Antonio Gramsci
Elementi di politica
Il
partito politico |
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[Q 13,
p. 1601 (MAC, p. 24)]
Si
è detto che protagonista del nuovo Principe [1]
non potrebbe essere all’epoca moderna un eroe personale,
ma il partito politico, cioè volta per volta e nei diversi
rapporti interni delle diverse nazioni, quel determinato partito
che intende (ed è razionalmente e storicamente fondato
a questo fine) fondare un nuovo tipo di Stato.
È
da osservare come nei regimi che si pongono come totalitari, la
funzione tradizionale dell’istituto della Corona è
in realtà assunta dal partito determinato, che anzi è
totalitario appunto perché assolve a tale funzione. [2]
Sebbene, ogni partito sia espressione di un gruppo sociale, tuttavia
determinati partiti appunto rappresentano un solo gruppo sociale,
in certe condizioni date, in quanto esercitano una funzione di
equilibrio e di arbitrato tra gli interessi del proprio gruppo
e gli altri gruppi, e procurano che lo sviluppo del gruppo rappresentato
avvenga col consenso e con l’aiuto dei gruppi alleati, se
non addirittura dei gruppi decisamente avversari. La formula costituzionale
del re o del presidente di repubblica che “regna e non governa”
e la formula giuridica che esprime questa funzione di arbitrato,
la preoccupazione dei partiti costituzionali di non “scoprire”
la Corona o il presidente; le formule sulla non-responsabilità,
per gli atti governativi, del capo dello Stato, ma sulla responsabilità
ministeriale, sono la casistica del principio generale di tutela
della concezione dell’unità statale, del consenso
dei governati all’azione statale, qualunque sia il personale
immediato di governo e il suo partito.
Col
partito totalitario, queste formule perdono di significato e sono
quindi diminuite le istituzioni che funzionavano nel senso di
tali formule; ma la funzione stessa è incorporata dal partito,
che esalterà il concetto astratto di “Stato”
e cercherà con vari modi di dare l’impressione che
la funzione “di forza imparziale” è attiva
ed efficace.
È
l’azione politica (in senso stretto) necessaria, perché
si possa parlare di “partito politico”? Si può
osservare che nel mondo moderno, in molti paesi, i partiti organici
e fondamentali, per necessità di lotta o per altra causa
si sono frazionati in frazioni, ognuna delle quali assume il nome
di “partito” e anche di partito indipendente. [3]
Spesso perciò lo stato maggiore intellettuale del partito
organico non appartiene a nessuna di tali frazioni ma opera come
se fosse una forza direttrice a sé stante, superiore ai
partiti e talvolta è anche creduta tale dal pubblico. Questa
finzione si può studiare con maggiore precisione se si
parte dal punto di vista che un giornale (o un gruppo di giornali),
una rivista (o un gruppo di riviste), sono anch’essi “partiti”
o “frazioni di partito” o “funzione di determinato
partito”. Si pensi alla funzione del Times in Inghilterra,
a quella che ebbe il Corriere della Sera in Italia, e
anche alla funzione della così detta “stampa d’
informazione”, sedicente “apolitica” e perfino
alla stampa sportiva e a quella tecnica. Del resto, il fenomeno
offre aspetti interessanti nei paesi dove esiste un partito unico
e totalitario di governo: perché tale partito non ha più
funzioni schiettamente politiche, ma solo tecniche, di propaganda,
di polizia, d’influsso morale e culturale. La funzione politica
è indiretta: poiché, se non esistono altri partiti
legali, esistono sempre altri partiti di fatto e tendenze incoercibili
legalmente, contro i quali si polemizza e si lotta come in una
partita di mosca cieca. In ogni caso è certo che in tali
partiti le funzioni culturali predominano, dando luogo a un linguaggio
politico di gergo: [4] cioè le quistioni
politiche si rivestono di forme culturali e come tali diventano
irrisolvibili.
Ma
un partito tradizionale ha un carattere essenziale “indiretto”,
cioè si presenta esplicitamente come puramente “educativo”
(lucus, ecc.), [5] moralistico, di cultura
(sic): ed è il movimento libertario: anche la così
detta azione diretta (terroristica) è concepita come “propaganda”
con l’esempio: da ciò si può ancora rafforzare
il giudizio che il movimento libertario non è autonomo,
ma vive al margine degli altri partiti, “per educarli”.
Si può parlare di un “libertarismo” inerente
a ogni partito organico. (Cosa sono i ”libertari intellettuali
o cerebrali” se non un aspetto di tale “marginalismo”
nei riguardi dei grandi partiti dei gruppi sociali dominanti?)
