Molti
studiosi fanno partire la storia della mafia dall'Unità
d'Italia. E questo non perché prima fosse assente in Sicilia
una qualche forma di criminalità che somigliasse a quella
mafiosa, ma perché è in quel momento storico che
si evidenzia un conflitto palese tra questa criminalità
- che va organizzandosi in maniera sempre più rigida -
e lo Stato.
L'Unità
d'Italia in Sicilia accelerò fortemente un processo di
fine della struttura feudale delle campagne, nel momento in cui
integrò l'economia siciliana in quella del resto del paese.
Inoltre, il nuovo governo piemontese si sovrappose ad una struttura
sociale siciliana senza riuscire ad interagire positivamente con
essa. Conseguenza di questi cambiamenti fu che nelle campagne
i grossi latifondisti, che avevano detenuto interamente il potere
fino a quel tempo, cominciarono ad aver bisogno sempre più
di qualcuno che garantisse loro un controllo effettivo delle proprietà,
sia per difendersi dal brigantaggio, sia per resistere alle nascenti
pretese delle classi contadine per una più equa distribuzione
del prodotto del loro lavoro.
Questo
ruolo, che in altri paesi ed anche in altre zone d'Italia fu tipicamente
un compito affidato alla classe borghese imprenditoriale, aiutata
nella sua affermazione dallo stato liberale, venne assunto in
Sicilia da alcuni personaggi che presero il nome di "campieri"
(perché controllavano i campi) o "gabelloti",
in quanto riscuotevano, per conto del padrone, le "gabelle".
Quindi, fin dal principio, la mafia si delinea come un'organizzazione
che assume dei ruoli pubblici per eccellenza, che altrove sono
di competenza dello Stato.
Per
farlo, i mafiosi ebbero fin dalle origini contatti molto stretti
con il potere pubblico. A quell'epoca le collusioni più
evidenti erano con il corpo dei "militi a cavallo",
una forza di polizia addetta al controllo delle campagne. Poiché
tali militi avevano una responsabilità diretta per i danni
arrecati alle proprietà rurali, che erano tenuti a risarcire,
avevano la tendenza a cercare di evitare i furti, spesso mettendosi
d'accordo con briganti e mafiosi perché li facessero in
territori non di loro competenza. Ma le collusioni, fin d'allora,
non si limitavano ai bassi livelli, ma arrivavano a toccare le
autorità prefettizie (che avevano allora molto più
potere che oggi) e, segno di grande continuità con l'oggi,
i politici. Ed è del tutto naturale che il terreno per
queste collusioni era più nelle città, dov'era concentrato
il potere politico, che nelle campagne. In questo senso, di recente,
S. Lupo ha sostenuto che è un errore considerare la mafia
delle origini soltanto come mafia rurale, in quanto il ruolo delle
città, come luogo politico e commerciale, era invece molto
importante.
Con alterne vicende, la situazione descritta nel capitolo sulla
mafia rurale andò avanti fino all'avvento del Fascismo.
Con
il nuovo regime, divenne evidente che la funzione della mafia
di concorrenza con i poteri dello stato non poteva essere tollerata
da un sistema di potere che dall'esercizio assoluto del monopolio
non solo della forza, ma anche del controllo sociale, traeva la
sua ragion d'essere. Fu per questo che mafia e Fascismo entrarono
in rotta di collisione.
Il
22 ottobre 1925 si insediò a Palermo il prefetto Cesare
Mori, che sarebbe passato alla storia con il soprannome di "prefetto
di ferro". I suoi metodi si rivelarono subito di estrema
decisione e violenza. Leggiamone il resoconto dal volume di C.
Duggan:
"L'assedio
di Gangi" ebbe inizio la notte del 1 gennaio 1926 [...]
Carabinieri e membri della Milizia occuparono come posti d'osservazione
le cime delle colline. Nevicava abbondantemente. I banditi erano
stati spinti dal freddo a tornare alle loro famiglie, e la polizia
sapeva più o meno esattamente dove si trovavano. L'unico
problema fu che Gangi era un paradiso per i banditi. La cittadina
era costruita sul fianco di una collina ripida e molte case avevano
due ingressi, uno al pianterreno e l'altro al primo piano. Vi
erano anche nascondigli abilmente costruiti dietro muri, sotto
i pavimenti o nei solai, ad opera di un certo "Tovanella".
