L'alone intellettuale dal quale il giovane Marx deriva il significato del termine «rivoluzione» è certamente la Rivoluzione francese così come viene simboleggiata nell'idealismo filosofico tedesco e dai giovani hegeliani dove, talora, il radicalismo liberal-borghese incontra alcuni elementi della tradizione socialista francese. Rispetto al grande evento storico della Rivoluzione francese, Marx, come gli altri giovani hegeliani, sente fortemente il peso della situazione politica tedesca incapace di uscire dal suo immobilismo. «Il più perfetto mondo di filistei, la nostra Germania, doveva dunqe restare naturalmente assai indietro alla Rivoluzione francese, che restaurò l'uomo» (Lettera di Marx a Ruge del maggio 1843). Giudizio questo che deriva da una linea di continuità tra l'illuminismo fichtiano dell'ultimo decennio del '700 e l'orientamento giovane-hegeliano. L'unica rivoluzione che è accaduta in Germania - come afferma il giovane Engels - è filosofica: «La rivoluzione politica in Francia fu accompagnata da una rivoluzione filosofica in Germania» (PRS, 440). Con ancora maggior precisione Marx nell'Introduzione a Per la critica della filosofia del diritto di Hegel, afferma: «Il passato rivoluzionario della Germania è infatti teorico, è la Riforma. Come allora la Rivoluzione ebbe inizio nel cervello del monaco, oggi essa ha inizio nel cervello del filosofo» (CDH, 198). Il problema tedesco è dunque quello di una rivoluzione radicale che trasferisca nella realtà il radicalismo dell'intelligenza filosofica. Ma una rivoluzione non può vincere senza che vi sia un soggetto reale che la interpreta e la realizza. «Le rivoluzioni, infatti, hanno bisogno di un elemento passivo, di un fondamento materiale, la teoria viene realizzata soltanto nella misura in cui essa ne realizza i bisogni» (CDH, 198). In caso contrario non si fa altro che costruire rivoluzioni teoriche perfette ma inesistenti fuori dalla mente che le ha concepite. Per questo: «Una rivoluzione radicale può essere soltanto la rivoluzione dei bisogni radicali, dei quali sembrano mancare proprio i presupposti e il terreno da cui sorgere» (CDH, 199). Infatti Marx considera, con molto realismo, quanto sia difficile, per la Germania, non solo realizzare rivoluzioni radicali, ma anche una rivoluzione politica, perché ciò significherebbe abbattere gli ostacoli che fanno della società il luogo della frammentazione degli uomini, e avviare un processo di universalizzazione all'interno della società stessa. «Non la rivoluzione radicale è per la Germania un sogno utopistico, non la universale emancipazione umana, ma piuttosto la rivoluzione parziale, la rivoluzione soltanto politica, la rivoluzione che lascia in piedi i pilastri della casa. Su che cosa si fonda una rivoluzione parziale, una rivoluzione soltanto politica? Sul fatto che una parte della società civile si emancipa e perviene al dominio generale, sul fatto che una determinata classe intraprende la emancipazione generale della società partendo dalla propria situazione particolare» (CDH, 200). Le difficoltà straordinarie che esistono in Germania per una rivoluzione politica («L'emancipazione politica è contemporaneamente la dissoluzione della vecchia società, sulla quale riposa I'essenza dello stato estraniato dal popolo, la potestà del sovrano assoluto. La rivoluzione politica è la rivoluzione della società civile», QE, 179), si uniscono in Marx alla critica della rivoluzione politica, cioè del modello ideologico della Rivoluzione francese. Nella Questione ebraica (1843) la modificazione della società a cui pensa Marx è data da una rivoluzione che corregga e modifichi l'esito di un'altra rivoluzione, quella che ha abolito i privilegi feudali della società, ma che, nello stesso tempo, ha reso la società un insieme di individui sciolti da qualsiasi legame politico superindividuale e, al contrario, unificati solo dall'egoismo del guadagno e del commercio. Una rivoluzione, infatti, che non abbia come meta una radicale trasformazione della società e dei suoi principi costitutivi non può neppure avere come esito