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piccolo
dizionario marxista
concezione
materialistica della storia |
Cesare
Luporini
La
«concezione della storia» cioè la teoria della
storia è uno dei pilastri del pensiero critico rivoluzionario
di Marx e di Engels. A prima vista appare tuttavia singolare che
ad essa particolarmente Marx non abbia dedicato pubblicamente
nessuno scritto organico, sia pur breve, se si fa eccezione di
alcune famose pagine della Prefazione (1859) a Per
la critica della economia politica, pagine che costituiscono
un denso nucleo teorico incastonato in un rapido schizzo di autobiografia
intellettuale. Questa circostanza ha però radici teoriche
coessenziali alla ricerca marxiana. Nella sede stessa, privilegiata,
della critica dell'economia politica, in cui si sviluppa e campeggia
l'analisi del modo di produzione capitalistico, la struttura emergente
della teoria è tale per cui se non viene respinta l'idea
di una scienza della «produzione in generale»
essa si restringe tuttavia a poche categorie, e a un numero molto
limitato di costanti che variamente si combinano, coordinandosi
o subordinandosi, nel corso storico delle società umane.
Ciò ha dato una forte improna alla forma mentis di Marx
e al suo modo stesso di avvicinare la problematica della storia.
È decisivo tenere presente che nonostante la sua formazione
nell'area hegeliana dove erano preminenti i problemi della storia
e della storiografia non è da una generale problematica
della storia che Marx arriva alla sua concezione della società.
Al contrario, è muovendo dai problemi di analisi della
«attuale società» (cioè di
quella moderna borghese) che egli si apre il varco alla teoria
della storia, interrogandosi sulla genesi storica di tale società,
e in primis del rapporto capitalistico divenuto in essa
dominante. Un varco stretto, dunque, attraversato il quale la
problematica di Marx si allarga a tutti gli aspetti del convivere
sociale (e storicosociale).
Elemento determinante di questo passaggio è l'adesione
di Marx al comunismo, cioè alla radicale messa in questione
della «proprietà privata». La parola
«adesione» può essere però
deformante poiché si trattava di un comunismo ancora tutto
da pensare, di un «nuovo comunismo» (rispetto
a quelli teoreticamente e praticamente esistenti) di cui Marx
all'inizio sa una cosa sola: esso deve potersi radicare nel contesto
dello sviluppo storico attuale per avere una validità non
utopica (o soltanto utopico-critica). Questa è la peculiarità
del programma teorico e pratico di Marx.
In queste complesse istanze sta dunque la radice da cui si svolge
anche la visione marxiana della storia. Isolarla da esse significa
deformarla, renderla accademica o scolastica. L'ultima delle famose
Tesi su Feuerbach (1845) suona appunto: «I
filosofi hanno solo interpretato il mondo in modi diversi, si
tratta però di mutarlo», ove lo iato
evidente tra la prima e la seconda parte dell'asseverazione è
colmo di problematicità da esplicare. Questa situazione
di partenza non toglie nulla, nell'ottica di Marx, all'autonomia
della teoria e, in generale, della scienza, a cui Marx teneva
moltissimo, per disposizione mentale, ma anche perché vede
in essa uno strumento essenziale per denunciare e smascherare
gli aspetti di dipendenza da interessi di classe delle concezioni
(storiche, sociali, economiche, ecc.) che egli si trova a combattere.
Nel suo concetto pur altamente pragmatico non la verità
(teorica, scientifica) dipende dalla rivoluzione, ma la
possibilità della rivoluzione vien fatta dipendere da una
verità criticamente raggiunta e dimostrata. Alla
ricerca di questa verità appartiene, per le ragioni anzidette,
la tematica della storia. Che ai suoi enunciati teorici generali
Marx abbia riservato uno spazio molto ristretto, se, per contrasto,
procurò grande rilevanza alle pagine della Prefazione del 1859 (forse al di sopra delle stesse intenzioni di Marx),
è un fatto che non cancellava l'esigenza, verificatasi
a un certo momento, di una più distesa o meno concisa esposizione.
Come in altri casi analoghi di bisogno di diffusione e popolarizzazione
degli aspetti generali e complessivi della teoria, o dei suoi
punti di vista fondamentali, ma anche di organizzazione sistematica
delle loro conseguenze in campi diversi del sapere e dell'agire
(e prima di tutto in quello politico-sociale), a tale bisono dette
soddisfazione Fridrich Engels, inizialmente forse non troppo incoraggiato
da Marx, ma comunque sempre da lui avallato. Questo accadde col
celebre Antidühring (1878), opera cui toccò
con l'andare del tempo una straordinaria fortuna internazionale
quale veicolo di quel «complesso di dottrine»
o «dottrina complessa» che dopo la morte
di Marx (1883) sempre più fu chiamato «marxismo».
Uno dei capitoli del la terza parte dell'Antidühring (intitolata «Socialismo») inizia con le parole
«La concezione materialistica della storia...».
Questa espressione (insieme a quella più sintetica di «materialismo
storico») entrerà largamente nell'uso,
in parallelo con l'altra, «socialismo scientifico»
elaborata nell'opuscolo engelsiano pubblicato 088f) \?Qhi mei
prima della morte di Marx, L'evoluzione del socialismo dall'utopia
alla scienza (rifusione di tre capitoli dello stesso Antidilhring),
per designare e circoscrivere l'aspetto rivoluzionario della teoria
marxiana. In questo assestamento il «materialismo storico»
si presenta come la premessa necessaria del «socialismo
scientifico», mentre serba una certa sua autonomia
epistemologica rispetto a quest'ultimo. Sono nati così
i due grandi «scenari» che inquadrarono,
a posteriori, il pensiero di Marx, e che domineranno a lungo,
mediandone la trasmissione.
Importantissimi, specialmente per la storia della cultura del
movimento operaio socialista e delle sue organizzazioni politiche,
o rivoluzionarie. Ma è anche dubitabile che siffatto assestamento
corrispondesse all'andamento più profondo e alla criticità
intrinseca del pensiero di Marx. Tuttavia se oggi si vuoI penetrare
nel vivo della problematica di Marx, è opportuno liberarsi
da tali «scenari» e dal «marxismo» stesso
(o dai «marxismi» in genere). La dizione,
tuttavia, «materialismo storico», nella sua
rappresa semanticità anche polemica («materialismo»
ma «storico»; storia globale o integrata, ma su basi
materialistiche) serba sufficiente verità e utilità
da poter ancora essere usata quale approssimazione e indicazione
problematica di un determinato modello di teoria.
