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piccolo dizionario marxista
egemonia |
Lelio La Porta
Prima di esaminare diffusamente il concetto di egemonia in Gramsci,
sarà più utile soffermarsi sulla genesi di questo
concetto e sull’interpretazione che di esso ha dato Lenin.
Gramsci stesso individua l’origine del concetto di egemonia
nell’opera e nell’azione politica di Lenin. Non a
caso, nei “Quaderni” sostiene che “il principio teorico-pratico dell’egemonia (…)
è (…) l’apporto teorico massimo di
Ilici alla filosofia della praxis”. Di più:
secondo Gramsci, sarebbe anche la massima elaborazione del marxismo
contemporaneo, perché “il momento dell’egemonia”
o della direzione culturale era appunto sistematicamente rivalutato
in opposizione dell’economismo. È quindi possibile
affermare che il tratto essenziale della più moderna filosofia
della praxis consiste appunto nel concetto storico-politico di
“egemonia”.
Due cose sorprendono nella posizione di Gramsci; da un lato, molto
limitato è l’uso che Lenin fa nella sua opera del
concetto di egemonia e, dall’altro lato, mai lo stesso Lenin
insiste sull’aspetto “culturale” dell’egemonia.
L’unico testo leniniano cui ci si potrebbe riferire, cosa
che Gramsci fa, e “Due tattiche della socialdemocrazia
nella rivoluzione democratica”; ma qui si parla di
“direzione”.
Allora sembrerebbe veramente fuori di dubbio che Gramsci, quando
parla dell’egemonia relativamente a Lenin, si riferisce,
invece, alla dittatura del proletariato. Questo intimo legame
fra egemonia e dittatura del proletariato sembrerebbe avvalorato
dalla lettura dei testi gramsciani: “I comunisti torinesi
si erano posti concretamente la questione dell’egemonia
del proletariato, cioè della base sociale della dittatura
proletaria e dello Stato operaio.
Il proletariato può diventare classe dirigente e dominante
nella misura in cui riesce a creare un sistema di alleanze di
classi che gli permetta di mobilitare contro il capitalismo e
lo Stato borghese la maggioranza della popolazione lavoratrice,
ciò che significa, in Italia, nei reali rapporti di classi
esistenti in Italia, nella misura in cui riesce ad ottenere il
consenso delle larghe masse contadine”.
Sembra proprio, da quanto si è venuto dicendo, che il concetto
di egemonia così com’è inteso da Gramsci sia
molto simile al concetto di dittatura del proletariato espresso
da Marx e da Engels e poi sviluppato sia nella teoria che nell’azione
politica, da Lenin.
Eppure, a ben leggere il testo sopra citato sulla “Questione
meridionale”, risulta che in Gramsci esiste una distinzione
tra egemonia e dittatura del proletariato.
Cos’è infatti, la dittatura del proletariato? È
il controllo della società civile e della società
politica, attraverso la “direzione” ed il “dominio”
della società. Ma come si arriva a questo punto? Attraverso
un allargamento, da parte della classe operaia, della base “sociale”
della propria direzione, tramite un “sistema di alleanza”
con altre classi subalterne (i contadini), conquistandone il “consenso”.
Sta qui tutta la ricchezza della concezione gramsciana dell’egemonia;
è questo il punto di riferimento da cui partire per valutare
correttamente sia la continuità dell’apporto gramsciano
rispetto a quello leninista sia la sua originalità.
Valutiamo gli elementi che sembrano confermare l’ipotesi
di una continuità fra il concetto di egemonia in Lenin
e Gramsci. Il primo elemento consiste nella base di classe dell’egemonia.
Lenin ha sempre sottolineato con energia questo aspetto, non limitandosi
però a circoscriverlo alla dittatura del proletariato:
“tutte le forme di governo transitorie sotto il capitalismo,
non sono in fondo che degli aspetti dello Stato borghese, cioè
della dittatura della borghesia”. Questo insistere
di Lenin sul carattere di classe della direzione politica ed ideologica
si spiega se si pensa alle tendenze presenti nella II Internazionale,
e da Lenin aspramente combattute, a voler mettere da parte l’analisi
marxista dello Stato e, quindi, della sua base di classe.
Se esiste un carattere comune alla dittatura della borghesia e
a quella del proletariato, esso è, senza dubbio, la coercizione,
la violenza. Ed anche nel caso delle ‘democrazie borghesi’
il discorso immutato: “Quanto più si è
sviluppata la democrazia, tanto più, in ogni profondo contrasto
politico che minacci la borghesia, diventano imminenti i pogrom
e la guerra civile”.