In queste condizioni, l'operazione ebbe un andamento più
lento del previsto. Il primo bandito ad arrendersi fu Gaetano
Ferrarello, un uomo alto, anziano, con una lunga barba, molto
orgoglio e dotato di una certa nobiltà d'animo. Era stato
latitante per trent'anni. Uscì dal nascondiglio la mattina
del 2 gennaio, si avviò verso la casa del barone Li Destri,
attigua alla piazza centrale, e si costituì al questore
Crimi, l'uomo inviato da Mori a condurre l'operazione. [...]
Ferrarello si sbagliava se pensava che a quel punto Mori avrebbe
desistito. Scopo dell'azione non era semplicemente la resa dei
banditi, ma anche la loro umiliazione: "Volevo dare alle
popolazioni la tangibile prova della viltà della malvivenza",
scrisse Mori nelle sue memorie. Non si doveva sparare: i banditi
dovevano essere privati dell'onore di una resistenza armata. "La
gente si aspettava che facessimo interrogatori - ingiuriassimo
e agissimo con violenza - e ce ne andassimo senza aver ottenuto
alcun risultato", disse Mori al diplomatico americano R.
Washburn: "Ma io avevo un'idea diversa. Dissi ai miei uomini
di entrare nelle case dei criminali, dormire nei loro letti, bere
il loro vino, mangiarele loro galline, uccidere il loro bestiame
e venderne la carne ai contadini della zona a prezzo ridotto".
Fu dato ordine di prendere ostaggi: come per le operazioni successive,
sembra che gli obiettivi principali siano stati donne e bambini.
Che le donne siano state maltrattate, come affermarono in seguito
critici di Mori, non è certo. Sarebbe stato indubbiamente
conforme allo spirito, se non alla lettera dell'impresa, perché
scopo della cattura di ostaggi era far leva sul senso dell'onore
dell'uomo nei confronti della moglie e della famiglia: così
un pizzico di durezza non sarebbe stato inopportuno".
Dunque
una violenza e dei metodi che erano accettabili solo in uno stato
non più democratico, dove le garanzie per i cittadini erano
considerate molto meno della necessità di assicurare banditi
alla giustizia. Testimonianze autorevoli, inoltre, dicono che
Mori, durante l'assedio di Gangi e molte altre volte in seguito,
si servì dell'intermediazione di personaggi al confine
della legalità per ottenere la resa dei latitanti. Nell'assedio
di Gangi una parte importante ebbe ad esempio il barone Sgadari,
grosso proprietario terriero da tempo in affari con i mafiosi
ed ora pronto a tradirli in cambio dell'impunità personale.
Tali
metodi furono perseguiti per anni: furono fatti migliaia di arresti,
senza troppe preoccupazioni se nel mucchio finivano anche molti
innocenti. Si procedeva all'arresto, ed alla condanna per associazione
per delinquere, sulla base di un semplice sospetto, o della cosiddetta
"notorietà mafiosa". In questo modo alcune correnti
all'interno del partito fascista, riuscirono a far arrestare,
con accuse spesso infondate, i propri avversari politici. Una
delle vittime più illustri fu Alfredo Cucco (fascista della
prima ora e già segretario del partito, dell'ala radicale
del Fascismo, in contrasto con i latifondisti e la vecchia nobiltà
palermitana) che fu accusato e fatto incarcerare proprio da coloro
i quali, nel partito, invece volevano appoggiarsi a questa classe
sociale. Dopo undici processi, l'innocenza di Cucco fu provata,
ma la sua carriera politica era terminata da tempo.
I
metodi brutali del prefetto Mori ebbero sicuri risultati in termini
militari. Il 1927 viene ancor oggi ricordato come l'anno in cui
furono arrestati più mafiosi (ma forse anche più
innocenti accusati di esserlo). Moltissimi altri furono costretti
a fuggire, per lo più "rifugiandosi" negli Stati
Uniti, andando a rimpolpare la nascente mafia italo-americana,
che troverà poi, com'è noto, negli anni Trenta,
una grande occasione di crescita nel proibizionismo.
A
fianco di questi positivi risultati polizieschi, la lotta alla
mafia condotta dal Fascismo presenta alcune notevoli pecche:
1.
