Nel clima retorico di un generico “ritorno a Marx”, sempre invocato e mai veramente concretizzato, emerge la tendenza a rimuovere completamente Lenin, il cui nome è frettolosamente associato all’intero ciclo fallimentare del comunismo storico novecentesco (1917-1991). Si tratta di uno stupido errore, dal momento che oggi un bilancio equilibrato di Lenin è forse ancora più importante di un bilancio generale di Marx. Hanno dunque perfettamente ragione coloro che non si stancano di richiamare ad un bilancio storico di Lenin (cfr. Lenin e il Novecento, a cura di Ruggero Giacomini e Domenico Losurdo, La Città del Sole, Napoli 1997). Esso è però reso molto difficile da alcuni pregiudizi pregressi e consolidati, che finiscono con il costituire ostacoli di fatto per ora insormontabili. Il primo ostacolo sta nel dilettantismo storiografico. A mio avviso la grande rivoluzione russa del 1917, mai abbastanza lodata e rivendicata, si giustifica integralmente da sola some risposta legittima al bagno di sangue del 1914. In quanto risposta legittima al 100% alla guerra di spartizione imperialistica del mondo la rivoluzione del 1917 si autogiustifica, e non ha bisogno di contorsioni ideologiche per autolegittimarsi. Ma ecco arriva subito l’inutile contorsione ideologica a dire che nell’epoca dell’imperialismo, data la “corruzione” delle aristocrazie operaie pagate con i sovraprofitti imperialistici, le rivoluzioni “proletarie” non possono più partire dai punti alti dello sviluppo capitalistico (come diceva inequivocabilmente Marx), ma devono partire dagli anelli deboli della catena mondiale imperialistica. Si tratta solo di una ideologia di copertura ex post, priva di qualsiasi base scientifica. Essa non “corregge” Marx, ma lo seppellisce, perché senza la teoria della formazione del lavoratore collettivo cooperativo associato alleato con il general intellect nei punti alti dello sviluppo delle forze produttive di Marx resta effettivamente pochissimo. Lo ripeto ancora, con il rischio di essere noioso e sgradevole: la rivoluzione del 1917 si giustifica integralmente da sola su basi russe ed anti-imperialistiche, e non ha bisogno di contorsioni ideologiche ex post, punti alti, anelli deboli, aristocrazie operaie, corruzioni da sovraprofitti, eccetera. Sgombrate queste contorsioni, la grandezza di Lenin appare maggiore, non minore. Personalmente, tuttavia, ritengo che la sua eredità debba essere per così dire disaggregata e riaggregata in tre parti: una parte da respingere esplicitamente, una parte da problematizzare radicalmente, una parte da accettare e da sviluppare criticamente. Chi invece pensa a Lenin come ad un “pezzo unico” fuso in una sola colata non fa che coltivare un dogmatismo religioso, e ci allontana così da ogni bilancio critico. La parte di Lenin che deve essere respinta esplicitamente è la sua catastrofica concezione della filosofia come “partiticità”, cioè come filosofia di partito (partjnost’). Si tratta di una integrale riduzione dello spazio filosofico, che è uno spazio di razionalismo dialogico pubblico, in spazio ideologico, che è uno spazio aperto a tutte le illusioni in buona fede ed a tutte le manipolazioni in malafede. Questa riduzione consegna il dibattito filosofico al controllo di cialtroni in giacca di pelle e stivali da mugicco, esattamente come la riduzione dello spazio filosofico a spazio teologico nel Medioevo consegnava il dibattito filosofico ad inquisitori puzzolenti con tenaglie roventi. Lenin fece certo questa riduzione in perfetta buona fede, ma gli alberi si giudicano purtroppo dai loro frutti. La parte di Lenin che deve essere problematizzata radicalmente è quella sul partito leninista dal Che fare? in poi. Questa forma organizzativa parte sempre con veri e propri apostoli della rivoluzione come Lenin, Gramsci e Mao e finisce regolarmente con ceffi come lo Zhivkov che nel 1990 ammette di aver smesso di credere nel comunismo nel 1953, il Gorbaciov che con aria ebete pubblicizza la pizza Hut ed il D’Alema che con un sorrisino cinico rivendica la guerra del Kosovo seduto accanto all’assassino bombardatore americano Clark. Gli esempi sono migliaia, ed il fatto che vengano costantemente rimossi con la ridicola categoria pretesca del “tradimento” ce la dice lunga sulla volontà di autoinganno dei militanti fideisti ed identitari. Ma la questione del partito leninista merita un’indagine più seria. A mio avviso, si tratta di una questione che rivela una contraddittorietà insanabile. Da un lato, tutta la teoria leniniana del partito prende atto del fatto che la classe operaia e proletaria non può accedere da sola ad una coscienza anticapitalistica globale, ma solo ad una coscienza rivendicativa di tipo salariale. Giusto e sacrosanto, ma anche in opposizione frontale ed in piena discontinuità con la teoria di Marx della formazione di un lavoratore collettivo cooperativo associato alleato con il general intellect, che Marx a suo tempo non collegò mai ad una teoria del partito. Dall’altro, la teoria leniniana del