2.1. Premessa. La fase di ripresa economica, benché incerta, traina l’occupazione. I dati relativi all’andamento del mercato del lavoro nei primi sei mesi del 2006 (vedi tab. 1) ci presentano un quadro che segnala finalmente una crescita significativa degli occupati e tuttavia lascia ritenere che alla base di questo dato positivo vi sia il superamento della lunga fase di stagnazione economica che aveva caratterizzato il periodo precedente, in coincidenza con il governo della destra. Quanto agli aspetti qualitativi, non si possono ancora percepire, tuttavia, significative inversioni di tendenza nei processi di deterioramento, sui quali ci si era soffermati nelle precedenti edizioni di questo Rapporto. Gli occupati sono in sensibile aumento nel loro complesso (+ 1,14 sul semestre precedente che aveva fatto registrare a sua volta un + 0,71 sul corrispondente periodo del 2004, vedi tab. 2) e la disoccupazione è in ulteriore flessione. La fine della fase prolungata di stagnazione è accompagnata, come era del resto prevedibile e per molti versi auspicabile, da un aumento della produttività del lavoro, ma non fino al punto di “divorare” posti di lavoro. Appare evidente che, guardando al tessuto produttivo nel suo insieme, le imprese stanno tornando a sostituire lavoro con tecnologia. Sembra quindi che stiano uscendo dalla fase che si è protratta negli ultimi anni, durante i quali si erano orientate in prevalenza a salvaguardare la remunerazione del capitale e avevano preferito investire sul lavoro a basso costo anziché sulla tecnologia, con il corollario di una politica di prezzi alti all’esportazione che aveva portato a perdere quote di mercato proprio nel momento di massima espansione dell’economia mondiale. La fase delle scelte di brevissimo periodo e di corto respiro, che è stata anche la fase della profittabilità a spese della competitività, se non si può dire del tutto alle spalle, sembra comunque lasciare lentamente il terreno a strategie più valide. Non è ancora il momento di considerare definitivamente accantonate le preoccupazioni espresse nel precedente rapporto: né quella relativa alla qualità dell’occupazione, su cui si soffermerà più diffusamente questo capitolo del rapporto, né quella riguardante la competitività del nostro sistema produttivo che una caduta della produttività generale del lavoro, osservavamo lo scorso anno, rischia di pregiudicare. Si può tuttavia considerare un segnale incoraggiante il fatto che si sia registrato allo stesso tempo un aumento più consistente dell’occupazione e una ripresa della crescita del PIL.
Fonte: Istat – Nuova serie storica della Rilevazione Continua delle Forze di Lavoro Tab. 2 - Crescita tendenziale degli occupati per sesso (Italia)
Fonte: Istat Il “contenuto occupazionale” della crescita (ovvero, in termini tecnici, l’elasticità dell’occupazione al PIL, data dal rapporto tra crescita degli occupati e crescita del PIL) è diminuita e non fa registrare i valori anomali (superiori a 1) che erano stati caratteristici dell’ultimo biennio, quando gli occupati crescevano nonostante non crescesse il prodotto e, dunque, diminuiva la loro produttività. Si può dire in definitiva che stia tornando su valori fisiologici: se si dovesse verificare, come ipotizzano le maggiori istituzioni interne e internazionali, una crescita del PIL nel 2006 compresa tra l’1,5% e il 2% e una crescita dell’occupazione dell’ordine di quella che si è verificata nel primo semestre (un po’ al di sopra dell’1%), ne conseguirebbe un’elasticità dell’occupazione attorno a 0,7-0,8, al margine superiore di quella che è considerata la fascia di variabilità “normale” (tra 0,5% e 0,8%, per l’appunto). In altre parole, non una crescita divoratrice di lavoro ma neppure una crescita senza margini di recupero della produttività (e quindi della competitività).Nel quadro di una dinamica dell’occupazione che presenta questi tratti generali vale la pena di considerare in tutta la loro importanza due aspetti specifici di segno positivo. Si tratta per un verso della sensibile ripresa del trend di crescita del tasso di occupazione in rapporto alla popolazione in età tra i 15 e i 64 anni: questo indicatore, che è poi quello attorno al quale si concentra l’attenzione ai fini del raggiungimento degli obiettivi europei, torna a crescere dopo un triennio di stasi, così come aveva fatto nella seconda metà degli anni Novanta (fino al 2002). Per altro verso, assistiamo a una netta inversione di tendenza per quanto riguarda la composizione di genere: la crescita del tasso di occupazione è da attribuire per intero alla componente femminile, che fa registrare un vero e proprio balzo in avanti (vedi tab. 3). Con la pur modesta ripresa del ciclo economico sembra dunque scongiurato il rischio, che avevamo paventato nello scorso rapporto, che, con l’esaurirsi dei fenomeni temporanei che avevano consentito una tenuta dell’occupazione, o un modesto aumento, nella fase di stagnazione economica (regolarizzazione degli immigrati, mutamento della struttura della popolazione per classi di età), potesse verificarsi un vero e proprio calo. Le forze di lavoro sono invece cresciute nel I semestre 2006, rispetto al corrispondente periodo dell’anno precedente, più di quanto non sia cresciuta la popolazione e il tasso di attività ha dunque ripreso la sua ascesa (pur se meno consistente di quella dell’occupazione per l’ulteriore contrazione del numero delle persone alla ricerca attiva di un lavoro). Tab. 3 - Tassi di occupazione per sesso (Italia)