politico un nuovo modello di stato che sia effettivamente democratico e popola re. In realtà una tale rivoluzione - ed è la critica di Marx alla Rivoluzione francese - stabilisce unicamente come naturali i fondamenti della società borghese (i «diritti dell'uomo») senza preoccuparsi di verificare che cosa essi significhino e quindi senza sottoporli a critica. «La rivoluzione politica dissolve la vita civile nelle sue parti costitutive, senza rivoluzionare queste parti stesse né sottoporle a critica» (QE, 181). In questo modo, secondo Marx, viene ristabilita fittiziarnente una sfera politica universale che esiste solo astrattamente, perche in realtà esprime a livello politico I'individualismo di una società fondata sul mercato, sul denaro e sui rapporti umani che ne derivano. La rivoluzione, per Marx, perde dunque lo scopo di stabilire un modello statale-democratico che rappresenti la sfera dell'universalità contrapposta alla società civile. La vera universalità si raggiunge, al contrario, all'interno di una società che si è posta in grado di uscire (con la rivoluzione) dalla propria atomizzazione, facendo leva, al suo interno, su quella classe che, essendo più di ogni altra conscia del proprio ruolo storico, può concepirsi come universale, cioè come rappresentante generale dei diritti della società. Essa, in nome dei propri diritti universali coincidenti con quelli di una società che ha recuperato la propria universalità, può avviare il processo di emancipazione della società. Ma, scrive Marx nella Introduzione a Per la critica della filosofia del diritto di Hegel (1844): «Affinché la rivoluzione di un popolo e la emancipazione di una classe particolare della società civile coincidano, affinché un ceto sociale valga come il ceto dell'intera società, bisogna, al contrario, che tutti i difetti della società siano concentrati in un'altra classe...» (CDH, 201). La classe che può assumersi il difficile compito dell'emancipazione dell'intera società è, per Marx, il proletariato. Ad esso spetta il compito di essere il soggetto di una rivoluzione che si ponga come la rivoluzione per eccellenza, cioè come il superamento di quella universale ingiustizia che, esercitata dall'altra classe sociale, la borghesia, impedisce al proletariato di vivere una vita conforme allo status di uomo. Il motivo feuerbachiano della necessità del recupero dell'umanità alienata si salda, così, in Marx, con la necessità di una rivoluzione che superi la particolarità «borghese» della società: la rivoluzione diviene così una necessità improrogabile a cui il proletariato come rappresentante dell'umanità è chiamato. Emancipazione della società (sua universalizzazione) e emancipazione dell'uomo si fondono in una ragione storica: la rivoluzione radicale. «La Germania radicale non può fare la rivoluzione senza compierla dalle radici. L' emancipazione del tedesco è l'emancipazione dell'uomo» (CDH, 203-204). Nelle Glosse critiche all'articolo di un prussiano (1844) Marx ribadisce il senso sociale di una rivoluzione che esprime, in un orizzonte definitivamente feuerbachiano, la protesta dell'uomo contro tutto ciò che, separandolo dalla sua essenza, lo separa inevitabilmente da se stesso e quindi dall'umanità tutta: «Una rivoluzione sociale si trova dal pun to di vista della totalità perche... essa è una protesta dell'uomo contro la vita disumanizzata, perché muove dal punto di vista del singolo individuo reale, perche la comunità, contro la cui separazione da sé l'individuo reagisce, è la vera comunità dell'uomo, l'essenza umana» (GAP, 223). Se viene meno questa caratteristica la rivoluzione, inevitabilmente, viene a mancare, o meglio non si rivela capace di condurre alla realizzazione dell'essenza dell'uomo. È il caso, per Marx, della Rivoluzione francese in cui la massa, per via della sua stessa composizione sociale, non comprendendo ciò che doveva realmente motivarla (l'essenza dell'uomo) ha in realtà solo seguito l'interesse della sua frazione dominante: la classe borghese. «La rivoluzione è 'mancata"» si legge nella Sacra Famiglia (1844) «solo per la