La stessa “setta degli economisti” [6]
era un aspetto storico di questo fenomeno.
Si
presentano pertanto due forme di “partito” che pare
faccia astrazione come tale dall’azione politica immediata:
quello costituito da una elite di uomini di cultura, che hanno
la funzione di dirigere dal punto di vista, della cultura dell’ideologia
generale, un grande movimento di partiti affini (che sono in realtà
frazioni di uno stesso partito organico); e, nel periodo più
recente, partito non di élite, ma di masse, che come masse
non hanno altra funzione politica che quella di una fedeltà
generica, di tipo militare, a un centro politico visibile o invisibile
(spesso il centro visibile è il meccanismo di comando di
forze che non desiderano mostrarsi in piena luce ma operare solo
indirettamente, per interposta persona e per “interposta
ideologia”). [7] La massa è semplicemente
di “manovra” e viene “occupata” con prediche
morali, con pungoli sentimentali, con miti messianici di attesa
di età favolose, in cui tutte le contraddizioni e miserie
presenti saranno automaticamente risolte e sanate.
Quando
si vuoi scrivere la storia di un partito politico, in realtà
occorre affrontare tutta una serie di problemi, molto meno semplici
di quanto creda, per esempio, Roberto Michels, [8]
che pure è ritenuto uno specialista in materia. Cosa sarà
la storia di un partito? Sarà la mera narrazione della
vita interna di una organizzazione politica? Come essa nasce,
i primi gruppi che la costituiscono, le polemiche ideologiche
attraverso cui si forma il suo programma e la sua concezione del
mondo e della vita? Si tratterebbe in tal caso, della storia di
ristretti gruppi intellettuali e talvolta della biografia politica
di una singola individualità. La cornice del quadro dovrà,
dunque, essere più vasta e comprensiva.
Si
dovrà fare la storia di una determinata massa di uomini
che avrà seguito i promotori, li avrà sorretti con
la sua fiducia, con la sua lealtà, con la sua disciplina
o li avrà criticati “realisticamente” disperdendosi
o rimanendo passiva di fronte a talune iniziative. Ma questa massa
sarà costituita solo dagli aderenti al partito? Sarà
sufficiente seguire i congressi, le votazioni, ecc., cioè
tutto l’insieme di attività e di modi di esistenza
con cui una massa di partito manifesta la sua volontà?
Evidentemente occorrerà tener conto del gruppo sociale
di cui il partito dato è espressione e parte più
avanzata: la storia di un partito, cioè, non potrà
non essere la storia di un determinato gruppo sociale. Ma questo
gruppo non è isolato; ha amici, affini, avversari, nemici.
Solo dal complesso quadro di tutto l’insieme sociale e statale
(e spesso anche con interferenze internazionali) risulterà
la storia di un determinato partito, per cui si può dire
che scrivere la storia di un partito significa niente altro che
scrivere la storia generale di un paese da un punto di vista monografico,
per porne in risalto un aspetto caratteri. Un partito avrà
avuto maggiore o minore significato e peso, nella misura appunto
in cui la sua particolare attività avrà pesato più
o meno nella determinazione della storia di un paese.
Ecco
quindi che dal modo di scrivere la storia di un partito risulta
quale concetto si abbia di ciò che è un partito
e debba essere. Il settario si esalterà nei fatterelli
interni, che avranno per lui un significato esoterico [9]
e lo riempiranno di mistico entusiasmo; lo storico, pur dando
a ogni cosa l’importanza che ha nel quadro generale, poserà
l’accento soprattutto sull’efficienza reale del partito,
sulla sua forza determinante, positiva e negativa, nell’aver
contribuito a creare un evento e anche nell’aver impedito
che altri eventi si compissero.
Il
punto di sapere quando un partito sia formato, cioè abbia
un compito preciso e permanente, da luogo a molte discussioni
e spesso anche luogo, purtroppo, a una forma di boria, che non
è meno ridicola e pericolosa che la “boria delle
nazioni” di cui parla il Vico. [10]
È vero che si può dire che un partito non è
mai compiuto e formato, nel senso che ogni sviluppo crea nuovi
compiti e mansioni e nel senso che per certi partiti è
vero il paradosso che essi sono compiuti e formati quando non
esistono più, cioè quando la loro esistenza è
diventata storicamente inutile. Così, poiché ogni
partito non è che una nomenclatura di classe, è
evidente che per il partito che si propone di annullare la divisione
in classi, la sua perfezione e compiutezza consiste nel non esistere
più, perché non esistono classi e quindi loro espressioni.
