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piccolo dizionario marxista
critica
dell'economia politica |
Etienne
Balibar
1. L'espressione «critica dell'economia politica»
ci colloca immediatamente al centro dei problemi di interpretazione
posti dall'opera teorica di Marx: problema del suo oggetto, problema
della sua continuità o, al contrario, delle sue «rotture»
successive, problema infine della sua articolazione con la pratica
politica e con le sue condizioni storiche.
In effetti, essa non cessa di comparire, sia nel titolo, sia nel
programma delle principali opere di Marx: già i Manoscritti
economico-filosofici del 1844 dovevano intitolarsi Zur
Kritik der politischen ökonomie. Lo stesso titolo che
avrà in seguito, attraverso quindici anni di lavoro accanito
che ne modificherà profondamente il senso e il metodo,
e del quale siamo oggi in grado di penetrare il senso grazie alla
pubblicazione dei Grundrisse der Kritik der politischen Okonomie
l'opera pubblicata nel 1859 come prima parte di un esteso Trattato.
È noto che, invece di procedere immediatamente alla pubblicazione
dei materiali di cui disponeva per il seguito dell'opera, Marx
la rimise nuovamente in cantiere fino ad approdare, nel 1867,
alla pubblicazione di Das Kapital, anch'esso con il sottotitolo
di «critica dell'economia politica», i cui
libri II e III saranno pubblicati da Engels sulla base dei manoscritti
di Marx, e con delle importanti prefazioni, rispettivamente nel
1885 e 1894.
Per sottolineare ulteriormente la portata del tema, a questo nucleo
principale vanno aggiunti: a) l'articolo Umrisse zu einer
Kritik der Nationalokonomie, pubblicato da Engels negli Annali
francotedeschi, al quale Marx ha reso nel Capitale
un omaggio non solo sentimentale; b) la seconda parte della Miseria
della filosofia, intitolata «la metafisica dell'economia
politica» in opposizione alla «critica»,
e che avvia il lavoro dei Grundrisse; c) il capitolo
su «la storia critica dell'economia politica»
redatto da Marx per l'AntiDühring di Engels (1877),
riassunto delle Teorie sul plusvalore, manoscritto del
1862-1863 che Kautsky pubblicherà nel 1905; d) i testi
dell'ultimo periodo del lavoro di Marx, che vanno dal Poscritto
alla seconda edizione tedesca del Capitale (1873) alle
Note marginali al Trattato di Economia Politica di A. Wagner,
estratti di un quaderno Sull'economia in generale (188182),
nei quali l'idea di critica è precisata e articolata nel
suo nesso permanente con quella di dialettica, «metodo
analitico» che è di per sé «critico
e rivoluzionario».
Pare dunque che l'espressione della quale ci stiamo occupando
comprenda nella sua forma più generale la modalità
permanente del rapporto pratico-teorico di Marx con l'oggetto
dell'economia politica, nella misura in cui l'economia politica
esiste come disciplina. Questo rapporto tuttavia non può
essere colto isolatamente: non è cioè dato inizialmente.
È, al contrario, prodotto come un risultato a partire da
un problema «critico» più generale e si costituisce
nel corso del suo sviluppo.
Il problema è quello di una critica della politica,
quale risulta costituita con la «rivoluzione borghese»
e la formazione dello stato moderno che ne scaturisce: è
da qui che Marx parte, constatando che questo stato, la vita del
quale costituisce la «politica», si stabilisce lontano
dalla società concreta degli uomini e si fonda sulla negazione
degli antagonismi che la attraversano. La politica borghese, condotta
in nome della «sovranità popolare»,
è dunque sostanzialmente idealistica, e tale idealismo
ha la sua espressione concentrata nella filosofia speculativa
dello Stato, quando questa si sforza di «dedurre»
dalla Idea razionale stessa il rapporto gerarchico che subordina
la «società civile» (sfera dei bisogni
materiali, del lavoro e degli
interessi economici) allo stato politico e fa di quest'ultimo
l'«espressione» di quella. L'obiettivo più
generale della critica iniziale di Marx consiste dunque nella critica della alienazione politica nella società
borghese, e la sua forma teorica obbligata è una
critica della «speculazione» filosofica.
Si spiega così come il suo primo testo importante sia una Critica della filosofia dello stato di Hegel (1843) la
quale sfocia a sua volta nel piano di una «critica»
generale, dove doveva figurare, in modo relativamente autonomo,
la critica delle «diverse materie» della
filosofia: «diritto, morale, politica, ecc.»,
poi quella della loro «elaborazione speculativa»
ad opera della filosofia (Manoscritti del 1844).
Ma, nella messa in opera di questo progetto, accade uno spostamento
significativo: «criticare» il diritto, la
morale, la politica significa rapportarli alla loro «base
materiale», vale a dire al processo di costituzionealienazione
dell'uomo nel lavoro e nella produzione; ed è da questo
momento preliminare, senza attendere la conclusione del ciclo
teorico progettato, che interviene il confronto con la speculazione,
relativamente alla scelta tra una concezione idealistica ed una
concezione materiali stica della storia.