La lotta antimafia fu usata a volte per fini poco limpidi. Fu
lo stesso Mori a riconoscere, nelle sue memorie, che "La
qualifica di mafioso venne spesso usata in perfetta malafede ed
in ogni campo, compreso quello politico, come mezzo per compiere
vendette, per sfogare rancori, per abbattere avversari"
(citato da Lupo, p. 148).
2.
Il Fascismo non unì alla lotta sul piano militare, alcun
intervento di tipo sociale, facendo anzi dei passi indietro, soprattutto
nelle campagne, riaffidando quasi interamente il potere ai latifondisti.
Ha scritto uno dei massimi storici dell'Italia contemporanea,
Denis Mack Smith: "Mori era amico dei latifondisti.
[...] Dal 1927 gli agrari erano di nuovo al potere, e la Sicilia
ne pagò a caro prezzo la riabilitazione; e gli anni Trenta
furono caratterizzati da abbandono e declino" ("Introduzione"
a Duggan, p. IX). Un dato può dare l'idea di cosa significò
questo nuovo ordine sociale in Sicilia: dal 1928 al 1935 le paghe
agricole, secondo le statistiche ufficiali, diminuirono del 28%
(Comm. Antim., p. 66).
3.
I metodi brutali di Mori crearono malcontento nella popolazione,
che spesso fu tentata a schierarsi dalla parte dei mafiosi, di
fronte a forze di polizia che apparivano quasi come invasori stranieri,
senza rispetto delle più elementari regole di legalità.
Leggiamo ancora Mack Smith: "Ironicamente, l'operato
di Mori potrebbe aver rafforzato proprio quella diffidenza nei
confronti dello Stato che, come il governo, era stato così
desideroso di vincere".
4.
Alcune ricostruzioni storiche sembrano indicare che anche il Fascismo
non fu immune da compromessi con la mafia. La cosa pare ormai
accertata per il Fascismo delle origini (Duggan, Lupo), ma alcuni
indizi vi sono per supporre che anche dopo l'azione di Mori, in
alcune zone, l'alleanza del Fascismo con i latifondisti condusse
ad un quieto vivere dove, in realtà, i vecchi mafiosi ebbero
un qualche ruolo (Lupo).
Che la mafia, sconfitta sul piano militare, covasse in realtà
sotto la cenere e mantenesse un suo controllo sulla società
siciliana sembra confermato dalle vicende dell'estate del 1943,
in occasione dello sbarco in Sicilia degli Alleati. La strategia
militare che il Pentagono decise di attuare nel momento in cui
si decise di aprire uno nuovo fronte contro i nazi-fascisti in
Italia, fu quella di iniziare l'offensiva dalla Sicilia, sia per
evidenti ragioni geografiche (per evitare l'accerchiamento da
parte del nemico), sia perché si poteva costituire una
testa di ponte in Sicilia proprio sfruttando la mafia.
È
normale che in guerra non si vada molto per il sottile. Così,
la CIA contattò alcuni importanti boss mafiosi italo-americani
in carcere negli Stati Uniti, e gli offrì un patto: la
libertà in cambio di un appoggio al momento dello sbarco.
Fu ciò che avvenne: alla fine della guerra molti mafiosi
americani furono liberati ed espulsi dagli Stati Uniti come "indesiderabili",
con il tacito accordo che sarebbero tornati in Italia. I casi
più noti riguardarono i boss Lucky Luciano e Vito Genovese,
il quale prestò addirittura servizio per il quartier generale
alleato di Nola.
Contemporaneamente,
gli Alleati affidarono molte cariche, nel governo provvisorio
della Sicilia dopo lo sbarco, a noti mafiosi: Calogero Vizzini
fu nominato sindaco di Villalba, Giuseppe Genco Russo divenne
sindaco di Musumeli, Vincenzo Di Carlo fu nominato responsabile
dell'Ufficio per la requisizione del grano, ecc. Ciò diede
nuova e sicura autorità ai mafiosi, oltre a concrete possibilità
di arricchimento e di accrescimento del loro potere.
In
questo periodo, la mafia cercò di organizzare la sua presenza,
anche politica, in Sicilia, contribuendo alla nascita del Movimento
Indipendentista Siciliano (MIS), formazione politica che si prefiggeva
l'indipendenza della Sicilia dal resto d'Italia e, in alcuni momenti,
persino la stramba idea di far aderire la Sicilia agli Stati Uniti.
