Lenin
L'imperialismo fase suprema del capitalismo
6. La spartizione del mondo tra le grandi potenze |
|
Il
geografo A. Supan, nella sua opera sullo Sviluppo territoriale
delle colonie europee (1),
dà il seguente prospetto di tale sviluppo alla fine del
XIX secolo.
Appartenevano
alle potenze coloniali europee (tra le quali annoveriamo gli Stati
Uniti):
|
1876 |
1900 |
|
Africa |
10,8% |
90,4%
|
+79,6% |
Polinesia |
56,8% |
98,9%
|
+42,1% |
Asia |
51,5
% |
56,6%
|
+5,1% |
Australia |
100,0% |
100,0%
|
- |
America |
27,5% |
27,2
% |
-0,3% |
"Pertanto
- conclude Supan - la caratteristica di questo periodo sta
nella spartizione dell'Africa e della Polinesia. Siccome in Asia
ed in America non vi sono territori non occupati, cioè
non appartenenti ad alcuno Stato, la conclusione di Supan
va estesa dicendo che il tratto caratteristico del periodo considerato
è costituito dalla spartizione definitiva della terra;
definitiva, non già nel senso che sia impossibile una nuova
spartizione - ché anzi nuove spartizioni sono possibili
e inevitabili- ma nel senso che la politica coloniale dei paesi
capitalistici ha condotto a termine l'arraffamento di
terre non occupate sul nostro pianeta. Il mondo per la prima volta
appare completamente ripartito, sicché in avvenire sarà
possibile soltanto una nuova spartizione, cioè il passaggio
da un "padrone" a un altro, ma non dallo stato di non occupazione
a quello di appartenenza ad un "padrone."
Per
conseguenza noi attraversiamo uno speciale periodo di politica
coloniale mondiale, strettamente collegato con la più recente
"fase di sviluppo del capitalismo", con il capitale finanziario.
Pertanto è utile venire anzitutto ai dati di fatto, per
fissare, con la maggiore esattezza possibile, così la differenza
di questa epoca da tutte le precedenti come anche la situazione
attuale. Si presentano, anzitutto, due quesiti di fatto: si può
constatare nel periodo del capitale finanziario una speciale intensificazione
della politica coloniale o un inasprimento della lotta per le
colonie? In qual modo è momentaneamente ripartito il mondo
sotto questo rapporto?
L'americano
Henry C. Morris, nella sua Storia della colonizzazione(2), cerca di riunire le cifre sull'estensione
dei possedimenti coloniali dell'Inghilterra, della Francia e della
Germania nei vari periodi del secolo XIX. Ecco riassuntivamente
i risultati:
Superficie
dei possedimenti coloniali |
|
Inghilterra |
Francia |
Germania |
|
Superficie |
Abitanti |
Superficie |
Abitanti |
Superficie |
Abitanti |
1815-30
|
? |
126,4 |
0,02 |
0,5 |
- |
- |
1860
|
2,5 |
145,1 |
0,2 |
3,4 |
- |
- |
1880
|
7,7 |
267,9 |
0,7 |
7,5 |
- |
- |
1899
|
9,3 |
309,0 |
3,7 |
56,4 |
1,0
|
14,7 |
N.B.
La superficie è espressa in milioni di miglia quadrate
e la popolazione in milioni
Per
l'Inghilterra il periodo delle più grandi conquiste coloniali
cade tra il 1860 e il 1880, ed esse sono ancora cospicue negli
ultimi vent'anni del secolo XIX. Per la Francia e la Germania
sono importanti specialmente questi ultimi venti anni. Abbiamo
già veduto che il periodo di massimo sviluppo del capitalismo
premonopolistico, col predominio della libera concorrenza, cade
tra il sesto e il settimo decennio. Ora vediamo che specialmente
dopo tale periodo s'inizia un immenso "sviluppo" delle conquiste
coloniali e si acuisce all'estremo la lotta per la ripartizione
territoriale del mondo.