*1° Semestre Fonte: Istat, Rilevazione Forze di Lavoro; dal 2004, Nuova Serie (Rilevazione Continua) Fig. 1 – Andamento trimestrale dei tassi di attività Fonte: Istat – Nuova Rilevazione Continua delle Forze di Lavoro Quanto alla composizione settoriale, il confronto tra i dati omogenei, relativi al primo semestre, per gli anni tra il 2003 e il 2006 (vedi tab. 4) mostra una ripresa degli occupati in agricoltura dopo un triennio di flessione e, viceversa, un calo di occupati nel settore delle costruzioni che nei precedenti tre anni aveva fatto registrare una performance di crescita sostenuta. Perdura la stasi dell’industria manifatturiera che, se non altro, nel I semestre del 2006 inverte il segno rispetto al corrispondente periodo del 2005 (+ 7.000 occupati) mentre si assiste a un progresso consistente nel settore terziario la cui crescita di 416.000 addetti, oltre quota 15 milioni, corrisponde come entità a quella dell’insieme degli occupati (+440.000 addetti). Al suo interno risalta la ripresa del comparto del commercio che fa segnare un aumento tra i corrispondenti periodi del 2005 e del 2006 di 112.000 addetti dopo la flessione dell’anno precedente. Sono però, indubbiamente, gli altri servizi, pubblici e privati, che, accelerando ulteriormente la loro crescita (+304.000 addetti tra il I semestre 2005 e il I semestre 2006), spingono in alto l’insieme dell’occupazione nel nostro paese.
Fonte: Istat * in senso stretto assando alla composizione di genere si è già accennato alla significativa inversione di rotta che si registra con la ripresa del tasso di occupazione femminile.La battuta di arresto degli ultimi tre anni fa sì che non si possa realisticamente pensare di recuperare il terreno perduto ai fini del raggiungimento dell’obiettivo fissato dall’Unione Europea a Lisbona per l’occupazione femminile a fine decennio (60 donne occupate su 100). Il divario da colmare era notevole (20 punti al momento in cui è stato definito) eppure si era ridotto nella misura necessaria nel primo biennio, quando tra il 2000 e il 2002 l’occupazione femminile era aumentata a un tasso annuo superiore al 3%, portandosi al 42%. È però rimasto fermo dopo il 2002, poco sopra il 45% vanificando ogni possibilità di centrare l’obiettivo. Possiamo dunque considerare incoraggiante l’aumento di un punto e mezzo tra il primo semestre 2005 e il primo semestre 2006 in quanto rappresenterebbe comunque, se fosse confermato a consuntivo dell’intero anno, una buona base di partenza per una ripresa significativa. I tassi che hanno contraddistinto gli anni tra il 1998 e il 2002 apparirebbero cioè di nuovo alla portata, anche se resterebbero pur sempre un traguardo da raggiungere. Quanto poi alla distribuzione territoriale, sembra arrestarsi, anche a questo riguardo, la tendenza negativa che aveva fatto segnare dal 2002 un’accentuazione dei divari territoriali, dopo un periodo, che durava dal 1997, in cui il Mezzogiorno aveva fatto registrare una costante crescita dell’occupazione, in genere a un tasso perfino superiore a quello, già sostenuto, della media nazionale (vedi tab. 5). Gli occupati meridionali, che tra il 1996 e il 2002 erano cresciuti di quasi mezzo milione di unità, ad un tasso in linea con quello nazionale, arrivando così a toccare i 6,5 milioni nel terzo trimestre del 2002, erano successivamente tornati (nel I trimestre 2004) ai livelli del 1994, al di sotto dei 6,3 milioni. Fig. 2 - Tassi di occupazione
Tra il primo semestre del 2003 e il secondo del 2005 il Mezzogiorno ha fatto registrare una dinamica congiunturale costantemente negativa (con la sola eccezione di un modesto +0,3 nel primo semestre 2005 rispetto al corrispondente periodo dell’anno precedente) mentre nel resto del Paese l’occupazione continuava a crescere, sia pure per effetto di quei fenomeni transitori più volte richiamati. I dati relativi al 2006 ci dicono invece che, dopo la stagnazione economica del periodo 2003-2005 durante la quale, se non è diminuita l’occupazione si è però prodotto un aumento sensibile delle disuguaglianze, di genere così come territoriali, giungono finalmente, anche per ciò che riguarda il divario Nord-Sud, segnali incoraggianti di inversione di tendenza nel momento in cui l’occupazione nel Mezzogiorno riprende a crescere ad un tasso sostanzialmente allineato a quello del resto del Paese (+1,9% a fronte di un 2% medio nazionale). Non è certo il caso di dare per archiviata la questione del divario territoriale, soprattutto se si considera che tenere il passo del Centro-Nord è sì un primo risultato ma non può certo essere considerato soddisfacente alla luce dell’enorme ritardo accumulato negli anni.