Il
MIS non fu composto solo da mafiosi, ma ebbe diverse anime e diverse
adesioni. Certo, però, la componente mafiosa, o vicina
alla mafia, era molto importante. D'altro canto, i mafiosi potevano
vantare, paradossalmente, di essere stati "perseguitati"
dal Fascismo, facendosene un merito, come se il problema fosse
stato politico e non criminale. Il MIS ebbe un sviluppo molto
ampio dal 1943 al 1947, sia per il seguito popolare, sia perché
"i responsabili del governo militare di occupazione affidarono
il 90% delle amministrazioni a politici separatisti",
come denunciava la prima relazione della Commissione parlamentare
antimafia del 1972 (Tranfaglia, p. 4).
La
crescita del movimento non si limitò, tuttavia, al piano
legale ed elettorale. Il MIS costituì persino un suo esercito,
l'EVIS (Esercito volontario di indipendenza siciliana), nel quale
militarono banditi e mafiosi di grosso calibro. Capo dell'EVIS
fu Salvatore Giuliano, e fu proprio questi a provocare la fine
dell'esperienza separatista, con la strage di Portella della Ginestra,
una località vicino Palermo, dove, "il °1
maggio 1947, si erano radunati, secondo una vecchia tradizione,
i lavoratori della zona per celebrare la festa del lavoro. In
quella occasione, erano pervenuti nella località molti
gruppi di lavoratori con le proprie famiglie ed era iniziato da
poco il discorso del segretario socialista della zona quando,
improvvisamente, dalle alture circostanti partirono i primi colpi
di mitra. Ci fu un improvviso clamore, quasi di gioia, perché
i più ritenevano che si trattasse di spari festosi. Poi
le prime urla e quindi un confuso fuggire tra lamenti e pianti."
(il racconto è ancora tratto dalla Relazione della
commissione antimafia del 1972: Tranfaglia, p. 32). Vi furono
11 morti e 35 feriti.
L'orrore
suscitato in tutta Italia dalla strage provocò una reazione
decisa da parte dello Stato, come spesso sarebbe accaduto anche
in seguito. Tuttavia, si decise di trovare una soluzione al problema
non proprio onorevole. Si distinsero nettamente le responsabilità
del bandito Giuliano da quelle dei politici del MIS e dei mafiosi.
Si contrattò con la mafia la fine di Giuliano, che fu tradito
da un suo luogotenente (Gaspare Pisciotta), ucciso e consegnato
alla polizia. Dapprima si cercò di far passare la versione
che Giuliano fosse morto in uno scontro a fuoco, ma, grazie anche
ad alcune inchieste giornalistiche, si venne infine a sapere la
verità.
Quando,
un paio di anni dopo, Pisciotta cominciò a far intendere
di essere disposto a rivelare alcuni scottanti retroscena, fu
trovato morto nel carcere dell'Ucciardone, a Palermo, per aver
bevuto un caffè alla stricnina.
Nel periodo del Dopoguerra, la società siciliana subì
una profonda trasformazione, con una netta riduzione del peso
dell'agricoltura nell'economia regionale. La mafia, com'è
sua caratteristica, si adeguò a questa evoluzione, andando
ad occupare, in posizione parassitaria, i nuovi campi socialmente
ed economicamente predominanti: la crescita edilizia, il commercio
(in particolare quello all'ingrosso dei prodotti agricoli) e il
terziario pubblico. Per farlo dovette stringere con il potere
politico relazioni più strette che nel passato, in quanto
il ruolo dell'amministrazione pubblica nella nuova situazione
economica era di molto cresciuto.
La
mafia strinse così un patto di ferro con la classe politica
dominante in Sicilia, che faceva capo soprattutto alla Democrazia
Cristiana, ed in particolare alla corrente di Giovanni Gioia (leader
Dc in Sicilia, e più volte ministro), e dei suoi luogotenenti
Salvo Lima e Vito Ciancimino.
