[Q 14, p. 1709 (MAC, p. 178)] Si verifica una lotta. Si giudica della “equità” della “giustizia” delle pretese delle parti in conflitto. Si giunge alla conclusione che una delle parti non ha ragione, che le sue pretese non sono eque, o addirittura che esse mancano di senso comune. Queste conclusioni sono il risultato di modi di pensare diffusi, popolari, condivisi dalla stessa parte che in tal modo viene colpita dal biasimo. Eppure, questa parte continua a sostenere di “aver ragione”, di essere nell’“equo”, e ciò che più conta, continua a lottare, facendo dei sacrifici; ciò che significa che le sue convinzioni non sono superficiali e a fior di labbra, non sono ragioni polemiche, per salvar la faccia, ma realmente profonde e operose nelle coscienze. [1] Significherà che la quistione è mal posta e mal risolta. Che i concetti di equità e di giustizia sono puramente formali. Infatti può avvenire che di due parti in conflitto, ambedue abbiano ragione, “così stando le cose”, o una appaia aver più ragione dell’altra “così stando le cose”, ma non abbia ragione “se le cose dovessero mutare”. Ora appunto in un conflitto ciò che occorre valutare non sono le cose così come stanno, ma il fine che le parti in conflitto si propongono col conflitto stesso; e come questo fine, che non esiste ancora come realtà effettuale e giudicabile, potrà essere giudicato? E da chi potrà essere giudicato? Il giudizio stesso non diventerà un elemento del conflitto, cioè non sarà niente altro che una forza del giuoco a favore o a danno di una o dell’altra parte? In ogni caso si può dire: 1) che, in un conflitto, ogni giudizio di moralità è assurdo, perché esso può essere fondato solo sui dati di fatto esistenti che appunto il conflitto tende a modificare; 2) che l’unico giudizio possibile è quello “politico”, cioè di conformità del mezzo al fine (quindi implica una identificazione del fine o dei fini graduati in una scala successiva di approssimazione). Un conflitto è “immorale” in quanto allontana dal fine o non crea condizioni che approssimano al fine (cioè non crea mezzi più conformi al raggiungimento del fine) ma non è “immorale” da altri punti di vista “moralistici”. Così non si può giudicare l’uomo politico dal fatto che esso è o meno onesto, ma dal fatto che mantiene o no i suoi impegni (e in questo mantenimento può essere compreso l’“essere onesto”, cioè l’essere onesto può essere un fattore politico necessario, e in generale lo è, ma il giudizio è politico e non morale). Egli viene giudicato non dal fatto che opera equamente, ma dal fatto che ottiene o no dei risultati positivi o evita un risultato negativo, un male e in questo può essere necessario l’“operare equamente”, ma come mezzo politico e non come giudizio morale.[1] Giudizio politico e giudizio morale, dunque, non vanno confusi;
inoltre il giudizio per essere “equo” dev’ essere
dato tenendo conto delle prospettive aperte dalle diverse posizioni
in conflitto. |