Fonte: Istat Più nello specifico si deve poi tenere conto del fatto che i nuovi posti di lavoro creati nel Mezzogiorno non hanno fin qui portato con sé un allargamento della partecipazione al mercato del lavoro (vedi tab. 6). La disoccupazione è ulteriormente diminuita e il fatto che ciò sia avvenuto in concomitanza con una crescita degli occupati contrariamente a quanto avveniva negli ultimi tempi sta a indicare un’attenuazione del fenomeno di scoraggiamento. Tuttavia resta nel complesso una contrazione delle forze di lavoro nel Mezzogiorno cui occorre guardare con qualche preoccupazione, mentre è quanto meno confortante che sia in ripresa la partecipazione femminile: di appena qualche migliaio di unità nel I semestre 2006 rispetto al corrispondente periodo del 2005 (da 2,64 a 2,65 milioni), ma si tratta pur sempre di una crescita, accompagnata da una crescita più che proporzionale delle donne occupate e quindi da una diminuzione della disoccupazione. Un ritorno al mercato del lavoro e, più ancora, al lavoro tout court, delle donne del Mezzogiorno, è un fenomeno incoraggiante cui occorre dare un valido sostegno, attraverso adeguate misure di politica economica e sociale, perché si consolidi e si accentui nel tempo.
Fonte: Istat 2.3. Aumenta la produttività del lavoro L’aumento della produttività media per occupato, che ha accompagnato la crescita concomitante del PIL e dell’occupazione, sta ad indicare che si è rimesso in moto un processo virtuoso (fisiologico, lo si potrebbe anche definire) di creazione di posti di lavoro: un processo, in altre parole, che non vede su piani contrapposti la dinamica della competitività e quella dell’occupazione, come viceversa avviene quando l’innovazione tecnologica divora posti di lavoro ovvero, come è stato il caso dell’ultimo triennio, quando si crea occupazione di bassa qualità e si affrontano i mercati risparmiando sul lavoro senza far crescere il valore intrinseco dei prodotti. Possiamo osservare a questo riguardo come la variazione tendenziale della produttività del lavoro, calcolata come valore aggiunto per unità di lavoro equivalente a tempo pieno, si presenti nel primo trimestre del 2006 con un valore di 1,3 punti superiore rispetto al primo trimestre del 2005, al di sopra delle variazioni tendenziali registrate nei due trimestri precedenti. Per effetto di questa dinamica, si è raffreddata parallelamente quella del costo del lavoro per unità di prodotto, che rappresenta un indicatore eloquente del grado di competitività del settore, con una variazione tendenziale che, nello stesso periodo (rispetto al primo trimestre 2005), si attesta su un livello inferiore a quello del trimestre precedente (+2,2 %). Più in particolare, va rimarcato come la produttività sia tornata ad aumentare, negli ultimi due trimestri presi in considerazione (IV del 2005 e I del 2006) anche nell’industria in senso stretto, che rappresenta il settore determinante ai fini della competitività sui mercati internazionali per il peso che riveste nelle esportazioni.
Fonte: ns. elaborazioni su dati Istat Per effetto dell’andamento discontinuo delle retribuzioni, fortemente condizionato dai tempi della contrattazione nazionale (all’inizio di quest’anno si è chiusa la lunga vertenza per il rinnovo del principale comparto industriale, quello della metalmeccanica), il primo trimestre del 2006 fa registrare nell’industria un aumento del costo del lavoro per unità di prodotto di entità ben superiore rispetto a quello della produttività in quanto i redditi da lavoro dipendente recuperano potere di acquisto. Poiché però nel settore dei servizi non tengono il passo del forte aumento della produttività, in quel comparto si registra una sensibile frenata del costo del lavoro per unità di prodotto che è tale da far sentire i suoi effetti sull’insieme del sistema produttivo. 2.4. - …ma la qualità non migliora. Tipologie lavorative e qualità del lavoro. Passando a prendere in considerazione, ai fini di una valutazione degli aspetti qualitativi della dinamica dell’occupazione, l’area delle tipologie di lavoro diverse da quella a tempo indeterminato e a tempo pieno, occorre procedere ad un esame articolato tenuto conto delle notevoli differenze che le distinguono. Tab. 8 - Occupazione part-time per posizione nella professione
Fonte: Istat
Per ciò che riguarda in primo luogo il lavoro a tempo parziale va considerato come l’aspetto che pesa maggiormente ai fini di una valutazione qualitativa è quello relativo alla volontarietà o meno della scelta di orario. È cioè decisivo rilevare se chi è impiegato a tempo parziale sarebbe o no propenso a impegnarsi per un orario più lungo (ovvero, eventualmente, più breve) se gliene fosse data la possibilità (si noti che analogamente occorrerebbe porre lo stesso quesito a chi è impiegato con un orario di lavoro a tempo pieno). In mancanza di questo dato non è agevole valutare la natura del nesso tra diffusione del lavoro part-time e partecipazione femminile al mercato del lavoro. Si tratta di capire, più in particolare, se la scelta di conciliare i tempi delle incombenze familiari e del lavoro sia volontaria o forzata, se abbia o meno basi solide, se avvenga in un quadro di condivisione con gli altri componenti del nucleo familiare, se i modi in cui avviene rechino pregiudizio alla qualità della prestazione lavorativa e della vita stessa. Allo stato dei dati disponibili possiamo osservare come aumenti notevolmente di peso l’occupazione a tempo parziale tra il primo semestre del 2005 e il corrispondente periodo del 2006 (vedi tab. 8) e come ciò avvenga in misura proporzionalmente maggiore per i dipendenti a termine (+8,5%), quindi per quella categoria per la quale è lecito ipotizzare che si tratti in prevalenza di una tipologia imposta all’atto dell’assunzione piuttosto che liberamente scelta.
