che nel 1861 furono coniate 5.295.130 sterline più che nel 1860. vero che la circolazione dei biglietti di banca fu nel 1861 di 1.319.000 sterline inferiore a quella del 1860. Facciamo la sottrazione. rimane pur sempre un eccedente di mezzi di pagamento per il 1861, in confronto con il 1860, anno di prosperità, di 3.976.130, cioé circa quattro milioni di sterline; ma, nello stesso tempo, la riserva aurea della Banca d'Inghilterra era diminuita, se non proprio nella stessa proporzione, almeno in proporzione quasi uguale. Confrontate il 1862 con il 1842. Facendo astrazione dall'immenso aumento del valore e della quantità delle merci in circolazione, il capitale pagato nel 1862 in regolari transazioni d'affari, per azioni, prestiti, ecc., per le ferrovie, in Inghilterra e nel Galles, ammonta da solo a 320.000.000 di sterline, somma che nel 1842 sarebbe apparsa favolosa. Nonostante ciò, la somma totale dei mezzi di circolazione negli anni 1862 e 1842 fu approssimativamente la stessa, e in generale noterete, di fronte a un enorme aumento di valore non solo delle merci, ma di tutte le transazioni in denaro in generale, una tendenza alla contrazione progressiva del circolante. Secondo il nostro amico Weston, questo é un enigma insolubile. Se egli fosse penetrato un po' più a fondo nella questione, avrebbe trovato che, fatta astrazione dai salari, e ammettendo che essi rimangano invariati, il valore e la quantità delle merci da mettere in circolazione e, in generale, l'importo delle transazioni monetaria da concludersi, variano giornalmente; che l'ammontare dei biglietti di banca emessi varia giornalmente; che l'importo dei pagamenti effettuati senza alcun ricorso al denaro, a mezzo di cambiali, di assegni, di conti correnti, di stanze di compensazione, varia giornalmente; che, nella misura in cui la moneta metallica é veramente necessaria, il rapporto fra le monete che sono in circolazione e le monete e l'oro che sono in riserva o giacciono nei sotterranei delle banche varia giornalmente; che l'ammontare dell'oro assorbito dalla circolazione nazionale e dell'oro spedito all'estero per la circolazione internazionale variano giornalmente. Egli avrebbe trovato che il suo dogma di un quantità fissa di circolante é un enorme errore, che non si può conciliare con i fatti di tutti i giorni. Egli avrebbe indagato quali sono le leggi che permettono ai mezzi di pagamento di adattarsi a condizioni che variano costantemente, invece di servirsi della sua falsa concezione delle leggi del circolante come di un argomento contro l'aumento dei salari. Offerta e domanda Il nostro amico Weston fa suo il proverbio latino: "repetitio est mater studiorum", cioé: la ripetizione é la madre dello studio, e perciò ripete il suo dogma primitivo in una nuova forma, dicendo che la contrazione del circolante provocata dall'aumento dei salari provocherebbe una diminuzione del capitale, e così via. Avendo scartato le sue fantasticherie sul circolante, penso che sia completamente inutile che mi soffermi sulle conclusioni immaginarie che egli ritiene di poter dedurre dalla sua immaginaria catastrofe del circolante. Passo quindi subito a ricondurre alla sua forma teorica più semplice il suo dogma sempre uguale, che egli ripete in tante forme diverse. L'assenza di spirito critico con la quale egli tratta il suo argomento verrà resa manifesta da una sola osservazione. Egli si oppone a un aumento dei salari, oppure ad alti salari come risultato di un tale aumento. Ora, io gli domando: - Che cosa sono gli alti salari, e che cosa sono dei bassi salari? Perché, per esempio, cinque scellini la settimana sono considerati un salario basso, e venti scellini un salario alto? Se cinque é basso in confronto a venti, venti é ancora più basso in confronto a duecento. Se uno fa una conferenza sul termometro e incomincia a declamare sui gradi alti e sui gradi bassi, non insegna niente a nessuno. Egli deve incominciare con lo spiegarmi come vengono determinati il punto di congelamento e il punto di ebollizione, e come questi punti di paragone sono determinati da leggi della natura, e non dalla fantasia dei venditori e dei fabbricanti di termometri. Ora, per quanto concerne i salari e i profitti, il cittadino Weston non solo ha trascurato di derivare dalle leggi economiche siffatti punti fondamentali, ma non ha nemmeno sentito la necessità di ricercarli. Egli si é accontentato di fare le sue espressioni correnti di alto e basso, come se esse avessero un significato immutabile, quantunque sia del tutto evidente che i salari possono dirsi alti o bassi soltanto in rapporto a una misura sulla base della quale viene calcolata la loro grandezza. Egli non sarà in grado di dirmi perché una determinata somma di denaro viene pagata per una determinata quantità di lavoro. Se egli mi rispondesse: - La cosa viene fissata dalla legge della offerta e della domanda, - allora gli domanderei subito da quale legge sono regolate a loro volta l'offerta e la