Resta tuttavia da chiarire:
a) da una parte il rapporto che si stabilisce tra questo «spostamento»
teorico e il passaggio pratico di Marx da una posizione politica
umanistica, democratico-radicale, ad una posizione comunista che
non si richiama più all'universale ma ad una classe determinata
(anche se, lo ricaviamo dal confronto dei Manoscritti
del '44 e dell'Ideologia tedesca, Marx esprime astrattamente
questo rapporto ponendo l'equivalenza tra il processo di alienazione
del lavoro umano e lo sviluppo della proprietà privata);
b) d'altra parte, la questione di stabilire se la «critica
dell'economia politica» , che occupa ora praticamente
il terreno esplorato da Marx (Cfr. la Prefazione a Per
la critica. .., 1859) debba essere considerata come la realizzazione
del progetto iniziale di una «critica della politica»
che avrebbe infine trovato il suo vero oggetto e si sarebbe pertanto
sostituita ai suoi obiettivi iniziali (il che sarà uno
dei modi di intendere il carattere «scientifico»
del «materialismo storico») oppure se essa
si situi all'interno di questo progetto iniziale, del quale svilupperà
i fondamenti. In effetti queste questioni non possono chiarirsi
fin quando non ci si interroghi, da una parte sul significato
esatto del termine «critica», dall'altra
sulle modalità in base alle quali Marx ha identificato
l'oggetto e il significato storico dell'economia politica «classica».
2. In filosofia il significato classico del termine «critica»
rimanda sia ad una polemica, che mira alla distruzione di un
sistema o di un dogmatismo, sia, tramite un autentico capovolgimento
in cui l'idealismo tedesco ha riconosciuto il segno stesso della
razionalità dialettica, alla fondazione di un sapere
(del) vero. Detto altrimenti, si tratta di mostrare al tempo
stesso i limiti di una facoltà positiva (teorica o pratica),
conformemente alla sua natura e al suo oggetto, e la necessità
di un'illusione (negativa), conformemente alla sua natura, vale
a dire alla sua causa. In questo senso, una «critica»
non è essa stessa una «teoria»,
nella sua accezione più propria: essa non possiede più,
o non possiede ancora un oggetto proprio. Questo si definisce
in rapporto all'oggetto di un'altra teoria. Si dovrebbe giungere
dunque alla conclusione che la «critica dell'economia
politica» è, di fatto, la fondazione dell'economia
politica (o di una economia politica determinata)? In tale senso
Engels sembrerà farne un bilancio quando, nell'AntiDühring,
seconda parte «Economia politica»), cap.
1 «Oggetto e metodo»), scriverà:
«L'economia politica nel senso più lato è
la scienza delle leggi che regolano la produzione e lo scambio
dei mezzi materiali di sussistenza nella società umana.
...L'economia politica in questa estensione così lata,
deve tuttora essere creata. La scienza economica che sinora
possediamo si limita quasi esclusivamente alla genesi e allo
sviluppo del modo di produzione capitalistico...»
(A, 140143).
E benché l'accento sia in questa occasione posto non
sull'estensione di un dominio teorico ma sulla messa in opera
di un principio pratico, è anche da questa impostazione
che si possono formalmente comprendere le formulazioni di Marx
nell'Indirizzo inaugurale dell'Associazione Internazionale
dei Lavoratori (1864) (alle quali fanno eco quelle del Capitale,
libro III, cap. 23 e 27): «Questa lotta contro la
limitazione legale della giornata di lavoro... toccava la grave
controversia tra il cieco dominio della legge dell'offerta e
della domanda che costituisce l'economia politica della borghesia,
e la produzione sociale regolata dalla previsione sociale, che
è l'economia politica della classe operaia. Perciò
la legge delle dieci ore non fu soltanto un grande successo
pratico; fu la vittoria di un principio. Per la prima
volta, alla chiara luce del giorno, l'economia politica della
borghesia soggiaceva al l'economia politica della classe operaia»
(II, 11).
Emerge qui, nondimeno, una modalità nuova e particolare
della «critica»: materialistica, in opposizione
alle critiche idealistiche della filosofia, e l'operatore di
essa sarà la storia. Così, nella sua recensione
a Per la critica. ..(1859) , Engels ha scritto «...
il partito proletario tedesco si presenta va sulla scena.
Tutta la sua vita teorica traeva origine dallo studio della
economia politica, e dal momento del suo apparire data anche
l'economia tedesca come scienza indipendente. Questa economia
tedesca si fonda essenzialmente sulla concezione materialistica
della storia, i cui principi sono esposti brevemente nella prefazione
del libro...»
(CEP, 202203).
È tuttavia necessario operare qui una distinzione, poiché
«economia politica» come pure «storia»
sono da intendersi in due sensi: questi termini designano, lo
si è visto, sia il processo reale che la corrispondente
disciplina teorica.
In una fase del loro lavoro, non solo Marx ed Engels impiegano
simultaneamente i due sensi, ma forniscono una ragione di questa
confusione. Così per Engels nell'Umrisse zu einer
Kritik der Nationalokonomie (1844) come per Marx nel Discorso
sul libero scambio (1848), l'economia politica teorica
(identificata col liberalismo) è il linguaggio spontaneo,
necessario e rivelatore della realtà economica. Criticare
l'ipocrisia dell'una è lottare con tro l'inumanità
dell'altra e viceversa.
