Alberto Burgio

Per Gramsci


Viviamo una grave crisi democratica. Non si tratta di una condizione eccezionale né abnorme. Si può sostenere, con un apparente paradosso, che lo stato di crisi è la condizione normale della democrazia, la quale è, a guardar bene, un processo. Quella che chiamiamo democrazia è il processo di conquista della capacità di autogoverno da parte dei corpi sociali. È la dinamica espansiva della cittadinanza che, con parole chiare e semplici, Gramsci chiama «passaggio molecolare dai gruppi diretti al gruppo dirigente». A questa cruciale dinamica si connettono inevitabilmente contraddizioni e conflitti. Crisi, appunto: provocate dalla continua tensione tra inclusione ed esclusione (tra tendenze «espansive» della classe dominante e tendenze «repressive»), e destinate ad influire sulla struttura dei soggetti (sui confini del demos), sulla forma dei poteri, sulla logica e le finalità del loro esercizio.
Così definita, democrazia è sinonimo di modernità. La potenziale coincidenza tra cittadinanza e corpo sociale (popolazione) è infatti l’essenza del «progetto moderno». Ciò comporta che l’intera storia della modernità si comprende alla luce di una peculiare dialettica tra varianti e costanti: le crisi cambiano nel corso del tempo (sono diversi i conflitti che via via segnano il processo, così come diversi sono i soggetti che in essi si cimentano) sullo sfondo della crisi (il processo di conquista dell’autonomia da parte dei corpi sociali) che ne costituisce il contesto invariante.
Ma appunto: le crisi sono diverse l’una dall’altra. Il loro connotato - progressivo o regressivo - dipende dalla configurazione delle forze prevalenti. La grave crisi democratica con la quale oggi siamo costretti a fare i conti è segnata da una possente tendenza alla (ri)appropriazione privata di tutto ciò che ha valore: beni materiali e immateriali; risorse economiche, energetiche e ambientali; poteri e istituzioni; reti di comunicazione; saperi, linguaggi e forme dell’immaginario. Questo processo di (ri)privatizzazione di risorse e strumenti che in una fase recente dello sviluppo storico erano stati faticosamente conquistati dal pubblico (dal demos) impone alla crisi odierna un segno marcatamente regressivo.(...)

Una nuova oligarchia

L’espansione neoliberista del mercato - caratteristica dell’attuale crisi democratica - si compie attraverso il prevalere di soggetti privati che (ri)conquistano funzioni in passato svolte dalla sfera pubblica. Imprese multinazionali, organizzazioni multilaterali (Wto, Fmi, Banca mondiale) e istituzioni private (fondi di investimento e grandi concentrazioni bancarie) dispongono di risorse e poteri confrontabili con quelli di molti Stati nazionali. Ne discende un conflitto sulla sovranità che vede sempre più frequentemente soccombere questi ultimi. Non già - sia chiaro - nel senso della loro sia pur tendenziale scomparsa, secondo quanto avventurosamente «previsto» da fortunate quanto improbabili teorie «imperiali» e da loro varianti subordinate. Bensì nel senso del loro frequente abdicare al proprio statuto di enti per eccellenza pubblici, per farsi essi stessi, con tutta la loro potenza normativa, coercitiva e militare, portavoce e garanti di interessi privati. (...)
Non si tratta dunque solo di economia, ma anche di sistemi politici. Nella misura in cui ridisegna i rapporti di forza nelle società assegnando un potere esorbitante al capitale e all’impresa, il neoliberismo non incide soltanto (delocalizzando, precarizzando, finanziarizzando) sulla produzione e sulla condizione materiale del lavoro. Ridefinisce anche il quadro dei poteri politici e gli obiettivi che essi perseguono. Per usare le parole di Gramsci, è un «ritorno alla pura economicità», in conseguenza del quale la politica viene immediatamente «innestata nell’economia».