Fonte: ns. elaborazione su dati Istat Avviene, invece, in misura minore per gli indipendenti (+3,3%) per i quali, a parte il caso delle collaborazioni, vale una presunzione di volontarietà “intrinseca”, rispetto ai dipendenti il cui aumento (+6,9% nel complesso, + 6,5% limitatamente a quelli a tempo indeterminato) è all’incirca doppio. Si può dunque rilevare come l’aumento di occupazione tra il primo semestre del 2005 e il corrispondente periodo del 2006 si spieghi per quasi due quinti (174.000 unità su un aumento complessivo di 455.000, pari al 39%) con l’aumento dell’occupazione a tempo parziale e come questa proporzione salga a più di tre quinti per la componente femminile, che fa registrare un vero e proprio balzo in avanti di 126.000 unità, che rappresentano il 61% dell’aumento complessivo di 207.000 unità (vedi tab. 9). Con il primo semestre 2006 il lavoro part-time arriva quindi a rappresentare il 13,6% dell’occupazione alle dipendenze (vedi tab. 10), con un sensibile divario tra la componente femminile, che tocca il 26,6%, e quella maschile (4%).
Quanto al peso sul totale degli occupati, di poco inferiore a quello che si registra tra i dipendenti (13,4%, vedi tab. 11), non siamo ai livelli europei (nel 2004 la media era di 19,6 occupati part-time su 100 nell’UE a 15, 17,7 nell’UE a 25, con componente femminile sopra il 30%) ma la crescita è indiscutibile ed è ripresa in modo accentuato dopo la pausa degli anni 2003-2004, che sono gli anni della stasi dell’occupazione femminile.
Fonte: ns. elaborazione su dati Istat Passando all’occupazione a termine (tab.12), si deve innanzi tutto rilevare come sia costantemente in aumento da qualche anno a questa parte, toccando grosso modo nella stessa proporzione sia la componente maschile che quella femminile, che resta comunque quella per il quale il peso sul totale (dei dipendenti così come degli occupati) mantiene un valore più elevato (attorno ai 4 punti e mezzo in più rispetto alla componente maschile negli ultimi due anni).
Fonte: ns. elaborazione su dati Istat Abbiamo osservato nello scorso rapporto come il raffronto con il quadro europeo potrebbe essere tale da far ritenere che, nonostante la tendenza all’aumento del peso relativo dei contratti a termine, proseguita anche negli ultimi due semestri, la situazione italiana offra pur sempre maggiori garanzie di stabilità occupazionale se si considera che la diffusione media dei contratti a carattere temporaneo in Europa è al 13,7% dell’occupazione totale nel 2004, quindi circa 5 punti in più rispetto all’Italia. In realtà, si deve invece tener conto del fatto che il quadro statistico subisce una distorsione a causa della peculiarità italiana consistente nella singolare diffusione di una forma contrattuale, la collaborazione coordinata e continuativa (poi “a progetto”) che, pur implicando a tutti gli effetti un rapporto di lavoro a scadenza, di durata limitata, assume tuttavia la veste formale di un lavoro autonomo. Poiché non può essere associato alcun concetto di durata (permanente o temporanea) al lavoro indipendente, il caso dei collaboratori viene escluso dalle statistiche sul lavoro a termine, quanto meno nella nuova rilevazione in atto dal 2003 con la quale l’Istat ha correttamente adottato un tale criterio (nella rilevazione trimestrale effettuata fino al 2003, facevamo rilevare nel precedente Rapporto, le collaborazioni erano annoverate all’interno del lavoro a termine, pur essendo parte del lavoro indipendente). La quota di lavoro a termine, che pesava sul totale, fino al 2003, per il 10%, è stata così ridimensionata, per un puro effetto statistico, con il passaggio alla nuova serie (in particolare nel 2003, anno per il quale sono state effettuate le rilevazioni in base a entrambi i metodi prima di passare definitivamente al nuovo, il lavoro a termine rappresentava il 9,9% dell’occupazione totale in base alla vecchia rilevazione e l’8,9% in base alla nuova). Con il passaggio alla nuova rilevazione delle forze di lavoro l’Istat ha inoltre preso a fornire distintamente il dato relativo ai collaboratori: 377.000, l’1,7% dell’intera massa di occupati, nel 2005 (media annua), in calo rispetto a quanto rilevato per l’anno precedente (391.000, con un picco di 407.000 nel IV trimestre 2004, 374.000 dei quali dichiaravano di lavorare per una sola azienda/cliente). A questi si devono aggiungere 80.000 collaboratori occasionali (anche questi in calo sul 2004 quando ne erano stati rilevati 106.000). Sono dati credibili, a fronte della grande quantità di posizioni aperte presso il Fondo Gestione Separata dell’Inps destinato proprio ai collaboratori (3.373.000 nel 2004, in costante aumento di anno in anno)? La questione non è secondaria alla luce del tema della precarietà del lavoro, che ha occupato un posto centrale nella scorsa campagna elettorale e suscita ora grandi attese sin dai primi passi del governo Prodi per giudicare della capacità di attuazione del programma e della carica innovatrice di cui si fa portatore. Vale perciò la pena di approfondire questo argomento. 2. 