piccolo dizionario marxista

concezione materialistica della storia


Cesare Luporini

La «concezione della storia» cioè la teoria della storia è uno dei pilastri del pensiero critico rivoluzionario di Marx e di Engels. A prima vista appare tuttavia singolare che ad essa particolarmente Marx non abbia dedicato pubblicamente nessuno scritto organico, sia pur breve, se si fa eccezione di alcune famose pagine della Prefazione (1859) a Per la critica della economia politica, pagine che costituiscono un denso nucleo teorico incastonato in un rapido schizzo di autobiografia intellettuale. Questa circostanza ha però radici teoriche coessenziali alla ricerca marxiana. Nella sede stessa, privilegiata, della critica dell'economia politica, in cui si sviluppa e campeggia l'analisi del modo di produzione capitalistico, la struttura emergente della teoria è tale per cui se non viene respinta l'idea di una scienza della «produzione in generale» essa si restringe tuttavia a poche categorie, e a un numero molto limitato di costanti che variamente si combinano, coordinandosi o subordinandosi, nel corso storico delle società umane. Ciò ha dato una forte improna alla forma mentis di Marx e al suo modo stesso di avvicinare la problematica della storia. È decisivo tenere presente che nonostante la sua formazione nell'area hegeliana dove erano preminenti i problemi della storia e della storiografia non è da una generale problematica della storia che Marx arriva alla sua concezione della società. Al contrario, è muovendo dai problemi di analisi della «attuale società» (cioè di quella moderna borghese) che egli si apre il varco alla teoria della storia, interrogandosi sulla genesi storica di tale società, e in primis del rapporto capitalistico divenuto in essa dominante. Un varco stretto, dunque, attraversato il quale la problematica di Marx si allarga a tutti gli aspetti del convivere sociale (e storicosociale).
Elemento determinante di questo passaggio è l'adesione di Marx al comunismo, cioè alla radicale messa in questione della «proprietà privata». La parola «adesione» può essere però deformante poiché si trattava di un comunismo ancora tutto da pensare, di un «nuovo comunismo» (rispetto a quelli teoreticamente e praticamente esistenti) di cui Marx all'inizio sa una cosa sola: esso deve potersi radicare nel contesto dello sviluppo storico attuale per avere una validità non utopica (o soltanto utopico-critica). Questa è la peculiarità del programma teorico e pratico di Marx.
In queste complesse istanze sta dunque la radice da cui si svolge anche la visione marxiana della storia. Isolarla da esse significa deformarla, renderla accademica o scolastica. L'ultima delle famose Tesi su Feuerbach (1845) suona appunto: «I filosofi hanno solo interpretato il mondo in modi diversi, si tratta però di mutarlo», ove lo iato evidente tra la prima e la seconda parte dell'asseverazione è colmo di problematicità da esplicare. Questa situazione di partenza non toglie nulla, nell'ottica di Marx, all'autonomia della teoria e, in generale, della scienza, a cui Marx teneva moltissimo, per disposizione mentale, ma anche perché vede in essa uno strumento essenziale per denunciare e smascherare gli aspetti di dipendenza da interessi di classe delle concezioni (storiche, sociali, economiche, ecc.) che egli si trova a combattere.
Nel suo concetto pur altamente pragmatico non la verità (teorica, scientifica) dipende dalla rivoluzione, ma la possibilità della rivoluzione vien fatta dipendere da una verità criticamente raggiunta e dimostrata. Alla ricerca di questa verità appartiene, per le ragioni anzidette, la tematica della storia. Che ai suoi enunciati teorici generali Marx abbia riservato uno spazio molto ristretto, se, per contrasto, procurò grande rilevanza alle pagine della Prefazione del 1859 (forse al di sopra delle stesse intenzioni di Marx), è un fatto che non cancellava l'esigenza, verificatasi a un certo momento, di una più distesa o meno concisa esposizione. Come in altri casi analoghi di bisogno di diffusione e popolarizzazione degli aspetti generali e complessivi della teoria, o dei suoi punti di vista fondamentali, ma anche di organizzazione sistematica delle loro conseguenze in campi diversi del sapere e dell'agire (e prima di tutto in quello politico-sociale), a tale bisono dette soddisfazione Fridrich Engels, inizialmente forse non troppo incoraggiato da Marx, ma comunque sempre da lui avallato. Questo accadde col celebre Antidühring (1878), opera cui toccò con l'andare del tempo una straordinaria fortuna internazionale quale veicolo di quel «complesso di dottrine» o «dottrina complessa» che dopo la morte di Marx (1883) sempre più fu chiamato «marxismo».
Uno dei capitoli del la terza parte dell'Antidühring (intitolata «Socialismo») inizia con le parole «La concezione materialistica della storia...». Questa espressione (insieme a quella più sintetica di «materialismo storico») entrerà largamente nell'uso, in parallelo con l'altra, «socialismo scientifico» elaborata nell'opuscolo engelsiano pubblicato 088f) \?Qhi mei prima della morte di Marx, L'evoluzione del socialismo dall'utopia alla scienza (rifusione di tre capitoli dello stesso Antidilhring), per designare e circoscrivere l'aspetto rivoluzionario della teoria marxiana. In questo assestamento il «materialismo storico» si presenta come la premessa necessaria del «socialismo scientifico», mentre serba una certa sua autonomia epistemologica rispetto a quest'ultimo. Sono nati così i due grandi «scenari» che inquadrarono, a posteriori, il pensiero di Marx, e che domineranno a lungo, mediandone la trasmissione.
Importantissimi, specialmente per la storia della cultura del movimento operaio socialista e delle sue organizzazioni politiche, o rivoluzionarie. Ma è anche dubitabile che siffatto assestamento corrispondesse all'andamento più profondo e alla criticità intrinseca del pensiero di Marx. Tuttavia se oggi si vuoI penetrare nel vivo della problematica di Marx, è opportuno liberarsi da tali «scenari» e dal «marxismo» stesso (o dai «marxismi» in genere). La dizione, tuttavia, «materialismo storico», nella sua rappresa semanticità anche polemica («materialismo» ma «storico»; storia globale o integrata, ma su basi materialistiche) serba sufficiente verità e utilità da poter ancora essere usata quale approssimazione e indicazione problematica di un determinato modello di teoria.
