Enrico Ceccotti - Marco Picozza

5. Il governo della buona occupazione


Situazione economica e produttiva all’atto dell’insediamento del Governo Prodi

5.1. - Economia

I grafici qui di sotto rappresentati dimostrano quanto le condizioni del Paese siano precarie e critiche. I problemi sono strutturali. L'Italia non cresce, la produttività è stagnante, le classifiche di competitività la collocano agli ultimi posti. È il Paese in cui i livelli di povertà sono nettamente superiori alla media europea, la distribuzione del reddito e della ricchezza è più disuguale, la mobilità sociale maggiormente ostacolata dalle corporazioni e dal privilegio. Nel nostro paese una fascia della popolazione è uscita dai consumi di base. 

Fig. 1 - Tasso di crescita reale annua del Pil 1993-2006

Fonte: Eurostat *Stime

La fig. 1 rappresenta l’andamento dell’economia italiana in termini di PIL in confronto ad altre. Nell’arco di oltre un decennio l’economia italiana (ad eccezione del 1996 e del 2000) è cresciuta a tassi sensibilmente più bassi sia della media europea che degli Usa, senza parlare dei paesi emergenti come Cina e India i cui tassi sono fuori della scala della figura. Negli anni più recenti è fallita la politica sostegno allo sviluppo anche se i problemi di competitività del sistema Italia sono strutturali e più di lungo periodo.
Se si va poi ad analizzare il Pil pro capite (ovvero il reddito lordo di ogni italiano) e lo si paragona ad altri paesi si vede che si accentuata la discesa dal 2001 e stiamo per essere raggiunti dalla Spagna in continua crescita (fig. 2) (1). Mentre fino al 2001 il Prodotto interno lordo pro-capite superava e non di poco quello medio europeo ed era vicino a quello degli altri grandi paesi europei successivamente è andato precipitando. La tab. 1 evidenzia i tassi di crescita percentuali in termini cumulati sia sul medio lungo periodo che recenti.

Fig. 2 - Pil pro capite a parità di potere d’acquisto  nei principali paesi europei (Ue-15=100)

Fonte: Eurostat *Stime

In questi ultimi anni, seppure con qualche miglioramento di breve durata, l’industria italiana ha continuato a far registrare cali dei livelli produttivi, risultando il “fanalino di coda” tra i paesi industrializzati. Tra il 2003 e il 2005 la produzione industriale è diminuita del 2,6 % (-0,6% nel 2003, -0,7% nel 2004, -1,3% nel 2005). Il calo ha coinvolto i settori più colpiti dalla crisi di competitività (tessile-abbigliamento, calzaturiero, elettronica, produzione di mezzi di trasporto).

 

Tab. 1: Crescita del Pil - Stati Uniti, Unione Europea e grandi paesi europei (Tassi di crescita in %)

2000-2005, cumulati

1995-2005, cumulati

2005

2006
(prev.)

3°trim. 2006 (tend.)

USA

+12.6

+37.9

3.2

3.4

2.9

Eu-25

+9.0*

+26.0*

1.8

2.8

2.8

Italia

+3.2

+13.5

0.0.

1.7

1.7

Germania

+3.2

+14.0

0.9

2.4

2.8

Francia

+7.7

+23.6

1.2

2.2

1.9

Regno Unito

+12.2

+31.6

1.8

2.7

2.8

Spagna

+11.7

+31.0

3.5

3.8

3.8

Fonti: Oecd, Istat, Comm. Europea     * Eu-15 più Polonia, Rep. Ceca, Slovacchia e Ungheria

Si tratta di cali tra il 20 e il 30% tra il 2001 e il 2005. Il calo della produzione industriale è in stretta connessione con la produttività che si discosta sempre di più da quella degli altri paesi.
La situazione del saldo del commercio con l’estero, con l’eccezione del 2000, è in continua discesa diventando negativo dal 2003 (fig. 3). Nell’anno 2005 le esportazioni hanno segnato, rispetto al 2004, un incremento del 3,7 % e le importazioni del 6,8 %. Il saldo della bilancia commerciale relativo ai primi sette mesi del 2006 mostra un ulteriore deterioramento. Il disavanzo commerciale risulta più che triplicato rispetto al corrispondente periodo del 2005 (da 4.419 a 14.153 milioni di euro).
L’andamento di questa curva denota che la nostra competitività ha origini lontane nel tempo e che le misure adottate, nelle ultime due legislature non hanno affrontato e risolto il problema.

Fig. 3 - Saldo della Bilancia Commerciale in mil euro

     Fonte: elaborazioni Aice su dati ICE

L’inflazione in Italia si è mantenuta quasi sempre al di sopra dei principali paesi europei, contribuendo a sfavorire la crescita di un’economia già in difficoltà per cause strutturali (fig. 4).