domanda. E una tale replica lo metterebbe subito fuori combattimento. I rapporti fra la domanda e l'offerta del lavoro subiscono variazioni continue, e insieme con essi variano i prezzi di mercato del lavoro. Se la domanda supera l'offerta, i salari salgono, se l'offerta supera la domanda, i salari cadono, quantunque in tali circostanze sarebbe necessario saggiare lo stato reale della domanda e dell'offerta, con uno sciopero, per esempio, o con qualunque altro metodo. Ma se considerate la domanda e l'offerta come la legge che regola i salari, declamare contro un aumento dei salari sarebbe altrettanto puerile quanto inutile, poiché secondo la legge suprema che voi invocate un aumento periodico dei salari é tanto necessario e giustificato quanto una loro periodica caduta. Ma se voi non considerate la domanda e l'offerta come la legge che regola i salari, vi ripeto ancora una volta la domanda: - Perché per una determinata quantità di lavoro viene corrisposta una determinata somma di denaro? Ma consideriamo la cosa in modo più vasto. Commettereste un grave errore se ammetteste che il valore del lavoro o di qualsiasi altra merce é determinato, in ultima analisi, dall'offerta e dalla domanda. La domanda e l'offerta non regolano altro che le oscillazioni temporanee dei prezzi sul mercato. Esse vi spiegheranno perché il prezzo di mercato di una merce sale al di sopra o cade al di sotto del suo valore, ma non vi possono mai spiegare questo valore. Supponiamo che la domanda e l'offerta si facciano equilibrio o, come dicono gli economisti, si coprano reciprocamente. Nel momento stesso in cui queste forze contrapposte sono ugualmente forti, esse si elidono reciprocamente e cessano di agire in una direzione o nell'altra. Nel momento in cui domanda e offerta si fanno equilibrio e perciò cessano di agire, il prezzo di mercato di una merce coincide con il suo valore reale, con il prezzo normale, attorno al quale oscillano i suoi prezzi di mercato. Se indaghiamo la natura di questo valore, non abbiamo niente che fare con gli effetti temporanei della domanda e dell'offerta sui prezzi di mercato. Lo stesso vale per i salari e per i prezzi di tutte le altre merci. Salari e prezzi Ridotte alla loro espressione teorica più semplice, le dimostrazioni del nostro amico si riducono tutte a questo unico dogma: "I prezzi delle merci vengono determinati o regolati dai salari". Potrei riferirmi a osservazioni pratiche e invocare la testimonianza di esse contro questo errore vecchio e ormai superato. Vi potrei dire che gli operai di fabbrica, i minatori, i carpentieri navali e altri operai inglesi, il cui lavoro è relativamente ben pagato, battono tutte le altre nazioni per il basso prezzo dei loro prodotti, mentre, per esempio, l'operaio agricolo inglese, il cui lavoro é pagato relativamente male, é battuto da quasi tutte le altre nazioni per l'alto prezzo dei suoi prodotti. Confrontando un articolo con l'altro nello stesso paese, e confrontando le une con le altre le merci di diversi Paesi, potrei mostrarvi che, a parte alcune eccezioni più apparenti che reali, in media il lavoro pagato male produce le merci care. Naturalmente, ciò non proverebbe che gli alti prezzi del lavoro in un caso e il basso prezzo nell'altro caso siano la causa rispettiva di questi effetti diametralmente opposti, ma ad ogni modo ciò prova che i prezzi delle merci non sono determinanti dai prezzi del lavoro. Ad ogni modo, l'applicazione di questo metodo empirico é per noi completamente superflua. Si potrebbe forse negare che il cittadino Weston abbia avanzato il dogma: "I prezzi delle merci vengono determinati o regolati dai salari". Infatti, egli non ha mai dato questa formula. Egli dice al contrario che anche il profitto e la rendita sono parti integranti dei prezzi delle merci, perché sui prezzi delle merci debbono venir pagati non solo i salari, ma anche i profitti dei capitalisti e le rendite dei proprietari fondiari. Ma come, a suo avviso, vengono formati i prezzi? Innanzi tutto dai salari. Poi viene aggiunta ai prezzi una determinata percentuale a favore del capitalista e un'altra a favore del proprietario fondiario. Supponiamo che i salari degli operai impiegati nella produzione di una merce ammontino a dieci. Se il saggio del profitto é del 100 per cento, il capitalista aggiungerebbe dieci all'importo dei salari pagati, e se anche la rendita fosse il 100 per cento del salario, si aggiungerebbe un altro dieci, e il prezzo complessivo della merce salirebbe quindi a trenta. Ma una tale determinazione dei prezzi sarebbe semplicemente la loro determinazione sulla base dei salari. Se, nel nostro caso, i salari salissero a venti, il prezzo della merce salirebbe a sessanta, e così via. Per questo tutti i vecchi scrittori di economia politica, i quali sostenevano come un dogma che i salari regolano i prezzi, hanno tentato di provarlo trattando il profitto e la rendita come semplici aumenti percentuali aggiunti ai salari. Naturalmente nessuno