È la teoria esposta da Marx precipuamente nelle ricordate pagine della Prefazione del 1859. Essa è da lui presentata come un «risultato generale» a cui egli era precedentemente pervenuto, che gli serve, una volta acquisito, da «filo conduttore» nei suoi studi. Ma come un «risultato generale» può a sua volta servire da «filo conduttore»? Se si guarda al contesto, cioè al contenuto esposto, ci si accorge che si tratta, appunto, di una teorizzazione, la quale consente di proseguire in detti «studi» (economici, sociali, storici, politici, ecc.) dal cui precedente avvio essa è sorta: lo stabilirsi, cioè, di un particolare livello di teoria, pressoché una meta-teoria (ancorché non allo stato puro e formalizzato) rispetto ad essi, che ne determina le categorie fondamentali di ricerca ( «modi di produzione» storici, e corrispondenti «formazioni sociali»), destinate ad entrare in azione nelle analisi particolari, via via organizzando categorie subordinate. Come Marx è pervenuto a questo «risultato generale» (che dovremmo esaminare e discutere anche in se stesso)? Questa domanda è importante non solo filologicamente ma per riuscire a dar corpo, teoreticamente, a una esposizione altrimenti così concia (e perfino ellittica, in qualche punto). Inoltre una tale storicizzazione rispetto al passato dello stesso Marx, a cui egli in certo modo ci invita (parlando di «risultato generale») convoglia una storicizzazione simmetrica rispetto al futuro, poiché quel testo teorico o metateorico non è certo l'ultima parola di Marx intorno alla storia. Siamo all'incirca a metà di un lungo percorso di cui Marx ci indica le origini (negli anni 1844 e 1845). In poche parole: senza diminuirne l'importanza, il testo del 1859 va relativizzato, anche teoricamente, e non ipostatizzato, come spesso è avvenuto. Anche ciò che abbiamo detto metateoria (in quanto teoria della storia) ha una storia, non racchiudibile in un solo testo.
È lo stesso Marx dunque, in queste pagine, a indicarci il luogo di origine della sua concezione della storia (e della società) precipuamente in quel manoscritto della Ideologia tedesca che egli tuttavia (con Engels) non rimpiange di aver lasciato, a suo tempo, alla «critica roditrice dei topi», poiché è in grado di fornircene il «risultato generale». Oggi, dopo la pubblicazione (1932) della Ideologia tedesca siamo in condizione di verificare analiticamente la misura di questa corrispondenza. Nella Ideologia tedesca, particolarmente nella sua prima parte (intitolata «Feuerbach» , troviamo il materialismo storico allo stato nascente, quindi anche pieno di imperfezioni, in un'esposizione apparentemente disordinata, con molte insufficienze (soprattutto per ciò che concerne la conoscenza dell'economia politica), ma anche con una carica ricchissima di potenzialità che non tutte poi troveranno in Marx proporzionato sviluppo analitico, rimanendo esse in lui più tardi parzialmente sottintese, anche se non inoperanti. Tocca a noi dunque esplicarle nei loro valori essenziali. Il titolo, Ideologia tedesca, allude a un nuovo significato prodotto da Marx del termine «ideologia».
La «critica della ideologia» ( e in particolare di quella «tedesca» ) è il medium stesso entro cui si stabilisce all'origine il materialismo storico come concezione antiidealistica e antispeculativa (nel senso hegeliano del termine «speculazione»).Il materialismo storico nasce da questa opposizione a una filosofia (speculativa) che pretende di essere «senza presupposti». Marx ed Engels fanno valere il richiamo ad alcuni presupposti necessari di ogni «storia» che solo l'immaginazione speculativa può rimuovere (falsando le cose). Si tratta del fondamento naturale nella produzione e riproduzione della «vita immediata», innanzi tutto intesa nella sua materialità e nei suoi condizionamenti fisici, anche orogeografici; e quindi nei bisogni elementari correlativi (mangiare e bere, l'abitazione, il vestire, ecc.), che costituiscono un livello permanente di necessità, valido «ogni giorno e ogni ora», «oggi come millenni addietro, semplicemente per mantenere in vita gli uomini». Il punto di partenza della considerazione è dunque nella produzione e riproduzione della vita immediata (materiale) e nel fatto, evidente anche al senso comune, che «il modo in cui gli uomini producono i loro mezzi di sussistenza, dipende prima di tutto dalla natura dei mezzi di sussistenza che essi trovano e che debbono riprodurre» (IT, 17). Dunque ciò che viene messo in rilievo è prima di tutto una relazione di «dipendenza» e di «condizionamento» fisici. A questo punto si inserisce la visione più propriamente marxiana, che allarga (in certo senso filosoficamente) quest'albeggiante nozione del modo di produzione dei mezzi materiali di sussistenza.
«Questo modo di produzione - dice Marx - non si deve giudicare solo in quanto è la riproduzione dell'esistenza fisica dell'individuo; anzi esso è già un modo determinato dell'attività di questi individui; un modo determinato di estrinsecare la loro vita, un modo di vita determinato. Come gli individui esternano la loro vita, così essi sono. Ciò che essi sono coincide dunque con la loro produzione, tanto con ciò che producono quanto col modo come producono» (ivi). In queste proposizioni è in nuce tutto il materialismo storico (tranne le tesi relative alla coscienza e alla ideologia). In esse è evidente il passaggio da una considerazione meramente fisicale (di dipendenza e condizionamento) a una considerazione ontologica (onde si produrrà più tardi la nozione di «essere sociale») che assume la prima mediante lo sdoppiarsi di «produzione» in un «ciò che» e in un «come».