Ma qui si vuole accennare a un particolare momento di questo processo
di sviluppo, al momento successivo a quello in cui un fatto può
esistere e può non esistere, nel senso che la necessità
della esistenza non è ancora divenuta “perentoria”,
ma dipende in gran parte” dall’esistenza di persone
di straordinario potere volitivo e di straordinaria volontà.
Quando
un partito diventa “necessario” storicamente? Quando
le condizioni del suo “trionfo”, del suo immancabile
diventar Stato sono almeno in via di formazione e lasciano prevedere
normalmente i loro ulteriori sviluppi. Ma quando si può
dire, in tali condizioni, che un partito non può essere
distrutto con mezzi normali? [11] Per rispondere
occorre sviluppare un ragionamento: perché esista un partito
è necessario che confluiscano tre elementi fondamentali
(cioè tre gruppi di elementi):
1)
Un elemento diffuso, di uomini comuni, medi,
la cui partecipazione è offerta dalla disciplina e dalla
fedeltà, non dallo spirito creativo ed altamente organizzativo.
Senza di essi il partito non esisterebbe, è vero, ma è
anche vero che il partito non esisterebbe neanche “solamente”
con essi. Essi sono una forza in quanto c’è chi li
centralizza, organizza, disciplina, ma in assenza di questa forza
coesiva si sparpaglierebbero e si annullerebbero in un pulviscolo
impotente. Non si nega che ognuno di questi elementi possa diventare
una delle forze coesive, ma di essi si parla appunto nel momento
che non lo sono e non sono in condizioni di esserlo, o se lo sono
lo sono solo in una cerchia ristretta, politicamente inefficiente
e senza conseguenza.
2)
L’elemento coesivo principale, che centralizza
nel campo nazionale, che fa diventare efficiente e potente un
insieme di forze che lasciate a sé conterebbero zero o
poco più; questo elemento è dotato di forza altamente
coesiva, centralizzatrice e disciplinatrice e anche, anzi forse
per questo, inventiva (se si intende “inventiva” in
una certa direzione, secondo certe linee di forza, certe prospettive,
certe premesse anche): è anche vero che da solo questo
elemento non formerebbe il partito, tuttavia lo formerebbe più
che non il primo elemento considerato. Si parla di capitani senza
esercito, ma in realtà è più facile formare
un esercito che formare dei capitani. Tanto vero che un esercito
già esistente è distrutto se vengono a mancare i
capitani, mentre l’esistenza di un gruppo di capitani, affiatati,
d’accordo tra loro, con fini comuni, non tarda a formare
un esercito anche dove non esiste.
3)
Un elemento medio, che articoli il primo col
secondo elemento che li metta a contatto, non solo “fisico”
ma morale e intellettuale. Nella realtà, per ogni partito
esistono “proporzioni definite” tra questi tre elementi
e si raggiunge il massimo di efficienza quando tali proporzioni
definite sono realizzate. [12]
Date
queste considerazioni, si può dire che un partito non può
essere distrutto con mezzi normali, quando, esistendo necessariamente
il secondo elemento, la cui nascita è legata alla esistenza
delle condizioni materiali oggettive (e, se questo secondo elemento
non esiste, ogni ragionamento è vacuo), sia pure allo stato
disperso e vagante, non possono non formarsi gli altri due, cioè
il primo, che necessariamente forma il terzo come sua continuazione
e mezzo di esprimersi.
Occorre
che, perché ciò avvenga, si sia formata la convinzione
ferrea che una determinata soluzione dei problemi vitali sia necessaria.
Senza questa convinzione non si formerà il secondo elemento,
la cui distruzione è la più facile per lo scarso
suo numero, ma è necessario che questo secondo elemento,
se distrutto, abbia lasciato come eredità un fermento da
cui riformarsi. E dove questo fermento sussisterà meglio
e potrà meglio formarsi che nel primo e nel terzo elemento,
che, evidentemente, sono i più omogenei col secondo? L’attività
del secondo elemento per costituire questo elemento è perciò
fondamentale: il criterio di giudizio di questo secondo elemento
sarà da cercare: 1) in ciò che realmente fa; 2)
in ciò che prepara nell’ipotesi di una distruzione.
Tra i due fatti è difficile dire quale sia più importante,
poiché nella lotta si deve sempre prevedere la sconfitta,
la preparazione dei propri successori è un elemento altrettanto
importante di ciò che si fa per vincere.