di loro fu in grado di ricondurre a una legge economica qualunque i limiti di questi aumenti percentuali. Sembrava che essi credessero, invece, che i profitti sono determinati dalla tradizione, dall'abitudine, dalla volontà dei capitalisti, o sulla base di qualche altro metodo arbitrario e inspiegabile. Allorché essi sostengono che i profitti sono determinati dalla concorrenza fra i capitalisti, con ciò non dicono niente. Questa concorrenza può certamente rendere uguali i diversi saggi di profitto nei diversi rami dell'industria, oppure ridurli a un livello medio, ma essa non potrà mai determinare questo livello stesso, o il saggio generale del profitto. Che cosa intendiamo dire quando affermiamo che i prezzi delle merci sono determinati dai salari? Poiché i salari non sono che un termine per designare il prezzo del lavoro, intendiamo dire con ciò che i prezzi delle merci sono determinati dal prezzo del lavoro. Poiché prezzo é valore di scambio, - e quando dico valore, intendo sempre valore di scambio -, e cioé valore di scambio espresso in denaro, la cosa si riduce a dire che "il valore del lavoro é la misura generale del valore". Ma allora come viene determinato a sua volta il "valore del lavoro"? Qui arriviamo a un punto morto. A un punto morto, naturalmente, se cerchiamo di ragionare logicamente. I sostenitori di quella dottrina non hanno però troppi scrupoli logici. Prendete, per esempio, il nostro amico Weston. Prima egli ci ha detto che i salari regolano i prezzi delle merci e che perciò i prezzi devono salire quando salgono i salari. Poi ha fatto un mezzo giro per mostrarci che un aumento dei salari non servirebbe a niente perché i prezzi delle merci sono saliti, e perché i salari di fatto sono misurati dai prezzi delle merci per le quali essi vengono spesi. Incominciamo dunque con l'affermazione che il valore del lavoro determina il valore della merce, e terminiamo con l'affermazione che il valore della merce determina il valore del lavoro. Ci aggiriamo dunque in un circolo vizioso e non arriviamo a nessuna conclusione. Insomma é evidente che se noi facciamo del valore di una merce qualsiasi, per esempio del lavoro, del grano, o di un'altra merce qualunque, la misura generale e il regolatore del valore, non facciamo altro che spostare la difficoltà, perché determiniamo un valore per mezzo di un altro valore che, a sua volta, ha bisogno di essere determinato. Espresso nella sua forma più astratta, il dogma che i salari determinano i prezzi delle merci si riduce a dire che il valore é determinato dal valore, e questa tautologia significa, in realtà, che del valore non sappiamo niente. Se ammettiamo questa premessa, ogni discussione sulle leggi generali dell'economia politica diventa pura chiacchiera. Il grande merito di Ricardo era perciò che egli, nella sua opera sui Principi dell'economia politica, pubblicata nel 1817, distruggeva dalle fondamenta la vecchia dottrina popolare falsa e fallita, secondo la quale i salari determinano i prezzi, dottrina falsa che Adamo Smith e i suoi predecessori francesi avevano respinto nelle parti veramente scientifiche delle loro ricerche, riproducendola però nei loro capitoli più superficiali e di volgarizzazione. Valore e lavoro Cittadini! Sono ormai giunto a un punto, in cui devo procedere all'esposizione della questione in forma positiva. Non posso promettermi di farlo in modo molto soddisfacente, perché sarei costretto a trattare il campo intero dell'economia politica. Potrò soltanto, come dicono i francesi, effleurer la question, toccarla nei punti principali. La prima domanda che dobbiamo porci è la seguente: - Che cos'è il valore di una merce? Come viene esso determinato? A prima vista parrebbe che il valore di una merce sia una cosa del tutto relativa, e che non si può fissarlo senza considerare una merce nei suoi rapporti con tutte le altre merci. In realtà, quando parliamo del valore, del valore di scambio di una merce, intendiamo le quantità relative nelle quali essa può venire scambiata con tutte le altre merci. Ma allora sorge la questione: come sono regolati i rapporti secondo i quali le merci vengono scambiate tra di loro? Sappiamo dall'esperienza che questi rapporti variano all'infinito. Se prendiamo una unica merce, il frumento per esempio, troveremo che un quarter di frumento si scambia in diverse e quasi innumerevoli proporzioni con altre merci. Eppure, poiché il suo valore resta sempre lo stesso, sia espresso in seta, in oro, o in qualsiasi altra merce, esso deve essere qualcosa di distinto e indipendente da queste diverse proporzioni dello scambio con altri articoli. Deve essere possibile esprimerlo in forma del tutto differente da queste diverse equazioni tra merci diverse. Inoltre, quando dico che un quarter di grano si scambia con il ferro secondo un determinato rapporto, oppure che il valore di un quarter di grano è espresso in una certa quantità di ferro, dico che il valore del grano e il suo controvalore in ferro