Nel 1859, questa confusione non è già più
possibile. Si può quasi dire che il suo carattere idealistico
è riconosciuto (Cfr. la Introduzione del 1857
ai Grundrisse): il reale non può essere colto
solamente tramite la coscienza e subire il primato di questa
coscienza; bisogna al contrario rovesciare il rapporto di determinazione
e per mezzo di ciò, condizione sine qua non,
distinguere i due piani. La distinzione si configura come l'operazione
essenziale del rovesciamento. La mancata distinzione significava
infatti che in certo qual senso l'economia politica è
vera in forza della sua «adeguazione» al
reale. Conseguentemente era impossibile sbarazzarsi dell'economia
politica teorica se non era al tempo stesso possibile sbarazzarsi
della realtà economica. Ma con la necessità di
sbarazzarsi della realtà economica viene meno nello stesso
tempo ogni possibilità di farne una teoria scientifica: non c'è teoria se non di ciò che esiste.
D'altra parte si presenta qui un'altra difficoltà del
ragionamento: dal momento che la teoria economica appare come
una illusione, ne consegue che la realtà economica è
anch'essa una illusione, sia pure necessaria, una rappresentazione
illusoria investita in pratiche che possiedono solo l'apparenza
nella realtà. Si è allora costretti a porsi il
problema: rappresentazione illusoria di che cosa? E la sola
risposta possibile (quella che fornisce ancora il giovane Marx)
è quella dell'antropologia filosofica: rappresentazione
illusoria dell'uomo.
Ma se si devono distinguere i due termini fin qui confusi, si
otterrà: da una parte una critica storica della realtà
economica: le forme economiche sono l'effetto di condizioni
storiche determinate dalla produzione, non esistono che nella
misura in cui permangono queste condizioni e sono destinate
eventualmente a sparire con quelle (Cfr ., oltre alla Prefazione del 1859 a Per la critica..., il seguito del testo di Engels
citato più sopra: AntiDühring, Il, cap. 1); dall'altra
parte una critica storica della teoria economica: non tanto
una storia dell'economia politica (nella sua lettera a Lassalle
del 22 febbraio 1858, Marx accantona questo oggetto) ma, più
fondamentalmente, una dimostrazione della storicità dell'economia
politica, giacché le sue condizioni di possibilità
teorica, interne, sono date da una determinata situazione storica
e dal suo rapporto con questa situazione.
Sotto questa duplice forma, si fa strada l'idea, per Marx fondamentale,
di una «critica» immanente al processo storico stesso.
3. La critica della realtà economica ha, al fondo, un
significato molto chiaro, almeno in linea di principio: si tratta
di mettere in evidenza le «contraddizioni
antagonistiche» della realtà economica
(dei rapporti di produzione e di scambio, dunque di distribuzione).
L'espressione significa in primo luogo che le contraddizioni
economiche sono in se stesse degli antagonismi sociali che tendono
a riprodursi. Si tratta di mostrare che queste contraddizioni
non sono degli epifenomeni della realtà economica vale
a dire che questa può esistere senza queste contraddizioni,
e può esserne liberata con una tecnica o una politica
appropriate ma ne costituiscono la sua stessa «essenza».
Si tratta pertanto di mostrare che la realtà economica
è, nella sua essenza, un processo di esplicitazione e
di realizzazione di contraddizioni. In effetti, le condizioni
sociali della produzione materiale («rapporti di produzione»)
costituiscono esse stesse delle condizioni antagonistiche: si
basano cioè sulla lotta di classe. Ma se è vero
che nessuna realtà può sfuggire alla sua determinazione
ad opera delle condizioni della produzione materiale, al di
fuori della quale non si dà semplicemente alcuna società,
si rende necessario rapportare l'insieme della struttura economica
e delle sue «leggi» (dalla «legge del
valore» fino alla «legge dell'accumulazione»
e alla «legge della popolazione») alla
storia dei modi di produzione materiale che è la storia
de\Ie condizioni della lotta di classe.
Il rapporto con la storia è dunque indissociabile
dal rapporto con la lotta di classe. Pensato isolatamente,
anche in termini provvisori, il punto di vista storico non condurrà
ad una critica materialistica ma solamente al relativismo, a
«relativizzare» la realtà economica (come
fanno per esempio Stuart Mill e più tardi Max Weber e
l'antropologia sociale contemporanea) sostenendo che tale realtà
economica non è immutabile, si trasforma, e che, considerata
secondo una data forma storica, non vale che per un'epoca, ecc..
Per far sì che queste formulazioni abbiano, in senso
forte, una portata critica, è necessario che sia loro
conferito, come contenuto, il riconoscimento della lotta di
classe.
Detto altrimenti: si devono produrre due dimostrazioni reciproche:
da una parte che le contraddizioni antagonistiche della struttura
economica sono ineludibili, non ammettono cioè né
«superamento» né «conciliazione».
Questo perché non c'è superamento possibile se
non illusorio, come sogno ideologico, realizzazione immaginaria
di un desiderio delle condizioni materiali di esistenza della
società. Le contraddizioni antagonistiche, d'altra parte,
sono già la trasformazione dello stato di cose esistente,
«destinato a perire». Esse significano
l'impossibilità per lo stato di cose esistente di perpetuarsi
tale e quale e, al tempo stesso, la possibilità di una
diversa forma di produzione, dunque di esistenza sociale. È
ciò che Marx esprime definendo le «leggi»
di struttura della realtà economica come delle «tendenze»
rivoluzionarie.