È quindi fuori discussione il fatto
che al trapasso del capitalismo alla fase di capitalismo monopolistico
finanziario è collegato un inasprimento della
lotta per la ripartizione del mondo.
Hobson
nella sua opera sull'imperialismo segnala particolarmente il periodo
dal 1884 al 1900 come quello della maggiore "espansione" territoriale
dei più importanti paesi europei. Secondo i suoi calcoli,
in questo periodo l'Inghilterra acquistò 3,7 milioni di
miglia quadrate con una popolazione di 57 milioni; la Francia
3,6 milioni di miglia quadrate con una popolazione di 16,7 milioni
di abitanti; il Belgio 900 mila miglia quadrate con 30 milioni
di abitanti, e il Portogallo 800 mila miglia quadrate con 9 milioni
di abitanti. La caccia alle colonie da parte di tutti gli Stati
capitalistici alla fine del secolo XIX, e particolarmente dal
1880 in poi, è un fatto notissimo nella storia della diplomazia
e della politica estera.
Durante
l'apogeo della libera concorrenza in Inghilterra, tra il 1840
e il 1860, i dirigenti politici borghesi d'Inghilterra erano avversari della politica coloniale, e consideravano come inevitabile ed
utile la liberazione delle colonie e la loro completa separazione
dall'Inghilterra.
M. Beer nel suo studio sul "più recente
imperialismo inglese"(3), apparso
nel 1898, dice che un uomo di Stato inglese, così incline
in generale all'imperialismo come Disraeli, aveva dichiarato nel
1852 che "le colonie sono pietre attaccate al nostro collo.
Ma alla fine del secolo XIX gli eroi del giorno in Inghilterra
erano Cecil Rhodes e Joseph Chamberlain, che propagandavano
apertamente l'imperialismo e facevano la più cinica politica
imperialistica!"
Non
è senza interesse osservare, come già allora, per
questi uomini politici dirigenti della borghesia inglese, fosse
chiaro il nesso tra le radici per così dire puramente economiche
e quelle politico-sociali del recentissimo imperialismo.
Chamberlain
predicava l'imperialismo, come la "politica vera, saggia ed
economica", riferendosi alla concorrenza che l'Inghilterra
doveva sostenere sul mercato mondiale contro la Germania, l'America
e il Belgio. La salvezza sta nei monopoli - dicevano i capitalisti
- e formavano cartelli, sindacati e trust; la salvezza sta nei
monopoli, tenevano bordone i capi politici della borghesia, e
si affrettavano ad arraffare le parti del mondo non ancora divise.
Cecil Rhodes, stando a quanto racconta un suo intimo amico, il
giornalista Stead, avrebbe detto nel 1895, a proposito delle sue
idee imperialistiche:
"Sono
andato ieri nell'East End (quartiere operaio di Londra) a un
comizio di disoccupati. Vi ho udito discorsi forsennati. Era
un solo grido: pane! pane! Ci pensavo ritornando a casa, e più
che mai mi convincevo dell'importanza dell'imperialismo ...
La mia grande idea è quella di risolvere la questione
sociale, cioè di salvare i quaranta milioni di abitanti
del Regno Unito dà una micidiale guerra civile. Noi,
politici colonialisti, dobbiamo perciò conquistare nuove
terre, dove dare sfogo all'eccesso di popolazione e creare nuovi
sbocchi alle merci che gli operai inglesi producono nelle fabbriche
e nelle miniere. L'impero - io l'ho sempre detto - è
una questione di stomaco. Se non si vuole la guerra civile,
occorre diventare imperialisti."
(4)
Così
parlava nel 1895 Cecil Rhodes, milionario, re della finanza e
responsabile principale della guerra dell'Inghilterra contro i
boeri. Ma la sua difesa dell'imperialismo è un pochetto
grossolana e cinica, sebbene in sostanza non differisca dalla
"teoria" dei signori Maslov, Sudekum, Potresov, David, del fondatore
del marxismo russo [Plechanov], ecc.. Cecil Rhodes non era che
un socialsciovinista un poco più onesto...