sono uguali a una terza cosa, che non è né grano né ferro, poiché ammetto che essi esprimono la stessa grandezza in due forme diverse. Tanto il grano che il ferro devono dunque, indipendentemente l'uno dall'altro, essere riducibili a questa terza cosa, che rappresenta la loro misura comune. Per chiarire questo punto ricorrerò a un esempio geometrico molto semplice. Quando confrontiamo l'una con l'altra le aree di triangoli di forme e Dimensioni le più diverse, oppure quando confrontiamo triangoli con rettangoli o con qualsiasi altra figura lineare, come procediamo? Riduciamo l'area di un triangolo qualunque a una espressione che è completamente diversa dalla sua forma visibile. Poiché, secondo la natura del triangolo, sappiamo che la sua area è uguale alla metà del prodotto della sua base per la sua altezza, possiamo allora confrontare fra di loro i diversi valori di ogni sorta di triangoli e di tutte le figure lineari, poiché esse possono ridursi tutte a un certo numero di triangoli. Lo stesso procedimento deve essere seguito per quanto riguarda i valori delle merci. Dobbiamo essere in condizione di ridurli tutti a una espressione comune, non distinguendoli più che dal rapporto secondo il quale essi contengono questa misura comune. Poiché i valori di scambio delle merci non sono che funzioni sociali di queste e non hanno niente che fare con le loro proprietà naturali, dobbiamo innanzi tutto chiederci: - Qual è la sostanza sociale comune a tutte le merci? il lavoro. Per produrre una merce bisogna impiegarvi o incorporarvi una quantità determinata di lavoro, e non dico soltanto di lavoro, ma di lavoro sociale. L'uomo che produce un oggetto per il suo proprio uso immediato, per consumarlo egli stesso, produce un prodotto, ma non una merce. Come produttore che provvede a s‚ stesso, egli non ha niente che fare con la società. Ma per produrre una merce egli non deve soltanto produrre un articolo che soddisfi un qualsiasi bisogno sociale, ma il suo lavoro stesso deve essere una parte della somma totale di lavoro impiegato dalla società. Esso deve essere subordinato alla divisione del lavoro nel seno della società. Esso non è niente senza gli altri settori del lavoro e li deve, a sua volta, integrare. Se consideriamo le merci come valori, le vediamo esclusivamente sotto questo solo punto di vista, come lavoro sociale realizzato, fissato, o, se volete, cristallizzato. Sotto questo rapporto esse possono distinguersi l'una dall'altra solo perché rappresentano una quantità maggiore o minore di lavoro, come, per esempio, per un fazzoletto di seta si impiega una maggiore quantità di lavoro che per una tegola. Ma come si misura la quantità di lavoro? Secondo il tempo che dura il lavoro, misurandolo a ore, a giorni, ecc. Naturalmente, per impiegare questa misura tutti i generi di lavoro vengono ridotti a lavoro medio o semplice come loro unità di misura. Arriviamo dunque a questa conclusione: una merce ha un valore, perché è una cristallizzazione di lavoro sociale. La grandezza del suo valore, o il suo valore relativo, dipende dalla quantità maggiore o minore di sostanza sociale che in essa è contenuta, cioé dalla quantità relativa di lavoro necessaria alla sua produzione. I valori relativi delle merci sono dunque determinati dalle corrispondenti quantità o somme di lavoro impiegate, realizzate, fissate in esse. Le quantità di merci corrispondenti l'una all'altra, che possono essere prodotte nello stesso tempo di lavoro, sono uguali. Oppure, il valore di una merce sta al valore di un'altra come la quantità di lavoro fissata nell'una sta alla quantità di lavoro fissata nell'altra. Immagino che molti di voi domanderanno: - C'èdunque veramente una differenza così grande, o c'èuna differenza qualsiasi, tra la determinazione dei valori delle merci secondo i salari e la loro determinazione secondo le relative quantità del lavoro necessarie alla loro produzione? Voi dovete ad ogni modo tener presente che la remunerazione del lavoro sono cose del tutto diverse. Supponiamo per esempio che uguali quantità di lavoro siano fissate in un quarter di grano e in un'oncia d'oro. uso questo esempio, perché venne usato da Franklin nel suo primo saggio, apparso nel 1729 e intitolato: Ricerca modesta sulla natura e sulla necessità di una divisa cartacea, nel quale egli riconobbe, fra i primi, la vera natura del valore. Supponiamo dunque che un quarter di grano e un'oncia d'oro posseggano lo stesso valore, cioé siano equivalenti, perché sono la cristallizzazione di uguali quantità di lavoro medio, perché rappresentano tanti giorni o tante settimane di lavoro fissato in ognuno di essi. Determinando in questo modo i valori relativi dell'oro e del grano, ci riferiamo noi, in un modo qualunque, ai salari degli operai agricoli o dei minatori? Menomamente. Lasciamo assolutamente indeterminato quanto fu pagato il lavoro giornaliero o settimanale, né se fu impiegato, in generale, lavoro salariato. Se anche è stato impiegato, i