[Q 15, p. 1752 ] Bisogna proprio dire che i primi ad essere dimenticati sono proprio i primi elementi, le cose più elementari; d’altronde, essi ripetendosi infinite volte, diventano i pilastri della politica e di qual si voglia azione collettiva. Primo elemento è che esistono davvero governati e governanti, dirigenti e diretti. Tutta la scienza e l’arte politica si basano su questo fatto primordiale, irriducibile (in certe condizioni generali). [1] Le origini di questo fatto sono un problema a sé, che dovrà essere studiato a sé (per lo meno potrà e dovrà essere studiato come attenuare e far sparire il fatto, mutando certe condizioni identificabili come operose in questo senso), ma rimane il fatto che esistono dirigenti e diretti, governanti e governati. Dato questo fatto sarà da vedere come si può dirigere nel modo più efficace (dati certi fini) e come, pertanto, preparare nel modo migliore i dirigenti (e in questo più precisamente consiste la prima sezione della scienza e arte politica), e come d’altra parte si conoscono le linee di minore resistenza o razionali per avere l’obbedienza dei diretti o governati. Nel formare i dirigenti è fondamentale la premessa: si vuole che ci siano sempre governati e governanti, oppure si vogliono creare le condizioni in cui la necessità dell’esistenza di questa divisione sparisca? Cioè si parte dalla premessa della perpetua divisione del genere umano o si crede che essa sia solo un fatto storico, rispondente a certe condizioni? Occorre tener chiaro tuttavia che la divisione di governati e governanti, seppure in ultima analisi risalga a una divisione di gruppi sociali, tuttavia esiste, date le cose così come sono, anche nel seno dello stesso gruppo, anche socialmente omogeneo; [2] in un certo senso si può dire che essa divisione è una creazione della divisione del lavoro, è un fatto tecnico. Su questa coesistenza di motivi speculano coloro che vedono in tutto solo “tecnica”, necessità “tecnica”, ecc., per non proporsi il problema fondamentale. Dato che anche nello stesso gruppo esiste la divisione tra governanti e governati, occorre fissare alcuni principi inderogabili, ed è anzi su questo terreno che avvengono gli “errori” più gravi, che cioè si manifestano le incapacità più criminali ma più difficili a raddrizzare. Si crede che essendo posto il principio dello stesso gruppo, [3] l’obbedienza debba essere automatica, debba avvenire senza bisogno di una dimostrazione di “necessità” e razionalità non solo, ma sia indiscutibile (qualcuno pensa, e ciò che è peggio, opera secondo questo pensiero, che l’obbedienza “verrà” senza essere domandata, senza che la via da seguire sia indicata). Così è difficile estirpare dai dirigenti il “cadornismo”, cioè la persuasione che una cosa sarà fatta perché il dirigente ritiene giusto e razionale che sia fatta: se non viene fatta, “la colpa” viene riversata su chi “avrebbe dovuto”, ecc. Così è difficile estirpare l’abitudine criminale di trascurare di evitare i sacrifizi inutili. Eppure, il senso comune mostra che la maggior parte dei disastri collettivi (politici) avvengono perché non si è cercato di evitare il sacrifizio inutile, o si è mostrato di non tener conto del sacrifizio altrui e si è giocato con la pelle altrui. Ognuno ha sentito raccontare da ufficiali del fronte come realmente i soldati arrischiassero la vita quando più era necessario, ma come invece si ribellassero quando si vedevano trascurati. Per esempio una compagnia era capace di digiunare molti giorni perché vedeva che i viveri non potevano giungere per forza maggiore, ma si ammutinava se un pasto solo era saltato per la trascuratezza e il burocratismo, ecc.. Questo principio si estende a tutte le azioni che domandano sacrifizio. Per cui sempre, dopo ogni rovescio, occorre prima di tutto ricercare le responsabilità dei dirigenti, e ciò in senso stretto (per esempio: un fronte è costituito di più sezioni e ogni sezione ha i suoi dirigenti: è possibile che di una sconfitta siano più responsabili i dirigenti di una sezione che di un’altra, ma si tratta di più e meno, non di esclusione di responsabilità per alcuno, mai). Posto il principio che esistono diretti e dirigenti, governanti e governati, è vero che i “partiti” sono