Per
dare un quadro possibilmente esatto della ripartizione territoriale
del mondo e dei mutamenti avvenuti in questo campo nel corso degli
ultimi decenni, utilizzeremo i dati sui possedimenti coloniali
di tutti gli Stati del mondo, recati da Supan nell'opera succitata.
Supan prende gli anni 1876 e 1900. Noi prenderemo l'anno 1876,
assai bene scelto come quello nel quale si può considerare
terminata, in complesso, l'evoluzione del capitalismo dell'Europa
occidentale nella sua fase premonopolistica: e prenderemo inoltre
l'anno 1914 sostituendo ai dati di Supan quelli più recenti
delle Tabelle geografico-statistiche di Huebner. Supan
considera soltanto le colonie; noi riteniamo utile, per completare
il quadro, aggiungervi riassuntivamente i dati sui paesi non coloniali,
come pure sulle semicolonie, tra le quali annoveriamo la Persia,
la Cina e la Turchia. La Persia è già quasi del
tutto diventata colonia; la Cina e la Turchia sono sul punto di
diventarlo.
Otteniamo
così i seguenti risultati:
Possedimenti
coloniali delle grandi potenze
(in milioni di Km. quadrati e in milioni
di abitanti) |
|
Colonie |
Metropoli |
Totale |
|
1876 |
1914 |
1914 |
1914 |
|
Km2
|
abit. |
Km2 |
Abit. |
Km2
|
Abit. |
Km2 |
Abit. |
Inghilterra
|
22,5 |
251,9
|
33,5 |
393,5 |
0,3
|
46,5 |
33,8 |
440,0 |
Russia
|
17,0 |
15,9 |
17,4
|
33,2 |
5,4
|
136,2 |
22,8 |
169,4 |
Francia
|
0,9 |
6,0 |
10,6
|
55,5 |
0,5
|
39,6 |
11,1 |
95,1 |
Germania
|
- |
-
|
2,9
|
12,3 |
0,5 |
64,9 |
3,4 |
77,2 |
Stati
Uniti |
- |
-
|
0,3
|
9,7 |
9,4
|
97,0 |
9,7 |
106,7 |
Giappone
|
- |
- |
0,3 |
19,2 |
0,4
|
53,0 |
0,7 |
72,2 |
Le
sei grandi potenze insieme |
40,4 |
273,8 |
65,0
|
523,4
|
16,5
|
437,2
|
81,5 |
960,6 |
Possedimenti
coloniali di altri Stati |
|
|
|
|
|
|
|
|
(Belgio,
Olanda, ecc.) |
|
|
|
|
|
|
9,9 |
45,3 |
Semicolonie
(Persia, Cina, Turchia) |
|
|
|
|
|
|
14,5 |
361,2 |
Rimanenti
paesi |
|
|
|
|
|
|
28,0 |
289,9 |
|
|
Tutta
la terra |
|
|
133,9 |
1.657,0 |
Si
vede chiaramente come tra la fine del secolo XIX e l'inizio del
XX la spartizione del mondo fosse oramai "totale". I possedimenti
coloniali crebbero a dismisura dopo il 1876, da 40 a 65 milioni
di Km. quadrati, cioè a più di una volta e mezzo.
Questo aumento ascende per le sei grandi potenze a 25 milioni
di Km. quadrati, vale a dire una volta e mezzo la superficie della
madrepatria (16 milioni e mezzo). Nel 1876 tre Stati non avevano
alcuna colonia, e un altro, la Francia, quasi nessuna. Nel 1914
questi quattro paesi possedevano colonie per 14,1 milioni di Km.
quadrati, cioè circa una volta e mezzo l'Europa, con una
popolazione di circa 100 milioni di uomini.
Pertanto l'ineguaglianza
dell'estensione dei possedimenti coloniali è molto grande.
Se si confrontano, per esempio, la Francia, la Germania e il Giappone,
che non differiscono molto per superficie e popolazione, risulta
che la Francia ha acquistato, come superficie, quasi tre volte
più di colonie che la Germania e il Giappone presi insieme.