Alla relazione di dipendenza fisica viene sovrapposta una relazione di essere che la assorbe e che viene subito, in una qualche misura, strutturata. E strutturata circolarmente. «Questa produzione non appare che con l'aumento della popolazione [vedremo oltre la portata di ciò] e presuppone a sua volta relazioni tra gli individui. La forma di queste relazioni è a sua volta condizionata dalla produzione» (IT, 17). Appare, in questa strutturazione, una nozione che avrà sviluppi decisivi per il materialismo storico racchiusa nella endiadi «forma di relazioni» in cui ambedue i termini («forma» e «relazioni») hanno uguale peso, poiché il secondo designa il contenuto del primo. Marx propone un concetto relazionale delle società umane, che egli
manterrà sempre, opponendolo esplicitamente alle concezioni aggregative, come mere somme di individui in qualche modo accorporati. Ciò rende possibile determinare un «punto di vista» della società, distinto da quello degli individui esistenzialmente considerati. Le società umane hanno sempre una «forma» in quanto appunto «forma di relazioni» che è «connessa col modo di produzione e da esso generata», e «determinata dalle forze produttive esistenti» (la nozione di «forze produttive» del lavoro, desunta dall'economia politica, avrà un grande ruolo nelle sue analisi).
Marx è cosciente di operare con astrazioni che possono valere solo in quanto passibili di verifica empirica. A quest'ultima è annessa enorme importanza nella Ideologia tedesca, quale momento risolutivo e esauriente di ogni determinazione concettuale (fino a dire provocatoriamente che «ogni profondo problema filosofico si risolve con la massima semplicità in un fatto empirico»). L'esigenza rimarrà sempre in Marx, anche se non in questa forma estremizzata: essa verrà in qualche modo riequilibrata dalla problematica relativa alle forme delle relazioni sociali. E tuttavia Marx anche nella Ideologia tedesca non accetta di dichiararsi empirista e sembra prendere una certa equidistanza negativa fra «empiristi» e «idealisti», ma per la sola ragione (quanto ai primi) che gli empiristi non scorgerebbero nella storia un «processo di vita attivo» («processo di sviluppo, reale ed empiricamente constatabile», si ribadisce), ma soltanto «una raccolta di fatti morti». La processualità a tutti i livelli (fisico-biologico, storico-sociale, «spirituale») è invece sempre messa in primo piano come concetto via via assorbente e articolante tutte le altre determinazioni. Epperò essa non è considerata come flusso continuo, ininterrotto e omogeneo, proprio per il suo combinarsi con le forme che da essa emergono, che relativamente via via la stabilizzano (fin dal ripetersi dei processi naturali e biologici, e, più in generale, dall'affiancarsi di una tematica della riproduzione a quella della produzione), per poi essere sostituite da altre sotto l'impulso di una processualità che può quindi entrare in conflitto con ciò che ha generato.
Nello sviluppo delle società umane (in quanto «empiricamente constatabile») questo elemento dinamico viene indicato da Marx come incremento delle forze produttive del lavoro (nella Ideologia tedesca strumenti di produzione, capacità tecniche). Ma nella visione di Marx questo incremento non è considerato un movimento originario (il che nella Ideologia tedesca veniva registrato con la proposizione, ancora molto ellittica, che la «produzione non appare che con l'aumento della popolazione»). L'efficacia delle forze produttive sui mutamenti delle forme di relazione (in cui ben presto si distingueranno i «rapporti di produzione», corrispondenti ai giuridici «rapporti di proprietà»), richiede un certo livello del loro sviluppo che dovrà corrispondere a condizioni da scoprirsi.
Nella Ideologia tedesca e forse ancora meglio nella successiva Miseria della filosofia (1847), appare che le «forme di relazione» (e poi i «rapporti di produzione») sono sistemi dell'interagire pratico umano che da esso emergono (nel loro variare e succedersi storico) e che lo contengono. Tale interagire suppone, secondo Marx, una funzione costante (anche se assume forme storiche diverse): la «cooperazione di più individui». In essa si saldano e si articolano naturalità e socialità in modi specificamente umani. Si tratta nella visione di Marx di un nesso originario e permanente. «La produzione della vita egli scrive tanto della propria nel lavoro quanto dell'altrui nella riproduzione, appare come un duplice rapporto: naturale da una parte, sociale dall'altra; sociale nel senso cpe si attribuisce alla cooperazione di più individui, non importa sotto quali condizioni, in quale modo e per quale scopo» (IT, 28). Ecco dunque la funzione costante, che infatti viene subito generalizzata: «Da ciò deriva che un modo di produzione o uno stadio industriale determinato è sempre unito con un modo di cooperazione o uno stadio sociale determinato e questo modo di cooperazione è anch'esso una forza produttiva» (ivi) (la opposizione tra rapporti di produzione e forze produttive non è quindi assoluta).
Il sociale e l'economico appaiono così indissolubilmente imbricati tra loro, in Marx: è proprio su questo sfondo originario che la sua analisi successiva potrà mettere in luce il relativo autonomizzarsi di meccanismi economici come quello che si ha con lo stabilirsi del modo di produzione capitalistico.
Su queste basi Marx è in condizioni di poter rendere conto dell'evoluzione storica e della sua progressività. Infatti la «cooperazione» si sviluppa attraverso la divisione sociale del lavoro, a sua volta condizionata da tre incrementi: accresciuta produttività del lavoro, aumento dei bisogni e aumento della popolazione. Ma questa crescita implica il vario combinarsi di tre «momenti» (parola filosofica, adoperata da Marx cum grano salis).