Beninteso, ciò non può essere semplicemente affermato,
ma deve essere dimostrato dettagliatamente in modo tale da identificare
ed esplicitare le. tendenze contradditorie. È ciò
che viene chiarito da uno dei significati dell'idea di dialettica,
nella misura in cui la dialettica è un movimento,
reale, «dialettica della natura»
( e Marx nel Capitale parla di leggi immanenti del
modo di produzione capitalistico come «processo di
storia naturale»), e non solamente un movimento pensato,
un «metodo» intellettuale per pensare il
movimento. Nello stesso tempo rende possibile precisare il senso
dell'idea di «critica»: la critica reale
è la dialettica. Nel Poscritto alla seconda
edizione tedesca del Capitale, Marx scrive per es.:
«La dialettica è scandalo e orrore per la borghesia
e pei suoi corifei dottrinari, perché nella comprensione
positiva dello stato di cose esistente include simultaneamente
anche la comprensione della negazione di esso, la comprensione
del suo necessario tramonto, perché concepisce ogni forma
divenuta nel fluire del movimento, quindi anche dal suo lato
transeunte, perché nulla la può intimidire ed
essa è critica e rivoluzionaria per essenza»
(C, I, 45).
Questo punto non è tuttavia così chiaro in Marx
come si vorrebbe: se la critica reale è la dialettica,
perché continuare a usare sistematicamente il termine
«critica»? perché non parlare semplicemente,
come farà Engels, di «dialettica materialistica»
?
Dal momento che non si tratta di adottare «dall'esterno»
o, ciò che fa lo stesso, dal punto di vista di un soggetto
morale fittiziamente situato dentro il corso della storia un
punto di vista critico sulla realtà, vale a dire di giudicare
la realtà, bensì di analizzarne il processo di
contraddizione immanente, come mai c'è ancora posto per
il concetto di critica al di là della semplice unità
(indicata molto più esplicitamente dal termine di dialettica)
tra il concetto di rivoluzione, che caratterizza il processo
reale stesso, e il concetto di teoria o di scienza di questa
realtà, che ne fornisce la conoscenza oggettiva? Se la
questione non è completamente chiarita in Marx, è
precisamente perché questa «unità»
della scienza e del processo rivoluzionario non è un
dato immediatamente acquisito, non scaturisce ne da una semplice
intenzione ne dall'impiego tecnico di uno strumento teorico
in forza della sua «verità» intrinseca.
Si pone un problema in relazione alle modalità di adeguazione,
di appropriazione dell'oggetto (rivoluzione) da parte della
teoria (scienza), così come c'è un problema di
modalità di intervento della teoria scientifica nel processo
rivoluzionario. Diciamo schematicamente che la permanenza dell'equivalenza
«dialettica = critica» accanto all'equivalenza
«dialettica = scienza» segnala in Marx
l'esistenza di questo doppio problema e indica che la sua natura
è, di fatto, politica (anche nel senso della necessità
di una politica della teoria). Così, anche la distinzione
da cui siamo partiti tra realtà economica e teoria economica
è solamente relativa. Il che non significa che si debba
giungere a non distinguere i due termini, ma che la critica
della teoria economica, lungi dall'essere una semplice conseguenza
della costituzione di una teoria scientifica della lotta di
classe, di tale teoria scientifica costituisce un momento necessario.
4. Questa critica, come abbiamo detto, si è trasformata
nel corso del lavoro di Marx. Quantomeno ha inglobato elementi
nuovi ed ha spinto l'attenzione progressivamente su aspetti
più fondamentali dell'economia politica. Questo stesso
fatto ci pone il problema di sapere se essa ha conservato sempre
esattamente lo stesso oggetto, o lo stesso obiettivo. Qui non
si tratta solo della trasformazione, già rilevata, intervenuta
tra il punto di vista antropologico delle opere della giovinezza
e il punto di vista materialistico successivo, ma della trasformazione
che si determina tra Per la critica dell'economia politica
(1859) e il Capitale (1864): precisamente, come mostra
l'epistolario di Marx, al momento della «rilettura»
da parte di Marx dei testi di Smith e Ricardo, in particolare
nello studio della rendita fondiaria, e che corrisponde alla
redazione delle Teorie sul plusvalore (18611863).
Nella sua recensione del 1859, Engels distingue una critica
storica ed una critica logica dell'economia politica. La critica
«logica» non è apparentemente quella
di Marx a meno di riuscire praticamente a ricostruire tutta
la storia dell'economia politica a partire dalla sua base sociale
e in tal modo spiegarla, ma essa prende subito la sua rivincita:
di fatto essa stessa indica, sia pure in modo astratto, il proprio
rapporto con la storia. Si tratta piuttosto di una storia delle
categorie economiche, una ricostruzione cioè della loro
genesi (che va dal «complesso» al «semplice»,
il quale è sempre l'esito finale dello «sviluppo
completo» dei rapporti di scambio), che una storia
dell' economia politica stessa. Ma l'economia politica, in quanto
disciplina e in quanto discorso, altro non è che il luogo
letterario dove si formulano le categorie economiche, dove queste
si fanno esplicite e «coscienti».
