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piccolo dizionario marxista
filosofia della prassi |
Lelio La Porta
L’espressione “filosofia della prassi” non
è di conio gramsciano. Il primo ad usarla nel nostro
Paese fu Antonio Labriola nel 1897 e, sulla base della traduzione
gentiliana delle marxiane Tesi su Feuerbach (1899),
si affermò in Italia come un modo precipuo di intendere
il marxismo. Il fatto è che a partire dalla lettura di
Gentile coloro i quali si trovarono a discutere la filosofia
della prassi non lo fecero tanto nella prospettiva marxiana
quanto piuttosto in quella del traduttore; insomma nessuno affrontò
la questione a partire dal tentativo di darle un’impronta
di lettura autonoma di Marx; quello che si discuteva era l’interpretazione
gentiliana del testo di Marx.
Infatti, proponendo la prima traduzione italiana delle marxiane
Tesi, documento “del pensiero genuino di
Marx”, Gentile sottoponeva a critica la lettura che
delle stesse Tesi aveva proposto Antonio Labriola. Gramsci,
ripartendo proprio da Labriola, fu l’unico ad impostare
la questione nei termini della riscoperta del fondamento autentico
della lettera e dello spirito del testo del pensatore di Treviri
rendendo la locuzione “filosofia della prassi” il
modo specifico con cui egli stesso avviò la ricerca di
un’autonomia filosofica del marxismo lì dove Croce
lo aveva definito un canone di interpretazione della storia.
Viene proposto il testo con cui Nicola Badaloni, uno dei massimi
pensatori marxisti italiani recentemente scomparso, sintetizzava
la riflessione gramsciana intorno alla “filosofia della
prassi”:
«Il concetto di “prassi”, come agire individuale
e sociale, è al centro di tutta la filosofia inaugurata
da Karl Marx e del suo modo di affrontare i problemi della produzione
e della scienza. Nei cosiddetti Manoscritti economico-filosofici del 1844, che Gramsci non ebbe la possibilità di conoscere,
Marx scriveva: “... come la società... produce
l’uomo in quanto uomo, così essa è prodotta
da lui”. Questa idea per cui la “produzione”
o “prassi umana” è comprensiva non solo del
lavoro ma anche di tutte le attività che si oggettivano
in rapporti sociali, istituzioni, bisogni, scienza, arte, ecc.,
traversa tutto il pensiero di Marx e costituisce il suo principio
fondamentale.
Antonio Labriola ha sviluppato questo aspetto, sostenendo che
il materialismo sorico «parte dalla praxis, cioè
dallo sviluppo della operosità e, come è la teoria
dell’uomo che lavora, così considera la scienza
stessa coma un lavoro» (La concezione materialistica della
storia). Per Labriola «ogni atto di pensiero è
uno sforzo; cioè un lavoro nuovo», mentre «il
lavoro compiuto, ossia il pensiero prodotto, agevola i nuovi
sforzi diretti alla produzione di novello pensiero».
Questa premessa serve a dimostrare che il termine “filosofia
della prassi”, di cui parla Gramsci, non è un espediente
linguistico, ma una concezione che egli recepisce come unità
tra teoria e pratica. Discutendo la Tesi XI di Marx, che propone
di cambiare il mondo e non più di interpretarlo, Gramsci
scrive che tale tesi «non può essere interpretata
come un gesto di ripudio di ogni sorta di filosofia»,
ma come «l’egemonica affermazione di unitá
fra teoria e pratica... Se ne deduca anche che il carattere
della filosofia della praxis è specialmente di essere
una concezione di massa, una cultura di masse» (Quaderni
del carcere). E altrove ripete: «per la filosofia
della praxis, l’essere non può essere disgiunto
dal pensare, l’uomo dalla natura, l’attività
dalla materia, il soggetto dall’oggetto; se si fa questo
distacco si cade in una delle tante forme di religione o nell’astrazione
senza senso» (Ivi).
