Lenin

L'imperialismo fase suprema del capitalismo

6. La spartizione del mondo tra le grandi potenze


Il geografo A. Supan, nella sua opera sullo Sviluppo territoriale delle colonie europee
(1), dà il seguente prospetto di tale sviluppo alla fine del XIX secolo. Appartenevano alle potenze coloniali europee (tra le quali annoveriamo gli Stati Uniti):

1876 1900
Africa 10,8% 90,4% +79,6%
Polinesia 56,8% 98,9% +42,1%
Asia 51,5 % 56,6% +5,1%
Australia 100,0% 100,0% -
America 27,5% 27,2 % -0,3%

"Pertanto - conclude Supan - la caratteristica di questo periodo sta nella spartizione dell'Africa e della Polinesia. Siccome in Asia ed in America non vi sono territori non occupati, cioè non appartenenti ad alcuno Stato, la conclusione di Supan va estesa dicendo che il tratto caratteristico del periodo considerato è costituito dalla spartizione definitiva della terra; definitiva, non già nel senso che sia impossibile una nuova spartizione - ché anzi nuove spartizioni sono possibili e inevitabili- ma nel senso che la politica coloniale dei paesi capitalistici ha condotto a termine l'arraffamento di terre non occupate sul nostro pianeta. Il mondo per la prima volta appare completamente ripartito, sicché in avvenire sarà possibile soltanto una nuova spartizione, cioè il passaggio da un "padrone" a un altro, ma non dallo stato di non occupazione a quello di appartenenza ad un "padrone."
Per conseguenza noi attraversiamo uno speciale periodo di politica coloniale mondiale, strettamente collegato con la più recente "fase di sviluppo del capitalismo", con il capitale finanziario. Pertanto è utile venire anzitutto ai dati di fatto, per fissare, con la maggiore esattezza possibile, così la differenza di questa epoca da tutte le precedenti come anche la situazione attuale. Si presentano, anzitutto, due quesiti di fatto: si può constatare nel periodo del capitale finanziario una speciale intensificazione della politica coloniale o un inasprimento della lotta per le colonie? In qual modo è momentaneamente ripartito il mondo sotto questo rapporto?
L'americano Henry C. Morris, nella sua Storia della colonizzazione(2), cerca di riunire le cifre sull'estensione dei possedimenti coloniali dell'Inghilterra, della Francia e della Germania nei vari periodi del secolo XIX. Ecco riassuntivamente i risultati:

Superficie dei possedimenti coloniali
Inghilterra Francia Germania
Superficie Abitanti Superficie Abitanti Superficie Abitanti
1815-30 ? 126,4 0,02 0,5 - -
1860 2,5 145,1 0,2 3,4 - -
1880 7,7 267,9 0,7 7,5 - -
1899 9,3 309,0 3,7 56,4 1,0 14,7

N.B. La superficie è espressa in milioni di miglia quadrate e la popolazione in milioni

Per l'Inghilterra il periodo delle più grandi conquiste coloniali cade tra il 1860 e il 1880, ed esse sono ancora cospicue negli ultimi vent'anni del secolo XIX. Per la Francia e la Germania sono importanti specialmente questi ultimi venti anni. Abbiamo già veduto che il periodo di massimo sviluppo del capitalismo premonopolistico, col predominio della libera concorrenza, cade tra il sesto e il settimo decennio. Ora vediamo che specialmente dopo tale periodo s'inizia un immenso "sviluppo" delle conquiste coloniali e si acuisce all'estremo la lotta per la ripartizione territoriale del mondo.
È quindi fuori discussione il fatto che al trapasso del capitalismo alla fase di capitalismo monopolistico finanziario è collegato un inasprimento della lotta per la ripartizione del mondo. Hobson nella sua opera sull'imperialismo segnala particolarmente il periodo dal 1884 al 1900 come quello della maggiore "espansione" territoriale dei più importanti paesi europei. Secondo i suoi calcoli, in questo periodo l'Inghilterra acquistò 3,7 milioni di miglia quadrate con una popolazione di 57 milioni; la Francia 3,6 milioni di miglia quadrate con una popolazione di 16,7 milioni di abitanti; il Belgio 900 mila miglia quadrate con 30 milioni di abitanti, e il Portogallo 800 mila miglia quadrate con 9 milioni di abitanti. La caccia alle colonie da parte di tutti gli Stati capitalistici alla fine del secolo XIX, e particolarmente dal 1880 in poi, è un fatto notissimo nella storia della diplomazia e della politica estera.