Il «trentennio repubblicano»

Del resto proprio Gramsci è tra i più lucidi critici della rappresentazione ideologica del liberismo come scomparsa della politica, come rinuncia dello Stato («minimo») ad interferire nelle vicende dell’economia. Non si ricorderà mai abbastanza la pagina dei Quaderni del carcere che sottolinea come il liberismo sia «una "regolamentazione" di carattere statale», venga «introdotto e mantenuto per via legislativa e coercitiva» e costituisca «un programma politico, destinato a mutare, in quanto trionfa, il personale dirigente di uno Stato e il programma economico dello Stato stesso, cioè a mutare la distribuzione del reddito nazionale». (...)
Con ogni probabilità, per spiegare il trionfo del privato con cui siamo costretti a fare i conti è necessario ripensare l’intera seconda metà del secolo che ci è alle spalle. E per ciò occorre rovesciare il fortunato assunto hobsbawmiano. Il Novecento non è affatto un «secolo breve». Come la guerra dei Trent’anni che marchia a fuoco la prima metà del XX secolo affonda le radici nei conflitti interimperialistici divampati negli anni Ottanta dell’Ottocento, così, per quanto concerne la presunta fine del Novecento, è opinabile la tesi secondo cui essa si consumerebbe con la caduta del Muro di Berlino e con la scomparsa dell’Unione sovietica. Al contrario, il Novecento dura ancora.
La scena mondiale non è il prodotto delle sole conseguenze politiche, sociali ed economiche degli eventi del 1989-91. I processi sui quali stiamo riflettendo derivano con ogni probabilità anche da avvenimenti che hanno occupato l’intera seconda metà del secolo scorso. Dopo la fine della Seconda guerra mondiale, fino alla metà degli anni Settanta, le società occidentali hanno conosciuto trent’anni di dinamica progressiva grazie alla vigorosa iniziativa del movimento operaio, alla competizione tra capitalismo e «socialismo reale» (cioè alla necessità di arginare l’impatto egemonico esercitato da un modello comunque in grado di garantire piena occupazione ed esigibilità dei diritti sociali) e alla avanzata cornice giuridico-istituzionale disegnata dalle Costituzioni post-belliche.
Nel periodo che va dal 1945 al ’75 - che potremmo definire trentennio repubblicano - le società occidentali hanno cambiato volto. Aprendosi, integrandosi, evolvendosi non soltanto sul terreno delle libertà civili, ma anche sul piano della partecipazione democratica e nel riconoscimento concreto dei diritti del lavoro. Non stupisce che questa dinamica progressiva abbia suscitato una furiosa reazione, dispiegatasi, a partire dai tardi anni Settanta, nelle forme di una devastante «rivoluzione passiva». Che dura tuttora. Ancora oggi siamo dentro l’onda lunga della risposta reazionaria seguita al processo espansivo sviluppatosi all’indomani del secondo conflitto mondiale. Di questa scansione temporale e di quanto essa comporta occorre acquisire piena consapevolezza se si ha a cuore la decifrazione dei processi in atto. (...)

La «rivoluzione passiva»

Il concetto di «rivoluzione passiva» (che Gramsci dichiara di ricavare dalle riflessioni del Cuoco sul «tragico esperimento» della Rivoluzione napoletana del 1799) costituisce uno schema di interpretazione che i Quaderni utilizzano in relazione a fenomeni tra loro diversi: la modernizzazione europea verificatasi nel corso del XIX secolo (interpretata da Gramsci come effetto «passivo» della Rivoluzione francese); e le politiche di stabilizzazione adottate nel XX secolo (nella fase storica inaugurata dalla Rivoluzione d’ottobre) nel tentativo di far fronte alla «crisi organica» del capitalismo. (...) Richiamare questo schema interpretativo in relazione agli ultimi trent’anni significa dunque formulare l’ipotesi che la restaurazione capitalistica promossa dalla «rivoluzione conservatrice» reaganiano-thatcheriana abbia svolto, sul piano macrostorico, una funzione analoga a quella assolta da altre «rivoluzioni-restaurazioni», in particolare dalla «rivoluzione passiva» novecentesca posta in essere dai regimi fascisti (sorti come antidoto contro il rischio di contagio rivoluzionario che negli anni Venti minacciò gran parte dei Paesi europei) e dal New Deal rooseveltiano (concepito come risposta allo shock della Grande depressione). (...)
Nella misura in cui replica, mutatis mutandis, questo scenario, la crisi odierna sembra produrre un quadro privo di vie d’uscita. (...) In realtà, se ci fermassimo qui, restituiremmo una rappresentazione unilaterale del processo. Ingannevole perché incapace di coglierne le latenti potenzialità antisistemiche. Nemmeno nelle più acute fase di crisi, nelle quali le forze prevalenti esprimono il massimo potenziale repressivo, il processo si libera delle proprie contraddizioni. La dinamica evolutiva della modernità resta inevitabilmente dialettica. Proprio com’è irriducibilmente dialettico l’individualismo, che è al contempo particolarismo (ciascun individuo è in primo luogo, per sé, se stesso) e universalismo (ciascuno è tuttavia, in sé, uno dei tanti, al pari di ogni altro). La «disassimilazione» e la tendenza al recupero della dinamica castale costituiscono soltanto un aspetto del processo riproduttivo. Con il quale convive sempre l’altro momento, connesso alla vocazione espansiva della modernità: al suo destino dinamico, inscritto nel bisogno incoercibile che il capitale ha di allargare la sfera della riproduzione. E che lo costringe a porre in atto, nel cuore stesso dello sfruttamento, un movimento oggettivamente inclusivo. (...)