5. Il lavoro a progetto: quanto è diffuso veramente? Una misura sintetica, affidabile, della diffusione delle forme di lavoro precario: il tasso di occupazione standard. In sede preliminare è bene tornare a mettere in chiaro quali sono le differenze di fondo tra il contenuto degli archivi Inps e le rilevazioni dell’Istat. I primi comprendono tutti i soggetti per i quali risulta almeno una domanda di iscrizione, a prescindere dal versamento dei contributi e dunque dall’avere svolto effettivamente una qualche attività lavorativa (oltre a risentire in misura notevole sia delle mancate cancellazioni dei soggetti che non svolgono più collaborazioni sia di un certo numero di duplicazioni). Il dato più significativo che quegli archivi forniscono, dal punto di vista che qui ci interessa, è dunque quello relativo a quanti, tra gli iscritti, sono anche contribuenti attivi. Il meccanismo cumulativo delle iscrizioni al fondo (e delle mancate cancellazioni) fa sì che questi ultimi diminuiscano di anno in anno in percentuale rispetto all’insieme degli iscritti (attualmente rappresentano attorno al 50%). In assoluto, si tratta di una cifra attorno al milione e mezzo di unità (vedi tab. 13). Tab. 13 - Numero dei collaboratori e dei professionisti contribuenti attivi Inps e incidenza % sul totale
Fonte: Inps La quota di collaboratori attivi risulta inoltre in calo tra il 2003 e il 2004 e, per quanto riguarda il 2005, la tendenza prosegue, stando al Rapporto sui lavoratori parasubordinati dell’Ires-Cgil che fornisce per quell’anno, sulla base degli archivi Inps, un dato pari a 1.475.111 unità.Un’ulteriore differenza è data dal fatto che contribuiscono al Fondo Inps non soltanto i collaboratori ma anche altre figure di professionisti (amministratori di società, di condomini, sindaci – revisori) che non possono essere loro accomunati (per l’Ires-Cgil, secondo il medesimo rapporto relativo al 2005, peserebbero per circa un terzo), nonché quanti esercitano solo marginalmente quel tipo di attività senza che il loro reddito ne dipenda in misura determinante (pensionati, doppio-lavoristi, rentiers): al netto di coloro che effettuano versamenti, oltre che al Fondo Gestione Separata dell’Inps, anche ad altri fondi, la cifra che risulta, secondo le elaborazioni dell’Ires-Cgil, che per il suo rapporto si è avvalso del contributo della Facoltà di Scienze della Comunicazione dell’Università di Roma La Sapienza, supera di poco le 800.000 unità. Un ulteriore motivo di distinzione tra l’archivio Inps e la rilevazione Istat è dato dal fatto che quest’ultima, oltre a riguardare coloro per i quali l’attività in qualità di collaboratore risulta esclusiva o preminente, rileva più precisamente quanti dichiarano di averla svolta nella settimana di riferimento. Non si tratta dunque di una media riferita a coloro che hanno lavorato nel corso dell’anno ma di una media tra quelli settimanalmente impegnati in quella tipologia di lavoro. Se supponiamo, ad esempio, che un collaboratore lavori in media otto mesi all’anno, il dato rilevato dall’Istat (media annua delle medie settimanali) va aumentato di dodici ottavi per stimare il numero dei lavoratori che mediamente hanno lavorato in prevalenza come collaboratori nel corso dell’anno. Se si pongono a confronto i dati relativi al medesimo aggregato che qui ci interessa (lavoratori che esercitano attività para-subordinata, diversa da quella di amministratori e sindaci-revisori, in misura prevalente e non concorrente) provenienti dalla rilevazione Istat e dalla stima che, sulla scorta degli archivi Inps, propone l’Ires-Cgil, questi ultimi risultano di poco superiori al doppio rispetto ai primi. Volendo ricondurre la differenza al diverso arco temporale (settimanale ovvero annuale) i due dati sarebbero coerenti se si ipotizzasse una durata media dei rapporti di lavoro pari a poco meno di sei mesi all’anno: un’ipotesi certamente plausibile ma probabilmente eccessivamente bassa. Si può quindi ritenere che la rilevazione Istat porti a sottostimare in qualche misura il fenomeno e/o gli archivi Inps a sovrastimarlo. Ipotizzando una durata media annua delle collaborazioni di sette-otto mesi la discrepanza sarebbe calcolabile all’incirca in un centinaio di migliaia di unità. L’ordine di grandezza del dato può in ogni caso essere fissato all’incirca in mezzo milione di unità e si può considerare acquisita una tendenza alla diminuzione tra il 2003 e il 2005, che la rilevazione Istat conferma a sua volta. Queste stime appaiono peraltro coerenti con quelle che abbiamo proposto nei precedenti rapporti, nei quali facevamo riferimento, pur in presenza di altre stime molto più elevate (quale quella ipotizzata da Nidil-Cgil), al Rapporto sul Mercato del Lavoro del Cnel che, integrando i diversi dati disponibili con quelli forniti da alcune indagini sul campo, si collocava per il 2003 attorno alle 700.000 unità: un dato riferito agli occupati in corso d’anno che, ricalcolato in termini di media settimanale corrisponderebbe, per una durata media di otto mesi, a circa 500.000 unità. Un’entità, si noti, che porterebbe il lavoro a termine alle dipendenze, una volta che vi siano ricomprese le collaborazioni, a pesare, sul totale degli occupati, poco sotto il 12%, appena due punti sotto la media europea. Ponendo