Essi sono la «forza produttiva», la «situazione sociale» e la «coscienza», i quali «possono e debbono entrare in contraddizione tra loro, perchéì con la divisione del lavoro si dà la possibilità, anzi la realtà, che l'attività spirituale, e l'attività materiale, il godimento e il lavoro, la produzione e il consumo tocchino a individui diversi». Infatti divisione del lavoro significa sempre anche «ripartizione del prodotto». Quando l'incremento produttivo rende possibile una «ripartizione ineguale» si ha «una proprietà - dice Marx - che corrisponde già perfettamente alla definizione degli economisti moderni, secondo cui essa consiste nel disporre di forza lavoro altrui».
Perciò Marx può dire che «i diversi stadi di sviluppo della divisione del lavoro sono altrettante forme diverse della proprietà»: nel senso che «ciascun nuovo stadio della divisione del lavoro determina anche i rapporti tra gli individui in relazione al materiale, allo strumento e al prodotto del lavoro». Qui troviamo già definito il contenuto di quelli che Marx ben presto chiamerà, come si è accennato, «rapporti di produzione» (specificazione delle «forme di relazione»). Si generano così, a partire dalle precedenti istituzioni comunitarie o tribali (e dapprima all'interno di esse) i gruppi sociali e gli antagonismi di classe, con la loro conflittualità (saranno poi considerati da Marx forza motrice della storia). Ma ciò è proiettato da Marx, nella Ideologia tedesca, in un quadro complesso, almeno per ciò che concerne situazioni di già elevato sviluppo e civiltà, nel quale tuttavia rimangono categorie dominanti «cooperazione» e «divisione del lavoro»: «La divisione del lavoro all'interno di una nazione porta con sé innanzi tutto la separazione del lavoro industriale e commerciale dal lavoro agricolo e con ciò la separazione tra città e campagna e il contrasto dei loro interessi. Il suo ulteriore sviluppo porta alla separazione del lavoro commerciale da quello industriale. In pari tempo, attraverso la divisione del lavoro all'interno di questi diversi rami, si sviluppano a loro volta suddivisioni diverse tra individui che cooperano a lavori determinati. La posizione reciproca di queste singole suddivisioni è condizionata dai metodi impiegati nel lavoro agricolo, industriale e commerciale (patriarcalismo, schiavitù, ordini, classi). Quando le relazioni sono più sviluppate, le stesse condizioni si manifestano nei rapporti tra diverse nazioni».
Si è scoperta così quella che verrà chiamata da Marx «forma antagonistica della società» (ovviamente, di società sviluppate). Essa comporta il dominio di classe e la oppressione di classe, basate sullo sfruttamento. Nella Misea della filosofia Marx enuncia questa specie di assioma: l'esistenza di «una classe oppressa è la condizione vitale di ogni società basata sull'antagonismo delle classi» (MF, 224). (E ne trae il corollario che l'emancipazione della classe oppressa implica necessariamente la creazione di una società nuova). La classe è «oppressa» in quanto sfruttata (economicamente ) e dominata (politicamente), concetti convergenti ma non identici. Si apre così anche una problematica del «dominio».
È un fraintendimento tuttavia della dinamica del pensiero di Marx vedere la radice ultima del dominio, nella divisione in classi antagonistiche, in questo fenomeno derivativo che richiede tante peculiari condizioni storiche per il suo realizzarsi. Quella radice appare più profonda in Marx e, soprattutto, è concettualmente autonoma, anche se il suo terreno rimane quello della cooperazione, nel suo complicarsi attraverso la divisione sociale del lavoro.
Qui interviene un altro lato del naturalismo di Marx. Ripetutamente egli assevera che la cooperazione, la quale si sviluppa nella divisione del lavoro, è «naturale» e non «volontaria» (in questo contesto naturale è dunque opposto a volontario), intendendo che essa sorge e si evolve in condizioni di socialità i cui rapporti non sono stati scelti dai soggetti, ma si sono stabiliti, e si evolvono, indipendentemente dalle loro volontà individuali. Questo è possibile perchéì attraverso la cooperazione sviluppata nella divisione del lavoro si fissa e si consolida un «potere obbiettivo» sociale, che sfugge al controllo degli individui dalla cui cooperante attività pratica, moltiplicatrice di forza produttiva, pur si origina (permanentemente).
Qui il discorso di Marx, in modo pressoché inavvertito, trapassa dal piano della descrivibilità, o ricostruibilità, empirica a un piano che possiamo dire ermeneutico; che egli tuttavia ci presenta non come un'aggiunta sua propria, ma, anzi, come qualcosa che sarebbe immanente a una esperienza storica degli uomini, secolare e diffusa, la quale nella visione di Marx diventa un punto di riferimento fondamentale. «Il potere sociale - egli dice - cioè la forza produttiva moltiplicata che ha origine attraverso la cooperazione di più individui, determinata nella divisione del lavoro, appare a questi individui, poiché la cooperazione stessa non è volontaria ma naturale, non come loro proprio potere unificato, ma come una potenza estranea, posta al di fuori di essi, della quale non sanno donde viene e dove va...» (IT, 33). Si tratta, aggiunge Marx, di qualcosa «che è stato fino ad oggi uno dei momenti principali dello sviluppo storico» (ivi). L'estraneità è dunque vissuta e percepita come tale dagli individui associati in quanto potere al di fuori di loro stessi, di cui essi non conoscono ne l'origine ne la direzione successiva dei suoi effetti. Questo è, aggiunge Marx, il contenuto reale di ciò che i filosofi hanno indicato con il termine «estraneazione» .