L’unità di teoria e pratica serve a Gramsci per
delineare una serie di concetti scientifici in grado di interpretare
il mondo a lui contemporaneo (egemonia, blocco storico, nuovo
senso comune, conformismo di massa nel suo nesso con nuove forme
di libertà individuali e collettive, rivoluzione passiva,
ecc.). Qui, in sede generale, in relazione alla filosofia della
prassi ci limiteremo alle seguenti considerazioni:
1) Né la filosofia della prassi né alcuna scienza
a essa collegata ci consentono di fare previsioni che abbiano
carattere deterministico. C’è un unico modo possibile
di prevedere, ed è quello per cui esso è un atto
pratico che implica la formazione e la organizzazione di una
volontá collettiva. Da questa tesi Gramsci ricava la
sua critica a Croce, in quanto la sua religione della libertà
non contribuisce a creare risultati prevedibili, evitando di
formulare un disegno di trasformazione e una volntá politica
che a esso corrisponda. Questa stessa teoria della “previsione”
mette in crisi le concezioni deterministiche tipiche dello scientismo
della II Internazionale, che sono anch’esse fonte di passività.
2) Le volontà di cui parla Gramsci e, quindi, la prassi,
non sono allo stato puro, ma contengono gli elementi materiali
che l’uomo stesso ha oggettivato. Ciò significa
in primo luogo che la filosofia della prassi è per Gramsci
la coscienza piena delle contraddizioni della societá
a lui contemporanea, sicché «lo stesso filosofo,
inteso individualmente o inteso come intero gruppo sociale,
non solo comprende le contraddizioni, ma pone se stesso come
elemento della contraddizione, eleva questo elemento a principio
di conoscenza e quindi di azione» (Ivi).
Scienze dell’uomo, tra loro distinte, e anche scienze
della natura trovano al di là della loro indipendenza
un momento di unità, diventando politica. Gramsci sintetizza
ciò nei termini che seguono: «La filosofia
della prassi è lo “storicismo” assoluto,
la mondanizzazione e terrestritá assoluta del pensiero,
un umanesimo assoluto della storia» (Ivi). Per intendere
questa ultima affermazione, il lettore dovrà richiamare
la tesi sopra riportata sulla verità come corrispondenza
a una realtá dall’uomo stesso oggettivata.
3) Gramsci definisce «l’uomo come una serie
di rapporti attivi (un processo)», tali che esso «non
entra in rapporto colla natura semplicemente per il fatto di
essere egli stesso natura, ma attivamente, per mezzo del lavoro
e della tecnica» (Ivi). In altre parole ogni individuo
«non solo è la sintesi dei rapporti esistenti,
ma anche della storia di questi rapporti, cioè è
il riassunto di tutto il passato» (Ivi). Come è
possibile cambiare il mondo se il singolo dipende in tal modo
dal suo passato? La risposta di Gramsci è che «il
singolo può associarsi con tutti quelli che vogliono
lo stesso cambiamento, e se questo cambiamento è razionale,
il singolo può... ottenere un cambiamento ben più
radicale di quello che, a prima vista, può sembrare possibile»
(Ivi).
In conclusione, la filosofia della prassi è per Gramsci
costruzione di volontà collettive corrispondenti ai bisogni
che emergono dalle forze produttive oggettivate o in via di
oggettivazione e dalla contraddizione tra queste e il grado
di cultura e di civiltà espresso dalle relazioni sociali.
Sono implicite in questa, che appare come una concezione filosofica,
una serie di scienze della natura e dell’uomo. Prese isolatamente,
esse possono essere ritenute indipendenti; considerate come
espressione della possibile contraddizione tra attività
creative e rapporti comunicativi di tipo sociale, entrano a
far parte della filosofia della prassi e possono in tal modo
influire sulla politica, cioé su quei cambiamenti che
ci fanno intravedere un nuovo modo di vivere a superiori livelli
di civiltà».
È abbastanza evidente come per Gramsci il marxismo, ossia
la filosofia della prassi, sia il cardine intorno al quale ruota
tutta la riflessione teorica e tutte le potenzialità
pratiche che da tale rilfessione prendono sviluppo; fra esse
indubbiamente in primo piano va posta la politica. Si legge
nei Quaderni: «Tutto è politica, anche
la filosofia o le filosofie... e la sola filosofia è
la storia in atto, cioè è la vita stessa».
Bisogna determinare una ripresa della filosofia della prassi,
aggiunge Gramsci, la cui necessità per la vita pratica
immediata è evidente; la filosofia della prassi va sollevata
«all’altezza che deve raggiungere per la soluzione
dei compiti piú complessi che lo svolgimento attuale
della lotta propone»; la filosofia della prassi deve
realizzarsi in un’unità dialettica di politica
e filosofia intrinseca ad un gruppo sociale; forse non è
neanche il caso di ricordare che il gruppo sociale, o i gruppi
sociali a cui Gramsci fa riferimento, sono le classi subalterne
italiane alla ricerca della loro egemonia.
da
Rinascita