Il significato politico della «letteratura» Quando nel 1926 venne rinchiuso in carcere, Gramsci sperimentò come la scrittura e la lettura fossero qualcosa di necessario alla vita, come potessero essere impiegate quali tecniche di sopravvivenza. Ben presto si avvide del fatto che le condizioni di reclusione cominciavano a logorarlo, tanto nel corpo quanto nello spirito. Sorvegliato speciale in quanto dirigente comunista, venne sistemato nella cella vicino al corpo di guardia, dove il rumore non lo lasciava dormire. Durante il giorno leggeva quello che gli capitava tra le mani. Così ne scrive a Tania il 22 aprile del ’29: ho letto una certa quantità di libri di tutti i generi, specialmente romanzi popolari, finché il direttore non mi ha concesso di andare io stesso in biblioteca a scegliere tra i libri non ancora passati in lettura o fra quelli che per un particolare sapore politico o morale, non erano dati in lettura a tutti. Ebbene, ho trovato che anche Sue, Montépin, Ponson du Terrail ecc. erano abbastanza se letti da questo punto di vista: «perché questa letteratura è sempre la più letta e la più stampata? quali bisogni soddisfa? a quali aspirazioni risponde? quali sentimenti e punti di vista sono rappresentati in questi libracci, per piacere tanto?» [254] «Letteratura» va qui inteso in un senso ampio e complesso. Ci soccorre l’annotazione di Wittgenstein (Ricerche filosofiche, § 77) secondo la quale «la parola deve avere una famiglia di significati». Per quanto si sia sempre cercato di determinare normativamente la disciplina e di definire in modo stringente cosa debba intendersi per letteratura, ogni delimitazione è stata periodicamente rimessa in discussione. In breve, sotto le strutture istituzionali della letteratura si sono celate le più diverse rappresentazioni della vita, del mondo e della società. In questa prospettiva può essere interessante riflettere sulle ragioni che hanno spinto Gramsci a confrontarsi così a lungo nei Quaderni del carcere con la questione di che cosa costituisca l’aspetto specificamente politico della letteratura. Dalla periferia al centro, dall’arretratezza alla modernità Gramsci è uno del sud. Viene dall’arretrata periferia italiana, da una Sardegna ancora semicoloniale, in condizioni di estrema oppressione. In una nota del Quaderno 15 parla della propria esperienza come quella di un «triplice o quadruplice provinciale» [1776]. Come gli emigranti in cerca di lavoro che fuggono dalla povertà più assoluta, avverte l’esigenza di superare la propria arretratezza. Ogni intellettuale che non provenga da una famiglia di intellettuali e debba per di più liberarsi del dialetto condivide in parte questa esperienza. Il dialetto è certo più che una variante linguistica. Nel parlare con semplicità fai parte della tua cerchia, di coloro con i quali sei cresciuto. Ma la lingua letteraria è incomparabilmente più adatta a esprimere il pensiero concettuale. È indispensabile al pensiero astratto e generalizzante. Il dialetto è più vicino alle cose e alla gente, alle quali siamo di fatto legati, onomatopeico e prossimo alla madre di tutte le culture, quella agricola. Nota il prigioniero Gramsci: Chi parla solo il dialetto o comprende la lingua nazionale in gradi diversi, partecipa necessariamente di una intuizione del mondo più o meno ristretta e provinciale, fossilizzata, anacronistica in confronto delle grandi correnti di pensiero che dominano la storia mondiale. I suoi interessi saranno ristretti, più o meno corporativi o economistici, non universali. [1377] Per recidere il cordone ombelicale che ci lega alla comunità tradizionale, per emanciparci da questa come individui, dobbiamo compiere il sacrificio dell’astrazione. Forse già il fatto che il giovane Gramsci abbia studiato linguistica ha a che fare con il sogno dell’emigrante di arrivare al centro della lingua nazionale, per partecipare delle opportunità sociali che essa offre. Una testimonianza