Ma la Francia all'inizio del detto periodo era assai più
ricca di capitale finanziario che non, forse, la Germania e il
Giappone presi insieme.
Oltre alle condizioni economiche, e in
base a queste, i>nfluiscono sulla grandezza del possesso coloniale
anche le condizioni geografiche, ecc. Benché negli ultimi
decenni sia avvenuto, sotto l'influenza della grande industria,
dello scambio e del capitale finanziario, un forte livellamento
in tutto il mondo, e si siano pareggiate nei vari paesi le condizioni
di economia e di vita, tuttavia persistono non poche differenze.
Tra i sei paesi summenzionati troviamo dei giovani paesi capitalisti
in rapidissimo progresso, come l'America, la Germania e il Giappone;
altri in cui il capitalismo è antico, e che negli ultimi
tempi si sono sviluppati assai più lentamente dei primi,
come la Francia e l'Inghilterra, e infine un paese, la Russia,
il più arretrato nei riguardi economici, dove il più
recente capitalismo imperialista è, per così dire,
avviluppato da una fitta rete di rapporti precapitalistici.
Accanto
ai possedimenti coloniali delle grandi potenze noi abbiamo messo
le piccole colonie degli Stati minori, le quali formano l'oggetto
più immediato, per così dire, di una possibile e
probabile nuova "spartizione" delle colonie.
Per
la maggior parte questi Stati minori conservano le loro colonie
soltanto grazie all'esistenza fra i grandi Stati di antagonismi
d'interessi e di attriti, che impediscono un accordo per la divisione
del bottino.
Per ciò che riguarda gli Stati "semicoloniali",
essi sono un esempio di quelle forme di transizione nelle quali
ci imbattiamo in tutti i campi, così della natura come
della società. Il capitale finanziario è una potenza
così ragguardevole, anzi si può dire così
decisiva, in tutte le relazioni economiche ed internazionali,
da essere in grado di assoggettarsi anche paesi in possesso della
piena indipendenza politica, come di fatto li assoggetta; ne vedremo
ben presto degli esempi. Ma naturalmente esso trova la maggior
"comodità" e i maggiori profitti allorché tale assoggettamento
è accompagnato dalla perdita dell'indipendenza politica
da parte dei paesi e popoli asserviti. Sotto tale rapporto i paesi
semicoloniali costituiscono un caratteristico "quid medium".
È chiaro che la lotta per questi paesi semicoloniali diventa
particolarmente acuta nell'epoca del capitale finanziario, allorché
il resto del mondo è già spartito.
Politica
coloniale e imperialismo esistevano anche prima del più
recente stadio del capitalismo, anzi prima del capitalismo stesso.
Roma, fondata sulla schiavitù, condusse una politica coloniale
ed attuò l'imperialismo. Ma le considerazioni "generali"
sull'imperialismo, che dimentichino le fondamentali differenze
tra le formazioni economico-sociali o le releghino nel retroscena,
degenerano in vuote banalità o in rodomontate sul tipo
del confronto tra "la grande Roma e la grande Britannia." (5)
Perfino la politica coloniale
dei precedenti stadi del capitalismo si differenzia essenzialmente
dalla politica coloniale del capitale finanziario.
La
caratteristica fondamentale del modernissimo capitalismo è
costituita dal dominio delle leghe monopolistiche dei grandi imprenditori.
Tali monopoli sono specialmente solidi allorché tutte le sorgenti di materie prime passano nelle stesse mani. Abbiamo
visto lo zelo con cui le leghe internazionali dei capitalisti
si sforzano, a più non posso, di strappare agli avversari
ogni possibilità di concorrenza, di accaparrare le miniere
di ferro e le sorgenti di petrolio, ecc. Soltanto il possesso
coloniale assicura al monopolio, in modo assoluto, il successo
contro ogni eventualità nella lotta con l'avversario, perfino
contro la possibilità che l'avversario si trinceri dietro
qualche legge di monopolio statale.