Sulla
reale natura dei rapporti tra questo gruppo di potere e la mafia
si fa spesso molta confusione, inaridendo il discorso nel decidere
se questi politici erano del tutto dei mafiosi, o erano ingiustamente
accusati. In realtà, le posizioni personali sono state
diverse: solo per Ciancimino puo' dirsi storicamente e giudiziariamente
accertata l'appartenenza diretta a Cosa Nostra, mentre per gli
altri, in realtà, si deve parlare di un sistema di potere
che con la mafia ha avuto rapporti di collaborazione ma in qualche
caso anche di concorrenza o di conflitto. Il processo in corso
sull'omicidio Lima probabilmente dara' delle indicazioni piu'
precise a riguardo.
Il
discorso è innanzitutto economico. Il gruppo dirigente
democristiano in Sicilia gestì una quantità di risorse
e di opportunità economiche nella regione in grado di rivoluzionare
l'intero assetto sociale dell'isola. In primo luogo si trattava
dei finanziamenti pubblici alla Regione autonoma Sicilia, destinati
a finanziare gli enti economici regionali per la gestione dell'agricoltura,
delle foreste, degli acquedotti, dell'edilizia popolare, delle
finanze, ecc. Chi controllava queste risorse acquisiva un potere
straordinario, soprattutto perché controllava le assunzioni
negli enti. Solo per l'amministrazione regionale e per gli enti
ad essa legati furono assunte dal 1946 al 1963 circa 9.000 persone,
di cui il 92,7% per chiamata diretta, e solo il rimanente per
concorso, come sarebbe stato obbligatorio (Arlacchi, p. 92). A
ciò vanno aggiunte le varie amministrazioni comunali e
provinciali, l'amministrazione sanitaria, le banche, ecc.. È facile capire ciò che questo comporta: solo chi è
vicino ai politici "giusti" aveva la possibilità
di essere assunto...
La
seconda grossa opportunità economica gestita dal potere
politico fu quella dell'espansione edilizia dei comuni, ed in
particolare di Palermo. Il capoluogo regionale conobbe negli anni
Cinquanta un'espansione straordinaria, dovuta specialmente alla
crescita della burocrazia regionale e comunale. Ciò comportò
la necessità di costruire interi nuovi quartieri, e l'opportunità
di fare ottime speculazioni sui suoli urbani. Se infatti alcuni
mafiosi, o altri amici dei politici, acquistavano dei terreni
fino ad allora agricoli, ed in seguito un assessore compiacente
trasformava quei terreni in edificabili, il profitto poteva essere
enorme. Inoltre, in diversi quartieri, il comune di Palermo consentì
di abbattere vecchie residenze, anche storicamente importanti,
per costruire nuovi quartieri, il tutto per favorire imprenditori
e proprietari vicini ai mafiosi. Questo periodo, consumatosi sotto
le sindacature di Lima prima e di Ciancimino poi, fu chiamato
"il sacco di Palermo". Un rapporto di polizia degli
anni Sessanta mostrò come tra il 1957 e il 1963 l'80% delle
licenze di costruzione del comune di Palermo furono rilasciate
a soli cinque nominativi, prestanome dei più potenti gruppi
mafiosi della città (Arlacchi, p. 94).
Oltre
a ciò, tutti gli appalti per i servizi di pulizia, illuminazione,
fognature del comune venivano affidati a personaggi di confine,
legati alla mafia e vicini anche agli stessi politici, quali l'imprenditore
Francesco Vassallo. Lo stesso Ciancimino, al momento del suo arresto,
fu trovato in possesso di importanti partecipazioni in società
che avevano rapporti privilegiati con il comune di Palermo, oltre
ad essere titolare di conti correnti miliardari in Svizzera e
in Canada.
Un
caso clamoroso era quello delle esattorie fiscali della regione,
affidate in concessione ad una società dei due cugini Nino
e Ignazio Salvo, uomini d'onore della famiglia di Salemi, e molto
vicini a Salvo Lima, a condizioni di estremo favore (essi trattenevano
una percentuale vicina al 10% sulle tasse riscosse, contro una
media nazionale del 3,3%). Di loro si parla ancora oggi, in quanto
alcuni pentiti li indicano come tramite tra Cosa Nostra e Giulio
Andreotti in occasione dell'omicidio di Mino Pecorelli, un giornalista
scandalistico, vicino ai servizi segreti, del cui assassinio Andreotti
è accusato di essere il mandante, anche se ancora il processo
è solo agli inizi.