della grande sensibilità linguistica di Gramsci e della sua cura semantica è il lavoro che i Quaderni compiono sul concetto di «società civile», lavoro a sua volta strettamente connesso al concetto che oggi tutti colleghiamo al nome di Gramsci, il concetto di «egemonia», definita anche «prestige». Ed è di grande interesse che quest’ultimo concetto compaia per la prima volta proprio negli Appunti di glottologia, stesi durante l’anno accademico 1912/13 su suggerimento del suo professore Matteo Bartoli, che riponeva grandi speranze nel giovane Gramsci, nel quale scorgeva - per riprendere le parole della lettera a Tania del 19 marzo 1927 - «l’arcangelo destinato a profligare definitivamente i “neogrammatici”» [56]. «Traduzione», «società civile» ed egemonia Mentre la societas civilis secondo il modello greco (la koinonía politiké) indica la comunità politica di coloro che collaborano con pieno diritto alla formazione della società, la «società civile» a partire da Hegel individua nella loro particolarità la comunità dei proprietari, che l’antichità ha definito con il termine idiótes. Ancora in un classico della modernità come Adam Ferguson i capitalisti sono esplicitamente esclusi dalla civil society, poiché minacciano di tradire la comunità in nome dei propri interessi di profitto. Nel XVIII secolo la civil society di Ferguson viene tradotta in tedesco bürgerliche Gesellschaft. In Kant, che mutua il concetto dalla traduzione di Ferguson, la «società civile» non è quella del bourgeois, ma l’utopia di uno Stato di diritto mondiale pacificato, i cui membri ne sono anche legislatori. In breve, qui prevale una significativa confusione nel rapporto tra le diverse lingue e all’interno della medesima lingua. Dal fatto che la «società civile» di Marx (la cui anatomia si trova nel Capitale) sia stata tradotta con civil society (anziché con bourgeois society) seguì anche nell’ambito del marxismo internazionale un disordine spaventoso. Gramsci vi pose fine in modo sorprendente, trasformando società civile in un concetto analitico che stava a indicare la relazione e l’organizzazione sociale dal punto di vista dell’influenza complessiva dei progetti politici, in breve l’egemonia. Si dà «società civile» là dove gli individui rinchiusi dal capitalismo nelle loro private esistenze oltrepassano questo limite elaborando piani d’azione condivisi e associandosi in base a essi. Possiamo quindi dire che la «società civile» di Gramsci è presupposto e risultato della «letteratura» nella misura in cui vi sono inscritte rappresentazioni e sensazioni che precedono l’agire e ne costituiscono una sorta di prefigurazione sperimentale. Chi coglie quest’aspetto, coglie anche che né la società civile né la letteratura come tale sono già qualcosa di buono in sé e per sé, perché ogni tendenza che si presenta in una società può pretendere di manifestarsi e lottare per la propria influenza. La società civile è quanto Kant dice a proposito della filosofia: un’arena di combattimento. D’altra parte, la pretesa di partecipare alla formazione sociale e la necessità di giustificare questa pretesa sulla base di interessi generali, benché un invito all’ipocrisia, addirittura a brogli elettorali di ogni tipo, sono anche qualcosa di positivo che non può essere trascurato per il solo fatto che se ne possa abusare. In tutte le lotte sociali è insito quindi un momento che attiene all’ambito letterario, così come a ogni espressione della letteratura sono sottese tali lotte. Anche nei modi impiegati, secondo Gramsci, si pretende qualcosa dai rappresentanti dei gruppi sociali di interesse per poter concorrere in queste lotte: vi è il coinvolgimento di una procedura letteraria. È quello della traduzione. Gramsci porta a compimento il concetto di traduzione, definendolo una «metafora-chiave per la rivoluzione e l’analisi politico-sociale» 1. La capacità di tradurre è per Gramsci una chiave per quella fonte del potere che egli