Così la storia dell'economia politica, come mostra la Introduzione inedita ai Grundrisse del 1857,
riflette sia direttamente sia in termini rovesciati l'emergenza
delle categorie economiche. Di modo che, nel quadro di una critica
«logica», la storia dell'economia politica
viene infine ad essere concepita non, ad esempio, nei termini
delle sue scansioni cronologiche e dei conflitti tra scuole,
ma, più fondamentalmente, nella sua essenza, secondo
il filo conduttore della sua necessità interna, indipendentemente
dalle «casualità» e dagli «scarti»
o dai ritorni all'indietro che sembrano a prima vista caratterizzarla.
E se esiste una critica «logica» dell'economia
politica, è perché esiste una logica delI' conomia
politica, è perché l'economia politica
si rende intelligibile essa stessa per la presenza, al fondo,
di uno sviluppo logico che le è immanente.
La «critica dell'economia politica» allora
sarà la restituzione di questa logica, l'enunciazione
della sua verità interna (immanente) rimasta fino ad
allora ignorata, noncosciente e frammentaria.
Quale sarà il risultato? Sarà l'esposizione delle
categorie economiche: anzitutto quelle di «valore
di scambio» e di «lavoro» (astratto).
O piuttosto, si tratterà della «ricostruzione»
di queste categorie una volta dissipato il circolo vizioso degli
economisti che, nell'analisi dei fondamenti (valore, lavoro)
«presuppongono» le categorie «complesse»
(profitto, interesse, rendita, salario) che ne derivano. Si
tratterà dunque dell'effettiva spiegazione delle leggi
economiche sulla base della definizione del valoreIavoro e di
esso soltanto, «ciò che nessun economista ha
saputo fare».
Così la storia. delle categorie economiche riprodotte
nel pensiero che ne riflette lo sviluppo reale (sia pure in
un ordine inverso) è già in se stessa Un processo
di «critica». Per questo Marx scrive, nell'appendice
storica del capitolo 1 di Per la critica. ..: «L'analisi
della merce come lavoro in duplice forma, l'analisi del valore
d'uso come lavoro reale o attività produttiva conforme
allo scopo, l'analisi del valore di scambio come tempo di lavoro
sociale uguale, sono il risultato critico finale (das kritische
Endergebnis) delle indagini compiute durante più
di centocinquant'anni dall'economia classica, la quale ha inizio
in Inghilterra con William Petty, in Francia con Boisguillebert
e ha termine in Inghilterra con Ricardo, in Francia col Sismondi»
(CEP, 34).
In questo senso la critica di Marx si applica ad un discorso
che è già in sé, ma in sé solamente,
intrinsecamente critico, e che per questo può assumere
una forma «logica». La critica degli errori
logici degli economisti, così come la risposta ai problemi
suscitati dalla loro scoperta (che essi non sono in grado di
affrontare perché la loro esposizione è contraddittoria),
costituirà così, che lo vogliano o no, la realizzazione
della loro propria tendenza critica. È anche per questo
che è possibile parlare nuovamente di «dialettica»
in un senso assai prossimo a quello di Hegel (che Marx aveva
riletto nel 1858). È cioè impossibile sviluppare
correttamente l'analisi del valore sulla sua base reale scoperta
dall'economia politica (il lavoro sociale generale, «astratto»
) senza con ciò far apparire al tempo stesso le contraddizioni
che si manifestano nelle sue forme successive (la merce,
la moneta, il capitale), contraddizioni delle quali Petty o
Smith, come Ricardo, non fanno ancora .che giustapporre i termini
opposti, il che li induce ad inevitabili errori.
Questa problematica conosce peraltro, al suo interno, una trasformazione
storica, che si colloca tra la Critica del 1859 e il
Capitale. Più precisamente, una duplice trasformazione,
i cui indici ci sono forniti da una parte dalla natura e dall'oggetto
delle critiche specifiche che, nel Capitale, Marx rivolge
agli economisti (in che cosa consistono i loro «errori»,
le loro «lacune» e le loro «contraddizioni»);
d'altra parte il posto, nuovamente modificato, della storia
delle dottrine economiche all'intemo della teoria «critica»
di Marx.
Le critiche rivolte agli economisti si riferiscono sempre ad
uno stesso punto nodale, che, si è visto, :ostituisce
l' ùessenziale dell'«esito critico»
dell'economia politica classica, reso esplicito per la prima
volta in Ricardo: la riduzione generale del valore (di scambio)
al lavoro. Ma se nel 1859 (in Per la Critica...) gli
errori degli economisti (e dello stesso Ricardo) sono identificati
dal Iato delle conseguenze che essi cercano di trarre da questo
principio (che sono quindi delle «inconseguenze»),
nel 1867 (II Capitale), essi sono identificati dal
Iato dei principi stessi: come dice Marx nella importante lettera
a Engels dell'8 gennaio 1868, la «determinazione»
del valore da parte del lavoro risulta «indeterminata»
in Ricardo, e proprio in ciò consiste la contraddizione
insormontabile: la determinazione è un'indeterminazione!