A
proposito della “boria” del partito, si può
dire che essa è peggiore della “boria delle nazioni”
di cui parla il Vico. Perché? Perché una nazione
non può non esistere e nel fatto che esiste è sempre
possibile, sia pure con la buona volontà e sollecitando
i testi, trovare che l’esistenza è piena di destino
e di significato. Invece un partito può non esistere per
forza propria. Non occorre mai dimenticare che, nella lotta fra
le nazioni, ognuna di esse ha interesse che l’altra sia
indebolita dalle lotte interne e che i partiti sono appunto gli
elementi delle lotte interne. Per i partiti dunque, è sempre
possibile la domanda se essi esistano per forza propria, come
propria necessità, o esistano invece solo per interesse
altrui (e infatti nelle polemiche questo punto non è mai
dimenticato, anzi è motivo d’insistenza anche, specialmente
quando la risposta non è dubbia, ciò che significa
che ha presa e lascia dubbi). Naturalmente, chi si lasciasse dilaniare
da questo dubbio, sarebbe uno sciocco. Politicamente la quistione
ha una rilevanza solo momentanea. Nella storia del così
detto principio di nazionalità gli interventi stranieri
a favore dei partiti nazionali che turbavano l’ordine interno
degli Stati antagonisti sono innumerevoli, tanto che quando si
parla, per es., della politica “orientale” di Cavour
[13] si domanda se si trattava di una “politica”,
cioè di una linea d’azione permanente, o di uno stratagemma
del momento per indebolire l’Austria in vista del ‘59
e del ‘66.
Così
nei movimenti mazziniani dei primi del 1870 (esempio, fatto Barsanti)
[14] si vede l’intervento di Bismarck,
[15] che in vista della guerra con la Francia
e del pericolo di un’alleanza italo- francese, pensava,
con conflitti interni, a indebolire l’Italia. Così
nei fatti del giugno 1914 [16] alcuni vedono
l’intervento dello stato maggiore austriaco in vista della
successiva guerra. Come si vede, la casistica è numerosa,
e occorre avere in proposito idee chiare. Ammesso che qualunque
cosa si faccia, si fa sempre il giuoco di qualcuno, l’importante
è di cercare in tutti i modi di fare bene il proprio giuoco,
cioè di vincere nettamente. In ogni modo, occorre disprezzare
la “boria” del partito e alla boria sostituire i fatti
concreti. Chi ai fatti concreti sostituisce la boria, o fa la
politica della boria, è da sospettare di poca serietà
senz’altro. Non occorre aggiungere che per i partiti occorre
evitare anche l’apparenza “giustificata” che
si faccia il giuoco di qualcuno, specialmente se il qualcuno è
uno Stato straniero; che poi si speculi, nessuno può evitare
che avvenga.
È
difficile escludere che qualsiasi partito politico (dei gruppi
dominanti, ma anche di gruppi subalterni) non adempia anche una
funzione di polizia, cioè di tutela di un certo ordine
politico e legale. Se questo fosse dimostrato, tassativamente,
la quistione dovrebbe essere posta in altri termini: e cioè,
sui modi e gli indirizzi con cui una tale funzione viene esercitata.
Il
senso è repressivo o diffusivo, cioè di carattere
reazionario o progressivo? Il partito dato esercita la sua funzione
di polizia per conservare un ordine esteriore, estrinseco, pastoia
delle forze vive della storia, o la esercIta nel senso che tende
a portare il popolo a un nuovo livello di civiltà di cui
l’ordine politico e legale è un’espressione
programmatica? Infatti, una legge trova chi la infrange: 1) tra
gli elementi sociali reazionari che la legge ha spodestato; 2)
tra gli elementi progressivi che la legge comprime; 3) tra gli
elementi che non hanno raggiunto il livello di civiltà
che la legge può rappresentare. La funzione di polizia
di un partito può dunque essere progressiva o regressiva:
è progressiva quando essa tende a tenere nell’orbita
della legalità le forze reazionarie spodestate e a sollevare
al livello della nuova legalità le masse arretrate. È
regressiva quando tende a comprimere le forze vive della storia
e a mantenere una legalità sorpassata, antistorica, divenuta
estrinseca. Del resto, il funzionamento del partito dato fornisce
criteri discriminanti: quando il partito è progressivo
esso funziona “democraticamente” (nel senso di un
centralismo democratico), quando il partito è regressivo
esso funziona “burocraticamente” (nel senso di un
centralismo burocratico). Il partito in questo secondo caso è
puro esecutore, non deliberante: esso allora è tecnicamente
un organo di polizia e il suo nome di “partito politico”
è una pura metafora di carattere mitologico.