È la teoria esposta da Marx precipuamente nelle ricordate
pagine della Prefazione del 1859. Essa è da lui
presentata come un «risultato generale» a
cui egli era precedentemente pervenuto, che gli serve, una volta
acquisito, da «filo conduttore» nei suoi
studi. Ma come un «risultato generale» può
a sua volta servire da «filo conduttore»?
Se si guarda al contesto, cioè al contenuto esposto, ci
si accorge che si tratta, appunto, di una teorizzazione, la quale
consente di proseguire in detti «studi» (economici,
sociali, storici, politici, ecc.) dal cui precedente avvio essa
è sorta: lo stabilirsi, cioè, di un particolare
livello di teoria, pressoché una meta-teoria (ancorché
non allo stato puro e formalizzato) rispetto ad essi, che ne determina
le categorie fondamentali di ricerca ( «modi di produzione»
storici, e corrispondenti «formazioni sociali»),
destinate ad entrare in azione nelle analisi particolari, via
via organizzando categorie subordinate. Come Marx è pervenuto
a questo «risultato generale» (che dovremmo
esaminare e discutere anche in se stesso)? Questa domanda è
importante non solo filologicamente ma per riuscire a dar corpo,
teoreticamente, a una esposizione altrimenti così concia
(e perfino ellittica, in qualche punto). Inoltre una tale storicizzazione
rispetto al passato dello stesso Marx, a cui egli in certo modo
ci invita (parlando di «risultato generale»)
convoglia una storicizzazione simmetrica rispetto al futuro, poiché
quel testo teorico o metateorico non è certo l'ultima parola
di Marx intorno alla storia. Siamo all'incirca a metà di
un lungo percorso di cui Marx ci indica le origini (negli anni
1844 e 1845). In poche parole: senza diminuirne l'importanza,
il testo del 1859 va relativizzato, anche teoricamente, e non
ipostatizzato, come spesso è avvenuto. Anche ciò
che abbiamo detto metateoria (in quanto teoria della storia) ha
una storia, non racchiudibile in un solo testo.
È lo stesso Marx dunque, in queste pagine, a indicarci
il luogo di origine della sua concezione della storia (e della
società) precipuamente in quel manoscritto della Ideologia
tedesca che egli tuttavia (con Engels) non rimpiange di aver
lasciato, a suo tempo, alla «critica roditrice dei topi»,
poiché è in grado di fornircene il «risultato
generale». Oggi, dopo la pubblicazione (1932) della Ideologia tedesca siamo in condizione di verificare analiticamente
la misura di questa corrispondenza. Nella Ideologia tedesca,
particolarmente nella sua prima parte (intitolata «Feuerbach»
, troviamo il materialismo storico allo stato nascente, quindi
anche pieno di imperfezioni, in un'esposizione apparentemente
disordinata, con molte insufficienze (soprattutto per ciò
che concerne la conoscenza dell'economia politica), ma anche con
una carica ricchissima di potenzialità che non tutte poi
troveranno in Marx proporzionato sviluppo analitico, rimanendo
esse in lui più tardi parzialmente sottintese, anche se
non inoperanti. Tocca a noi dunque esplicarle nei loro valori
essenziali. Il titolo, Ideologia tedesca, allude a un nuovo significato
prodotto da Marx del termine «ideologia».
La «critica della ideologia» ( e in particolare
di quella «tedesca» ) è il medium stesso entro cui si stabilisce all'origine il materialismo storico
come concezione antiidealistica e antispeculativa (nel senso hegeliano
del termine «speculazione»).Il materialismo
storico nasce da questa opposizione a una filosofia (speculativa)
che pretende di essere «senza presupposti».
Marx ed Engels fanno valere il richiamo ad alcuni presupposti
necessari di ogni «storia» che solo l'immaginazione
speculativa può rimuovere (falsando le cose). Si tratta
del fondamento naturale nella produzione e riproduzione della
«vita immediata», innanzi tutto intesa nella
sua materialità e nei suoi condizionamenti fisici, anche
orogeografici; e quindi nei bisogni elementari correlativi (mangiare
e bere, l'abitazione, il vestire, ecc.), che costituiscono un
livello permanente di necessità, valido «ogni
giorno e ogni ora», «oggi come millenni addietro,
semplicemente per mantenere in vita gli uomini». Il
punto di partenza della considerazione è dunque nella produzione
e riproduzione della vita immediata (materiale) e nel fatto, evidente
anche al senso comune, che «il modo in cui gli uomini
producono i loro mezzi di sussistenza, dipende prima di tutto
dalla natura dei mezzi di sussistenza che essi trovano e che debbono
riprodurre» (IT, 17). Dunque ciò che viene messo
in rilievo è prima di tutto una relazione di «dipendenza»
e di «condizionamento» fisici. A questo punto
si inserisce la visione più propriamente marxiana, che
allarga (in certo senso filosoficamente) quest'albeggiante nozione
del modo di produzione dei mezzi materiali di sussistenza.
«Questo modo di produzione - dice Marx - non
si deve giudicare solo in quanto è la riproduzione dell'esistenza
fisica dell'individuo; anzi esso è già un modo determinato
dell'attività di questi individui; un modo determinato
di estrinsecare la loro vita, un modo di vita determinato. Come
gli individui esternano la loro vita, così essi sono. Ciò
che essi sono coincide dunque con la loro produzione, tanto con
ciò che producono quanto col modo come producono»
(ivi). In queste proposizioni è in nuce tutto il materialismo
storico (tranne le tesi relative alla coscienza e alla ideologia).
In esse è evidente il passaggio da una considerazione meramente
fisicale (di dipendenza e condizionamento) a una considerazione
ontologica (onde si produrrà più tardi la nozione
di «essere sociale») che assume la prima
mediante lo sdoppiarsi di «produzione» in
un «ciò che» e in un «come».