Questa posizione di Marx radicata nel suo peculiare naturalismo (ora nella forma della opposizione di «naturale» e «volontario»), del tutto opposto a quello feuerbachiano della Gattung o «genere» (che, secondo Marx, si lascia necessariamente sfuggire il «corso della storia» ) ha una funzione non trascurabile nel formarsi della sua visione storica. Essa tende dinamicamente a render conto di un «potere oggettivo» nel vivere sociale degli uomini (il quale si presume esser sentito da essi come «potenza estranea») che sarà determinante anche nell'analisi del Capitale (attraverso il «feticismo delle merci» e il «feticismo del capitale») e non a caso verrà considerato da Marx, con le «leggi bronzee» che il rapporto capitalistico impone, quale una «seconda natura». Va detto però che anche a questo livello che si è detto ermeneutico Marx mira a dare, nella stessa Ideologia tedesca, un immediato riscontro empirico, con una fulminea proiezione nella contemporaneità, o attualità, che recupera e despeculativizza la nozione hegeliana di storia universale non come dato originario e permanente, ma come risultato empiricamente storico, inerente alla creazione capitalistica di un mercato mondiale. «Nella storia fino ad oggi trascorsa è certo un fatto empirico che i singoli individui, con l'allargarsi dell'attività sul piano storico universale, sono stati sempre asserviti a un potere loro estraneo, a un potere che è divenuto sempre più smisurato e che in ultima istanza si rivela come mercato mondiale» (IT, 36). Questo singolare intreccio concettuale di «storia universale», «mercato mondiale» e «potenza estranea» (nonché di rivoluzione industriale, o delle macchine) non è per Marx qualcosa che passa sopra la testa dei «singoli individui» (come la storia del mondo di Hegel), ma è qualcosa che li concerne esistenzialmente non meno del loro esser sussunti in ruoli sociali determinati dalla divisione del lavoro. Il che vale, naturalmente, anche per popoli, nazioni, stati. («Per esempio - egli dice - se in Inghilterra viene inventata una macchina che riduce alla fame innumerevoli lavoratori in India e in Cina e sovverte tutte le forme di esistenza di questi imperi, questa invenzione diventa un fatto storico universale») .
È stato detto autorevolmente (da Eric Hobsbawm) che per Marx «il contenuto della storia nella sua forma più generale è il progresso». È un'asserzione che non può esser respinta, ma che va presa con avvedutezza. Marx non ha mai tematizzato il «progresso» e la parola stessa si trova adoperata da lui generalmente in forma aggettivale «progressivo», al singolare o al plurale) poiché Marx si oppone a ogni visione finalistico aprioristica del corso storico, del «progresso» non possono esser dati che criteri empirici, i quali sono quelli stessi inerenti alla concezione materialistica della storia, come progressivo e constatabile incremento del dominio dell'uomo sulle forze naturali nel cui contesto è inserito (e che comporta incremento delle forze produttive). È un progresso verificato a posteriori, che c'è quando c'è, e dal punto di vista della società non esclude stagnazioni e regressi (per esempio distruzioni di civiltà, e quindi anche di forze produttive), mentre dal punto di vista esistenziale degli individui si presenta come specificazione ma anche parcellizzazione delle loro capacità e disposizioni naturali. Il moderno ingresso complessivo delle società umane in una «storia universale» cambia o comunque rende più complessa la problematica del progresso, una volta che essa si indirizzi non più soltanto al passato (per ordinarlo conoscitivamente), ma al futuro. O meglio indirizzi al pratico «mutamento» del «mondo» presente, a quel «rovesciamento dello stato attuale della società» in cui per Marx consiste il senso del «movimento» comunista. Il parametro di valutazione materiale rimane confermato (nella tarda Critica del programma di Gotha (1875) Marx vedrà in un non impacciato «fluire delle forze produttive» una condizione fondamentale per il passaggio al comunismo), ma se ne aggiunge ora uno «spirituale» come lo chiama Marx, ancorché anch'esso del tutto evidenziabile empiricamente. Esso concerne i singoli individui e la liberazione di essi non solo dai limiti imposti alla personalità dalla divisione del lavoro, ma dalla povertà spirituale dovuta alla ristrettezza localistica del loro mondo di relazioni, poiché Marx stabilisce l'assioma (in ultima analisi anch'esso comportamentistico) che «la ricchezza spirituale reale dell'individuo dipende interamente dalle sue relazioni reali» (onde anche il vantaggio «spirituale» storico delle classi dominanti rispetto a quelle dominate). Le nuove condizioni di universalità create dalla rivoluzione borghese-capitalistica e dalla sua espansione mondiale hanno avuto il merito di rompere «l'originario isolamento delle singole nazionalità». Sotto questo riguardo universalistico la rivoluzione comunista, benché rovesciamento dell'attuale stato di cose, è in un nesso indissolubile con quella borghese, poiché la completa proprio in direzione della liberazione individuale. «Soltanto attraverso quel passo dice Marx i singoli individui vengono liberati dai vari limiti nazionali e locali, posti in relazione pratica con la produzione (anche spirituale) di tutto il mondo emessi in condizione di godere di questa produzione universale di tutta la terra (creazione degli uomini».
Non vi è dubbio che Marx abbia una visione siffattamente universalistica (empiricamente universalistica) della rivoluzione comunista, strettamente legata alla problematica dell'individuo: soltanto «allora egli dice verrà attuata la liberazione di ogni singolo individuo nella stessa misura in cui la storia si trasforma completamente in storia universale». (Nel Manifesto del partito comunista del 1848 si legge: «Il libero sviluppo di ciascuno è la condizione per il libero sviluppo di tutti». E non viceversa, che sarebbe per Marx un nonsenso).
Gli «individui locali» sono allora sostituiti da «individui inseriti nella storia universalevidui inseriti nella storia universale», da «individui empiricamente universali».
Rovesciamento rivoluzionario e continuità storica (rispetto al sistema borghese) sono dunque per Marx indissolubilmente saldati: «La dipendenza universale, questa forma spontanea della cooperazione degli individui su piano storico universale, è trasformata da questa rivoluzione comunista nel controllo e nel dominio cosciente di queste forze le quali, prodotte dal reciproco agire degli uomini, finora si sono imposte ad essi e li hanno dominati come forze assolutamente estranee». Ritroviamo qui attivizzato il livello ermeneutico che si è sopraindicato. Tutta questa problematica concerne la risposta che Marx si è avviato a dare alla domanda su come «il comunismo è possibile empiricamente». Da questa domanda che è in lui la più radicale, dipende (e non viceversa) la individuazione nel moderno proletariato industriale della forza storica interessata al mutamento rivoluzionario poiché qui la categoria della «possibilità» è quella decisiva si comprende come ogni ulteriore presunta «necessità» del passaggio dal capitalismo al comunismo (quale via di uscita dalle contraddizioni del primo) sia in Marx una necessità ipotetica o condizionale (a cui è alternativa la possibilità del regresso, della distruzione di forze produttive, del reciproco annichilimento delle classi in lotta, ecc.).