«...fintantoché la determinazione del valore
in base al tempo di lavoro è "indeterminata",
come presso lo stesso Ricardo, essa non rende la gente shaky
(incerta). Ma non appena essa viene collegata esattamente con
la giornata lavorativa e con le sue variazioni, si presenta
dinanzi agli occhi della gente un'idea nuova, molto sgradevole».
Tutto è quindi giocato a livello di questa determinazione.
Per Ricardo il concetto di «lavoro» è
un concetto indifferenziato, il «tempo di lavoro»
non è tanto la misura di una forza-lavoro erogata quanto
il lasso di tempo necessario alla produzione, il tempo che il
lavoro dell'operaio «risparmia» al capitalista
e che fa «economizzare» lui stesso incrementando
la produttività ciò che esprime, sul tempo di
lavoro, il punto di vista del capitale, non quello del produttore.
Così l'economia politica ivi compreso Ricardo si rappresenta
pur sempre il lavoro come una «potenza del capitale».
È questo il motivo per cui è del tutto insufficiente
classificare le teorie economiche a seconda che esse facciano
o meno del «lavoro» la base della loro
problematica. È necessario domandarsi anche quale concetto
di «lavoro» sia messo in campo.
Ma spingiamoci più oltre: se gli errori degli economisti
si situano sul piano delle conseguenze, si tratterà solo
di evidenziarle, di rispondere alle obiezioni, di togliere gli
ostacoli per liberare il «nocciolo» razionale dell'economia
politica. Si tratterà ancora e pur sempre di produrre
un'economia politica, a condizione di definirla come economia
politica (esplicitamente) critica. Se invece gli errori hanno
a che vedere con i principi, con il modo con cui questi principi
sono essi stessi l'inizio «assoluto» che
circoscrive d'emblée l'oggetto dell'economia
politica ed il suo «punto di vista», non
è forse necessario considerare le contraddizioni e le
confusioni che essa comporta come l'indice dell'impossibilità
di una economia politica, liberata dalle illusioni e dall'idealismo
politicogiuridico borghese?
Allora non ci si dovrà accontentare dello scetticismo,
ma si tratterà di procedere alla costituzione nella teoria
di un punto di vista non economico.
Pare a noi che sia questa la direzione verso la quale si è
orientato Marx a partire dal momento in cui ha sviluppato l'analisi
concreta del plusvalore, o diciamo meglio: l'analisi
delle forme di costituzione del plusvalore legate alle modalità
storiche date del pluslavoro capitalistico. La si può
designare come «materialismo storico»,
poichè sempre questa analisi che Marx ed Engels designano
come il suo oggetto specifico (la «seconda scoperta»
di Marx, successiva alla scoperta generale della determinazione
in ultima istanza della politica e dell'ideologia da parte del
modo di produzione).
Si ottiene così una risposta formale alla questione posta
più sopra: la «realtà» della
quale si analizzano le contraddizioni non è una realtà
«economica». È solamente la «teoria
economica» che la rappresenta ideologicamente come
«economia».
5. Per l'economia politica, la forma valore dei prodotti del
lavoro è un dato inspiegabile. Se essa si interroga sull'«origine»
di questa forma, lo fa in modo necessariamente fittizio, «metafisico»,
sviluppandone la genesi ideale a partire dalla natura umana
e sempre nella sfera stessa dello scambio (di qui la sua tendenza
permanente alle «robinsonate» che mettono
in scena la «propensione allo scambio»
dell'uomo primitivo). Marx lo ribadisce costantemente: tutti
gli economisti, ivi compreso, ed in modo particolare, Ricardo,
sono deviati, «in quanto borghesi» (senza
dubbio perché solo questo punto di vista possiede senso
in relazione alla pratica contabile del capitalista) dal problema
della determinazione e delle fluttuazioni quantitative del valore
di scambio, ma non sollevano la questione della costituzione
stessa della forma valore.
Si tratta, per Marx, di mostrare che il punto di vista costitutivo
dell'economia politica elude due questioni fondamentali a proposito
della «legge del valore», che sono legate
l'una e l'altra alla struttura storica dello sfruttamento, alla
natura del rapporto di produzione capitalistico. 1) Questo punto
di vista elimina la questione: che cos'è il «lavoro
sociale» che determina il valore? Qual è la
struttura del processo sociale che implica una determinazione
quantitativa dei prodotti sotto la forma di valore? La sola
«risposta» che l'economia politica è
in grado di fornire a questo problema (risposta senza domanda
esplicita) consiste nell'indicare, come correlato dello scambio,
la divisione del lavoro in generale, indipendentemente dalla
forma sociale secondo la quale essa accade. 2) Elimina altresì
il problema: quali sono le condizioni che fanno della forza-lavoro
stessa (l'economia politica dice: «del lavoro»
) una merce, dotata di un determinato valore e che permettono
di considerarla come tale nella valutazione del prodotto? L
'economia politica pone solamente come un fatto, assolutamente
enigmatico, l'equivalenza media tra il valore dei mezzi di consumo
necessari ai lavoratori e il valore della forza-lavoro stessa.
Essa occulta il mistero di questo fatto sotto l'evidenza della
«categoria irrazionale» del salario come
«prezzo del lavoro», con forme al suo «valore».
Sono queste due domande rimosse dall'economia politica che l'analisi
di Marx pone al contrario fin dall'inizio nel Capitale
e che aprono un nuovo campo problematico.