a confronto una tale ipotesi con le rilevazioni effettuate dall’Istat ne dovremmo desumere che si sarebbe verificata, dopo la progressiva crescita di queste figure fino al 2003, una successiva contrazione fino ad attestarsi su una cifra, nel 2005, inferiore per circa 123.000 unità in termini di media settimanale, laddove viceversa le stime proposte dall’IRES in base ai dati Inps per il 2005 starebbero a significare una sostanziale stabilità del fenomeno. L’ipotesi che la dinamica di queste posizioni lavorative nel biennio 2003-2005 possa essere stata negativa è però confermato dall’andamento dell’aggregato dei contribuenti che hanno effettivamente versato al Fondo Gestione Separata dell’Inps in corso d’anno, che tra il 2003 e il 2005 si è ridotto, come abbiamo rilevato, di 170.000 unità (da 1.645.000 a 1.475.000 unità). È dunque lecito avanzare l’ipotesi che si sia verificato un qualche effetto di contenimento delle collaborazioni in seguito all’entrata in vigore della legge 30/03 nel corso dei primi due anni di vigenza. Si sarebbe tuttavia È del tutto evidente che non saremmo affatto di fronte a quel crollo delle collaborazioni che veniva vantato da taluni (i fautori della legge 30 come provvedimento di natura socialmente equitativa come il Ministro Maroni e il Sottosegretario Sacconi) e paventato da altri (i paladini della liberalizzazione “autentica” del mercato del lavoro come il prof. P. Ichino). Avremmo piuttosto assistito a una modesta riorganizzazione, nell’ambito della quale peraltro sarebbe tutto da dimostrare che le collaborazioni “svanite” abbiano preso prevalentemente la strada della trasformazione in rapporti di lavoro subordinato e non quella dell’ulteriore mascheramento sotto altre forme se possibile ancora più elusive (dalle associazioni in partecipazione alle partite IVA, per non dire del sommerso). È inoltre della massima importanza valutare in che misura il fenomeno sia destinato a durare. Un conto è infatti immaginare che progressivamente, per quanto lentamente, una quota consistente di collaborazioni vada trasformandosi in rapporti di lavoro subordinato; ben diverso sarebbe invece il caso se, esaurito l’effetto iniziale, l’aver dato in ogni caso una veste compiuta e pienamente legittima a questa tipologia contrattuale dovesse portare a una dinamica esattamente opposta e dunque all’erosione dell’area del lavoro subordinato da parte di questa forma ibrida, oltre che fortemente in odore di elusione sia quanto agli aspetti fiscali e contributivi sia, ciò che appare perfino più grave, quanto agli aspetti contrattuali e alla tutela dei diritti in genere. Da questo punto di vista sarà necessario tenere d’occhio attentamente l’evoluzione delle collaborazioni nel prossimo futuro. Qualche motivo di preoccupazione può essere però tratto dalle indagini che autorevoli istituti come l’Isae e l’Istituto Tagliacarte effettuano a proposito delle intenzioni di assunzione delle imprese italiane. Quanto all’indagine condotta annualmente dall’Isae (su un campione di circa 5.700 imprese) l’andamento delle assunzioni nel corso del 2005 mostra un diffuso ricorso alle collaborazioni a progetto (vedi tab. 14), notevole nel complesso (41,8%) ma perfino preminente rispetto a ogni altra tipologia nel comparto dei servizi (52,7%). Nel passare alle previsioni per il 2006 si conferma all’incirca il medesimo peso complessivo (41,7%) con appena una modesta flessione nel comparto dei servizi, nel quale tuttavia le collaborazioni a progetto mantengono il primato, accanto ad una crescita dei contratti a termine. Tab. 14 – Assunzioni effettuate nel corso del 2005 e intenzioni di assunzione per il 2006 per tipologia contrattuale e settore *
Ma, quel che appare più rilevante ai fini di una valutazione della qualità dell’occupazione che si va a creare è che, in parallelo, risulta nettamente in calo, per ognuno dei comparti considerati, la quota di contratti a tempo indeterminato che, seconda solo ai contratti a termine nel 2005, viene sopravanzata anche dalle collaborazioni nelle previsioni per il 2006. Stando all’indagine Unioncamere – Ministero del Lavoro (Excelsior) le assunzioni di collaboratori a progetto appaiono viceversa in calo nel raffronto tra l’andamento effettivo del 2005 e le previsioni formulate per il 2006 (vedi tabella 15). Si tratta tuttavia di un’entità di assunzioni che corrisponde pur sempre all’incirca a un quarto dell’insieme di quelle effettuate in forma di lavoro dipendente, tra le quali il lavoro a tempo determinato ha un peso quasi equivalente a quello delle assunzioni a tempo indeterminato. Le risultanze dell’indagine Excelsior appaiono peraltro coerenti con quelle Isae per ciò che riguarda la maggiore propensione all’assunzione mediante la formula del contratto a progetto nel comparto dei servizi, rispetto a quello industriale, oltre che per altri aspetti quali il persistente ritardo nell’entrata a regime del contratto di apprendistato (ancora molto al di sotto dei livelli in precedenza raggiunti dai contratti a causa mista prima della procedura di infrazione sui contratti di formazione e lavoro) e il mancato decollo del contratto di inserimento, rimasto al palo.