chiama «egemonia», ovvero per la forza di attrazione culturale-politica che consente di sconfiggere gli alleati di altre classi o gruppi sociali e di attrarre dalla propria parte intellettuali di raggruppamenti avversari. Ma perché parlare di «traduzioni» se ci si muove nell’ambito di una nazione? Appunto perché chi passa dal dialetto alla lingua letteraria non traduce solo proposizioni, ma allo stesso tempo se stesso, acquisendo per questa via una competenza culturale superiore. Se non sempre è possibile imparare più lingue straniere per mettersi a contatto con vite culturali diverse, occorre almeno imparare bene la lingua nazionale. Una grande cultura può tradursi nella lingua di un’altra grande cultura, cioè una grande lingua nazionale, storicamente ricca e complessa, può tradurre qualsiasi altra grande cultura, cioè essere una espressione mondiale. Ma un dialetto non può fare la stessa cosa. [1377] Questo vale in generale per ogni movimento centripeto, dalla periferia al centro, dall’arretratezza alla modernità. Per tradurre così dobbiamo cambiare noi stessi. E non solo. In modo altrettanto fondamentale ogni gruppo o classe che voglia esercitare influenza sulla propria cerchia diretta deve tradurre la sua autorappresentazione dell’egoismo di gruppo in ciò che è generale, cosa che certo comporta spesso un travestimento ideologico, ma che, perché si venga ripagati dagli altri, implica anche compromessi reali e quindi sacrifici per coloro che ambiscono al potere, ossia impone loro un cambiamento collettivo. Anche la teoria e le concezioni filosofiche del mondo implicano, a giudizio di Gramsci, la capacità di tradurre da un linguaggio teorico a un altro. Dal punto di vista di una filosofia che mostra una più sviluppata comprensione della realtà le altre teorie sono per così dire dialetti filosofici e teoretici. Tradurle in un linguaggio teorico più universale comporta flessibilità e apertura, da non confondere con assenza di prospettiva e imparzialità. Al contrario, qui si consuma un combattimento spirituale condotto da quel determinato punto di vista, una competizione di cui le discipline olimpiche non hanno idea, benché i suoi campioni vengano celebrati come «olimpionici dello spirito». In questo cimento ciascuno mostra la propria capacità di tradurre problematiche «straniere» nella propria lingua o, viceversa, i limiti del proprio idioma. A questo riguardo vale il detto «ride per ultimo chi per ultimo traduce»: tradurre significa dunque superare in senso dialettico. La letteratura e il tempo della vita L’origine dei Quaderni del carcere di Gramsci riflette la nascita della letteratura come tentativo di vincere la morte. La vita non può essere salvata, la morte può essere solo rinviata, ma il proseguimento è da conquistare. La morte viene a rate e ancora in vita annienta la forza della letteratura. Il 6 marzo 1933 Gramsci accenna (con un’immagine che Peter Weiss riprenderà) all’orribile processo di trasformazione. Scrive a Tania: immagina un naufragio e che un certo numero di persone si rifugino in una scialuppa per salvarsi senza sapere dove, quando e dopo quali peripezie effettivamente si salveranno. […] Ognuno di costoro, se interrogato a freddo cosa avrebbe fatto nell’alternativa di morire o di diventare cannibale, avrebbe risposto, con la massima buona fede, che, data l’alternativa, avrebbe scelto certamente di morire. Avviene il naufragio, il rifugio nella scialuppa ecc. Dopo qualche giorno, essendo mancati i viveri, l’idea del cannibalismo si presenta in una luce diversa, finché a un certo punto, di quelle persone date, un certo numero diviene davvero cannibale. Ma in realtà si tratta delle stesse persone? Tra i due momenti […] è avvenuto un processo di trasformazione «molecolare» per quanto rapido, nel quale le persone di prima non sono più le persone di poi. [692-3] Il giorno seguente Gramsci subisce il crollo che interrompe il suo lavoro nel punto che - in