Ma queste due domande non possono essere trattate indipendentemente
l'una dall'altra, né indipendentemente dall'esistenza
dello sfruttamento, del quale anzi impongono di studiare le
forme storiche. La determinazione del valore della forza lavoro
nel processo di riproduzione della forza lavoro come merce si
basa sulle forme della lotta di classe che riducono tendenzialmente
il consumo dei lavoratori alla semplice riproduzione della loro
forza. Si basa dunque sull'espropriazione dei lavoratori, poi
sul mantenimento della concorrenza tra di loro, che assicura
sotto forme specifiche di ciascuna fase del capitalismo lo sviluppo
di un «esercito industriale di riserva»
(dato ignorato dalla «legge di bronzo»
di Lassalle).
Più a fondo ancora, l'analisi del «lavoro sociale»
come fonte del valore rinvia direttamente allo sfruttamento.
Come mostra Marx all'inizio del Capitale, lo sviluppo
della forma valore presuppone esso stesso il «doppio
carattere del lavoro», «lavoro concreto»
da una parte, differenziato secondo le branche di una divisione
sociale del lavoro (che il capitalismo costantemente approfondisce
e modifica), «lavoro astratto» dall'altra,
incorporato dai mezzi di produzione, lavoro esistente nei termini
di «semplice erogazione di forza umana».
Ora, solo il modo di produzione capitalistico trasforma i mezzi
di produzione in «monopolio» di una classe
particolare, separati dalla forzalavoro in modo tale da consentire
di utilizzarli come mezzi per «pompare»
lavoro umano indipendentemente da ogni utilità immediata
di questo lavoro (per i produttori ma anche per i proprietari
dei mezzi di produzione). Solo tale modo di produzione conferisce
una forma universale e sviluppata, su scala sociale complessiva,
al processo nel quale appaiono e si condizionano reciprocamente
i due «caratteri», astratto e concreto,
del lavoro sociale. Agli occhi di Marx, è dunque il processo
stesso di produzione del «plusvalore»,
dunque di accumulazione del capitale, di concentrazione e di
monopolio dei mezzi di produzione, che riproduce in permanenza
la forma di valore di tutti i prodotti e della stessa forza-lavoro.
L'analisi di Marx porta così ad un «rovesciamento»
paradossale agli occhi degli economisti: invece di sviluppare
le conseguenze di una definizione generale del valore o le conseguenze
di un principio quantitativo di determinazione dei valori, l'uno
e l'altro ricavati dalle «evidenze» della
pratica del capitalista, espone una forma particolare
di organizzazione del lavoro sociale che implica un antagonismo
permanente, inconciliabile. Egli ne deduce le condizioni
storiche che vincolano l'accumulazione capitalistica, ed apre
nello stesso tempo il problema della trasformazione storica
di queste condizioni. Invece di definire lo sfruttamento come
la conseguenza di un meccanismo economico (per esempio di ripartizione
ineguale) Marx al contrario definisce le forme economiche come
dei momenti e degli effetti dello sfruttamento, del quale egli
per la prima volta fornisce un'analisi obiettiva. Si può
allora comprendere perché la categoria di valore si configura
immediatamente come la categoria teoricamente nevralgica,
discriminante. Essa rappresenta infatti il punto di «scontro»,
cioè il punto di divergenza permanente, inconciliabile
tra il materialismo storico e l'economia politica. A seconda
che il punto di questa divergenza sia o meno evidenziato, l'oggetto
stesso della critica di Marx viene o meno riconosciuto, a cominciare
da Marx stesso, come abbiamo visto richiamando le formulazioni
di Per la critica. ..sistematizzate da Engels nella
distinzione tra modalità «logica»
e «storica» della critica. Il termine «valore»
funziona nello stesso tempo come una categoria economica che
figura esplicitamente o implicitamente alla base del ragionamento
economico e (nel materialismo storico) come una determinazione
di forma storica del processo sociale di sfruttamento. È
questo il motivo per cui a proposito di esso si pone in permanenza
il problema della «critica dell'economia politica». L'economia politica non può rendere conto del
materialismo storico. Ma il materialismo storico può
rendere conto dell'economia politica e definirla come
una rappresentazione ideologica implicata nelle forme oggettive
dello sfruttamento capitalistico.
6. A partire da qui Marx è in grado di avanzare una tesi
più precisa sulle condizioni storiche e sociali di esistenza
di una «economia politica» nel senso che
si è appena indicato. Questa tesi è legata alla
distinzione tra l'«economia scientifica»
e l'«economia volgare». Si vedano in particolare
su questo punto le Teorie sul plusvalore, capitolo
10, dove questa distinzione è proposta a partire da quella
tra le «due parti», «esoterica»
ed «essoterica» della teoria economica
in Smith e in Ricardo. Nel Poscritto alla seconda edizione
tedesca del Capitale (1873), Marx procede oltre: espone
come un solo processo complesso, articolato in fasi successive,
lo sviluppo (contraddittorio) dell'economia politica e la storia
delle lotte di classe in Europa. «L'economia politica,
in quanto è borghese, cioè in quanto concepisce
l'ordinamento capitalistico, invece che come grado di svolgimento
storicamente transitorio, addirittura all'inverso come forma
assoluta e definitiva della produzione sociale, può rimanere
scienza soltanto finche la lotta delle classi rimane latente
o si manifesta soltanto in fenomeni isolati» (C,
I, 3839).