massa che, nell'idea politica non possedeva l'idea del suo "interesse" reale; per la massa quindi, il cui vero principio vitale non coincideva con il principio vitale della rivoluzione, le cui condizioni reali per l'emancipazione sono essenzialmente diverse dalle condizioni entro le quali la borghesia poteva emancipare se stessa e la società» (SF, 90). Il rapporto diretto che il giovane Engels ha intrattenuto con la società inglese contemporanea gli offre un quadro della rivoluzione giocato più su elementi di analisi sociale che su una dialettica filosofica. Nella Situazione della classe operaia in Inghilterra (1845), Engels sottolinea l'importanza della rivoluzione industriale che, modificando pro fondamente i meccanismi produttivi, ha così modificato l'assetto stesso della società. «Queste invenzioni, com'è noto, diedero l'impulso ad una rivoluzione industriale, una rivoluzione che in pari tempo trasformò tutta la società borghese, e la cui importanza storica comincia solo ora ad essere ri conosciuta» (COI, 243). È da questo assetto e dalle contraddizioni che esso, al suo interno, suscita, che Engels, con una scarsa accentuazione filosofica, sviluppa il concetto di rivoluzione sociale. Essa non coincide, secondo Engels, con le consuete forme rivoluzionarie miranti per lo più a stabilire la borghesia come classe egemone o nuovi equilibri all'interno della classe borghese, ma si pone come la lotta radicale fra le due classi opposte generate dalla stessa evoluzione economica e sociale «una rivoluzione sociale, signori, è qualcosa di assolutamente diverso dalle rivoluzioni politiche verificatesi fino ad oggi; essa non muove, come queste ultime, contro la proprietà del monopolio, ma contro il monopolio della proprietà: una rivoluzione sociale, signori, è la guerra aperta dei poveri contro i ricchi» (DDE, 581). La nuova forma rivoluzionaria, secondo Engels, al pari delle altre realizzerà un profondo mutamento. Essa sarà l'avvento del comunismo che, abolendo la proprietà privata, abolirà le cause del disagio sociale restituendo all'uomo la sua vera natura. «La futura rivoluzione sociale toccherà le vere cause del bisogno e della miseria, della ignoranza e del delitto, essa dunque attuerà una vera riforma sociale. E ciò può avvenire soltanto mediante la proclamazione del principio comunista.» (DDE, 582) Questa rivoluzione necessaria, data la stf\lttura conflittuale della società, a giudizio di Engels non deve realizzarsi tuttavia con la violenza, mà, al contrario, deve attuarsi pacificamente. Ma a tal fine e per evitare che la contraddizione fondamentale che oppone, nella società, ricchi e poveri non esploda con tutta la sua drammaticità, diviene necessario porre al primo posto la questione sociale preparando cosi gradualmente l'avvento del comunismo: «Se la rivoluzione sociale e il comunismo pratico sono il risultato necessario dei nostri attuali rapporti, prima di ogni altra cosa dovremmo occuparci di quei provvedimenti con i quali sia possibile prevenire un sovvertimento violento e sanguinoso dell'assetto sociale. E c'è un solo mezzo, cioè l'introduzione o almeno la preparazione pacifica del comunismo» (DDE, 582). Marx ed Engels nell'Ideologia tedesca, mutando il referente teorico, non più inscritto nell'area filosofico-hegeliana di Feuerbach, ma nella storia sa come storia dei modi di riproduzione economica della società, precisano con maggior rigore il concetto di rivoluzione. Esso perde quella connotazione romantica connessa all'universale ritorno dell'uomo alla sua essenza per mostrare come la modalità concreta e reale con cui sopprimere il modo di produzione capitalista sia trasformare i rapporti sociali esistenti. La rivoluzione si pone dunque per Marx ed Engels come la molla di una storia non rivolta a mete astratte o determinate intellettualisticamente: «..la rivoluzione è la forza motrice della storia, anche della storia della religione, della filosofia e di ogni altra teoria» (IT, 39). La rivoluzione comunista si differenzia radicalmente, secondo Marx ed Engels, da tutti i precedenti modelli rivoluzionari