Certo, l’aspetto coercitivo di questa democrazia non è
sottovalutato da Gramsci, vista l’insistenza con cui parla
del carattere determinante del momento politico-militare nell’analisi
del rapporto di forza; tuttavia, anche esaminando le “democrazie
borghesi”, l’analisi gramsciana non si limita a questo.
Tutto lo studio gramsciano sulla società
civile e sull’egemonia non ha altro scopo che quello di
evidenziare l’importanza della direzione culturale ed ideologica.
Dimostrando come lo Stato non sia rappresentato dalla sua identificazione
con la società politica, ma scaturisca dalla combinazione
di società politica e società civile, insistendo
sulla base di classe dello Stato, Gramsci, oltre ad integrare,
arricchisce l’analisi di Lenin.
Un altro elemento che Lenin e Gramsci hanno in comune è
quello dell’organizzazione intellettuale dell’egemonia,
ossia la concezione del partito. Il partito in Lenin, è
legato alla classe, è il partito della classe operaia,
eppure con essa non si identifica in quanto possiede, è
vero, la coscienza politico-teorica che forma le masse, ma tale
coscienza, al tempo stesso, non può essere di tutta la
classe. “Noi siamo il partito della classe, e perciò
quasi tutta la classe (e, in tempo di guerra, nell’epoca
della guerra civile, la classe tutt’intera) deve agire sotto
la direzione del nostro partito, deve stringersi il più
saldamente possibile attorno al nostro partito. Ma sarebbe (…) “codismo” pensare che, in regime capitalista,
quasi tutta o tutta la classe possa mai elevarsi alla coscienza
e alla attività della propria avanguardia. [...] Si abbasserebbe l’avanguardia al livello della classe, si
perderebbe il rigore dell’impostazione teorica, la coerenza
della linea politica, se si volesse abbracciare nel partito tutta
la classe; se si operasse in questi termini, invece che collegarsi
in maniera organica al movimento e ciò non sarebbe veramente
utile allo scopo che si pone il partito: portare la classe ad
un livello superiore, rivoluzionario. “Dimenticare”
la distinzione che passa tra il reparto di avanguardia e tutte
le masse che gravitano verso di esso, dimenticare il costante
dovere del reparto di avanguardia di elevare strati sempre più
larghi fino a questo livello dell’avanguardia, vorrebbe
dire ingannare se stessi”.
Non si va troppo lontani dal vero se si afferma che questa concezione
e quest’analisi che Lenin fa del partito sono riprese pressoché
integralmente da Gramsci, il quale, però, insiste particolarmente
sulla funzione educatrice del partito.
Infatti il partito è il “precipitato storico” di tre
elementi: “1) Un elemento diffuso, di uomini comuni,
medi, la cui partecipazione è offerta dalla disciplina
dalla fedeltà, non dallo spirito creativo e altamente organizzativo.
Senza di essi il partito non esisterebbe, è vero, ma è
anche vero che il partito non esisterebbe neanche “solamente”
con essi. Essi sono una forza in quanto c’è chi li
centralizza, organizza, disciplina, ma in assenza di questa forza
coesiva si sparpaglierebbero e si annullerebbero in un pulviscolo
impotente [...]. 2) L’elemento coesivo principale,
che centralizza nel campo nazionale, che fa diventare efficiente
e potente un insieme di forze che lasciate a sé conterebbero
zero o poco più; questo elemento è dotato di forza
altamente coesiva, centralizzatrice e disciplinatrice e anche,
anzi forse per questo, inventiva (se si intende inventiva in una
certa direzione, secondo certe linee di forza, crete prospettive,
certe premesse anche) [...]. Si parla di capitani senza
esercito, ma in realtà è più facile formare
un esercito che formare dei capitani. Tanto vero che un esercito
(già esistente) è distrutto se vengono a mancare
i capitani, mentre l’esistenza di un gruppo di capitani,
affiatati, d’accordo fra loro, con fini comuni non tarda
a formare un esercito anche dove non esiste. 3) Un elemento medio,
che articoli il primo con il terzo elemento, che li metta a contatto,
non solo fisico, ma morale ed intellettuale”.
Il partito, perciò, definito attraverso questo “teorema
delle proporzioni definite”, come lo chiama Gramsci,
è un “intellettuale
collettivo”, che deve elaborare e diffondere
una nuova concezione del mondo. E però, in questa accezione,
il ruolo dei partiti è etico-pedagogico in quanto essi
creano istituzioni, norme, comportamenti e sensibilità
morale in conformità con i loro valori fondamentali.
Agendo in questi termini i partiti educano ed elevano intellettualmente
e moralmente le masse e, quindi, contribuiscono in maniera decisiva
al rinnovamento e alla trasformazione della società civile.
da Rinascita, n. 15/2005
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