tutt’altro significato da quello di Walter Benjamin - potremmo considerare come il suo Passagenwerk, perché tratta del passaggio da gruppi sociali a situazioni, a livelli di realtà, sotto il segno di quell’altra transizione che chiamiamo morte. Gli incompiuti Quaderni del carcere durano «per sempre» nel senso circoscritto che questa espressione può avere se riferita a esseri finiti. Durano in forza di una dialettica memorabile. Non solo infatti tentano di pensare una mondanità interiore storica e assoluta, sono cioè - come Gramsci scrive a Tania nel luglio del ’33 - una manifestazione dell’«immortalità dell’anima in un senso realistico e storicistico, cioè come una necessaria sopravvivenza delle nostre azioni utili e necessarie e come un incorporarsi di esse, all’infuori della nostra volontà, al processo storico universale» [733-4]. Non solo esibiscono, nello stesso tempo, una forma di relativismo, una forma di eternità che potremmo definire, con Brecht, aperta, relativa, consegnata ai posteri. I Quaderni riferiscono questo modo di pensare pure a se stessi, diventano teoreticamente riflessivi, cosicché a partire da Gramsci si può parlare di un divenire riflessivo del pensiero marxista, una svolta relativista tanto indispensabile per i suoi ulteriori sviluppi quanto tale da apparire pericolosa agli occhi di epigoni non all’altezza. La stessa riflessività mosse Gramsci, quando riferì a sé la formula «pessimismo dell’intelligenza, ottimismo della volontà» [75], poco prima così spiegata: «Bisogna creare gente sobria, paziente, che non disperi dinanzi ai peggiori orrori e non si esalti a ogni sciocchezza» [ibid.]. L’opera di Gramsci trasmette questo atteggiamento. Egli stesso nell’orrore che la prigione gli riservò non potè mantenerlo fino alla fine. Nella lettera a Tania del 29 maggio 1933 scrive: Fino a qualche tempo fa io ero, per così dire, pessimista con l’intelligenza e ottimista con la volontà. Cioè, sebbene vedessi lucidamente tutte le condizioni sfavorevoli e fortemente sfavorevoli a ogni miglioramento nella mia situazione […], tuttavia pensavo che con uno sforzo razionalmente condotto, condotto con pazienza e accortezza […] fosse stato possibile […] di ottenere per lo meno di poter vivere fisicamente, di arrestare il terribile consumo di energie vitali che progressivamente mi sta prostrando. Oggi non penso più così. Ciò non vuol dire che abbia deciso di arrendermi, per così dire. Ma significa che non vedo più nessuna uscita concreta e non posso più contare su nessuna riserva di forze da esplicare. [717] Nel luglio del 1933 provò per l’ultima volta una vampata di voglia di vivere. Se lo Stato fascista non gli avesse negato soccorso medico quando c’era ancora tempo, sarebbe rimasta una speranza. «Ora è troppo tardi». Venne devastato, e nel dicembre del 1933, a seguito di pressioni internazionali, fu finalmente trasferito in una clinica. Scrive a Giulia il 25 gennaio 1936: Che impressione terribile ho provato in treno, dopo sei anni che non vedevo che gli stessi tetti, le stesse muraglie, le stesse facce torve, nel vedere che durante questo tempo il vasto mondo aveva continuato a esistere coi suoi prati, i suoi boschi, la gente comune, le frotte di ragazzi, certi alberi, certi orti, - ma specialmente che impressione ho avuto nel vedermi allo specchio dopo tanto tempo. [772] Il racconto non ha un finale conciliante. A Gramsci è rimasta solo la salvezza contingente, infinitamente preziosa, di ciò per cui vale la pena di lottare e resistere, come traduzione salvifica nella letteratura. Non gli rimase più tempo. Ma la fortuna della sua opera nel tempo è solo cominciata. E «il tempo», notò Gramsci in un momento buio del suo martirio (sono parole di una lettera a Tania del 2 luglio 1933), «è un semplice pseudonimo della vita stessa» [725]. 1.Così Peter Ives, Gramsci’s Politics of Language, Toronto University Press, Toronto 2004, p. 100. da: Essere comunisti, 15 gennaio 2008 |