che, di fatto, non modificavano i rapporti sociali di produzione. La rivoluzione comunista, al contrario, ha lo scopo di sopprimere il lavoro nella forma in cui si realizza nella società capitalista, sopprimendo, di conseguenza, le classi che, nella società capitalista, ne sono diretta espressione. «In tutte le rivoluzioni sinora avvenute non è mai stato toccato il tipo dell'attività, e si è trattato soltanto di un'altra distribuzione di questa attività, di una nuova distribuzione del lavoro ad altre persone, mentre la rivoluzione comunista si rivolge contro il modo dell'attività che si è avuta finora, sopprime il lavoro e abolisce il dominio di tutte le classi insieme con le classi stesse...» (IT, 38). La necessità della rivoluzione appare dunque motivata non solamente dall'abbattimento dei rapporti di potere che sorreggono il dominio della classe borghese, ma anche perche è la condizione per cui l'agente rivoluzionario - il proletariato - possa acquistare la piena padronanza delle proprie capacità, ponendosi come la guida della nuova società senza classi che, della rivoluzione, dovrebbe essere l'esito: «La rivoluzione non è necessaria soltanto perche la classe dominante non può essere abbattuta in nessun'altra maniera, ma anche perché la classe che l'abbatte può riuscire solo con una rivoluzione a levarsi di dosso tutto il vecchio sudiciume e diventare capace di fondare su basi nuove la società.» (IT, 38) Il soggetto attivo della rivoluzione è dunque la classe proletaria. Questo ruolo, tuttavia, non le è attribuito per una astratta progettualità. Essa rappresenta, nella sua globalità, la società decisa a rifiutare radicalmente i rapporti di dominio di una classe che, espressione sociale minoritaria, ha voluto imporsi come totalità. «La classe rivoluzionaria si presenta senz'altro, per il solo fatto che si contrappone a una classe, non come classe ma come rappresentante dell'intera società, appare come l'intera massa della società di contro all'unica classe dominante» (IT, 46). Questo ruolo, ovviamente, non dipende assolutamente da una scelta volontaria, così come la rivoluzione non è un fatto casuale. Essa è un risultato necessario (secondo quanto scrive Engels nell'abbozzo del 1847 dal titolo Principi del comunismo) dello sviluppo produttivo e, comunque, non è di per sé cruenta o violenta. Inevitabilmente diviene tale quando sono gli stessi avversari sociali a provocarlo con la repressione diretta o con la costrizione. «Le rivoluzioni non si fanno deliberatamente e a capriccio... sono state sempre e dovunque, la conseguenza necessaria di circostanze assolutamente indipendenti dalla volontà e dalla direzione di singoli partiti e classi intere. Ma vedano anche che lo sviluppo del proletariato viene represso con la violenza in quasi tutti i paesi civili, e che in questo modo gli avversari dei comunisti lavorano a tutta forza per provocare una rivoluzione. Se in questo modo il proletariato oppresso finirà per essere sospinto ad una rivoluzione, noi comunisti difenderemo la causa dei proletari con l'azione come adesso la sosteniamo con la parola» (PC, 369-370). Accanto a queste importanti precisazioni sulla rivoluzione Engels ne sottolinea due caratteristiche fondamentali. La prima è che la rivoluzione ha come scopo principale e immediato quello di stabilire una costituzione democratica la cui forma varierà a secondo della struttura e composizione di classe delle forze rivoluzionarie. «Prima di tutto la rivoluzione proletaria instaurerà una costituzione democratica e con ciò il dominio politico, diretto o indiretto del proletariato» (ivi, 370). La seconda è il carattere internazionalistico della rivoluzione, in nessun modo riducibile ad un semplice fatto nazionale (anche se il presupposto su cui può iniziare un movimento rivoluzionario è, ovviamente, nazionale). Ciò discende, secondo Engels, dal carattere internazionale del mercato che, creando una rete di dipendenze produttive tra i vari popoli, crea anche le premesse per la loro liberazione dal domnio della produzione capitalista e delle sue regole sociali. «La