In
questo periodo la mafia si dedica, oltre a questi molteplici intrecci
con il potere politico, ad altre attività criminali, quali
il contrabbando ed il racket, ovvero la richiesta di somme di
denaro (il cosiddetto "pizzo") agli imprenditori sia
commerciali che industriali, in cambio di protezione.
Quest'ultima
funzione della mafia rimane ancora oggi come molto importante,
e non tanto perché consente elevati profitti, quanto perché
è forse l'attività che più di ogni altra
consente alla mafia di affermare il proprio dominio su un territorio,
nel quale non è possibile esercitare attività di
alcun genere senza il consenso e la protezione delle famiglie.
Questa situazione ebbe un'evoluzione improvvisa tra la fine degli
anni Settanta e l'inizio degli anni Ottanta, a causa dell'aumento
vertiginoso del giro d'affari mafioso, ottenuto grazie al traffico
di droga. L'enorme fatturato di questa nuova attività criminale
(si pensi che Cosa Nostra è riuscita a monopolizzare il
traffico all'ingrosso dell'eroina in Europa e negli Stati Uniti)
comportò notevoli cambiamenti nella vita delle cosche,
e la necessità di nuovi rapporti anche con la finanza internazionale
e con la politica di più alti livelli. Ciò ha comportato
la nascita di una classe di mafiosi dediti al riciclaggio di denaro
sporco in attività imprenditoriali lecite, o ai confini
con la liceità.
Primo
sbocco di questi imprenditori fu l'edilizia, ed in particolare
quella legata ai lavori pubblici, dove la mafia poteva godere
di importanti vantaggi concorrenziali, come abbiamo visto in altra
occasione. Per altro, tale attività, consentiva di accrescere
il prestigio politico e l'effettivo controllo del territorio da
parte della mafia. Probabilmente l'organizzazione della strage
di Capace non sarebbe stata possibile se la mafia non fosse stata
perfettamente padrona del territorio in quel tratto di autostrada,
e non temesse affatto il controllo da parte degli organi statali
competenti (dalla polizia stradale all'Anas...).
Altro
importante ambito di attività è l'usura, nei confronti
di imprenditori locali, i quali spesso finiscono per cedere le
attività ai mafiosi, stretti in una spirale di debiti ad
interessi impossibili da sostenere. Anche l'usura si avvantaggia
dei rapporti politici, in particolari con gli amministratori "lottizzati"
delle banche, che sono a volte fonti preziosa di informazione
sulle finanze dei "clienti" degli usurai mafiosi, quando
non indirizzano direttamente la clientela della banca verso queste
forme "alternative" di credito.
Attualmente
gli studiosi più accreditati (Centorrino, Arlacchi) calcolano
che usura e lavori pubblici sono per la mafia siciliana fonti
di reddito equivalenti al traffico di droga, mentre per la camorra
napoletana a queste fonti va aggiunto il gioco d'azzardo (ad esempio
la gestione del totonero), e per la 'ndrangheta i sequestri di
persona.
Il passaggio dalla vecchia mafia alla mafia imprenditrice non
fu incruento. Come sempre i regolamenti di conti e i processi
di rinnovamento vennero raggiunti con il sangue. All'inizio degli
anni Ottanta scoppiò infatti la grande guerra di mafia
che porterà al potere il gruppo tutt'ora egemone: i Corleonesi
di Totò Riina, in principio rappresentati in Commissione
dal "Papa" della Mafia, Michele Greco, della famiglia
di Ciaculli, località alle porte di Palermo.
La
guerra fu condotta con una violenza inaudita. In seguito si disse
che questa era una novità, che la vecchia mafia usava metodi
meno violenti, e che la nuova mafia aveva perso il vecchio "senso
dell'onore". A smentire questa versione stanno però
i resoconti storici che risalgono fino al secolo scorso, e che
da sempre narrano l'estrema violenza nella soluzione dei rapporti
di forza tra le cosche. Anzi, è tradizione immutata nella
mafia che l'affermazione personale avvenga sempre attraverso la
violenza direttamente esercitata.
L'idea
che a volte si ha dei capi mafiosi come "menti" raffinate,
che vivono ad un altro livello rispetto agli esecutori dei loro
voleri è del tutto sbagliata (Falcone, Arlacchi). Anzi,
caratteristica peculiare della mafia, rispetto ad altre forme
di criminalità di alto livello, è proprio questa
identità tra mandanti ed esecutori, così che si
diventa capimafia solo passando attraverso i crimini più
efferati, e spesso sono gli stessi capi che partecipano direttamente
alle azioni più importanti.