Durante l'apogeo della libera concorrenza in Inghilterra, tra il 1840 e il 1860, i dirigenti politici borghesi d'Inghilterra erano avversari della politica coloniale, e consideravano come inevitabile ed utile la liberazione delle colonie e la loro completa separazione dall'Inghilterra.
M. Beer nel suo studio sul "più recente imperialismo inglese"(3), apparso nel 1898, dice che un uomo di Stato inglese, così incline in generale all'imperialismo come Disraeli, aveva dichiarato nel 1852 che "le colonie sono pietre attaccate al nostro collo. Ma alla fine del secolo XIX gli eroi del giorno in Inghilterra erano Cecil Rhodes e Joseph Chamberlain, che propagandavano apertamente l'imperialismo e facevano la più cinica politica imperialistica!" Non è senza interesse osservare, come già allora, per questi uomini politici dirigenti della borghesia inglese, fosse chiaro il nesso tra le radici per così dire puramente economiche e quelle politico-sociali del recentissimo imperialismo.
Chamberlain predicava l'imperialismo, come la "politica vera, saggia ed economica", riferendosi alla concorrenza che l'Inghilterra doveva sostenere sul mercato mondiale contro la Germania, l'America e il Belgio. La salvezza sta nei monopoli - dicevano i capitalisti - e formavano cartelli, sindacati e trust; la salvezza sta nei monopoli, tenevano bordone i capi politici della borghesia, e si affrettavano ad arraffare le parti del mondo non ancora divise.
Cecil Rhodes, stando a quanto racconta un suo intimo amico, il giornalista Stead, avrebbe detto nel 1895, a proposito delle sue idee imperialistiche: "Sono andato ieri nell'East End (quartiere operaio di Londra) a un comizio di disoccupati. Vi ho udito discorsi forsennati. Era un solo grido: pane! pane! Ci pensavo ritornando a casa, e più che mai mi convincevo dell'importanza dell'imperialismo ... La mia grande idea è quella di risolvere la questione sociale, cioè di salvare i quaranta milioni di abitanti del Regno Unito dà una micidiale guerra civile. Noi, politici colonialisti, dobbiamo perciò conquistare nuove terre, dove dare sfogo all'eccesso di popolazione e creare nuovi sbocchi alle merci che gli operai inglesi producono nelle fabbriche e nelle miniere. L'impero - io l'ho sempre detto - è una questione di stomaco. Se non si vuole la guerra civile, occorre diventare imperialisti."
(4) Così parlava nel 1895 Cecil Rhodes, milionario, re della finanza e responsabile principale della guerra dell'Inghilterra contro i boeri. Ma la sua difesa dell'imperialismo è un pochetto grossolana e cinica, sebbene in sostanza non differisca dalla "teoria" dei signori Maslov, Sudekum, Potresov, David, del fondatore del marxismo russo [Plechanov], ecc.. Cecil Rhodes non era che un socialsciovinista un poco più onesto...

Per dare un quadro possibilmente esatto della ripartizione territoriale del mondo e dei mutamenti avvenuti in questo campo nel corso degli ultimi decenni, utilizzeremo i dati sui possedimenti coloniali di tutti gli Stati del mondo, recati da Supan nell'opera succitata. Supan prende gli anni 1876 e 1900. Noi prenderemo l'anno 1876, assai bene scelto come quello nel quale si può considerare terminata, in complesso, l'evoluzione del capitalismo dell'Europa occidentale nella sua fase premonopolistica: e prenderemo inoltre l'anno 1914 sostituendo ai dati di Supan quelli più recenti delle Tabelle geografico-statistiche di Huebner. Supan considera soltanto le colonie; noi riteniamo utile, per completare il quadro, aggiungervi riassuntivamente i dati sui paesi non coloniali, come pure sulle semicolonie, tra le quali annoveriamo la Persia, la Cina e la Turchia. La Persia è già quasi del tutto diventata colonia; la Cina e la Turchia sono sul punto di diventarlo.
Otteniamo così i seguenti risultati:

Possedimenti coloniali delle grandi potenze
(in milioni di Km. quadrati e in milioni di abitanti)
Colonie Metropoli Totale
1876 1914 1914 1914
Km2 abit. Km2 Abit. Km2 Abit. Km2 Abit.
Inghilterra 22,5 251,9 33,5 393,5 0,3 46,5 33,8 440,0
Russia 17,0 15,9 17,4 33,2 5,4 136,2 22,8 169,4
Francia 0,9 6,0 10,6 55,5 0,5 39,6 11,1 95,1
Germania - - 2,9 12,3 0,5 64,9 3,4 77,2
Stati Uniti - - 0,3 9,7 9,4 97,0 9,7 106,7
Giappone - - 0,3 19,2 0,4 53,0 0,7 72,2
Le sei grandi potenze insieme 40,4 273,8 65,0 523,4 16,5 437,2 81,5 960,6
Possedimenti coloniali di altri Stati
(Belgio, Olanda, ecc.) 9,9 45,3
Semicolonie (Persia, Cina, Turchia) 14,5 361,2
Rimanenti paesi 28,0 289,9
Tutta la terra 133,9 1.657,0


Si vede chiaramente come tra la fine del secolo XIX e l'inizio del XX la spartizione del mondo fosse oramai "totale". I possedimenti coloniali crebbero a dismisura dopo il 1876, da 40 a 65 milioni di Km. quadrati, cioè a più di una volta e mezzo. Questo aumento ascende per le sei grandi potenze a 25 milioni di Km. quadrati, vale a dire una volta e mezzo la superficie della madrepatria (16 milioni e mezzo). Nel 1876 tre Stati non avevano alcuna colonia, e un altro, la Francia, quasi nessuna. Nel 1914 questi quattro paesi possedevano colonie per 14,1 milioni di Km. quadrati, cioè circa una volta e mezzo l'Europa, con una popolazione di circa 100 milioni di uomini.
Pertanto l'ineguaglianza dell'estensione dei possedimenti coloniali è molto grande. Se si confrontano, per esempio, la Francia, la Germania e il Giappone, che non differiscono molto per superficie e popolazione, risulta che la Francia ha acquistato, come superficie, quasi tre volte più di colonie che la Germania e il Giappone presi insieme. Ma la Francia all'inizio del detto periodo era assai più ricca di capitale finanziario che non, forse, la Germania e il Giappone presi insieme.

Oltre alle condizioni economiche, e in base a queste, i>nfluiscono sulla grandezza del possesso coloniale anche le condizioni geografiche, ecc. Benché negli ultimi decenni sia avvenuto, sotto l'influenza della grande industria, dello scambio e del capitale finanziario, un forte livellamento in tutto il mondo, e si siano pareggiate nei vari paesi le condizioni di economia e di vita, tuttavia persistono non poche differenze. Tra i sei paesi summenzionati troviamo dei giovani paesi capitalisti in rapidissimo progresso, come l'America, la Germania e il Giappone; altri in cui il capitalismo è antico, e che negli ultimi tempi si sono sviluppati assai più lentamente dei primi, come la Francia e l'Inghilterra, e infine un paese, la Russia, il più arretrato nei riguardi economici, dove il più recente capitalismo imperialista è, per così dire, avviluppato da una fitta rete di rapporti precapitalistici.
Accanto ai possedimenti coloniali delle grandi potenze noi abbiamo messo le piccole colonie degli Stati minori, le quali formano l'oggetto più immediato, per così dire, di una possibile e probabile nuova "spartizione" delle colonie. Per la maggior parte questi Stati minori conservano le loro colonie soltanto grazie all'esistenza fra i grandi Stati di antagonismi d'interessi e di attriti, che impediscono un accordo per la divisione del bottino.
Per ciò che riguarda gli Stati "semicoloniali", essi sono un esempio di quelle forme di transizione nelle quali ci imbattiamo in tutti i campi, così della natura come della società. Il capitale finanziario è una potenza così ragguardevole, anzi si può dire così decisiva, in tutte le relazioni economiche ed internazionali, da essere in grado di assoggettarsi anche paesi in possesso della piena indipendenza politica, come di fatto li assoggetta; ne vedremo ben presto degli esempi. Ma naturalmente esso trova la maggior "comodità" e i maggiori profitti allorché tale assoggettamento è accompagnato dalla perdita dell'indipendenza politica da parte dei paesi e popoli asserviti. Sotto tale rapporto i paesi semicoloniali costituiscono un caratteristico "quid medium".