salari possono essere stati molto diversi. L'operaio il cui lavoro è incorporato in un quarter di grano, può averne ricevuto soltanto due bushel, mentre l'operaio occupato nella miniera può aver ricevuto la metà della oncia d'oro. Oppure, ammesso che i loro salari siano uguali, essi possono divergere secondo tutti i rapporti possibili dai valori delle merci che essi hanno prodotto. Essi possono elevarsi alla metà, a un terzo, a un quarto, a un quinto o a qualsiasi altra frazione proporzionale di un quarter di frumento o di un'oncia d'oro. I loro salari non possono naturalmente superare i valori delle merci che essi hanno prodotto, non possono essere più alti di essi, ma possono essere più bassi in una proporzione qualsiasi. I loro salari sono limitati dai valori dei prodotti, ma i valori dei loro prodotti non trovano nessun limite nei salari. E soprattutto, i valori, i valori relativi del grano e dell'oro, per esempio, vengono fissati senza tenere nessun conto del valore del lavoro impiegato in essi, cioé dei salari. La determinazione dei valori delle merci secondo le quantità relative di lavoro che sono fissate in esse, è quindi completamente diversa dal metodo tautologico della determinazione dei valori delle merci secondo il valore del lavoro, cioé secondo i salari. Questo punto verrà però maggiormente chiarito nel seguito della nostra ricerca. Nel calcolo del valore di scambio di una merce, alla quantità di lavoro impiegato da ultimo per la sua produzione dobbiamo ancora aggiungere la quantità di lavoro anteriormente incorporata nella materia prima della merce, e il lavoro impiegato per i mezzi di lavoro, gli strumenti, le macchine, i fabbricati, necessari per realizzare il lavoro. Per esempio, il valore di una certa quantità di filati di cotone è la cristallizzazione della quantità di lavoro che è stato aggiunto al cotone durante il processo di filatura, della quantità di lavoro già precedentemente realizzata nel cotone stesso, della quantità di lavoro incorporata nel carbone, negli oli e nelle altre sostanze ausiliarie impiegate, e della quantità di lavoro fissata nella macchina a vapore, nei fusi, nell'edificio della fabbrica, e così via. I mezzi di lavoro veri e propri, gli strumenti, le macchine, gli edifici sono sempre utilizzati di nuovo, per un tempo più o meno lungo, nel corso di parecchi processi produttivi. Se essi venissero consumati in una sola volta, come la materia prima, tutto il loro lavoro sarebbe trasmesso immediatamente alla merce che essi aiutano a produrre. Ma poiché un fuso, per esempio, si logora soltanto poco a poco, si fa un calcolo medio sulla base della sua durata media, o del suo consumo o logorio medio, o del suo logorio in un tempo indeterminato, in un giorno, poniamo. In questo modo si calcola quanto del valore del fuso passa nel cotone filato in un giorno, e, quindi, quanto della quantità totale di lavoro che è incorporato, per esempio, in una libbra di filo di cotone è dovuto alla quantità di lavoro precedentemente realizzata nel fuso. Per lo scopo che ci interessa non è necessario che ci soffermiamo più a lungo su questo punto. Potrebbe sembrare che, se il valore di una merce viene determinato dalla quantità di lavoro impiegata per la produzione di essa, ne derivi che, quanto più un operaio è pigro e maldestro, tanto maggior valore abbiano le merci da lui prodotte, dato che il tempo di lavoro necessario per la produzione di esse è in tal caso più lungo. Questo sarebbe però un ben triste malinteso. Ricorderete che ho usato l'espressione lavoro sociale, e questo qualificativo sociale contiene molte cose. Quando diciamo che il valore di una merce è determinato dalla quantità di lavoro in essa incorporata o cristallizzata, intendiamo la quantità di lavoro necessaria per la sua produzione in un determinato stato sociale, in determinate condizioni sociali medie di produzione, con una determinata intensità media sociale e una determinata abilità media del lavoro impiegato. Allorché in Inghilterra il telaio a vapore entrò in concorrenza con il telaio a mano, non occorse più che la metà del precedente tempo di lavoro per trasformare una determinata quantità di filo in un braccio di stoffa di cotone o di tela. Il povero tessitore a mano fu costretto a lavorare diciassette o diciotto ore al giorno invece di nove o dieci come prima. Ciò nonostante il prodotto del suo lavoro di venti ore non rappresentava più che dieci ore di lavoro sociale, cioé dieci ore del lavoro che è socialmente necessario per trasformare in tessuto una determinata quantità di filato. Il suo prodotto di venti ore di lavoro non aveva quindi un valore superiore al prodotto ch'egli fabbricava prima in dieci ore. Se dunque la quantità di lavoro socialmente necessario incorporata in una merce ne determina il valore di scambio, ogni aumento della quantità di lavoro necessaria per la produzione di una merce deve aumentarne il valore, ogni diminuzione deve diminuirlo. Se la quantità di