Fig. 4 - Tasso di inflazione nei principali paesi europei

Fonte: Eurostat *Stime


Nell’arco di 18 mesi che vanno da febbraio 2004 a luglio 2005, la progressione delle aziende in crisi è quasi triplicato:

Fig. 5 – Numero aziende in crisi

Fonte: Osservatorio Cgil Dipartimento settori produttivi

La prima ricaduta è quella occupazionale: i lavoratori messi in Cassa Integrazione o in mobilità (licenziamenti) sono passati, nello stesso periodo da 104.000 a 224.000. A confermare la crisi del nostro sistema produttivo è sufficiente guardare l’aumento delle ore di Cassa integrazione ordinaria e straordinaria erogate negli ultimi anni (fig. 6).

Fig. 6 - Media mensile della Cassa Integrazione totale
 
Fonte: nostra elaborazione su dati Inps * media sui primi sette mesi

5.2  Governo

Il debito pubblico è tornato a crescere e il deficit, se non viene corretto, ci colloca fuori dall’Europa, e ci espone al rischio di scivolare verso quelle economie più marginali.
L’assetto complessivo della bilancia pubblica italiana risulta, dopo cinque anni di governo della destra, pesantemente compromesso (fig. 7). Nel 2005 il fabbisogno statale e l’indebitamento delle Pubbliche Amministrazioni è continuato a crescere stabilendo la cifra del 4,1% del PIL confermando lo stato di gravissima crisi della finanza pubblica. Il dato tendenziale del 2006, senza gli interventi correttivi di luglio 2006 e tenendo conto della sentenza europea sulla non detraibilità dell’Iva sulle auto, lo porta al 4,8%.  Negli anni del centro sinistra la politica di risanamento aveva portato il valore minimo al l’1,7% con positivo impatto sul costo del denaro e dei mutui.

Fig. 7 - Indebitamento netto in % del PIL  1994-2006

Fonte: Istat   * Stime comprensive del rimborso della detraibilità dell’IVA

La politica virtuosa si era basata sull’aumento del saldo primario (la differenza tra le entrate e le uscite della PA al netto degli interessi pagati per i debiti) (fig. 8). Questo avanzo primario è stato sperperato dal governo Berlusconi e nel 2005 esso è stato quasi azzerato e tendenzialmente tende al negativo per il 2006.

Fig. 8 - Avanzo primario in % del PIL 1994-2006

Fonte: Istat  * Stime comprensive del rimborso della detraibilità dell’IVA

La conseguenza è di nuovo l’aumento del debito pubblico cumulato , stimato alla fine del 2006 a quasi il 108% del Pil, secondo aumento annuale consecutivo, con il rischio di salire ancora (fig. 9).
Questo è un problema cruciale in quanto provoca l’aumento degli interessi da pagare e in conseguenza meno risorse per investimenti e welfare. Da questa evoluzione dipende l'affidabilità dei titoli di Stato italiani, cui guardano le agenzie di rating e i mercati finanziari internazionali.

Fig. 9 - Debito pubblico in % del PIL

Fonte: Istat * Stime comprensive del rimborso della detraibilità dell’IVA


Dal 2001 al 2005, la spesa pubblica corrente, al netto degli esborsi per pagare gli interessi sul debito pubblico, è aumentata di 2,6 punti percentuali in termini di Pil, tornando ai livelli del 1993, azzerando così i faticosi miglioramenti realizzati dai governi di centrosinistra negli anni '90 (fig. 10).
È particolarmente significativo l’andamento delle due curve della spesa pubblica: quella totale e quella al netto degli interessi. La differenza tra i due valori rappresenta quanto lo Stato deve sborsare in interessi. Nella legislazione 1996-2001 la spesa pubblica al netto degli interessi si è mantenuta costante mentre è fortemente diminuita la spesa globale per effetto del risanamento. Nella legislazione 2001-2006 pur continuando a diminuire il peso degli interessi (in conseguenza delle misure precedentemente prese) la spesa netta è cresciuta più della spesa globale.

Fig. 10 - Spesa pubblica corrente in % del PIL

   Fonte: Istat  * Stime comprensive del rimborso della detraibilità dell’IVA

La pressione fiscale che era stata ridotta nella legislazione 1996-2001 di quasi tre punti dono l’entrata nell’euro, nella legislazione 2001-2006 non ha avuto sostanziali cambiamenti con un incremento nell’ultimo anno (fig. 11).
Dal 1996 al 2001, le riforme fiscali e l'efficacia dei controlli amministrativi hanno portato ad una significativa riduzione dell'evasione fiscale. Tra il 1998 e il 2001 l'eliminazione di 24 imposte e la riduzione di contributi sociali avrebbe dovuto determinare una caduta di gettito per oltre 4 punti percentuali di Pil. Il gettito è, invece, rimasto costante intorno al 42% del Pil in quanto si sono recuperate risorse facendo pagare meno i contribuenti in regola, ma facendo pagare di più quanti evadevano. Esattamente il contrario di quanto avvenuto nella stagione dei condoni voluti dal centrodestra.