Alla relazione di dipendenza fisica viene sovrapposta una relazione
di essere che la assorbe e che viene subito, in una qualche
misura, strutturata. E strutturata circolarmente. «Questa
produzione non appare che con l'aumento della popolazione [vedremo oltre la portata di ciò] e presuppone a sua
volta relazioni tra gli individui. La forma di queste relazioni
è a sua volta condizionata dalla produzione»
(IT, 17). Appare, in questa strutturazione, una nozione che avrà
sviluppi decisivi per il materialismo storico racchiusa nella
endiadi «forma di relazioni» in cui ambedue
i termini («forma» e «relazioni»)
hanno uguale peso, poiché il secondo designa il contenuto
del primo. Marx propone un concetto relazionale delle società
umane, che egli
manterrà sempre, opponendolo esplicitamente alle concezioni
aggregative, come mere somme di individui in qualche modo accorporati.
Ciò rende possibile determinare un «punto di
vista» della società, distinto da quello degli
individui esistenzialmente considerati. Le società umane
hanno sempre una «forma» in quanto appunto
«forma di relazioni» che è «connessa
col modo di produzione e da esso generata», e «determinata
dalle forze produttive esistenti» (la nozione di «forze
produttive» del lavoro, desunta dall'economia politica,
avrà un grande ruolo nelle sue analisi).
Marx è cosciente di operare con astrazioni che possono
valere solo in quanto passibili di verifica empirica. A quest'ultima
è annessa enorme importanza nella Ideologia tedesca,
quale momento risolutivo e esauriente di ogni determinazione concettuale
(fino a dire provocatoriamente che «ogni profondo problema
filosofico si risolve con la massima semplicità in un fatto
empirico»). L'esigenza rimarrà sempre in Marx,
anche se non in questa forma estremizzata: essa verrà in
qualche modo riequilibrata dalla problematica relativa alle forme
delle relazioni sociali. E tuttavia Marx anche nella Ideologia
tedesca non accetta di dichiararsi empirista e sembra prendere
una certa equidistanza negativa fra «empiristi»
e «idealisti», ma per la sola ragione (quanto
ai primi) che gli empiristi non scorgerebbero nella storia un
«processo di vita attivo» («processo
di sviluppo, reale ed empiricamente constatabile»,
si ribadisce), ma soltanto «una raccolta di fatti morti».
La processualità a tutti i livelli (fisico-biologico, storico-sociale,
«spirituale») è invece sempre messa
in primo piano come concetto via via assorbente e articolante
tutte le altre determinazioni. Epperò essa non è
considerata come flusso continuo, ininterrotto e omogeneo, proprio
per il suo combinarsi con le forme che da essa emergono, che relativamente
via via la stabilizzano (fin dal ripetersi dei processi naturali
e biologici, e, più in generale, dall'affiancarsi di una
tematica della riproduzione a quella della produzione), per poi
essere sostituite da altre sotto l'impulso di una processualità
che può quindi entrare in conflitto con ciò che
ha generato.
Nello sviluppo delle società umane (in quanto «empiricamente
constatabile») questo elemento dinamico viene indicato
da Marx come incremento delle forze produttive del lavoro (nella Ideologia tedesca strumenti di produzione, capacità
tecniche). Ma nella visione di Marx questo incremento non è
considerato un movimento originario (il che nella Ideologia tedesca
veniva registrato con la proposizione, ancora molto ellittica,
che la «produzione non appare che con l'aumento della
popolazione»). L'efficacia delle forze produttive sui
mutamenti delle forme di relazione (in cui ben presto si distingueranno
i «rapporti di produzione», corrispondenti
ai giuridici «rapporti di proprietà»),
richiede un certo livello del loro sviluppo che dovrà corrispondere
a condizioni da scoprirsi.
Nella Ideologia tedesca e forse ancora meglio nella successiva
Miseria della filosofia (1847), appare che le «forme
di relazione» (e poi i «rapporti di produzione»)
sono sistemi dell'interagire pratico umano che da esso emergono
(nel loro variare e succedersi storico) e che lo contengono. Tale
interagire suppone, secondo Marx, una funzione costante (anche
se assume forme storiche diverse): la «cooperazione
di più individui». In essa si saldano e si articolano
naturalità e socialità in modi specificamente umani.
Si tratta nella visione di Marx di un nesso originario e permanente.
«La produzione della vita egli scrive tanto della propria
nel lavoro quanto dell'altrui nella riproduzione, appare come
un duplice rapporto: naturale da una parte, sociale dall'altra;
sociale nel senso cpe si attribuisce alla cooperazione di più
individui, non importa sotto quali condizioni, in quale modo e
per quale scopo» (IT, 28). Ecco dunque la funzione
costante, che infatti viene subito generalizzata: «Da
ciò deriva che un modo di produzione o uno stadio industriale
determinato è sempre unito con un modo di cooperazione
o uno stadio sociale determinato e questo modo di cooperazione
è anch'esso una forza produttiva» (ivi) (la
opposizione tra rapporti di produzione e forze produttive non
è quindi assoluta).
Il sociale e l'economico appaiono così indissolubilmente
imbricati tra loro, in Marx: è proprio su questo sfondo
originario che la sua analisi successiva potrà mettere
in luce il relativo autonomizzarsi di meccanismi economici come
quello che si ha con lo stabilirsi del modo di produzione capitalistico.
Su queste basi Marx è in condizioni di poter rendere conto
dell'evoluzione storica e della sua progressività. Infatti
la «cooperazione» si sviluppa attraverso
la divisione sociale del lavoro, a sua volta condizionata da tre
incrementi: accresciuta produttività del lavoro, aumento
dei bisogni e aumento della popolazione. Ma questa crescita implica
il vario combinarsi di tre «momenti» (parola
filosofica, adoperata da Marx cum grano salis).
Essi sono la «forza produttiva», la «situazione
sociale» e la «coscienza», i quali
«possono e debbono entrare in contraddizione tra loro,
perchéì con la divisione del lavoro si dà
la possibilità, anzi la realtà, che l'attività
spirituale, e l'attività materiale, il godimento e il lavoro,
la produzione e il consumo tocchino a individui diversi».