lavoro necessaria per la produzione di determinate merci rimanesse costante, anche il loro corrispondente valore rimarrebbe costante. Ma le cose non stanno così. La quantità di lavoro necessaria per produrre una merce varia continuamente col variare delle forze produttive del lavoro impiegato. Quanto più grandi sono le forze produttive del lavoro, tanto maggiore è la quantità di prodotti che si producono in un determinato tempo di lavoro; e quanto minori sono le forze produttive del lavoro, tanto meno verrà prodotto nello stesso tempo. Se, per esempio, in seguito all'aumento della popolazione si rendesse necessario coltivare terreno meno fertile, la stessa quantità di produzione si potrebbe ottenere solo con l'impiego di una maggiore quantità di lavoro, e perciò il valore dei prodotti agricoli aumenterebbe. D'altra parte, è chiaro che se nel corso di una giornata di lavoro di un solo filatore, con l'aiuto dei moderni mezzi di produzione, trasforma in filo una quantità di cotone mille volte superiore a quanto egli poteva filare prima con l'arcolaio a mano, ogni singola libbra di cotone assorbirà un lavoro di filatura mille volte inferiore a quello di prima, e perciò il valore aggiunto a ogni libbra di cotone con la filatura sarà mille volte minore di prima. Il valore del filo cadrà in misura corrispondente. Astrazione fatta della diversità delle energie naturali e dell'abilità nel lavoro acquistata dai diversi popoli, le forze produttive del lavoro devono dipendere essenzialmente: Primo. Dalle condizioni naturali del lavoro, dalla fertilità del suolo, dalla ricchezza del sottosuolo, ecc. Secondo. Dal miglioramento progressivo delle forze di lavoro sociali, che deriva dalla produzione su grande scala, dalla concentrazione del capitale e dalla coordinazione del lavoro, dalla divisione del lavoro, dalle macchine, dai metodi di lavoro perfezionati, dall'applicazione di forze naturali chimiche e d'altro genere, dalla riduzione del tempo e dello spazio grazie ai mezzi di comunicazione e di trasporto, e da tutte le altre invenzioni per mezzo delle quali la scienza piega le forze della natura al servizio del lavoro, e che sviluppano il carattere sociale o cooperativo del lavoro stesso. Più le forze produttive del lavoro sono grandi, tanto meno lavoro viene impiegato in una determinata quantità di prodotti, e perciò tanto minore è il valore del prodotto. Più le forze produttive del lavoro sono piccole, tanto più lavoro viene impiegato nella stessa quantità di prodotti, e perciò tanto maggiore è il loro valore. Possiamo dunque stabilire come legge generale quanto segue: I valori delle merci sono in ragione diretta del tempo di lavoro impiegato per la produzione di esse, e in ragione inversa delle forze produttive del lavoro impiegato. Poiché finora non ho parlato che del valore, aggiungerò qualche parola sul prezzo, che è una forma particolare che il valore assume. Preso in sé stesso il prezzo non è altro che la espressione monetaria del valore. I valori di tutte le merci di questo paese, per esempio, vengono espressi in prezzi-oro, mentre sul Continente essi vengono espressi generalmente in prezzi-argento. Il valore dell'oro e dell'argento, come quello di ogni altra merce, è determinato dalla quantità di lavoro necessario alla loro estrazione. Voi scambiate una certa quantità dei vostri prodotti nazionali, in cui è cristallizzata una determinata quantità del vostro lavoro nazionale, con i prodotti dei paesi che producono oro ed argento, in cui è cristallizzata una determinata quantità del loro lavoro. In questo modo, cioé con uno scambio, voi imparate a esprimere in oro e in argento i valori di tutte le merci, cioé le quantità di lavoro rispettivamente impiegate per la loro produzione. Se esaminate più a fondo la espressione monetaria del valore, o, che è la stessa cosa, la trasformazione del valore in prezzo, troverete che questo è un procedimento con il quale voi date ai valori di tutte le merci una forma indipendente e omogenea, o per mezzo del quale voi li indicate come quantità di uguale lavoro sociale. Nella misura in cui il prezzo è soltanto l'espressione monetaria del valore, esso venne chiamato da Adam Smith prezzo naturale e dai fisiocrati francesi prix nécessaire (prezzo necessario). Qual è dunque il rapporto fra valore e prezzi di mercato, o tra prezzi naturali e prezzi di mercato? Voi tutti sapete che il prezzo di mercato è lo stesso per tutte le merci della stessa specie, per quanto diverse possano essere le condizioni di produzione dei singoli produttori. Il prezzo di mercato esprime soltanto la quantità media di lavoro sociale necessario, in condizioni medie di produzione, per fornire al mercato una certa quantità di un determinato articolo. Esso viene calcolato secondo la quantità totale di una merce di una determinata specie. In questo senso il prezzo di mercato di una merce coincide con il suo valore. Invece le oscillazioni dei prezzi di mercato, che talvolta superano il