Fig. 11 – Pressione fiscale in % del PIL

      Fonte: Istat

5.3. - L’occupazione

Le bugie sulla crescita dell’occupazione. Il governo Berlusconi ha vantato in campagna elettorale la crescita dell’occupazione. Ma la (modesta) crescita dell’occupazione è minore della crescita della popolazione (in particolare di quella in età lavorativa). Il tasso di occupazione è cresciuto dal 1995 al 2002 per effetto dei provvedimenti adottati nella legislazione 1996-2001 (fig. 12).
Tra il 2003 e il 2005 il tasso di occupazione generale non cresce (ma per le donne diminuisce dello 0,15%). (2) Il confronto con gli anni del centro sinistra e del “Pacchetto Treu” è molto istruttivo. Siamo ben lontani dal raggiungimento dell’obiettivo di Lisbona del 70 % nel 2010.
La recessione testimonia una caduta della produttività generale del lavoro, quindi della competitività, anche perché si accompagna a un peggioramento della qualità del lavoro e del reddito complice la legge 30 sulla riforma del mercato del lavoro.


Fig. 12  - Tasso di occupazione 1993-2006

Fonte:Istat  *Stime

L’aspetto più preoccupante di questa fase, seguita alla riforma della destra e alla recessione economica, è la secca battuta di arresto nel processo di riduzione del divario di genere. Con il 2004 il divario rispetto alla media europea è tornato alle dimensioni del 2001 (-11,6 punti percentuali). Nel 2005 il tasso di occupazione femminile in Italia è diminuito mentre aumenta il divario con l’Europa dove invece la crescita continua.

In merito alla occupazione discontinua e precaria, il contratto a termine è stato quello che ha avuto il maggior incremento negli ultimi anni. Il momento di svolta è dovuto al cambiamento di normativa alla metà del 2001. Risale a quella data l’entrata in vigore del contestato decreto che, in occasione del recepimento di una direttiva comunitaria, liberalizzava il ricorso a questo istituto introducendo una formula più generica per le causali. È in conseguenza di ciò che i contratti a termine crescono in Italia fino a una quota ormai assai vicina a quella media europea. Negli ultimi due anni è aumentato di un punto e mezzo sul totale degli occupati (raggiungendo il 12,8%) ed è ormai maggioranza sul totale della nuova occupazione. Vi sono poi da considerare i lavoratori parasubordinati, più del 3% dell’occupazione totale. L’incremento del tempo determinato richiede, come d’altronde ha gia annunciato il Ministro del Lavoro, una diversa normativa di regolazione di questo tipo di contratti per evitarne un uso improprio.
La precarietà in quanto l’occupazione standard (dipendente, non a termine, a tempo pieno, non sommersa) è cresciuta di meno del totale dell’occupazione. Dopo il 1994, fino al 1999, era diminuita (solo per gli uomini) (fig. 12). Dal 2000, con il bonus del centro-sinistra, è aumentata (ben oltre il livello del 1996) per entrambi i generi fino al 2002. Nel 2003 comincia a diminuire per le donne.

Fig. 13 - Tasso di occupazione standard
 
Fonte:Istat *Stime     

Il governo di destra ha ridimensionato o cancellato gli strumenti di incentivo e di stabilizzazione dell’occupazione, credito d’imposta e prestito d’onore, attivati nella scorsa legislatura. L’abbandono di queste politiche di sostegno ha peggiorato le condizioni dei lavoratori e aumentato la precarietà. Per di più ad aggravare ulteriormente la frammentazione del mondo del lavoro è intervenuta la legge 30 del 2003, che ha introdotto una miriade di forme di lavoro precario risultate estranee alle stesse esigenze delle imprese. Le tanto declamate nuove flessibilità introdotte con la legge 30, con le nuove tipologie contrattuali, che avrebbero dovuto dare una forte spinta allo sviluppo, di fatto non sono utilizzate. Da un lato aumenta la precarietà senza tutele dei lavoratori, dall’altro non è aumentata la competitività del sistema in quanto sono rimaste inalterate le rendite, la struttura proprietaria e la dimensione delle imprese.