È chiaro che la lotta per questi paesi semicoloniali diventa particolarmente acuta nell'epoca del capitale finanziario, allorché il resto del mondo è già spartito. Politica coloniale e imperialismo esistevano anche prima del più recente stadio del capitalismo, anzi prima del capitalismo stesso. Roma, fondata sulla schiavitù, condusse una politica coloniale ed attuò l'imperialismo. Ma le considerazioni "generali" sull'imperialismo, che dimentichino le fondamentali differenze tra le formazioni economico-sociali o le releghino nel retroscena, degenerano in vuote banalità o in rodomontate sul tipo del confronto tra "la grande Roma e la grande Britannia." (5)

Perfino la politica coloniale dei precedenti stadi del capitalismo si differenzia essenzialmente dalla politica coloniale del capitale finanziario. La caratteristica fondamentale del modernissimo capitalismo è costituita dal dominio delle leghe monopolistiche dei grandi imprenditori. Tali monopoli sono specialmente solidi allorché tutte le sorgenti di materie prime passano nelle stesse mani. Abbiamo visto lo zelo con cui le leghe internazionali dei capitalisti si sforzano, a più non posso, di strappare agli avversari ogni possibilità di concorrenza, di accaparrare le miniere di ferro e le sorgenti di petrolio, ecc. Soltanto il possesso coloniale assicura al monopolio, in modo assoluto, il successo contro ogni eventualità nella lotta con l'avversario, perfino contro la possibilità che l'avversario si trinceri dietro qualche legge di monopolio statale.

Quanto più il capitalismo è sviluppato, quanto più la scarsità di materie prime è sensibile, quanto più acuta è in tutto il mondo la concorrenza e la caccia alle sorgenti di materie prime, tanto più disperata è la lotta per la conquista delle colonie. "Si può persino - scrive Schilder - azzardare l'opinione, che a taluno potrà sembrare paradossale, che in un tempo più o meno vicino l'aumento della popolazione urbana e industriale sarà ostacolato piuttosto dalla scarsità di materie prime disponibili per l'industria che non dalla mancanza di mezzi di sussistenza. Così scarseggia e diventa sempre più caro il legname, e vi è penuria di cuoio e di materie prime per l'industria tessile. Come esempio degli sforzi fatti dalle leghe di industriali per conseguire, in seno alla complessiva economia mondiale, l'equilibrio tra agricoltura ed industria andrebbero ricordate la Federazione internazionale delle Unioni padronali dei tessitori di cotone, esistente dal 1904 nei principali paesi industriali e la Federazione delle Unioni padronali europee dei tessitori di lino, formatasi nel 1910 sull'esempio della precedente."

(6) Senza dubbio i riformisti borghesi, e fra di essi in primo luogo i kautskiani di oggi, tentano di svalutare l'importanza di questi fatti rilevando che "si potrebbero" avere le materie prime sul libero mercato senza la "costosa e pericolosa" politica coloniale, e che "si potrebbe" aumentare immensamente l'offerta di materie prime con il "semplice" miglioramento dell'agricoltura in generale. Ma simili rilievi, ben presto, non diventano altro che panegirici e imbellettamenti dell'imperialismo, giacché essi sono possibili in quanto non tengono conto della più importante caratteristica del capitalismo moderno: i monopoli. Il libero mercato appartiene sempre più al passato, ed è sempre più ridotto dai sindacati e trust monopolistici, mentre il "semplice" miglioramento dell'agricoltura richiede che siano migliorate le condizione delle masse, elevati i salari e ridotti i profitti. Dove esistono, fuori che nella fantasia dei soavi riformisti, trust capaci di curarsi della situazione delle masse, anziché di conquistare colonie?
Per il capitale finanziario sono importanti non solo le sorgenti di materie prime già scoperte, ma anche quelle eventualmente ancora da scoprire, giacché ai nostri giorni la tecnica fa progressi vertiginosi, e terreni oggi inutilizzabili possono domani esser messi in valore, appena siano stati trovati nuovi metodi (e a tal fine la grande banca può allestire speciali spedizioni di ingegneri, agronomi, ecc.) e non appena siano stati impiegati più forti capitali.
Lo stesso si può dire delle esplorazioni in cerca di nuove ricchezze minerarie, della scoperta di nuovi metodi di lavorazione e di utilizzazione di questa o quella materia prima, ecc. Da ciò nasce inevitabilmente la tendenza del capitale finanziario ad allargare il proprio territorio economico, e anche il proprio territorio in generale. Nello stesso modo che i trust capitalizzano la loro proprietà valutandola due o tre volte al disopra del vero, giacché fanno assegnamento sui profitti "possibili" (ma non reali) del futuro e sugli ulteriori risultati del monopolio, così il capitale finanziario, in generale, si sforza di arraffare quanto più territorio è possibile, comunque e dovunque, in cerca soltanto di possibili sorgenti di materie prime, con la paura di rimanere indietro nella lotta furiosa per l'ultimo lembo della sfera terrestre non ancora diviso, per una nuova spartizione dei territori già divisi.