Quanto più il capitalismo
è sviluppato, quanto più la scarsità di materie
prime è sensibile, quanto più acuta è in
tutto il mondo la concorrenza e la caccia alle sorgenti di materie
prime, tanto più disperata è la lotta per la conquista
delle colonie.
"Si
può persino - scrive Schilder - azzardare l'opinione,
che a taluno potrà sembrare paradossale, che in un tempo
più o meno vicino l'aumento della popolazione urbana
e industriale sarà ostacolato piuttosto dalla scarsità
di materie prime disponibili per l'industria che non dalla mancanza
di mezzi di sussistenza. Così scarseggia e diventa sempre
più caro il legname, e vi è penuria di cuoio e
di materie prime per l'industria tessile. Come
esempio degli sforzi fatti dalle leghe di industriali per conseguire,
in seno alla complessiva economia mondiale, l'equilibrio tra
agricoltura ed industria andrebbero ricordate la Federazione
internazionale delle Unioni padronali dei tessitori di cotone,
esistente dal 1904 nei principali paesi industriali e la Federazione
delle Unioni padronali europee dei tessitori di lino, formatasi
nel 1910 sull'esempio della precedente."
(6)
Senza
dubbio i riformisti borghesi, e fra di essi in primo luogo i kautskiani
di oggi, tentano di svalutare l'importanza di questi fatti rilevando
che "si potrebbero" avere le materie prime sul libero mercato
senza la "costosa e pericolosa" politica coloniale, e che "si
potrebbe" aumentare immensamente l'offerta di materie prime con
il "semplice" miglioramento dell'agricoltura in generale. Ma simili
rilievi, ben presto, non diventano altro che panegirici e imbellettamenti
dell'imperialismo, giacché essi sono possibili in quanto
non tengono conto della più importante caratteristica del
capitalismo moderno: i monopoli. Il libero mercato appartiene
sempre più al passato, ed è sempre più ridotto
dai sindacati e trust monopolistici, mentre il "semplice" miglioramento
dell'agricoltura richiede che siano migliorate le condizione delle
masse, elevati i salari e ridotti i profitti. Dove esistono, fuori
che nella fantasia dei soavi riformisti, trust capaci di curarsi
della situazione delle masse, anziché di conquistare colonie?
Per
il capitale finanziario sono importanti non solo le sorgenti di
materie prime già scoperte, ma anche quelle eventualmente
ancora da scoprire, giacché ai nostri giorni la tecnica
fa progressi vertiginosi, e terreni oggi inutilizzabili possono
domani esser messi in valore, appena siano stati trovati nuovi
metodi (e a tal fine la grande banca può allestire speciali
spedizioni di ingegneri, agronomi, ecc.) e non appena siano stati
impiegati più forti capitali.
Lo stesso si può dire
delle esplorazioni in cerca di nuove ricchezze minerarie, della
scoperta di nuovi metodi di lavorazione e di utilizzazione di
questa o quella materia prima, ecc. Da ciò nasce inevitabilmente
la tendenza del capitale finanziario ad allargare il proprio territorio
economico, e anche il proprio territorio in generale. Nello stesso
modo che i trust capitalizzano la loro proprietà valutandola
due o tre volte al disopra del vero, giacché fanno assegnamento
sui profitti "possibili" (ma non reali) del futuro e sugli ulteriori
risultati del monopolio, così il capitale finanziario,
in generale, si sforza di arraffare quanto più territorio
è possibile, comunque e dovunque, in cerca soltanto di
possibili sorgenti di materie prime, con la paura di rimanere
indietro nella lotta furiosa per l'ultimo lembo della sfera terrestre
non ancora diviso, per una nuova spartizione dei territori già
divisi.