Infatti divisione del lavoro significa sempre anche «ripartizione
del prodotto». Quando l'incremento produttivo rende
possibile una «ripartizione ineguale» si
ha «una proprietà - dice Marx - che
corrisponde già perfettamente alla definizione degli economisti
moderni, secondo cui essa consiste nel disporre di forza lavoro
altrui».
Perciò Marx può dire che «i diversi stadi
di sviluppo della divisione del lavoro sono altrettante forme
diverse della proprietà»: nel senso che «ciascun
nuovo stadio della divisione del lavoro determina anche i rapporti
tra gli individui in relazione al materiale, allo strumento e
al prodotto del lavoro». Qui troviamo già definito
il contenuto di quelli che Marx ben presto chiamerà, come
si è accennato, «rapporti di produzione»
(specificazione delle «forme di relazione»).
Si generano così, a partire dalle precedenti istituzioni
comunitarie o tribali (e dapprima all'interno di esse) i gruppi
sociali e gli antagonismi di classe, con la loro conflittualità
(saranno poi considerati da Marx forza motrice della storia).
Ma ciò è proiettato da Marx, nella Ideologia tedesca,
in un quadro complesso, almeno per ciò che concerne situazioni
di già elevato sviluppo e civiltà, nel quale tuttavia
rimangono categorie dominanti «cooperazione»
e «divisione del lavoro»: «La divisione
del lavoro all'interno di una nazione porta con sé innanzi
tutto la separazione del lavoro industriale e commerciale dal
lavoro agricolo e con ciò la separazione tra città
e campagna e il contrasto dei loro interessi. Il suo ulteriore
sviluppo porta alla separazione del lavoro commerciale da quello
industriale. In pari tempo, attraverso la divisione del lavoro
all'interno di questi diversi rami, si sviluppano a loro volta
suddivisioni diverse tra individui che cooperano a lavori determinati.
La posizione reciproca di queste singole suddivisioni è
condizionata dai metodi impiegati nel lavoro agricolo, industriale
e commerciale (patriarcalismo, schiavitù, ordini, classi).
Quando le relazioni sono più sviluppate, le stesse condizioni
si manifestano nei rapporti tra diverse nazioni».
Si è scoperta così quella che verrà chiamata
da Marx «forma antagonistica della società»
(ovviamente, di società sviluppate). Essa comporta il dominio
di classe e la oppressione di classe, basate sullo sfruttamento.
Nella Misea della filosofia Marx enuncia questa specie di assioma:
l'esistenza di «una classe oppressa è la condizione
vitale di ogni società basata sull'antagonismo delle classi»
(MF, 224). (E ne trae il corollario che l'emancipazione della
classe oppressa implica necessariamente la creazione di una società
nuova). La classe è «oppressa» in
quanto sfruttata (economicamente ) e dominata (politicamente),
concetti convergenti ma non identici. Si apre così anche
una problematica del «dominio».
È un fraintendimento tuttavia della dinamica del pensiero
di Marx vedere la radice ultima del dominio, nella divisione in
classi antagonistiche, in questo fenomeno derivativo che richiede
tante peculiari condizioni storiche per il suo realizzarsi. Quella
radice appare più profonda in Marx e, soprattutto, è
concettualmente autonoma, anche se il suo terreno rimane quello
della cooperazione, nel suo complicarsi attraverso la divisione
sociale del lavoro.
Qui interviene un altro lato del naturalismo di Marx. Ripetutamente
egli assevera che la cooperazione, la quale si sviluppa nella
divisione del lavoro, è «naturale»
e non «volontaria» (in questo contesto naturale
è dunque opposto a volontario), intendendo che essa sorge
e si evolve in condizioni di socialità i cui rapporti non
sono stati scelti dai soggetti, ma si sono stabiliti, e si evolvono,
indipendentemente dalle loro volontà individuali. Questo
è possibile perchéì attraverso la cooperazione
sviluppata nella divisione del lavoro si fissa e si consolida
un «potere obbiettivo» sociale, che sfugge
al controllo degli individui dalla cui cooperante attività
pratica, moltiplicatrice di forza produttiva, pur si origina (permanentemente).
Qui il discorso di Marx, in modo pressoché inavvertito,
trapassa dal piano della descrivibilità, o ricostruibilità,
empirica a un piano che possiamo dire ermeneutico; che egli tuttavia
ci presenta non come un'aggiunta sua propria, ma, anzi, come qualcosa
che sarebbe immanente a una esperienza storica degli uomini, secolare
e diffusa, la quale nella visione di Marx diventa un punto di
riferimento fondamentale. «Il potere sociale -
egli dice - cioè la forza produttiva moltiplicata che
ha origine attraverso la cooperazione di più individui,
determinata nella divisione del lavoro, appare a questi individui,
poiché la cooperazione stessa non è volontaria ma
naturale, non come loro proprio potere unificato, ma come una
potenza estranea, posta al di fuori di essi, della quale non sanno
donde viene e dove va...» (IT, 33). Si tratta, aggiunge
Marx, di qualcosa «che è stato fino ad oggi uno
dei momenti principali dello sviluppo storico» (ivi).
L'estraneità è dunque vissuta e percepita come tale
dagli individui associati in quanto potere al di fuori di loro
stessi, di cui essi non conoscono ne l'origine ne la direzione
successiva dei suoi effetti. Questo è, aggiunge Marx, il
contenuto reale di ciò che i filosofi hanno indicato con
il termine «estraneazione» .