I capitalisti inglesi fanno tutto il possibile per promuovere nella loro colonia d'Egitto la produzione del cotone, che nel 1904 su 2,3 milioni di ettari di territorio coltivato occupava 0,6 milioni di ettari, vale a dire più di un quarto; i russi fanno lo stesso nelle loro colonie del Turkestan. Perché gli uni e gli altri possono così battere meglio i loro concorrenti esteri, monopolizzare più facilmente le sorgenti di materia prima e creare un trust tessile quanto più è possibile economico e redditizio, con produzione "combinata" Mediante la concentrazione di tutti gli stadi della produzione e della lavorazione del cotone nelle stesse mani.
Anche gli interessi d'esportazione del capitale spingono alla conquista di colonie, giacché sui mercati coloniali più facilmente (e talvolta unicamente) si possono eliminare i concorrenti, col sistema del monopolio, assicurare a sé le forniture, fissare in modo definitivo le necessarie "relazioni".

La soprastruttura extraeconomica, che sorge sulla base del capitale finanziario, la sua politica e la sua ideologia, acuiscono l'impulso verso le conquiste coloniali. "Il capitale finanziario non vuole libertà, ma egemonia," dice a ragione Hilferding. E uno scrittore borghese francese, quasi a completare e sviluppare il citato pensiero di Cecil Rhodes, afferma che alle cause economiche della politica coloniale se ne aggiungono altre di natura sociale. "Per effetto delle crescenti difficoltà della vita - scrive Wahl - che non gravano soltanto sulle masse lavoratrici, ma anche sui ceti medi, in tutti i paesi dell'antica civiltà si accumulano impazienze, rancori, odio, che minacciano la pubblica quiete; energie espulse da un determinato alveo di classe... che si devono incanalare e a cui occorre trovare impiego all'esterno del paese, affinché esse non esplodano all'interno."
(7) Quando si tratta della politica coloniale dell'imperialismo capitalista deve notarsi che il capitale finanziario e la relativa politica internazionale, che si riduce alla lotta tra le grandi potenze per la ripartizione economica e politica nel mondo, creano tutta una serie di forme transitorie della dipendenza statale. Tale epoca è caratterizzata non soltanto dai due gruppi fondamentali di paesi, cioè paesi possessori di colonie e colonie, ma anche dalle più svariate forme di paesi asserviti che formalmente sono indipendenti dal punto di vista politico, ma che in realtà sono avviluppati da una rete di dipendenza finanziaria e diplomatica. Abbiamo già accennato a una di queste forme, quella delle semicolonie. Esempio di un'altra forma è l'Argentina. Schulze-Gaevernitz, nel suo libro sull'imperialismo inglese, scrive: "L'America meridionale, specie l'Argentina, si trova in tale stato di dipendenza finanziaria da Londra, da potersi considerare, press'a poco, una colonia commerciale inglese."(8)
Schilder, basandosi sul rapporto del console austro-ungarico a Buenos Aires per il 1909, calcola a 8 miliardi e 750 milioni di franchi i capitali inglesi impiegati in Argentina. Si può facilmente immaginare, per, conseguenza, quale influenza abbia il capitale finanziario inglese (e la sua cara "amica", la diplomazia) sulla borghesia dell'Argentina e sui circoli dirigenti della sua vita economica e politica. Una forma un po' diversa di dipendenza finanziaria e diplomatica, pur con la indipendenza politica, ci è offerta dal Portogallo. Questo è uno Stato indipendente e sovrano, ma di fatto da oltre duecento anni, cioè dal tempo della guerra di successione spagnola (1700-1714), si trova sotto il protettorato dell'Inghilterra. L'Inghilterra assunse le difese del Portogallo e delle sue colonie per rafforzare la propria posizione nella lotta contro le sue rivali, Spagna e Francia, ottenendo in compenso privilegi commerciali, migliori condizioni per l'esportazione delle merci e specialmente del capitale nel Portogallo e nelle sue colonie e, infine, la possibilità di usarne le isole, i porti, i cavi telegrafici, ecc.