Questo passaggio condizionato dall'interrogativo sulla possibilità empirica del comunismo non urta perciò, nella visione di Marx, con la sua avversione concettuale a ogni finalistica «filosofia della storia», che è il terreno stesso (antiideologico e antispeculativo) su cui si è stabilito il suo «materialismo storico». Egli respinge con sarcasmo ogni visione teleologica del «corso storico», e quell'atteggiamento mentale per cui ogni dopo storico viene interpretato ( al contrario di quanto si può evincere empiricamente) quale «scopo», ancorché immanente, di ciò che lo ha preceduto e da cui si è svolto.
Gli unici «scopi» immanenti (e parziali) che, più tardi, Marx crederà di poter individuare sono le tendenze a riprodursi (e quindi a mantenersi) dei sistemi sociali, una volta stabiliti. Una specie di principio di inerzia dei medesimi, in qualche misura attenuato per quello capitalistico, in cui si sono resi relativamente autonomi i meccanismi economici e che in rapporto a ciò contiene l'esigenza - proprio per potersi riprodurre e mantenere - di rivoluzionarsi continuamente.
Nella Ideologia tedesca il «corso storico» è visto in modo ancora molto fluido quale non troppo precisata successione di stadi di sviluppo delle forze produttive, e soprattutto come susseguirsi di generazioni, accumulo e trasmissione ereditaria, resi possibili dalla «base reale» della storia. Paradossalmente sembra valere per il «modello» prevalente nella Ideologia tedesca l'affermazione secondo cui il passato funge da «struttura» per il presente. Sono bensì affermate nella Ideologia tedesca le «forme di relazione» (e cosi le «forme ideologiche»), ma la forza strutturante di queste forme non si vede come sia operativa in modi differenziali (le differenze sono empiricamente accolte dalla storia) nei diversi contesti sociali e nei passaggi relativi.
Il «risultato generale» esposto nella Prefazione del 1859 presuppone invece un potente rafforzamento sistemico che troviamo già presente in opere come la citata Miseria della filosofia. Ormai l'accento batte su questo elemento, con i perfezionamenti di concezioni che esso ha recato con sé, talché è possibile parlare di un nuovo modello, che assorbe quasi tutto ciò che costituiva l'originalità di quello precedente. Nella Prefazione del 1859 la concezione (che abbiamo detto metateorica) della storia è esposta da Marx in un'ottica retrospettiva, come frutto dei suoi precedenti studi. Al di là delle circostanze storico-genetiche rievocate da Marx egli fa emergere con nitidezza che la questione su cui ha fatto perno lo sviluppo della sua ricerca è stata quella dei «rapporti giuridici» e delle «forme statali», intorno a cui presero avvio i suoi «dubbi» circa la soluzione proposta nella Filosofia del diritto di Hegel. Sono quei rapporti che di lì a poche righe Marx raccoglie sotto il nome di «sovrastruttura» .
Qui si inserisce appunto il nuovo, potente elemento sistematico. Dopo aver riassunto rapidamente le posizioni centrali che abbiamo trovato espresse nella Ideologia tedesca Marx scrive: «L'insieme di questi rapporti di produzione costituisce la struttura economica della società ossia la base reale, sulla quale si eleva una sovrastruttura giuridica e politica e alla quale corrispondono forme determinate della coscienza sociale» (CEP, 5).
Questa dunque è la configurazione sistematica ora stabilita. Essa è raggiunta perfezionando la già preesistente logica di un ordine ascendente. Si ottiene una specie di architettonica concettuale a tre livelli: struttura economica (a cui si assimila la «base reale» che già conosciamo) e sovrastruttura giuridico-politica, legata alla prima da una relazione di dipendenza, e un ulteriore livello costituito dalle «forme sociali della coscienza» (o anche «forme ideologiche»), le quali appaiono libere rispetto al secondo livello ma poste in una relazione diretta di corrispondenza con la struttura economica. (Più oltre però Marx indulge ad assimilare nella nozione di «sovrastruttura» con l'espressione «gigantesca sovrastruttura» anche il livello delle «forme ideologiche», ingenerando non poche incertezze e confusioni nel successivo marxismo) Questo dunque il sistema, che si presenta in certo modo aperto verso l'alto: il sistema fissato attraverso un taglio statico. Ma subito Marx si preoccupa di caratterizzarlo dinamicamente reintroducendo la nozione di processualità, e insieme evidenziando una relazione di condizionamento unidirezionale: il modo di produzione della vita materiale condiziona in generale il processo di vita sociale, politico e spirituale. Una visione che intende avere carattere macroscopico (il condizionamento si produce in generale). A ben guardare i livelli sono diventati quattro, poiché ai tre «processi di vita» nominati è sotteso quello materiale del «modo di produzione». Ma questo scarto non può produrre troppa difficoltà se teniamo conto della stretta relazione fra economico e sociale che caratterizza il materialismo storico fin dall'origine. Va inoltre osservato che la relazione di corrispondenza (delle forme ideologiche o di coscienza) è qui risolta in una più
generica (per ora) relazione di condizionamento (dello «spirituale» da parte del «materiale»).Ma improvvisamente Marx ci pone di fronte ad una drastica dicotomia, affermando che «non è la coscienza degli uomini a determinare il loro essere ma il loro essere sociale a determinare la coscienza» (CEP, 5). Viene così introdotta una nozione nuova, quella di «essere sociale», che analiticamente non doveva risultare troppo chiara al lettore del 1859. Per noi essa evoca quell'ontologismo, o quasi ontologismo, storico-sociale con cui Marx nell'impostazione dell'Ideologia tedesca si svincola va dalla presa del fisicismo, pur conservandone il presupposto. Solo che là la «coscienza» (almeno nei suoi aspetti praticoimmediati) era evidentemente inclusa nell'«essere» degli individui cooperanti, mentre qui è vista in una relazione insieme di opposizione e di dipendenza. La difficoltà sarebbe inestricabile, se non potessimo riferire questa «coscienza» non ai suoi aspetti immanenti pratico immediati (e individuali), ma alle sue «forme» sociali, o «ideologiche» (come il testo sembra autorizzare, anzi suggerire). Va tenuto presente che si tratta appunto e soltanto di «forme» sociali, perché una mistica coscienza collettiva, o del «genere», quale soggetto autonomo, non ha luogo di esistere in Marx. Rimane fermo che ci troviamo di fronte a una determinazione unidirezionale. Successivamene, è noto, specialmente Engels si affannerà a spiegare che in ciò è inclusa la «reciprocità» delle leterminazioni o dei loro aspetti, per il concetto dialettico che egli e (indubbiamente) Marx avevano del determinarsi di alcunche. Ma ciò, se è importante, non toglie nulla alla fondamentalità di un versus correlativa alla relazione di condizionamento proposta da Marx.