Questa posizione di Marx radicata nel suo peculiare naturalismo
(ora nella forma della opposizione di «naturale»
e «volontario»), del tutto opposto a quello
feuerbachiano della Gattung o «genere»
(che, secondo Marx, si lascia necessariamente sfuggire il «corso
della storia» ) ha una funzione non trascurabile nel
formarsi della sua visione storica. Essa tende dinamicamente a
render conto di un «potere oggettivo» nel
vivere sociale degli uomini (il quale si presume esser sentito
da essi come «potenza estranea») che sarà
determinante anche nell'analisi del Capitale (attraverso
il «feticismo delle merci» e il «feticismo
del capitale») e non a caso verrà considerato da
Marx, con le «leggi bronzee»
che il rapporto capitalistico impone, quale una «seconda
natura». Va detto però che anche a questo livello
che si è detto ermeneutico Marx mira a dare, nella stessa Ideologia tedesca, un immediato riscontro empirico, con
una fulminea proiezione nella contemporaneità, o attualità,
che recupera e despeculativizza la nozione hegeliana di storia
universale non come dato originario e permanente, ma come risultato
empiricamente storico, inerente alla creazione capitalistica di
un mercato mondiale. «Nella storia fino ad oggi trascorsa
è certo un fatto empirico che i singoli individui, con
l'allargarsi dell'attività sul piano storico universale,
sono stati sempre asserviti a un potere loro estraneo, a un potere
che è divenuto sempre più smisurato e che in ultima
istanza si rivela come mercato mondiale» (IT, 36).
Questo singolare intreccio concettuale di «storia universale»,
«mercato mondiale» e «potenza estranea»
(nonché di rivoluzione industriale, o delle macchine) non
è per Marx qualcosa che passa sopra la testa dei «singoli
individui» (come la storia del mondo di Hegel), ma
è qualcosa che li concerne esistenzialmente non meno del
loro esser sussunti in ruoli sociali determinati dalla divisione
del lavoro. Il che vale, naturalmente, anche per popoli, nazioni,
stati. («Per esempio - egli dice - se in Inghilterra
viene inventata una macchina che riduce alla fame innumerevoli
lavoratori in India e in Cina e sovverte tutte le forme di esistenza
di questi imperi, questa invenzione diventa un fatto storico universale»)
.
È stato detto autorevolmente (da Eric Hobsbawm) che per
Marx «il contenuto della storia nella sua forma più
generale è il progresso». È un'asserzione
che non può esser respinta, ma che va presa con avvedutezza.
Marx non ha mai tematizzato il «progresso»
e la parola stessa si trova adoperata da lui generalmente in forma
aggettivale «progressivo», al singolare o
al plurale) poiché Marx si oppone a ogni visione finalistico
aprioristica del corso storico, del «progresso»
non possono esser dati che criteri empirici, i quali sono quelli
stessi inerenti alla concezione materialistica della storia, come
progressivo e constatabile incremento del dominio dell'uomo sulle
forze naturali nel cui contesto è inserito (e che comporta
incremento delle forze produttive). È un progresso verificato
a posteriori, che c'è quando c'è, e dal punto di
vista della società non esclude stagnazioni e regressi
(per esempio distruzioni di civiltà, e quindi anche di
forze produttive), mentre dal punto di vista esistenziale degli
individui si presenta come specificazione ma anche parcellizzazione
delle loro capacità e disposizioni naturali. Il moderno
ingresso complessivo delle società umane in una «storia
universale» cambia o comunque rende più complessa
la problematica del progresso, una volta che essa si indirizzi
non più soltanto al passato (per ordinarlo conoscitivamente),
ma al futuro. O meglio indirizzi al pratico «mutamento»
del «mondo» presente, a quel «rovesciamento
dello stato attuale della società» in cui per
Marx consiste il senso del «movimento» comunista.
Il parametro di valutazione materiale rimane confermato (nella
tarda Critica del programma di Gotha (1875) Marx vedrà
in un non impacciato «fluire delle forze produttive»
una condizione fondamentale per il passaggio al comunismo), ma
se ne aggiunge ora uno «spirituale» come
lo chiama Marx, ancorché anch'esso del tutto evidenziabile
empiricamente. Esso concerne i singoli individui e la liberazione
di essi non solo dai limiti imposti alla personalità dalla
divisione del lavoro, ma dalla povertà spirituale dovuta
alla ristrettezza localistica del loro mondo di relazioni, poiché
Marx stabilisce l'assioma (in ultima analisi anch'esso comportamentistico)
che «la ricchezza spirituale reale dell'individuo dipende
interamente dalle sue relazioni reali» (onde anche
il vantaggio «spirituale» storico delle classi
dominanti rispetto a quelle dominate). Le nuove condizioni di
universalità create dalla rivoluzione borghese-capitalistica
e dalla sua espansione mondiale hanno avuto il merito di rompere
«l'originario isolamento delle singole nazionalità».
Sotto questo riguardo universalistico la rivoluzione comunista,
benché rovesciamento dell'attuale stato di cose, è
in un nesso indissolubile con quella borghese, poiché la
completa proprio in direzione della liberazione individuale. «Soltanto
attraverso quel passo dice Marx i singoli individui vengono liberati
dai vari limiti nazionali e locali, posti in relazione pratica
con la produzione (anche spirituale) di tutto il mondo emessi
in condizione di godere di questa produzione universale di tutta
la terra (creazione degli uomini».
Non vi è dubbio che Marx abbia una visione siffattamente
universalistica (empiricamente universalistica) della rivoluzione
comunista, strettamente legata alla problematica dell'individuo:
soltanto «allora egli dice verrà attuata la liberazione
di ogni singolo individuo nella stessa misura in cui la storia
si trasforma completamente in storia universale». (Nel Manifesto del partito comunista del 1848 si legge: «Il libero sviluppo di ciascuno è la condizione
per il libero sviluppo di tutti». E non viceversa,
che sarebbe per Marx un nonsenso).
Gli «individui locali» sono allora sostituiti
da «individui inseriti nella storia universalevidui
inseriti nella storia universale», da «individui empiricamente
universali».
Rovesciamento rivoluzionario e continuità storica (rispetto
al sistema borghese) sono dunque per Marx indissolubilmente saldati:
«La dipendenza universale, questa forma spontanea della
cooperazione degli individui su piano storico universale, è
trasformata da questa rivoluzione comunista nel controllo e nel
dominio cosciente di queste forze le quali, prodotte dal reciproco
agire degli uomini, finora si sono imposte ad essi e li hanno
dominati come forze assolutamente estranee». Ritroviamo
qui attivizzato il livello ermeneutico che si è sopraindicato.