5.4.- Valutazioni di contesto

La politica economica del Governo a partire dal Dpef, dall’attuale finanziaria e dalla legislazione futura, va collocata nel contesto suesposto.
Sapevamo, vincendo le elezioni, che il paese avrebbe avuto la necessità di essere portato fuori dal dissesto economico-finanziario in cui lo ha lasciato la destra dopo 5 anni di governo dissennato. Il lascito che è stato ereditato dalla trascorsa legislatura è disastroso. Con le casse vuote, l’avanzo primario azzerato, il debito in ascesa, il deficit al 4,8 per cento, i cantieri delle imprese pubbliche allo sbando, la previdenza integrativa rinviata al 2008, i contratti non rinnovati.
Ci hanno lasciato un paese più ingiusto nella distribuzione del reddito. Sono stati 5 anni d’impoverimento e di crescita delle disuguaglianze con una progressiva perdita del potere d’acquisto dei salari e delle pensioni, un paese più insicuro e precario e più impoverito nei settori strategici della scuola, università e ricerca.
Il Governo appena insediato ha scoperto che erano finiti i fondi per tenere aperti i cantieri delle opere pubbliche. La destra aveva scientificamente finanziato quelle opere fino a qualche settimana dopo le elezioni, nella consapevolezza di lasciare il crollo successivo sulle spalle di altri. Ha trovato una società sempre meno solidale, dove gli ultimi anni sono stati spesi lasciando correre senza freni la spesa pubblica e contestualmente è avvenuta una clamorosa redistribuzione del reddito sotto forma di facili arricchimenti, di speculazioni immobiliari, di crescita illimitata di patrimoni mobiliari e possibilità di evadere o di chiudere, grazie ai condoni, il rapporto con il fisco. Una ricchezza gigantesca è stata spesa, sprecata, ma anche ridistribuita.
Quello che ci troviamo di fronte oggi è un Paese debole e socialmente spappolato, dove i giovani stentano a trovare un lavoro che non sia precario, i figli delle famiglie meno abbienti partono con svantaggi enormi, la formazione fa acqua, le grandi imprese tranne poche eccezioni prosperano solo nei settori della rendita e gli investimenti privati e pubblici nella ricerca e nell'innovazione sono ridotti al lumicino.
Di fatto, sono stati azzerati gli sforzi di oltre dieci anni di risanamento. Negli anni Ottanta, con i governi pentapartito, il debito pubblico era raddoppiato. Negli anni Novanta, dopo il rischio del fallimento dell'intero Paese, fu avviata ad opera dei governi di centrosinistra una faticosa opera di risanamento e rilancio. Ora molte delle risorse che potevano essere utilizzate sono state bruciate. E il debito pubblico (oltre 67 miliardi di euro l'anno li spendiamo di interessi) impegna risorse che vengono sottratte ad impieghi più positivi.
L'Italia corre un rischio serio di declino e di declassamento. Non c’è solo il dissesto della finanza pubblica, ma anche l’immane eredità di una politica del centrodestra che aveva impoverito ampie fasce di popolazione, aveva depauperato settori strategici come la scuola, la ricerca, l’università e intanto aveva fatto crescere la spesa corrente. Abbiamo rischiato di trovarci in una situazione drammatica con l’Europa. L’Economist già scriveva che l’Italia sarebbe uscita dall’euro.
Le macerie lasciate dal governo precedente sono molto più grandi di quanto non dica il dato singolo sul rapporto deficit/Pil. C’è un colpevole abbandono dei controlli fiscali, per esempio sull'import parallelo, alla totale 'non gestione' dei problemi, come ad esempio la sentenza dell'Iva sulle auto.
Semmai la colpa, è stata quella di esser stati troppi 'signori': invece di polemizzare sulla disastrosa situazione si è cercato di ricercare soluzioni.
La crescita della spesa primaria corrente e del debito e l’azzeramento dell’avanzo primario richiede una gran mole di risorse che non possono essere reperite attraverso l’emissione di moneta. Se i soldi non ci sono, si possono anche stampare. Negli anni '80 è stato fatto. Si è visto com'è andata a finire. In 20 anni il debito è cresciuto dal 57 al 124% del Pil. Nel '92 è scoppiata Tangentopoli, si è sfiorata la bancarotta, sono scomparsi i partiti, sono emerse le Leghe, è saltata ogni mediazione politica. I problemi che dobbiamo affrontare oggi sono figli di quella stagione, aggravata ulteriormente dalla parentesi berlusconiana. In un contesto del genere si sono radicalizzati i conflitti distributivi. Spendiamo il doppio per gli interessi sul debito. Più della metà di ciò che entra nelle casse dello Stato è già ipotecato per coprire i debiti pregressi.

Negli ultimi cinque anni siamo diventati il Paese più iniquo del continente.

(1) Il confronto tra Italia e Spagna è stato ben rappresentato in un articolo dell’Economist publicato dal settimanale Internazionale del 10 11 2006: Italiani e spagnoli rivali nel mediterraneo. Si evidenzia come la Spagna sia stata a lungo un paese europeo di serie B, ma adesso ha buoni motivi per aspirare a un ruolo di primo piano nell’Unione Europea mentre l’Italia va in una direzione opposta.

(2) Per l’andamento dei primi mesi del 2006 vedi il cap. 2 della prima parte di questo quaderno.