(9)
Simili rapporti tra i singoli grandi e piccoli Stati esistettero sempre, ma nell'epoca dell'imperialismo capitalistico essi diventano sistema generale, sono un elemento essenziale della politica della "ripartizione del mondo", e si trasformano in anelli della catena di operazioni del capitale finanziario mondiale. Per concludere sulla questione della divisione del mondo, dobbiamo ancora rilevare quanto segue. La questione della ripartizione del mondo non fu posta apertamente e risolutamente soltanto nei libri americani, dopo la guerra ispano-americana, e nei libri inglesi, dopo la guerra boera, tra la fine del secolo XIX e gli inizi del XX, e non fu valutata sistematicamente soltanto nei libri dei tedeschi, che vigilavano con la massima "gelosia" "l'imperialismo inglese".
Anche nella letteratura borghese francese la questione è stata posta con sufficiente precisione e ampiezza per quanto è compatibile col punto di vista borghese. Rinviamo allo storiografo francese Driault, il quale nel suo libro intitolato Problemi politici e sociali alla fine del secolo XIX, al capitolo su Le grandi potenze e la spartizione del mondo, scrive quanto segue: "Negli ultimi anni tutti i territori liberi del mondo, ad eccezione della Cina, furono occupati dalle potenze d'Europa e del Nordamerica. In rapporto a tali conquiste si verificarono già vari conflitti e spostamenti d'influenza, che sono il presagio di ancor più terribili esplosioni in un prossimo avvenire. Giacché occorre affrettarsi: le nazioni che non sono ancora provvedute corrono il rischio di non ottenere più la loro parte e di non poter partecipare a quell'immenso sfruttamento della terra che sarà uno dei fattori essenziali del secolo XX. Questo è il motivo per cui negli ultimi tempi l'Europa e l'America furono colte da una vera febbre di espansioni coloniali, dall'"imperialismo", che costituisce una delle più notevoli caratteristiche dello scorcio dei secolo XIX." E l'autore aggiungeva: "In questa spartizione della terra, in questa forsennata caccia ai tesori e ai grandi mercati della terra, la potenza relativa degl'imperi fondati nel secolo XIX è assolutamente sproporzionata alla posizione che occupano in Europa le nazioni che li hanno fondati. Le potenze che predominano in Europa e ne decidono le sorti, non sono allo stesso modo dominanti anche in tutto il mondo; e siccome la potenza coloniale, la speranza di possedere ricchezze ancora ignote, si ripercuote, di riflesso, a sua volta, sulla forza relativa delle grandi potenze europee, così la questione coloniale o l'"imperialismo", se così sì vuole, che ha già modificato le condizioni politiche dell'Europa medesima, le modificherà sempre più." (10)


Note

1. A. Supan, Die territoriale Entwicklung der europäischen Kolonien, Gotha, 1906, p. 254.
2. Henry C. Morris, The History of Colonization, New York, 1900, vol. Il, p. 88; 1, pp. 304, 419.
3. Die Neue Zeit, XVI, 1898, 1, p. 302.
4. Die Neue Zeit, cit., p. 304.
5. C. P. Lucas, Greater Rome and Greater Britain, Oxford, 1912, o Earl of Cromer, Ancicent and Modern Imperialism, Londra, 1910.
6. Schilder, op. cit., pp. 38 e 42.
7. Wahl, La France aux colonies, citato da Henri Russier, Le partage de l'Océanie, Parigi, 1905, pp. 165-66.
8. Schulze-Gaevernitz, Britischer Imperialismus und englischer Freihandel zu Beginn des 20. Jahrhunderts, Lipsia, 1906, p. 318. Le stesse cose dice Sartorius von Waltersausen nel suo libro Das volkswirtschaftliche System der Kapitalanlage im Austande, Berlino, 1907, p. 46.
9. Schilder, op. cit., VoI. I, pp. 160-161.
10. E. Driault, Problèmes politiques et sociaux, Parigi, 1907, p. 289.