valore, o il prezzo naturale, tal altra volta gli sono inferiori, dipendono dalle oscillazioni della domanda e dell'offerta. Le deviazioni dei prezzi di mercato dal valore sono continue, ma, come dice Adam Smith: "Il prezzo naturale è il prezzo centrale attorno al quale gravitano continuamente i prezzi di tutte le merci. Diverse circostanze possono talvolta tenerli molto più alti, talvolta spingerli alquanto più in basso. Ma qualunque possano essere gli ostacoli che impediscono loro di fissarsi su questo punto medio di calma e di stabilità, essi tendono costantemente ad esso". Non posso ora addentrarmi maggiormente in questo argomento. Basterà dire che se la domanda e l'offerta si equilibrano i prezzi di mercato delle merci corrispondono ai loro prezzi naturali, cioé ai loro valori, i quali sono determinati dalle corrispondenti quantità di lavoro necessarie per la loro produzione. Ma domanda ed offerta devono costantemente tendere a equilibrarsi, quantunque ciò avvenga soltanto perché una oscillazione viene compensata da un'altra, un aumento da una caduta e viceversa. Se invece di seguire soltanto le oscillazioni giornaliere esaminate il movimento dei prezzi di mercato per un periodo di tempo più lungo, come ha fatto per esempio il signor Tooke nella sua Storia dei prezzi, troverete che le oscillazioni dei prezzi di mercato, le loro deviazioni dai valori, i loro alti e bassi, si elidono e si compensano reciprocamente; cosicché se si fa astrazione dagli effetti dei monopoli e da alcune altre modificazioni che ora devo trascurare, ogni sorta di merce è venduta in media al suo valore, cioé al suo prezzo naturale. I periodi medi di tempo durante i quali le oscillazioni dei prezzi di mercato si compensano reciprocamente, sono diversi per le specie di merci, perché per una merce è più facile che per un'altra adattare l'offerta alla domanda. Se dunque nel complesso e tenendo conto di lunghi periodi di tempo ogni specie di merce è venduta al suo valore, è assurdo supporre che il profitto, non il profitto realizzato nei singoli casi, ma il profitto costante e abituale delle diverse industrie, - derivi dal sopraccaricare i prezzi delle merci, o dal fatto che esse sono vendute a un prezzo notevolmente superiore al loro valore. L'inconsistenza di questa opinione diventa evidente se la si generalizza. Ciò che uno guadagna costantemente come venditore, dovrebbe perderlo costantemente come compratore. Non serve a nulla dire che vi sono persone che sono compratori senza essere venditori, oppure sono consumatori senza essere produttori. Ciò che costoro pagano al produttore, dovrebbero prima averlo ricevuto da lui per niente. Se una persona incomincia a prendervi il vostro denaro e ve lo restituisce, poi, comperando le vostre merci, voi non vi arricchirete mai, anche se venderete a questa persona le vostre merci troppo care. Questo genere di affari può limitare una perdita, ma non può mai contribuire a realizzare un profitto. Quindi per spiegare la natura generale dei profitti, dovete partire dal principio che le merci in media sono vendute ai loro valori reali, e che i profitti provengono dal fatto che le merci si vendono ai loro valori, cioé proporzionalmente alla quantità di lavoro che in esse è incorporata. Se non potete spiegarvi il progetto su questa base, non potete spiegarlo affatto. Ciò sembra un paradosso e in contraddizione con l'esperienza quotidiana. É anche un paradosso che la terra gira attorno al sole e che l'acqua è costituita da due gas molto infiammabili. Le verità scientifiche sono sempre paradossi quando vengono misurate alla stregua dell'esperienza quotidiana, la quale afferra solo l'apparenza ingannevole delle cose. La forza-lavoro Ora che abbiamo esaminato, per quanto era possibile farlo nei limiti di una esposizione così rapida, la natura del valore, del valore di una merce qualsiasi, dobbiamo portare la nostra attenzione sul valore specifico del lavoro. E ancora una volta dovrò destare la vostra sorpresa con un apparente paradosso. Tutti voi siete del tutto sicuri che quello che vendete quotidianamente è il vostro lavoro; che perciò il lavoro ha un prezzo, e che, poiché il prezzo di una merce è solo l'espressione del suo valore in denaro, deve esistere certamente qualcosa come un valore del lavoro. Eppure non esiste una cosa come il valore del lavoro, nel senso comune della parola. Abbiamo visto che la quantità di lavoro necessario cristallizzata in una merce forma il valore di essa. Applicando questo concetto del valore come potremmo, per esempio, determinare il valore di una giornata di lavoro di dieci ore? Quanto lavoro ècontenuto in questa giornata? Dieci ore di lavoro. Dire che il valore di una giornata di lavoro di dieci ore è uguale a dieci ore di lavoro, o alla quantità di lavoro in essa contenuta, è una affermazione tautologica e, inoltre, una affermazione assurda. Naturalmente, una volta che abbiamo scoperto il senso vero, ma nascosto, della espressione valore del