I
capitalisti inglesi fanno tutto il possibile per promuovere nella
loro colonia d'Egitto la produzione del cotone, che nel 1904 su
2,3 milioni di ettari di territorio coltivato occupava 0,6 milioni
di ettari, vale a dire più di un quarto; i russi fanno
lo stesso nelle loro colonie del Turkestan. Perché gli
uni e gli altri possono così battere meglio i loro concorrenti
esteri, monopolizzare più facilmente le sorgenti di materia
prima e creare un trust tessile quanto più è possibile
economico e redditizio, con produzione "combinata" Mediante la
concentrazione di tutti gli stadi della produzione e della lavorazione
del cotone nelle stesse mani.
Anche
gli interessi d'esportazione del capitale spingono alla conquista
di colonie, giacché sui mercati coloniali più facilmente
(e talvolta unicamente) si possono eliminare i concorrenti, col
sistema del monopolio, assicurare a sé le forniture, fissare
in modo definitivo le necessarie "relazioni".
La
soprastruttura extraeconomica, che sorge sulla base del capitale
finanziario, la sua politica e la sua ideologia, acuiscono l'impulso
verso le conquiste coloniali. "Il capitale finanziario non
vuole libertà, ma egemonia," dice a ragione Hilferding.
E uno scrittore borghese francese, quasi a completare e sviluppare
il citato pensiero di Cecil Rhodes, afferma che alle cause economiche
della politica coloniale se ne aggiungono altre di natura sociale.
"Per
effetto delle crescenti difficoltà della vita -
scrive Wahl - che non gravano soltanto sulle masse
lavoratrici, ma anche sui ceti medi, in tutti i paesi
dell'antica civiltà si
accumulano impazienze, rancori, odio, che minacciano la pubblica
quiete; energie espulse da un determinato alveo di classe...
che si devono incanalare e a cui occorre trovare impiego
all'esterno del paese, affinché esse non esplodano
all'interno."
(7)
Quando
si tratta della politica coloniale dell'imperialismo capitalista
deve notarsi che il capitale finanziario e la relativa politica
internazionale, che si riduce alla lotta tra le grandi potenze
per la ripartizione economica e politica nel mondo, creano tutta
una serie di forme transitorie della dipendenza statale.
Tale epoca è caratterizzata non soltanto dai due gruppi
fondamentali di paesi, cioè paesi possessori di colonie
e colonie, ma anche dalle più svariate forme di paesi asserviti
che formalmente sono indipendenti dal punto di vista politico,
ma che in realtà sono avviluppati da una rete di dipendenza
finanziaria e diplomatica. Abbiamo già accennato a una
di queste forme, quella delle semicolonie. Esempio di un'altra
forma è l'Argentina.
Schulze-Gaevernitz,
nel suo libro sull'imperialismo inglese, scrive:
"L'America
meridionale, specie l'Argentina, si trova in tale stato di dipendenza
finanziaria da Londra, da potersi considerare, press'a poco,
una colonia commerciale inglese."(8)
Schilder,
basandosi sul rapporto del console austro-ungarico a Buenos Aires
per il 1909, calcola a 8 miliardi e 750 milioni di franchi i capitali
inglesi impiegati in Argentina. Si può facilmente immaginare,
per, conseguenza, quale influenza abbia il capitale finanziario
inglese (e la sua cara "amica", la diplomazia) sulla borghesia
dell'Argentina e sui circoli dirigenti della sua vita economica
e politica.
Una
forma un po' diversa di dipendenza finanziaria e diplomatica,
pur con la indipendenza politica, ci è offerta dal Portogallo.
Questo è uno Stato indipendente e sovrano, ma di fatto
da oltre duecento anni, cioè dal tempo della guerra di
successione spagnola (1700-1714), si trova sotto il protettorato
dell'Inghilterra. L'Inghilterra assunse le difese del Portogallo
e delle sue colonie per rafforzare la propria posizione nella
lotta contro le sue rivali, Spagna e Francia, ottenendo in compenso
privilegi commerciali, migliori condizioni per l'esportazione
delle merci e specialmente del capitale nel Portogallo e nelle
sue colonie e, infine, la possibilità di usarne le isole,
i porti, i cavi telegrafici, ecc.