Tutta questa problematica concerne la risposta che Marx si è
avviato a dare alla domanda su come «il comunismo è
possibile empiricamente». Da questa domanda che è
in lui la più radicale, dipende (e non viceversa) la individuazione
nel moderno proletariato industriale della forza storica interessata
al mutamento rivoluzionario poiché qui la categoria della
«possibilità» è quella decisiva
si comprende come ogni ulteriore presunta «necessità»
del passaggio dal capitalismo al comunismo (quale via di uscita
dalle contraddizioni del primo) sia in Marx una necessità
ipotetica o condizionale (a cui è alternativa la possibilità
del regresso, della distruzione di forze produttive, del reciproco
annichilimento delle classi in lotta, ecc.).
Questo passaggio condizionato dall'interrogativo sulla possibilità
empirica del comunismo non urta perciò, nella visione di
Marx, con la sua avversione concettuale a ogni finalistica «filosofia
della storia», che è il terreno stesso (antiideologico
e antispeculativo) su cui si è stabilito il suo «materialismo
storico». Egli respinge con sarcasmo ogni visione teleologica
del «corso storico», e quell'atteggiamento mentale
per cui ogni dopo storico viene interpretato ( al contrario di
quanto si può evincere empiricamente) quale «scopo»,
ancorché immanente, di ciò che lo ha preceduto e
da cui si è svolto.
Gli unici «scopi» immanenti (e parziali)
che, più tardi, Marx crederà di poter individuare
sono le tendenze a riprodursi (e quindi a mantenersi) dei sistemi
sociali, una volta stabiliti. Una specie di principio di inerzia
dei medesimi, in qualche misura attenuato per quello capitalistico,
in cui si sono resi relativamente autonomi i meccanismi economici
e che in rapporto a ciò contiene l'esigenza - proprio per
potersi riprodurre e mantenere - di rivoluzionarsi continuamente.
Nella Ideologia tedesca il «corso storico»
è visto in modo ancora molto fluido quale non troppo precisata
successione di stadi di sviluppo delle forze produttive, e soprattutto
come susseguirsi di generazioni,
accumulo e trasmissione ereditaria, resi possibili dalla «base
reale» della storia. Paradossalmente sembra valere
per il «modello» prevalente nella Ideologia
tedesca l'affermazione secondo cui il passato funge da «struttura»
per il presente. Sono bensì affermate nella Ideologia
tedesca le «forme di relazione» (e cosi
le «forme ideologiche»), ma la forza strutturante
di queste forme non si vede come sia operativa in modi differenziali
(le differenze sono empiricamente accolte dalla storia) nei diversi
contesti sociali e nei passaggi relativi.
Il «risultato generale» esposto nella Prefazione del 1859 presuppone invece un potente rafforzamento sistemico
che troviamo già presente in opere come la citata Miseria
della filosofia. Ormai l'accento batte su questo elemento,
con i perfezionamenti di concezioni che esso ha recato con sé,
talché è possibile parlare di un nuovo modello,
che assorbe quasi tutto ciò che costituiva l'originalità
di quello precedente. Nella Prefazione del 1859 la concezione
(che abbiamo detto metateorica) della storia è esposta
da Marx in un'ottica retrospettiva, come frutto dei suoi precedenti
studi. Al di là delle circostanze storico-genetiche rievocate
da Marx egli fa emergere con nitidezza che la questione su cui
ha fatto perno lo sviluppo della sua ricerca è stata quella
dei «rapporti giuridici» e delle «forme
statali», intorno a cui presero avvio i suoi «dubbi»
circa la soluzione proposta nella Filosofia del diritto di
Hegel. Sono quei rapporti che di lì a poche righe
Marx raccoglie sotto il nome di «sovrastruttura»
.
Qui si inserisce appunto il nuovo, potente elemento sistematico.
Dopo aver riassunto rapidamente le posizioni centrali che abbiamo
trovato espresse nella Ideologia tedesca Marx scrive:
«L'insieme di questi rapporti di produzione
costituisce la struttura economica della società ossia
la base reale, sulla quale si eleva una sovrastruttura giuridica
e politica e alla quale corrispondono forme determinate della
coscienza sociale» (CEP, 5).
Questa dunque è la configurazione sistematica ora stabilita.
Essa è raggiunta perfezionando la già preesistente
logica di un ordine ascendente. Si ottiene una specie di architettonica
concettuale a tre livelli: struttura economica (a cui si assimila
la «base reale» che già conosciamo)
e sovrastruttura giuridico-politica, legata alla prima da una
relazione di dipendenza, e un ulteriore livello costituito dalle
«forme sociali della coscienza» (o anche
«forme ideologiche»), le quali appaiono libere
rispetto al secondo livello ma poste in una relazione diretta
di corrispondenza con la struttura economica. (Più oltre
però Marx indulge ad assimilare nella nozione di «sovrastruttura»
con l'espressione «gigantesca sovrastruttura»
anche il livello delle «forme ideologiche»,
ingenerando non poche incertezze e confusioni nel successivo marxismo)
Questo dunque il sistema, che si presenta in certo modo aperto
verso l'alto: il sistema fissato attraverso un taglio statico.
Ma subito Marx si preoccupa di caratterizzarlo dinamicamente reintroducendo
la nozione di processualità, e insieme evidenziando una
relazione di condizionamento unidirezionale: il modo di produzione
della vita materiale condiziona in generale il processo di vita
sociale, politico e spirituale. Una visione che intende avere
carattere macroscopico (il condizionamento si produce in generale).
A ben guardare i livelli sono diventati quattro, poiché
ai tre «processi di vita» nominati è
sotteso quello materiale del «modo di produzione».