lavoro, saremo in grado di chiarire questa applicazione irrazionale e apparentemente impossibile del valore, allo stesso modo che siamo in grado di spiegare i movimenti apparenti ossia puramente fenomenali, dei corpi celesti, non appena abbiamo scoperto i loro movimenti reali. Ciò che l'operaio vende non è direttamente il suo lavoro, ma la sua forza-lavoro, che egli mette temporaneamente a disposizione del capitalista. Ciò è tanto vero, che la legge, non so se la legge inglese, ma certamente la legge di alcuni paesi del Continente, fissa il massimo di tempo durante il quale un uomo può vendere la sua forza-lavoro. Se fosse permesso all'uomo di vendere la sua forza-lavoro per un tempo illimitato, la schiavitù sarebbe di colpo ristabilita. Una tale vendita, se fosse conclusa, per esempio per tutta la vita, farebbe senz'altro dell'uomo lo schiavo a vita del suo imprenditore. Thomas Hobbes, uno dei più antichi economisti e uno dei più originali filosofi inglesi, nel suo Leviathan, era già istintivamente arrivato a questo punto, che sfuggì a tutti i suoi successori. Egli disse: "Il valore di un uomo è, come per tutte le altre cose, il suo prezzo: cioé è quel tanto che viene dato per l'uso della sua forza". Se partiamo da questo principio saremo in grado di determinare il valore del lavoro come determiniamo quello di ogni altra merce. Prima però di farlo, potremmo chiedere da che dipende questo fenomeno curioso, per cui troviamo sul mercato un gruppo di compratori che posseggono terra, macchine, materie prime e i mezzi di sussistenza, tutte cose che, all'infuori del suolo al suo stato naturale, sono prodotti del lavoro, e d'altra parte un gruppo di venditori che non hanno altro da vendere che la loro forza-lavoro, le loro braccia e il loro cervello lavoranti. Come avviene che un gruppo compera continuamente, per realizzare profitto e per arricchirsi, mentre l'altro gruppo vende continuamente per guadagnare il proprio sostentamento? L'esame di questa questione sarebbe un esame di ciò che gli economisti chiamano "accumulazione primitiva od originaria", ma che dovrebbe però chiamarsi espropriazione primitiva. Troveremmo che la cosiddetta accumulazione primitiva non significa altro che una serie di processi storici i quali si conclusero con la dissociazione dell'unità primitiva che esisteva fra il lavoratore e i suoi mezzi di lavoro. Una ricerca di questo genere esce però dai limiti del mio tema attuale. La separazione del lavoratore e degli strumenti di lavoro, una volta compiutasi, si conserva e si rinnova costantemente a un grado sempre più elevato, finché una nuova e radicale rivoluzione del sistema di produzione la distrugge e ristabilisce l'unità primitiva in una forma storica nuova. Che cos'è, dunque, il valore della forza-lavoro? Come per ogni altra merce, il suo valore è determinato dalla quantità di lavoro necessaria per la sua produzione. La forza-lavoro di un uomo consiste unicamente nella sua personalità vivente. Affinché un uomo possa crescere e conservarsi in vita, deve consumare una determinata quantità di generi alimentari. Ma l'uomo, come la macchina, si logora, e deve essere sostituito da un altro uomo. In più della quantità d'oggetti d'uso corrente, per allevare un certo numero di figli, che debbono rimpiazzarlo sul mercato del lavoro e perpetuare la razza degli operai. Inoltre, per lo sviluppo della sua forza-lavoro e per l'acquisto di una certa abilità , deve essere spesa ancora una nuova somma di valori. Per i nostri scopi sarà sufficiente considerare solamente un lavoro medio, i cui costi di istruzione e di perfezionamento sono grandezze del tutto trascurabili. Approfitto però di questa occasione per stabilire che, allo stesso modo che i costi di produzione di forza-lavoro di diversa qualità sono diversi, così sono diversi i valori delle forze-lavoro impiegate nelle diverse industrie. La richiesta dell'uguaglianza dei salari è basata, dunque, su un errore, su un desiderio vano, che non verrà mai appagato. Essa scaturisce da quel radicalismo falso e superficiale, che accetta delle premesse ma tenta di evitare le conclusioni. Sulla base del sistema del salario il valore della forza-lavoro viene fissato come quello di qualunque altra merce. E poiché diverse specie di forza-lavoro hanno un diverso valore, richiedono cioè diverse quantità di lavoro per la loro produzione, esse debbono avere un prezzo diverso sul mercato del lavoro. Richiedere, sulla base del sistema salariale, una paga uguale o anche soltanto equa, è lo stesso che richiedere la libertà sulla base del sistema schiavistico. Ciò che voi, dunque, considerate come equo o come giusto, non c'entra per niente. La questione che si pone è la seguente: - Che cosa è necessario e inevitabile entro un dato sistema di produzione? Da quanto abbiamo esposto risulta che il valore della forza lavoro è determinato dal valore degli oggetti d'uso corrente che sono necessari per produrla, svilupparla conservarla e perpetuarla. |