(9)
Simili rapporti tra i singoli grandi e piccoli Stati esistettero
sempre, ma nell'epoca dell'imperialismo capitalistico essi diventano
sistema generale, sono un elemento essenziale della politica della
"ripartizione del mondo", e si trasformano in anelli della catena
di operazioni del capitale finanziario mondiale.
Per
concludere sulla questione della divisione del mondo, dobbiamo
ancora rilevare quanto segue. La questione della ripartizione
del mondo non fu posta apertamente e risolutamente soltanto nei
libri americani, dopo la guerra ispano-americana, e nei libri
inglesi, dopo la guerra boera, tra la fine del secolo XIX e gli
inizi del XX, e non fu valutata sistematicamente soltanto nei
libri dei tedeschi, che vigilavano con la massima "gelosia" "l'imperialismo
inglese".
Anche
nella letteratura borghese francese la questione è stata
posta con sufficiente precisione e ampiezza per quanto è
compatibile col punto di vista borghese. Rinviamo allo storiografo
francese Driault, il quale nel suo libro intitolato Problemi
politici e sociali alla fine del secolo XIX, al capitolo
su Le grandi potenze e la spartizione del mondo, scrive
quanto segue:
"Negli
ultimi anni tutti i territori liberi del mondo, ad eccezione
della Cina, furono occupati dalle potenze d'Europa e del Nordamerica.
In rapporto a tali conquiste si verificarono già vari
conflitti e spostamenti d'influenza, che sono il presagio di
ancor più terribili esplosioni in un prossimo avvenire.
Giacché occorre affrettarsi: le nazioni che non sono
ancora provvedute corrono il rischio di non ottenere più
la loro parte e di non poter partecipare a quell'immenso sfruttamento
della terra che sarà uno dei fattori essenziali del secolo
XX. Questo è il motivo per cui negli ultimi tempi l'Europa
e l'America furono colte da una vera febbre di espansioni coloniali,
dall'"imperialismo", che costituisce una delle più notevoli
caratteristiche dello scorcio dei secolo XIX."
E
l'autore aggiungeva: "In
questa spartizione della terra, in questa forsennata caccia
ai tesori e ai grandi mercati della terra, la potenza relativa
degl'imperi fondati nel secolo XIX è assolutamente sproporzionata
alla posizione che occupano in Europa le nazioni che li hanno
fondati. Le potenze che predominano in Europa e ne decidono
le sorti, non sono allo stesso modo dominanti anche in tutto
il mondo; e siccome la potenza coloniale, la speranza di possedere
ricchezze ancora ignote, si ripercuote, di riflesso, a sua volta,
sulla forza relativa delle grandi potenze europee, così
la questione coloniale o l'"imperialismo", se così sì
vuole, che ha già modificato le condizioni politiche
dell'Europa medesima, le modificherà sempre più." (10)
Note
1.
A. Supan, Die territoriale Entwicklung der europäischen
Kolonien, Gotha, 1906, p. 254.
2.
Henry C. Morris, The History of Colonization, New York,
1900, vol. Il, p. 88; 1, pp. 304, 419.
3.
Die Neue Zeit, XVI, 1898, 1, p. 302.
4.
Die Neue Zeit, cit., p. 304.
5.
C. P. Lucas, Greater Rome and Greater Britain, Oxford,
1912, o Earl of Cromer, Ancicent and Modern Imperialism,
Londra, 1910.
6.
Schilder, op. cit., pp. 38 e 42.
7.
Wahl, La France aux colonies, citato da Henri Russier,
Le partage de l'Océanie, Parigi, 1905, pp. 165-66.
8.
Schulze-Gaevernitz, Britischer Imperialismus und englischer
Freihandel zu Beginn des 20. Jahrhunderts, Lipsia, 1906,
p. 318. Le stesse cose dice Sartorius von Waltersausen nel suo
libro Das volkswirtschaftliche System der Kapitalanlage im
Austande, Berlino, 1907, p. 46.
9.
Schilder, op. cit., VoI. I, pp. 160-161.
10.
E. Driault, Problèmes politiques et sociaux, Parigi,
1907, p. 289. |