In particolare, per tutto il tempo in cui questa lotta non è
organizzata sul versante proletario. n periodo classico dell'economia
politica si chiude nel 1820, con Ricardo, che formula «ingenuamente»
l'opposizione degli interessi economici di classe «come
la legge naturale immutabile della società umana»,
e con ciò «la scienza borghese dell'economia
era anche arrivata al suo limite insormontabile» (ivi). In seguito, nello stesso tempo in cui l'antagonismo del
capitale e del proletariato rimane celato da quello tra il capitale
industriale e la proprietà fondiaria, si sviluppano le
contraddizioni interne dell'economia politica. «Col
1830 subentrò la crisi che decise una volta per tutte.
La borghesia aveva conquistato il potere politico in Francia
e in Inghilterra. Da quel momento la lotta fra le classi raggiunse
tanto in pratica che in teoria, forme via via più pronunciate
e minacciose. Per la scienza economica borghese quella lotta
suonò la campana a morto. Ora non si trattava più
di vedere se questo o quel teorema era vero o no; ma se era
utile o dannoso, comodo o scomodo al capitale, se era accetto
o meno alla polizia. Ai ricercatori disinteressati subentrarono
pugilatori a pagamento, all'indagine scientifica spregiudicata
subentrarono la cattiva coscienza e la malvagia in tenzione
dell'apologetica.» (C, I, 40). Dopo le rivoluzioni
del 1848-49 si entra nel periodo della della composizione dell'economia
politica, della sua trasformazione in «economia volgare». E, nello stesso tempo, il socialismo acquisisce una forma
scientifica, sviluppa la critica dell'economia politica:
«Se e in quanto tale critica rappresenta una critica generale,
può rappresentare solo la classe la cui funzione storica
è il rovesciamento del modo di produzione capitalistico
e, a conclusione, l'abolizione delle classi: cioè il
proletariato.» (C, I, 41)
È necessario vedere qui ben più di un «relativismo»
politico o di un «sociologismo» semplice,
che fa dell'economia politica, e poi del socialismo, la coscienza
collettiva di un'epoca o di una classe. La storia della teoria
non rinvia in linea diretta alla posizione di ciascuna classe,
bensì alla forma della loro contraddizione complessiva.
n rapporto non è tra ciascuna classe e la «sua»
teoria, ma tra la forma delle contraddizioni di classe e la
forma delle contraddizioni nella teoria. L'economia classica
è «scientifica» formalmente, nella
misura in cui ricerca delle spiegazioni oggettive che risalgono
ai principi e non si accontentano di elaborare l'ideologia economica
implicata nelle tecniche della gestione degli «affari»,
nelle politiche dello stato.
Essa rinvia alla lotta del capitale (industriale) contro la
proprietà fondi aria (e più il modo di produzione
capitalistico si sviluppa, più questa lotta si limita
ad uno scontro per una determinata ripartizione del plusvalore
tra le fazioni della classe dominante). L'economia politica
cristallizza questo punto di vista nella figura del «produttore-scambiatore», homo oeconomicus per eccellenza, teso a liberarsi da
ogni ostacolo. In questa misura l'economia politica non può
rappresentare l'opposizione degli interessi del capitale e del
proletariato che come una contraddizione secondaria, non antagonistica.
Essa contiene dunque sempre già un elemento «volgare»,
«apologetico» (l'elemento «esoterico»
di Smith sempre presente nel nucleo della teoria di Ricardo,
con la «teoria dei tre fattori della produzione»:
Terra, Capitale e Lavoro).
Si può allora sostenere che ciò che conferisce
all'economia classica la sua forma «scientifica»,
ciò che decide dall'interno la produzione delle sue «astrazioni
scientifiche» è precisamente la combinazione
dell'elemento oggettivo e di quello volgare: la combinazione
dell'elemento di riconoscimento e dell'elemento di misconoscimento
delle lotte di classe nell'unità della medesima problematica.
Combinazione necessaria e contraddittoria, caratteristica dell'economia
politica, e che la fa esistere come «teoria».
L'elemento «scientifico», se poteva essere
sottratto alla sua combinazione con l'elemento «volgare»,
non sarà più «economia»;
quanto all'elemento volgare isolato, prodotto dalla decomposizione
dell'economia politica, è a mala pena o non è
affatto più teoria economica (anche quando prende una
forma matematica). Esso tende a ritornare all'ideologia politico-giuridico-morale
che maschera le tecniche dello sfruttamento.
Nello stesso Poscritto del 1873, Marx non suggerisce
che un'eccezione assai interessante, quella di J. Stuart Mill
con il «suo tentativo di conciliazione dell'inconciliabile»,
cioè la conciliazione dell'«economia politica
del capitale con le richieste del proletariato»,
in altre parole con il socialismo. Essa ritrova così,
malgrado il suo eclettismo, una «combinazione»
formalmente analoga a quella dell'economia classica (e non è
fuori luogo chiedersi se una diagnosi analoga non potrebbe essere
riferita anche a teorici posteriori, come Keynes...).
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