* Valori arrotondati alle decine ^in senso stretto ** Come percentuale ragguagliata al totale delle assunzioni di lavoratori dipendenti Fonte: Unioncamere - Ministero del Lavoro, Sistema Informativo Excelsior, 2006 Che per il 2006 si debba immaginare una stabilizzazione del ricorso alle collaborazioni (sulla scorta dell’inchiesta Isae) o una leggera flessione (secondo l’indagine Excelsior) resta il fatto che la tendenza, per i contratti a tempo indeterminato, è il declino. Questo è dunque il fenomeno da seguire con attenzione, anche alla luce del programma di governo che punta a incentivare il ricorso a questa forma di occupazione, più stabile e di migliore qualità, sia quanto a tutele e diritti sia quanto a valorizzazione delle competenze e coinvolgimento del fattore umano nelle sorti dell’impresa. Il maggiore o minore peso, tra le forme discontinue di lavoro, di quelle atipiche riconducibili alla para-subordinazione è senz’altro della massima importanza ai fini di un obiettivo, oltre che di tutela delle condizioni dei lavoratori, anche di trasparenza e di lealtà (fiscale e contributiva) se non di legalità. Sarà dunque da monitorare attentamente anche questo aspetto, ma lo si dovrà tenere comunque in stretta connessione con il primo. Ed è proprio in considerazione dell’importanza del peso del lavoro a tempo indeterminato, quello che le direttive dell’Unione Europea in materia di occupazione e gli stessi avvisi comuni tra le parti sociali definiscono come la forma “normale” di rapporto di lavoro, che torniamo ad esaminare anche in questo rapporto, come nei precedenti, l’andamento di un indicatore sintetico della qualità dell’occupazione rappresentato dal tasso di occupazione standard sulla popolazione in età lavorativa (tab. 16).
Fonte: ns. elaborazione su dati Istat La querelle a proposito del grado di flessibilità del mercato del lavoro italiano ha radici lontane nel tempo. Da un lato vi è chi ritiene che sia caratterizzato da una estrema rigidità, come sosteneva, in un Rapporto che risale ormai a quindici anni fa, l’OCSE. Per costoro non sembra avere molta importanza il fatto che l’OCSE stesso sia tornato in seguito sulle sue posizioni, riconoscendo di aver compiuto grossolani errori di valutazione in quel precedente Rapporto (che dunque non era affatto la Bibbia) né che abbia segnalato come siano state adottate nel frattempo numerose misure che andavano in direzione di una maggiore flessibilità; strenui censori della rigidità, insistono nelle loro tesi portando a conferma delle esigenze di ulteriore flessibilizzazione le statistiche sul peso dell’occupazione a termine che in Italia è più basso rispetto alla media europea. Dall’altro lato è però sotto gli occhi di tutti come il mercato del lavoro in Italia sia fortemente condizionato dalla struttura duale, della società così come dell’economia. All’area tutelata dalla legge e dai contratti si contrappongono vaste aree di sotto-tutela, per la abnorme diffusione dell’economia sommersa e per il frequente ricorso a forme di evasione ed elusione, normativa e contributiva. Si spiega dunque la diffusa percezione di una dilagante precarietà, questione divenuta centrale per la condizione, non solo di lavoro ma esistenziale, di larghe fasce di popolazione e in particolare di quella in età giovanile. Dell’insieme di questi fenomeni di flessibilità “cattiva” (quella che si traduce in precarietà), come abbiamo avuto modo di notare ripetutamente, anche nei precedenti paragrafi di questo rapporto, resta solo una traccia indiretta nelle statistiche: perché deprimono il tasso di occupazione, che risulta perciò eccessivamente basso, mentre “gonfiano” il peso dei lavoratori indipendenti, che appare eccessivamente alto. In altri termini, il mercato del lavoro in Italia si differenzia rispetto ai partner europei per il fatto che i dipendenti a tempo parziale o a tempo determinato rilevati dalle statistiche pesano meno della media europea rispetto al totale dei dipendenti, ma i dipendenti pesano a loro volta molto meno della media europea sul totale degli occupati e gli occupati pesano molto meno della media sulla popolazione in età lavorativa (tutte anomalie che riguardano inoltre in misura prevalente la componente femminile). Per definire un quadro che non sia falsato da queste anomalie, abbiamo quindi fatto ricorso a un indicatore sintetico del grado di flessibilità (e, se si vuole, del rischio di precarietà) come la quota parte di persone con un lavoro standard (a tempo pieno e a tempo indeterminato), alle dipendenze, regolarmente censito dalle statistiche, sull’insieme della popolazione in età lavorativa. Proponendo per questo indicatore, costruito secondo la stessa metodologia adottata nei precedenti rapporti, un confronto con la media europea per il 2004 (ultimo anno per il quale al momento è possibile) si ottiene il quadro mostrato nella tabella 17 e nel grafico 3, secondo il quale si manifesta un persistente divario, di quattro-cinque punti in meno, rispetto alla media europea. Si può notare peraltro come dal 1996 ad oggi, contrariamente alla “vulgata” secondo cui sarebbe da attribuire al “pacchetto Treu” di quell’anno (divenuto legge nel ’97) la responsabilità di aver aperto la strada alla flessibilizzazione, anticamera a sua volta della precarizzazione, il tasso di “normalità” dei rapporti di lavoro sia cresciuto in Italia sia per la componente maschile che (in misura anche più consistente) per quella femminile, portando così a una riduzione del divario rispetto alla media europea.