Dietro ai termini che abbiamo qui scarnificato vi sono immense questioni. Va inteso il marxismo come un determinismo economico, o comunque socio-economico? Quanto a Marx tutto sta a intendere il valore dell'uso che egli fa della parola «determinazione» o del corrispondente nome di azione. Esso sembra da riportarsi a una grande tradizione filosofica, da Spinoza a Hegel, piuttosto che a un determinismo di tipo scientifico-ottocentesco.
Come a dire che non il «condizionamento» si restringe in «determinazione» ma al contrario, che la «determinazione» si precisa quale «condizionamento». (Nel senso hegeliano che quando sia data tutta la serie delle condizioni il fenomeno, che ad esse sia riportabile, necessariamente esiste).

Il frutto più cospicuo della sistemica marxiana del 1859 è la nozione di «formazione sociale» in cui culmina la precedente problematica delle «forme». È una nozione tendenzialmente classificatoria e tipizzante, correlata a quella dei «modi di produzione» (sociali), e al problema della loro successione storica. Per es., la nozione di formazione sociale «moderna borghese» riflette sì un universale concreto, come si è visto, cioè, il dominio mondiale della borghesia capitalistica, ma è anche una astrazione tipizzante in quanto racchiude le leggi del modo di produzione capitalistico che si realizzano per stadi diseguali nelle singole società nazionali che ad esso sono accedute. In rapporto alle «formazioni sociali» Marx crede di poter stabilire una regola che appare altamente suggestiva. «Una formazione sociale - egli scrive- non perisce finche non si siano sviluppate tutte le forze produttive a cui può dare corso; nuovi e superiori rapporti di produzione non subentrano mai, prima che siano maturate in seno alla vecchia società le condizioni materiali della loro esistenza. Ecco perché l'umanità non si propone se non quei problemi che può risolvere perché, a considerare le cose dappresso, si trova sempre che il problema sorge solo quando le condizioni materiali della sua soluzione esistono già o almeno sono in formazione» (CEP, 5). Di questa regola, o «legge», tuttavia è difficile individuare un preciso statuto epistemologico, poiché essa appare in assoluto non verificabile (o falsificabile) empiricamente. Epperò essa sembra racchiudere un certo avvertimento o monito rispetto al fare pratico, indubbiamente, ma anche rispetto all'indagine storiografica, quando ci si trovi di fronte a oggetti-società il cui decorso storico non sia stato turbato dall'esterno. Potremmo considerarla un canone pratico prudenziale per un verso, un mero principio euristico (cognitivo in questo senso) per altro verso, anche se è difficile accettarla nella portata che sembra attribuirle Marx.
La pluralità delle formazioni sociali ci pone di fronte al problema della loro successione storica e quindi degli elementi di continuità e discontinuità fra di esse. Che le formazioni sociali ubbidiscano alle leggi di funzionamento dei correlativi modi di produzione dominanti e stabilizzati costituisce già un sufficiente elemento di discontinuità. Ma le «formazioni sociali», quali diversificati modelli analitici, vanno tenute distinte, nel discorso di Marx, dalla nozione (al singolare) di «formazione economica della società», allorché questa sia indirizzata a indicare un continuum storicamente verificabile di forze produttive. Nel Secondo libro del Capitale Marx fornisce la seguente rappresentazione insieme sintetica e altamente astratta: «Quali che siano le forme sociali della produzione, lavoratori e mezzi di produzione restano sempre i suoi fattori. Ma gli uni e gli altri sono tali soltanto in potenza nel loro stato di reciproca separazione. perché in generale si possa produrre, essi si devono unire. Il modo particolare nel quale viene realizzata questa unione distingue le varie epoche economiche della struttura della società» (C, II, 41).
Si tratta di un abstractum meramente economico, esplicitamente presentato come tale (... «quali che siano le forme sociali della produzione» ...) .