Ma questo scarto non può produrre troppa difficoltà
se teniamo conto della stretta relazione fra economico e sociale
che caratterizza il materialismo storico fin dall'origine. Va
inoltre osservato che la relazione di corrispondenza (delle forme
ideologiche o di coscienza) è qui risolta in una più
generica (per ora) relazione di condizionamento (dello «spirituale»
da parte del «materiale»).Ma improvvisamente
Marx ci pone di fronte ad una drastica dicotomia, affermando che
«non è la coscienza degli uomini a determinare
il loro essere ma il loro essere sociale a determinare la coscienza»
(CEP, 5). Viene così introdotta una nozione nuova, quella
di «essere sociale», che analiticamente non
doveva risultare troppo chiara al lettore del 1859. Per noi essa
evoca quell'ontologismo, o quasi ontologismo, storico-sociale
con cui Marx nell'impostazione dell'Ideologia tedesca si svincola va dalla presa del fisicismo, pur conservandone il
presupposto. Solo che là la «coscienza»
(almeno nei suoi aspetti praticoimmediati) era evidentemente inclusa
nell'«essere» degli individui cooperanti,
mentre qui è vista in una relazione insieme di opposizione
e di dipendenza. La difficoltà sarebbe inestricabile, se
non potessimo riferire questa «coscienza»
non ai suoi aspetti immanenti pratico immediati (e individuali),
ma alle sue «forme» sociali, o «ideologiche»
(come il testo sembra autorizzare, anzi suggerire). Va tenuto
presente che si tratta appunto e soltanto di «forme»
sociali, perché una mistica coscienza collettiva, o del
«genere», quale soggetto autonomo, non ha
luogo di esistere in Marx. Rimane fermo che ci troviamo di fronte
a una determinazione unidirezionale. Successivamene, è
noto, specialmente Engels si affannerà a spiegare che in
ciò è inclusa la «reciprocità»
delle leterminazioni o dei loro aspetti, per il concetto dialettico
che egli e (indubbiamente) Marx avevano del determinarsi di alcunche.
Ma ciò, se è importante, non toglie nulla alla fondamentalità
di un versus correlativa alla relazione di condizionamento
proposta da Marx.
Dietro ai termini che abbiamo qui scarnificato vi sono immense
questioni. Va inteso il marxismo come un determinismo economico,
o comunque socio-economico? Quanto a Marx tutto sta a intendere
il valore dell'uso che egli fa della parola «determinazione»
o del corrispondente nome di azione. Esso sembra da riportarsi
a una grande tradizione filosofica, da Spinoza a Hegel, piuttosto
che a un determinismo di tipo scientifico-ottocentesco.
Come a dire che non il «condizionamento»
si restringe in «determinazione» ma al contrario,
che la «determinazione» si precisa quale
«condizionamento». (Nel senso hegeliano che
quando sia data tutta la serie delle condizioni il fenomeno, che
ad esse sia riportabile, necessariamente esiste).
Il frutto più cospicuo della sistemica marxiana del 1859
è la nozione di «formazione sociale»
in cui culmina la precedente problematica delle «forme».
È una nozione tendenzialmente classificatoria e tipizzante,
correlata a quella dei «modi di produzione»
(sociali), e al problema della loro successione storica. Per es.,
la nozione di formazione sociale «moderna borghese»
riflette sì un universale concreto, come si è visto,
cioè, il dominio mondiale della borghesia capitalistica,
ma è anche una astrazione tipizzante in quanto racchiude
le leggi del modo di produzione capitalistico che si realizzano
per stadi diseguali nelle singole società nazionali che
ad esso sono accedute. In rapporto alle «formazioni
sociali» Marx crede di poter stabilire una regola che
appare altamente suggestiva. «Una formazione
sociale - egli scrive- non perisce finche
non si siano sviluppate tutte le forze produttive a cui può
dare corso; nuovi e superiori rapporti di produzione non subentrano
mai, prima che siano maturate in seno alla vecchia società
le condizioni materiali della loro esistenza. Ecco perché
l'umanità non si propone se non quei problemi che può
risolvere perché, a considerare le cose dappresso, si trova
sempre che il problema sorge solo quando le condizioni materiali
della sua soluzione esistono già o almeno sono in formazione»
(CEP, 5). Di questa regola, o «legge», tuttavia
è difficile individuare un preciso statuto epistemologico,
poiché essa appare in assoluto non verificabile (o falsificabile)
empiricamente. Epperò essa sembra racchiudere un certo
avvertimento o monito rispetto al fare pratico, indubbiamente,
ma anche rispetto all'indagine storiografica, quando ci si trovi
di fronte a oggetti-società il cui decorso storico non
sia stato turbato dall'esterno. Potremmo considerarla un canone
pratico prudenziale per un verso, un mero principio euristico
(cognitivo in questo senso) per altro verso, anche se è
difficile accettarla nella portata che sembra attribuirle Marx.
La pluralità delle formazioni sociali ci pone di fronte
al problema della loro successione storica e quindi degli elementi
di continuità e discontinuità fra di esse. Che le
formazioni sociali ubbidiscano alle leggi di funzionamento dei
correlativi modi di produzione dominanti e stabilizzati costituisce
già un sufficiente elemento di discontinuità. Ma
le «formazioni sociali», quali diversificati
modelli analitici, vanno tenute distinte, nel discorso di Marx,
dalla nozione (al singolare) di «formazione economica
della società», allorché questa sia indirizzata
a indicare un continuum storicamente verificabile di forze produttive.
Nel Secondo libro del Capitale Marx fornisce la seguente
rappresentazione insieme sintetica e altamente astratta: «Quali
che siano le forme sociali della produzione, lavoratori e mezzi
di produzione restano sempre i suoi fattori. Ma gli uni e gli
altri sono tali soltanto in potenza nel loro stato di reciproca
separazione. perché in generale si possa produrre, essi
si devono unire. Il modo particolare nel quale viene realizzata
questa unione distingue le varie epoche economiche della struttura
della società» (C, II, 41).
Si tratta di un abstractum meramente economico, esplicitamente
presentato come tale (... «quali che siano le forme
sociali della produzione» ...) .
Esso quindi non può ricoprire l'intero ambito della nozione
di «formazione sociale», ma è presentato
tuttavia come dotato di un valore fondante, nel senso di una epocalità.
Marx eredita una grande tradizione, quella che tende a stabilire
«epoche» nella storia del mondo (con i relativi
problemi di periodizzazione), trasferendola su basi storico-materialistiche.
Si è già visto che nella Prefazione del
1859 Marx parla di «epoche» di «rivoluzione
sociale» (quando le forze produttive entrano in contraddizione
con i rapporti di produzione). A un certo punto di tale testo
Marx abbandona di colpo il livello metateorico, per entrare nel
merito, sia pure sub specie di una considerazione macrostorica.