[1] Il nuovo Principe per G. è appunto il partito della classe
operaia. Naturalmente il riferimento è al Principe di Niccolò Machiavelli (1469-1527), il più grande
pensatore politico italiano. Egli studiò i vari tipi di
principati, soprattutto quelli di nuova formazione, e teorizzò
i fondamenti sui quali dovevano reggersi: immaginò la figura
ideale di un Principe che, usando tutti gli accorgimenti della
politica (forza, astuzia, persuasione, ecc.), riuscisse a cacciare
gli stranieri dall’Italia e a costituire un grande Stato
unitario. Il parallelo fra i due Principi sta nel fatto che se
nel ‘500 il problema dello Stato (condizione del progresso
della società) poteva essere risolto solo da un grande
monarca assoluto, nel XX sec. la questione di un’unità
più profonda (cioè la trasformazione in senso socialista
dell’Italia) poteva essere risolta solo da un forte partito
di tipo nuovo.
[2] Il sovrano dovrebbe essere “super
partes”, al di sopra delle parti, ed il fascismo voleva
dare di sé l’immagine di una forza altrettanto imparziale
rispetto alle classi e ai conflitti sociali.
[3] Come G. osserva altrove, i partiti sono una
“nomenclatura delle classi”, quasi che ad
ogni classe dovesse corrispondere, organicamente, un solo partito:
ma ovviamente ciò non sempre si verifica nella pratica.
[4] È appunto ciò che accadeva durante
il fascismo: per non incorrere nella censura molte questioni politiche
venivano affrontate in modo indiretto, “culturale”,
con un linguaggio allusivo, di gergo, incomprensibile ai più.
[5] Lucus a non lucendo (“Bosco,
perché non c’è luce”) è un’espressione
dello scrittore latino Quintiliano che irride alle etimologie
arbitrarie, all’uso improprio delle parole: qui, appunto,
“educativo” è detto ironicamente.
[6] Celebre “club” di studiosi di
cui François Quesnay (1694-1774) fu il caposcuola. Chiamati
“fisiocratici” (teorici del primato della natura,
e quindi dell’agricoltura nell’attività produttiva),
con la loro dottrina del Laissez faire (“Lasciate
fare”) nel campo dell’economia furono una tipica espressione
delle esigenze della borghesia in contrasto con le strutture del
sistema feudale e dell’assolutismo.
[7] l Partito fascista era appunto l’espressione
“visibile” del capitale finanziario italiano.
[8] R. Michels (1876-1938), studioso di problemi
politici, nato in Germania ma vissuto a lungo in Italia.
[9] Nascosto, come gl’insegnamenti che alcuni
filosofi greci impartivano non a tutti i discepoli, ma solo a
gruppi ristretti.
[10] Giambattista Vico (1669-1744), uno dei maggiori
filosofi italiani: la sua opera principale è la Scienza
Nuova, in cui si analizza lo svolgersi ciclico (“corsi e
ricorsi”) della storia umana.
[11]Di
fronte al fascismo deciso a distruggere con mezzi “straordinari”
le organizzazioni operaie, G. insiste sulla necessità della
sopravvivenza del Partito comunista e dei suoi quadri.
[12] Alla legge chimica delle “proporzioni
definite” (le sostanze si combinano solo in determinati
rapporti quantitativi) aveva fatto riferimento l’economista
liberale Maffeo Pantaleoni (1857-1924) nei suoi Principi di
economia pura: il tema sarà ancora ripreso da G. nel
testo “Il teorema delle proporzioni definite”.
[13] Il regno di Sardegna si affiancò
ad Inghilterra e Francia nella guerra contro la Russia (1855):
l’alleanza fu fortemente voluta da Camillo Benso di Cavour,
allora Primo ministro, per proiettare il piccolo Stato italiano
nell’ alta politica internazionale.
[14] Nel 1870, a Pavia, un gruppo di repubblicani
assaltò una caserma, al grido di “Viva Roma!
Viva la Repubblica!”: il loro capo, Pietro Barsanti
fu arrestato, condannato a morte e fucilato.
[15] Otto von Bismarck (1819-1898), abilissimo
artefice della politica che portò all’unificazione
della Germania (1870) e al suo affermarsi come grande potenza.
[16] La “settimana rossa” (7-14 giugno
1914): forte moto insurrezionale che ebbe come fulcro le Marche
e la Romagna: il PSI non seppe in alcun modo prendere la direzione
del movimento, che quindi si sviluppò caoticamente, con
parole d’ordine di tipo anarchico, e fu stroncato dalla
repressione.
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