Crisi e potenza del moderno

Nonostante tutte le apparenze, la diagnosi di una sostanziale normalizzazione del paesaggio politico globale proprio non convince. Appare al contrario fondata l’impressione che un sentimento di rigetto nei confronti della politica iniqua e distruttiva praticata dai ceti dominanti dei Paesi più industrializzati venga radicandosi nel mondo. Diffondendo avversione nei confronti della guerra, della devastazione ambientale, dell’appropriazione privata delle risorse naturali. Nutrendo una rinnovata consapevolezza dello statuto irriducibilmente pubblico-globale («comune») dei risultati del lavoro sociale, della ricerca scientifica, dell’interazione comunicativa. Promovendo movimenti ed esperienze di lotta contro la precarizzazione del lavoro (si pensi alla battaglia vinta contro il «contratto di primo impiego» la scorsa primavera in Francia) e per la globalizzazione dei diritti e la gestione pubblica dei linguaggi, dei saperi, dei «beni comuni». E assumendo progressivamente i tratti di una potente istanza di delegittimazione, sempre più prossima a valicare il confine che separa i settori più consapevoli dalla massa spoliticizzata per informare di sé un nuovo senso comune.
Altrettanto sembra di poter dire a proposito della calorosa partecipazione con cui sono seguite, in ogni regione del pianeta, le esperienze di autonomia compiute dai Paesi (in particolare in America latina) che più di recente si sono sottratti al giogo coloniale e le lotte popolari di resistenza e di indipendenza. Si pensi allo scacco subìto dalle forze armate statunitensi sul teatro iracheno - quasi un nuovo Vietnam - e alla drammatica vicenda del popolo palestinese. Anche nel caso di questa corale partecipazione e dei suoi presupposti «etico-politici» non si tratta certo di fatti compiuti, ma di processi in corso. Che tuttavia alludono alla costituzione di nuove soggettività critiche, al lento cementarsi di un insieme sempre più vasto e articolato di forze sociali, politiche e statuali anticapitalistiche. (...)

La crisi è luogo di ambivalenze. Di instabilità, di conflitti e di più o meno potenti dinamiche progressive. La dialettica della crisi moderna (la tensione tra vettori espansivi e risposte regressive) è il grande tema dei Quaderni del carcere. Anche quando si interroga sull’avvento del fascismo, Gramsci riflette in base a questo presupposto. Per tale ragione - prigioniero mentre parte dell’Europa soggiace alla tirannide - dichiara quella vittoria «transitoria», al pari della sconfitta subìta dal movimento rivoluzionario nel tentativo di generalizzare l’Ottobre. È questa la sua fondamentale lezione, grazie alla quale ancor oggi - a settant’anni dalla sua morte - leggiamo nei Quaderni la partitura teorica della nostra epoca e della sua crisi.
 

da: Alberto Burgio, Per Gramsci, DeriveApprodi, 2007