finora il modo più adeguato per elaborare i dirigenti e la capacità di direzione (i “partiti” possono presentarsi sotto i nomi più diversi, anche quello di antipartito e di “negazione dei partiti”; in realtà, anche i così detti “individualisti” sono uomini di partito, solo che vorrebbero essere “capi partito” per grazia di Dio o dell’imbecillità di chi li segue). Svolgimento del concetto generale contenuto nell’espressione “spirito statale”. Questa espressione ha un significato ben preciso, storicamente determinato. Ma si pone il problema: esiste qualcosa simile a ciò che si chiama “spirito statale” in ogni movimento serio, cioè che non sia l’espressione arbitraria di individualismi, più o meno giustificati? Intanto, lo “spirito statale” presuppone la “continuità”, sia verso il passato, ossia verso la tradizione, sia verso l’avvenire, cioè presuppone che ogni atto sia il momento di un processo complesso, che è già iniziato e che continuerà. La responsabilità di questo processo, di essere attori di questo processo, di essere solidali con forze “ignote” materialmente, ma che pur si sentono operanti e attive e di cui si tiene conto, come se fossero “materiali” e presenti corporalmente, si chiama appunto in certi casi “spirito statale”. È evidente che tale coscienza della “durata” dev’essere concreta e non astratta, cioè, in certo senso, non deve oltrepassare certi limiti; mettiamo che i più piccoli limiti siano una generazione precedente e una generazione futura, ciò che non è dir poco, poiché le generazioni si conteranno per ognuna non trent’anni prima e non trent’anni dopo di oggi, ma organicamente, in senso storico, ciò che per il passato almeno è facile da comprendere: ci sentiamo solidali con gli uomini che oggi sono vecchissimi e che per noi rappresentano il “passato” che ancora vive fra noi, che occorre conoscere, con cui occorre fare i conti, che è uno degli elementi del presente e delle premesse del futuro. E coi bambini, con le generazioni nascenti e crescenti, di cui siamo responsabili (altro è il “culto della tradizione”, che ha un valore tendenzioso, implica una scelta e un fine determinato, cioè è a base di una ideologia). Eppure, se si può dire che uno “spirito statale” così inteso è in tutti, occorre a volta a volta combattere contro deformazioni di esso o deviazioni da esso.“Il gesto per il gesto", la lotta per la lotta, ecc., e specialmente l’individualismo gretto e piccino, che poi è un capriccioso soddisfare impulsi momentanei, ecc. (In realtà, il punto è sempre quello dell’"apoliticismo" italiano, che assume queste varie forme pittoresche e bizzarre). L’individualismo è solo apoliticismo animalesco, il settarismo è “apoliticismo”, e, se ben si osserva, infatti, il settarismo è una forma di “clientela” personale, mentre manca lo spirito di partito che è l’elemento fondamentale dello “spirito statale”. [4] La dimostrazione che lo spirito di partito è l’elemento fondamentale dello “spirito statale” è uno degli assunti più cospicui da sostenere e di maggiore importanza; viceversa l’“individualismo” è un elemento animalesco, “ammirato dai forestieri”, come gli atti degli abitanti di un giardino zoologico./font> [1] In uno Stato borghese e nella stessa società socialista;
viceversa, secondo Marx, nella fase del comunismo, quando lo Stato
non sarà più necessario, e si estinguerà,
le forme di governo cambieranno radicalmente. A questi pur remoti
sviluppi pensa G. sottolineando, appunto, che il problema fondamentale
è se un gruppo dirigente opera in vista dell’eliminazione
della divisione tra dirigenti e diretti, o invece per mantenere
tale separazione. Per quanto riguarda la società comunista
la posizione di Gramsci è molto simile a quella di Lenin:
il “regno della libertà” prefigurato da Marx
ed Engels, dove ciascuno sarebbe stato libero di “andare
a caccia la mattina, pescare il pomeriggio, la sera allevare il
bestiame, dopo pranzo criticare” (K. Marx, L’ideologia
tedesca, cit., p. 24), e in cui la regola sarebbe stata “da
ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi
bisogni” (K. Marx - F. Engels, Opere scelte, cit., p. 962),
non è immaginato vicino, ma anzi come conclusione di un
lungo periodo di lotta e di transizione. |