È una favola quella dei due capitalismi e «non si può fare di ogni erba un fascio», sostiene Massimo D'Alema. In parte è vero: il capitalista è una bestia immorale che pensa unicamente al profitto, spesso in modo truffaldino. Però il presidente D'Alema ha la memoria un po' corta: non ricorda le battaglie condotte nel suo partito - quando aveva un nome migliore dell'attuale - da Claudio Napoleoni, per esempio, per un «patto dei produttori» dove tra i produttori non c'era certo spazio per la speculazione finanziaria. L'intervista del Presidente Ds al Sole-24 Ore (agosto 2005) è un inno al capitalismo e una rinuncia definitiva a ogni ipotesi di elementi di socialismo. Un'intervista furba, intelligente, spregiudicata, con molto buon senso, ma soprattutto elettorale: i Ds sono pronti a caricarsi il capitalismo italiano sulle spalle regalandogli nuovi margini di libertà, ma con un maggior rispetto delle regole. Non si può accusare il centro sinistra di non essersi opposto ai vari condoni varati da Tremonti. Però vale la pena ripartire da quei condoni (tombali e anonimi) per cercare di spiegare l'emergere di nuove ricchezze. Fra tutti questi capitalisti emergenti ci sono sicuramente persone per bene. Però gli improvvisi arricchimenti fanno nascere più di un dubbio perché si entra in un'area opaca quella nella quale «si fanno soldi con i soldi», come diceva il protagonista di 8 settimane e mezzo. Per dirla in termini di analisi marxiana: al circuito «merce-denaro-merce» si sostituisce quello «denaro-merce-denaro». E tra le due definizioni c'è molta differenza: con la prima si crea ricchezza reale che alimenta una lotta nella fese distributiva; con la seconda c'è il trionfo della solo speculazione, dell'arricchimento individuale. I capitalisti italiani (produttori di merci) negli ultimi 30 anni sono saltati come birilli: dall'illuminato Olivetti, al patron Borghi (quello della mitica Ignis) abbiamo visto sparire generazioni di industriali che avevano creato ricchezza. Problemi generazionali non sono mancati, ma, molto spesso, la crisi è arrivata dalla finanza (da un sistema bancario incapace di affiancare le imprese italiane) nella quale esplodevano i casi di Sindona e Calvi. Un sistema nel quale la P2 arrivò a controllare subdolamente il Corriere della sera strappato dalle mani del fragile Rizzoli. Questo spiega l'enorme attenzione che da settimane circonda il tentativo di scalata di Stefano Ricucci alla RCS. Possibile che D'Alema non lo capisca e si concentri piuttosto sulla fragilità degli imprenditori che controllano con un Patto la RCS? Il sistema bancario italiano oggi - forse - è abbastanza sano: ci sono banchieri che fanno molto bene il loro mestiere e spesso supportano egregiamente (magari anche per difendere i loro interessi come nel caso Fiat) l'attività produttiva. Però il marcio c'è ancora. Gli spregiudicati finanziamenti per favorire scalate e Opa ne sono la dimostrazione. Insomma, i capitalisti non sono tutti uguali: forse perché siamo un po' romantici seguitiamo a preferire il padrone che apre fabbriche, da lavoro e produce merci (ce ne sono molti e D'Alema farebbe bene a valorizzarli) a chi produce «denaro a mezzo di denaro», parafrasando Sraffa. Il movimento cooperativo ha acquisito tanti meriti: ha creato lavoro e modernità dovendo resistere agli attacchi che con l'ultimo governo si sono intensificati. È vero: come dice D'Alema l'Unipol è una spa quotata in borsa e quindi i suoi criteri di gestione sono quelli del capitalismo puro. Occorre ricordare, però, che Unipol è diventata grande grazie alla fede di centinaia di migliaia di assicurati che preferivano questa assicurazione ad altre grazie a un'identificazione solo ideologica. Di più: la spa Unipol è controllata dal sistema cooperativo e sinceramente i 2,5 miliardi di euro di aumento di capitale finalizzati all'acquisto di Bnl forse potevano essere spesi meglio. Insomma, D'Alema stia attento: a giocare con la grande finanza (Cuccia) e con i «capitani coraggiosi» c'è il rischio di scottarsi e di perdere di vista i valori fondamentali che si vogliono rappresentare. il manifesto 6 agosto 2005 |