«A grandi linee i modi di produzione asiatico, antico,
feudale e borghese moderno possono essere designati come epoche
progressive della formazione economica della società»
(CEP, 6). Va subito notato che da questa considerazione macrostorica
Marx ha tagliato fuori ogni problematica delle origini, e, particolarmente,
delle società arcaiche o primitive, limitando l'attenzione
alle grandi civiltà sulla cui linea ereditaria siamo collocati.
Uno schema «progressivo» così semplicificato
(e in certo modo di apparenza unilineare) se corrisponde «a
grandi linee» (considerazione, appunto, macrostorica)
alla realtà quale ci è conosciuta, pone forse più
problemi teorici di quanti ne risolva, soprattutto in ordine a
ciò che dovrebbe legare i momenti della successione tra
tipi diversi di formazioni sociali ( epocali) , e la «necessità»
intrinseca dei relativi passaggi. Epperò un approfondito
studio di Marx (sia del Marx precedente il 1859, sia di quello
seguente) spazza via gran parte di queste difficoltà teoriche,
e addirittura falsifica l'astratta presunzione di poter stabilire
determinazioni in qualche guisa a priori di tali passaggi. Cogliere
questo nodo problematico significa venire al cuore teorico del
materialismo storico, al di là delle stesse pagine pur
tanto significative della Prefazione del 1859.
Prima di tutto la questione della unilinearità progressiva
della successione. Facendo ricorso al settore del manoscritto
del 1857-58 intitolato Forme che precedono la produzione capitalistica,
siamo in grado di appurare quale complessità problematica
di considerazioni fosse al fondo e all'origine del semplificato
schema addotto nella Prefazione del 1859. E quanto di
questa problematica venga sacrificato dietro quella appariscente
unilinearità progressiva. Nelle Forme vediamo
l'aspetto diacronico progressivo prevalere (anche in linea di
principio metodico di ricerca) solo attraverso una serie di alternative
più o meno sincroniche, via via rappresentate da situazioni
e popoli diversi, con proposte di diversi modelli analitici da
parte di Marx ( alcuni più tardi abbandonati). Ovviamente
la diacronia non scomparirà mai in Marx, poiché
essa è il fatto stesso del «corso storico»
(e si tratta precipuamente, in lui, del corso storico che conduce
a noi, cioè al sistema borghesecapitalistico). Ma allorché
negli ultimi anni di Marx tanto rilievo prenderà all'unisono
col progresso degli studi, la problematica delle comunità
primitive (che originariamente «poggiano su rapporti
di consanguineità», con residui rilevanti di
ciò anche nelle forme successive) la diacronia stessa si
complicherà in variazioni tipologiche quanto mai aperte
(«le comunità primitive non sono tutte tagliate
sullo stesso modello») e secondo il ventaglio dei loro
successivi sviluppi storici, con le diversificate forme proprietarie
cui hanno dato luogo (per es. nella cosiddetta «comunità
rurale» ). Di questi temi Marx si occuperà,
sulla base degli studi allora disponibili, anche per attualissime
ragioni praticopolitiche relative ai problemi rivoluzionari della
trasformazione sociale in Russia, e particolarmente alla questione
del destino storico del mir o comunità agricola, di cui
discutevano allora in quel paese i populisti.
Ciò che emerge con forza in Marx nell'ultimo periodo del
suo pensiero è un alternativismo, almeno potenziale, quale
contrafforte teorico atto a correggere ogni tentazione di necessaritarismo
aprioristico nella visione del succedersi storico dei modi di
produzione e quindi delle formazioni sociali, Ciò vale
anche per la genesi del «sistema capitalistico»
circa il quale Marx, rivolgendosi a studiosi russi interessati
al suo pensiero, dice che la sua pretesa è unicamente quella
di aver indicato la via lungo la quale, nell'occidente europeo,
esso «uscì dal grembo dell'ordine economico feudale».
Attribuirgli una generalizzazione ulteriore, soprattutto in ordine
ai futuri sviluppi di situazioni ancora arretrate, come appunto
quella russa, è, dice Marx, «farmi insieme troppo
onore e troppo torto». Salvo il fatto, naturalmente,
che chi entrerà nello sviluppo dominato dal rapporto capitalistico
«ne subirà le leggi inesorabili».
Più in generale, in sede storiografica, le «analogie
sorprendenti» (cioè, tipologiche e sistemiche)
che possono scoprirsi in «ambienti storici affatto diversi»,
non possono esimerci dice Marx dal loro studio ravvicinato e differenziale,
proprio per che tali diversità di «ambiente»
condizionano quasi sempre anche quelle degli esiti reali: «Non
ci si arriverà mai - aggiunge Marx - col passepartout
di una filosofia della storia, la cui virtù suprema è
di essere soprastorica». Nulla fa più orrore
a Marx di un uso della sua teoria nella guisa di una «filosofia
della storia». L'avversità a quest'ultima è,
insieme, la sua prima ed ultima parola.
In questo discorso, e altri consimili, dell'ultimo Marx emerge
con rilevanza decisiva la categoria, in certo modo antisistemica,
di «ambiente storico», nella quale egli raccoglie
tutte le variabili empiriche storiograficamente accertabili ma
non sistemi camente dominabili (almeno in via diretta). Per esempio,
dal punto di vista sistematico in una fase storica dell'antica
Roma erano già date le condizioni (esproprio dei piccoli
proprietari agricoli, per un verso; accumulo di grandi capitali
monetari, per altro verso) atte al formarsi del modo di produzione
capitalistico. Non ragioni direttamente riportabili a elementi
sistemici, ma quelle prevalenti relative alle molteplici contingenze
dell'«ambiente storico» produssero invece
la grande proprietà terriera schiavistica, modo di produzione
dal cui dissolversi sorgerà più tardi il sistema
feudale.
È una visione di insieme, metodico-formale, dei processi
storici che bisogna ricavare da molteplici testi di Marx, poiché
egli non si è mai curato, dopo il 1859, di raccoglierla
in una compiuta esposizione teorica (o metateorica). Il «materialismo
storico» risponde all'esigenza di fornire una concezione
integrata dei processi storici, e tenta di soddisfarla diversificandone
i livelli a partire da quello che, per le ragioni che si sono
viste, è considerato di «base».
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