Esso quindi non può ricoprire l'intero ambito della nozione di «formazione sociale», ma è presentato tuttavia come dotato di un valore fondante, nel senso di una epocalità. Marx eredita una grande tradizione, quella che tende a stabilire «epoche» nella storia del mondo (con i relativi problemi di periodizzazione), trasferendola su basi storico-materialistiche. Si è già visto che nella Prefazione del 1859 Marx parla di «epoche» di «rivoluzione sociale» (quando le forze produttive entrano in contraddizione con i rapporti di produzione). A un certo punto di tale testo Marx abbandona di colpo il livello metateorico, per entrare nel merito, sia pure sub specie di una considerazione macrostorica. «A grandi linee i modi di produzione asiatico, antico, feudale e borghese moderno possono essere designati come epoche progressive della formazione economica della società» (CEP, 6). Va subito notato che da questa considerazione macrostorica Marx ha tagliato fuori ogni problematica delle origini, e, particolarmente, delle società arcaiche o primitive, limitando l'attenzione alle grandi civiltà sulla cui linea ereditaria siamo collocati. Uno schema «progressivo» così semplicificato (e in certo modo di apparenza unilineare) se corrisponde «a grandi linee» (considerazione, appunto, macrostorica) alla realtà quale ci è conosciuta, pone forse più problemi teorici di quanti ne risolva, soprattutto in ordine a ciò che dovrebbe legare i momenti della successione tra tipi diversi di formazioni sociali ( epocali) , e la «necessità» intrinseca dei relativi passaggi. Epperò un approfondito studio di Marx (sia del Marx precedente il 1859, sia di quello seguente) spazza via gran parte di queste difficoltà teoriche, e addirittura falsifica l'astratta presunzione di poter stabilire determinazioni in qualche guisa a priori di tali passaggi. Cogliere questo nodo problematico significa venire al cuore teorico del materialismo storico, al di là delle stesse pagine pur tanto significative della Prefazione del 1859.
Prima di tutto la questione della unilinearità progressiva della successione. Facendo ricorso al settore del manoscritto del 1857-58 intitolato Forme che precedono la produzione capitalistica, siamo in grado di appurare quale complessità problematica di considerazioni fosse al fondo e all'origine del semplificato schema addotto nella Prefazione del 1859. E quanto di questa problematica venga sacrificato dietro quella appariscente unilinearità progressiva. Nelle Forme vediamo l'aspetto diacronico progressivo prevalere (anche in linea di principio metodico di ricerca) solo attraverso una serie di alternative più o meno sincroniche, via via rappresentate da situazioni e popoli diversi, con proposte di diversi modelli analitici da parte di Marx ( alcuni più tardi abbandonati). Ovviamente la diacronia non scomparirà mai in Marx, poiché essa è il fatto stesso del «corso storico» (e si tratta precipuamente, in lui, del corso storico che conduce a noi, cioè al sistema borghesecapitalistico). Ma allorché negli ultimi anni di Marx tanto rilievo prenderà all'unisono col progresso degli studi, la problematica delle comunità primitive (che originariamente «poggiano su rapporti di consanguineità», con residui rilevanti di ciò anche nelle forme successive) la diacronia stessa si complicherà in variazioni tipologiche quanto mai aperte («le comunità primitive non sono tutte tagliate sullo stesso modello») e secondo il ventaglio dei loro successivi sviluppi storici, con le diversificate forme proprietarie cui hanno dato luogo (per es. nella cosiddetta «comunità rurale» ). Di questi temi Marx si occuperà, sulla base degli studi allora disponibili, anche per attualissime ragioni praticopolitiche relative ai problemi rivoluzionari della trasformazione sociale in Russia, e particolarmente alla questione del destino storico del mir o comunità agricola, di cui discutevano allora in quel paese i populisti.
Ciò che emerge con forza in Marx nell'ultimo periodo del suo pensiero è un alternativismo, almeno potenziale, quale contrafforte teorico atto a correggere ogni tentazione di necessaritarismo aprioristico nella visione del succedersi storico dei modi di produzione e quindi delle formazioni sociali, Ciò vale anche per la genesi del «sistema capitalistico» circa il quale Marx, rivolgendosi a studiosi russi interessati al suo pensiero, dice che la sua pretesa è unicamente quella di aver indicato la via lungo la quale, nell'occidente europeo, esso «uscì dal grembo dell'ordine economico feudale».
Attribuirgli una generalizzazione ulteriore, soprattutto in ordine ai futuri sviluppi di situazioni ancora arretrate, come appunto quella russa, è, dice Marx, «farmi insieme troppo onore e troppo torto». Salvo il fatto, naturalmente, che chi entrerà nello sviluppo dominato dal rapporto capitalistico «ne subirà le leggi inesorabili».
Più in generale, in sede storiografica, le «analogie sorprendenti» (cioè, tipologiche e sistemiche) che possono scoprirsi in «ambienti storici affatto diversi», non possono esimerci dice Marx dal loro studio ravvicinato e differenziale, proprio per che tali diversità di «ambiente» condizionano quasi sempre anche quelle degli esiti reali: «Non ci si arriverà mai - aggiunge Marx - col passepartout di una filosofia della storia, la cui virtù suprema è di essere soprastorica». Nulla fa più orrore a Marx di un uso della sua teoria nella guisa di una «filosofia della storia». L'avversità a quest'ultima è, insieme, la sua prima ed ultima parola.
In questo discorso, e altri consimili, dell'ultimo Marx emerge con rilevanza decisiva la categoria, in certo modo antisistemica, di «ambiente storico», nella quale egli raccoglie tutte le variabili empiriche storiograficamente accertabili ma non sistemi camente dominabili (almeno in via diretta). Per esempio, dal punto di vista sistematico in una fase storica dell'antica Roma erano già date le condizioni (esproprio dei piccoli proprietari agricoli, per un verso; accumulo di grandi capitali monetari, per altro verso) atte al formarsi del modo di produzione capitalistico. Non ragioni direttamente riportabili a elementi sistemici, ma quelle prevalenti relative alle molteplici contingenze dell'«ambiente storico» produssero invece la grande proprietà terriera schiavistica, modo di produzione dal cui dissolversi sorgerà più tardi il sistema feudale.
È una visione di insieme, metodico-formale, dei processi storici che bisogna ricavare da molteplici testi di Marx, poiché egli non si è mai curato, dopo il 1859, di raccoglierla in una compiuta esposizione teorica (o metateorica). Il «materialismo storico» risponde all'esigenza di fornire una concezione integrata dei processi storici, e tenta di soddisfarla diversificandone i livelli a partire da quello che, per le ragioni che si sono viste, è considerato di «base».