partito presuppone organicamente come sua premessa la concezione della classe operaia e proletaria come unica classe veramente rivoluzionaria, cioè inter-modale (teoria che peraltro non risale a Marx, e che quindi non è per nulla “ortodossa”). Chi rivendica il modello leniniano di partito, dunque, non può fingere di ignorare anche il suo presupposto. Ma chi accetta il presupposto, però, ha l’onere della spiegazione del perché da un secolo e mezzo la classe operaia e proletaria è sempre regolarmente sconfitta. Il dire che questo è finora sempre avvenuto per una triplice ragione (immaturità, errore e tradimento), ma non avverrà certamente in futuro è però a mio avviso sostituire il metodo di Marx con la teoria della scommessa (pari) di Pascal, in cui semplicemente al posto dell’esistenza di Dio ci sta la rivoluzionarietà della classe operaia. La parte di Lenin che deve essere sviluppata criticamente sta invece a mio avviso nelle due teorie delle alleanze di classe e della centralità dell’imperialismo. Non bisogna però nasconderci la difficoltà di far passare questi due punti di vista in un ambiente intellettualmente degradato come quello attuale, sia in Italia che in Europa. La teoria delle alleanze di classe in Lenin deriva dalla sua preliminare scelta teorica, e cioè dal fatto che egli non parte come Marx dai modi di produzione, ma dalle formazioni economico-sociali, miste per loro intrinseca natura. Questa teoria è da noi di difficilissimo accoglimento, per due ragioni schizofrenicamente opposte. In primo luogo, perché l’operaismo da circa quarant’anni ha abituato a concepire il problema del soggetto sociale rivoluzionario non come costruzione culturale e politica di alleanze fra diversi, ma come proletarizzazione a macchia d’olio di soggetti, e quindi come loro omogeneizzazione organica. In secondo luogo, perché il togliattismo per mezzo secolo ha abituato a pensare le alleanze di classe sotto l’erroneo marchio del “keynesismo, prima tappa del socialismo”, e quindi come alleanza della classe operaia (Togliatti, Longo, Berlinguer) con la borghesia di stato (Vanoni, Mattei, Prodi). E dal momento che la somma spregevole di togliattismo e di operaismo fa il 100% della cultura politica italiana realmente esistente è estremamente difficile, per non dire impossibile, propiziare un riorientamento gestaltico soddisfacente sulla questione delle alleanze di classe. La teoria dell’imperialismo è il gioiello che Lenin ci ha tramandato. A più di ottanta anni di distanza occorre certo riverificare la presenza o meno dei cinque elementi che a suo tempo Lenin indicò come caratteristiche dell’imperialismo, ed anche tener conto del fatto che oggi l’alleanza militare fra l’impero americano, i suoi servi anglosassoni insulari ed i suoi padroni sionisti è fortemente squilibrata rispetto a tutti gli altri centri di potere militari. Ma questa teoria resta nell’essenziale valida, ed ogni sua frettolosa liquidazione appare a un tempo ridicola e fastidiosa. Non penso tanto alla sua liquidazione pomposamente futuristica (cfr. A. Negri-M. Hardt, Impero, Rizzoli, Milano 2002). Essa è talmente infondata, dilettantistica, settaria e ridicola da autoescludersi da sola. Penso piuttosto al suo accoglimento frettoloso da parte di settori maggioritari del movimento no-global e degli intellettuali-giornalisti che lo fiancheggiano, ed anche da parte del ceto politico professionale di partitini massimalisti privi di orientamento e di serietà teorica (tanto per non fare nomi, del partito della Rifondazione Comunista in Italia). In un momento di sbandamento teorico come questo, ogni frettoloso rifiuto della teoria dell’imperialismo è puro veleno. Questa teoria, infatti, è la sola teoria che l’establishment politicamente corretto integrato nel sistema non può accettare (ogni altra forma di pauperismo gli è invece congeniale e benvenuta), ed appunto per questo il ceto politico che annusa istintivamente questo fatto (come il cane da tartufi, pur essendo analfabeta, annusa il tartufo) si legittima con i suoi alleati moderati mettendo bene in chiaro che con la teoria dell’imperialismo non ha nulla a che fare e che invece persegue un ritorno a Marx al 50% con Wojtyla ed al 50% con Pannella (più esattamente, al 50% con Wojtyla per quanto riguarda il pauperismo terzomondistico, la polemica contro il consumismo e il generico rifiuto della guerra ed al 50% con Pannella per quanto riguarda il costume radicale e l’entusiastica accettazione della cultura della droga). In sintesi telegrafica, la questione dell’imperialismo è oggi, a 120 anni dalla morte di Marx, di gran lunga la più importante. Nessuna altra questione le può essere seriamente paragonata. Non esiste cartina di tornasole migliore della teoria dell’imperialismo e dello sdegno verso gli omicidi degli assassini americani e sionisti. Il problema, ovviamente, sta nel trasformare questo sdegno impotente in programma politico e culturale di opposizione. Ma qui siamo oltre l’occasione dei 120 anni dalla morte di Marx. |