Fonte: Istat RTFL-Eurostat Il primo semestre del 2006 lascia dunque sperare che la ripresa economica in atto nel nostro Paese sia accompagnata anche da una rimessa in moto della dinamica dell’occupazione, che negli ultimi anni era cresciuta in misura modesta e soltanto in virtù di fenomeni contingenti (come la regolarizzazione degli immigrati e la modifica della struttura per classi di età) che, in quanto destinati ad esaurirsi, facevano temere un calo in prospettiva. Il sistema produttivo ha ripreso a tirare, la crescita del pil si attesterà vicino al 2%, la produttività del lavoro ha ripreso a crescere senza tuttavia “divorare” occupazione. Stiamo assistendo quindi, finalmente, a una ripresa significativa dell’occupazione. Quel che più conta è che, così come la stagnazione del mercato del lavoro aveva comportato un aumento delle sperequazioni e dei divari e, in particolare, una battuta di arresto nella riduzione del divario di genere e un’inversione di tendenza, in negativo, per quello territoriale, ora che si assiste a una ripresa della crescita dell’occupazione, solida quanto alle basi di competitività e non momentanea, ad essa si accompagna nuovamente una progressiva riduzione della forbice tra maschi e femmine e tra Sud e resto del Paese. Resta all’ordine del giorno in tutta la sua importanza il tema della qualità dell’occupazione. La strada per l’innalzamento del livello qualitativo dell’occupazione in Italia si presenta ancora lunga da percorrere, ma l’importante è che si possa cogliere qualche segnale che indichi che ci si è di nuovo incamminati lungo il percorso imboccato sul finire degli anni Novanta, che nell’ultimo triennio si era interrotto. Da questo punto di vista appare incoraggiante il fatto che nel complesso il tasso di occupazione standard abbia ripreso a crescere e che nell’ultimo trimestre del 2006 abbia toccato un livello record, superando il 43% nell’insieme e sfiorando, in particolare, il 23% per le donne. Si tratta di valori ancora lontani da quelli medi europei ma è importante che sia ripreso un trend di miglioramento qualitativo perché, al di là delle banalità e della retorica sull’Italia “patria del posto fisso”, se nel nostro paese un lavoro standard (dipendente, permanente, a tempo pieno) non è alla portata di una persona in età lavorativa quanto lo è per un europeo medio, questo non è un segno di vitalità, o di modernità, ma un segno di fragilità delle nostre basi produttive e di una scarsa capacità di valorizzare e utilizzare al meglio la nostra risorsa più preziosa, il cosiddetto capitale umano. Tanto più che il divario non è dato da una legislazione meno protettiva sul lato del lavoro, ma dal dilagare di una illegalità che, per quanto possa essere descritta come “funzionale” in termini socio-economici, è sintomo di una patologia profonda che ci tiene lontani dalle democrazie moderne nelle quali lo stato di diritto è un postulato irrinunciabile. Il governo Prodi ha fatto della lotta all’evasione, e all’illegalità in genere, una bandiera. Nel campo del lavoro il compito è gigantesco ma non può essere disatteso. Un tema rilevante, in questo quadro, è quello della lotta alle forme di elusione, di cui sono esempio, se non simbolo, le collaborazioni. Abbiamo segnalato il rischio che questa forma contrattuale, nella veste rinnovata (dalla legge 30/03) del contratto a progetto, anziché fare da argine alla diffusione della tendenza ad eludere leggi e contratti, si riveli un cavallo di Troia attraverso cui passa un’ulteriore erosione dell’area del lavoro subordinato, meglio tutelato. Si richiede per il prossimo futuro un attento monitoraggio delle tendenze in atto. La speranza è, ovviamente, che si possano cogliere anche in questo campo effetti – che possiamo definire “di dissuasione” – analoghi a quelli che, secondo molti commentatori, hanno portato a una crescita sostenuta delle entrate fiscali nei primi mesi di attività del nuovo governo. In caso contrario occorrerebbe adottare misure adeguate ed efficaci (le proposte e le suggestioni non mancano) per ottenere un tale risultato. In definitiva, l’agenda sul da farsi appare ampiamente tracciata per molte delle questioni qui analizzate. L’orizzonte, che vogliamo in conclusione richiamare, resta quello di una politica delle risorse umane di medio lungo periodo, dopo anni in cui è stata totalmente assente (richiamavamo a questo proposito, nello scorso rapporto, il bilancio deficitario della politica della formazione, da quella professionale a quella degli apprendisti, fino a quella degli adulti). Vogliamo ancora una volta ribadirlo: il deficit di investimento (pubblico e privato) in formazione resta il cuore del problema, l’anello di congiunzione che tiene insieme le esigenze di competitività del sistema produttivo e quelle di arricchimento e valorizzazione delle persone che lavorano o che comunque ambiscono a far parte con piena dignità del mondo del lavoro. |