rivoluzione comunista non sarà quindi una rivoluzione soltanto nazionale, sarà una rivoluzione che avverrà contemporaneamente in tutti i paesi civili, cioè perlomeno in Inghilterra, America, Francia e Germania» (PC, 372). Ovviamente il suo sviluppo sarà funzionale al grado di industrializzazione delle varie società e chiuderà il processo rivoluzionario iniziato dalla classe borghese contro i ceti aristocratico-feudali. Per Marx ed Engels la borghesia è infatti una classe che ha avuto un compito storico di natura rivoluzionaria: «La borghesia ha avuto nella storia una funzione sommamente rivoluzionaria» (M, 488). Essa ha portato a termine il processo di emancipazione dal feudalesimo, dalle sue forme di produzione e di scambio e dai suoi rapporti sociali. E la trasformazione sociale che l'avvento della borghesia ha provocato nella storia moderna a creare le condizioni sociali, ma anche politiche per il comunismo. La distruzione operata dalla borghesia nei confronti del mondo feudale - il tema del Manifesto del partito comunista - senza precedenti nella storia. «Nel suo dominio di classe, che dura appena da un secolo, la borghesia ha creato delle forze produttive il cui numero e la cui importanza superano quanto mai avessero fatto tutte insieme le generazioni passate» (M, 491). Ma la borghesia è prigioniera dello sviluppo delle forze produttive che essa deve provocare. Le ricchezze prodotte sono superiori rispetto ai rapporti sociali esistenti. Ciò provoca la crisi. Ma accanto a questa crisi materiale che, si dice nel Manifesto, può essere superata distruggendo forze produttive e ampliando i mercati, vi è una crisi di proporzioni storiche: «La borghesia non ha fabbricato soltanto le armi che le recano la morte; essa ha anche creato gli uomini che usano quelle armi - i moderni operai, i proletari» (M, 492). E la lotta del proletariato «contro la borghesia incomincia con la sua esistenza» (M, 493). Da innumerevoli conflitti nasce la forza storica di una classe e, poiché «ogni lotta di classe è lotta politica» (M, 495), nasce un partito. La lotta storica tra proletariato e borghesia è internazionale, ma l'inizio è sempre di proporzioni nazionali: «Il proletariato di ogni paese naturalmente deve farla finita prima con la sua borghesia» (M, 497). Questo significa che vi è «la guerra civile più o meno occulta entro la società attuale fino al momento in cui essa esplode in una rivoluzione aperta, e col rovesciamento violento della borghesia il proletariato stabilisce il suo dominio» (M, 497). La rivoluzione è quindi il momento saliente della dialettica storica in cui l'antagonismo diviene aperto, e quindi il processo storico entra in una fase nuova: all'epoca della borghesia subentra l'epoca del comunismo. La rivoluzione viene quindi pensata nel modello della concezione materialistica della storia propria dell'ideologia tedesca e come tale è lo spunto teorico del Manifesto. In questo modo il proletariato realizza, con la rivoluzione, la pienezza della società industriale in cui il rapporto produttivo depurato - tramite la rivoluzione - dai suoi effetti socialmente negativi appare in tutta la sua potenza come il fattore primario dell'organizzazione sociale. La rivoluzione diventa così, come storia delle forme sociali attraverso cui si è realizzata la produzione materiale della vita, il passaggio obbligato per realizzare il fine della storia. Il tema della rivoluzione dopo il Manifesto del partito comunista diviene politicamente il problema dell'autonomia politica del proletariato e della sua organizzazione e, dal punto di vista strategico, diviene il problema del rapporto tra classe rivoluzionaria, stato e forme del potere. Il tema della rivoluzione in una generica dimensione storica ritorna nella terza sezione dell'Anti-Dühring: «Il modo di produzione capitalistico, trasformando in misura sempre crescente la grande maggioranza della popolazione in proletari crea la forza che, pena la morte, è costretta a compiere questo rivolgimento» (A, 269). Il quadro analitico non appare, nel complesso, superiore a quello del Manifesto. |