Alla
guerra di mafia si associò anche una serie di "delitti
eccellenti" che non aveva pari con la precedente storia di
Cosa Nostra. Cosa era successo? Fino alla fine degli anni Settanta
lo Stato aveva convissuto con la mafia in maniera piuttosto pacifica.
Vi erano dirette connessioni tra potere politico e mafia, come
abbiamo visto, ma vi era anche una certa tolleranza da parte della
magistratura, delle forze di polizia, e persino della classe imprenditoriale
nei confronti di un'associazione che garantiva una certa pace
sociale, il controllo delle altre forme di criminalità,
ed alla quale venivano lasciati in cambio ampi spazi d'azione.
Per
svariate ragioni difficili da riassumere in poche righe, la società
siciliana, sul finire degli anni Settanta, cominciò a ribellarsi
a questo stato di fatto, e nella magistratura, nella società
civile, e persino nella politica cominciarono a esserci voci contrarie
alla mafia.
La
prima reazione delle cosche fu quella di eliminare chiunque si
opponesse seriamente al loro strapotere, approfittando anche del
fatto che spesso queste persone erano isolate e poco protette
negli stessi ambienti in cui vivevano. Iniziò così
la stagione dei delitti eccellenti. Si cominciò nel 1979
con il giudice Cesare Terranova, appena tornato alla magistratura
attiva dopo essere stato deputato per il PCI e membro della Commissione
antimafia. Seguirono, tra i magistrati, gli omicidi di Gaetano
Costa (1980), appena nominato procuratore a Palermo, e Rocco Chinnici
(1983), capo dell'Ufficio istruzione di Palermo e diretto superiore
di Falcone, al quale per primo aveva dato lo spazio necessario
per le indagini antimafia. Tra i politici, nel 1980, di particolare
significato fu l'omicidio di Piersanti Mattarella, democristiano,
da poco nominato presidente della Regione Sicilia confidando nel
fatto che il padre, Bernardo, aveva avuto nel passato "pacifici"
rapporti con la mafia. Il cambiamento culturale che stava avvenendo
in Sicilia passava però anche all'interno delle famiglie,
ed il giovane Piersanti si diede subito da fare per isolare i
comitati d'affari politico mafiosi nella Regione, pagando con
la vita questa scelta. Ancora tra i politici, fu ucciso Pio La
Torre (1982), segretario regionale del PCI, da sempre attivo nella
lotta antimafia.
Anche
le forze dell'ordine pagarono caramente il nuovo clima di opposizione
alla mafia. Furono uccisi il vicequestore di Palermo Boris Giuliano,
gli ufficiali dei carabinieri Giuseppe Russo e Emanuele Basile,
e i dirigenti di polizia Beppe Montana e Ninni Cassarà.
Nel settembre 1982 fu ucciso il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa
con la sua giovane moglie, da 100 giorni nominato prefetto di
Palermo, ed ancora in attesa di quei poteri speciali che aveva
richiesto per combattere più efficacemente la mafia, e
che il governo aspettò troppo a lungo a concedergli.
In queste
pagine troverete alcune indicazioni bibliografiche, limitate ai
materiali che abbiamo utilizzato per costruire questa unità
didattica. Bibliografie più articolare e complete sulla
mafia sono reperibili in alcuni volumi: in particolare nel volume Per conoscere la mafia. Una bibliografia,
che è tuttavia del 1993.
Più recente la bibliografia ragionata posta al termine
del libro Einaudi La mafia. Economia politica società
Ha cercato di fare il punto sugli studi "mafiologici"
di diverso genere Umberto Santino in La mafia interpretata.
1. Le testimonianze
Il filone
più ricco di letture è senz'altro quello delle memorie,
testimonianze, documentazioni, che non può non iniziare
con la lunga intervista di Marcelle Padovani a Giovanni Falcone,
Cose di cosa nostra, che può
essere considerata come il testamento del coraggioso magistrato
siciliano.
A fianco
del libro di Falcone, può stare sicuramente il volume di
Antonino Caponnetto, I miei giorni
a Palermo, che racconta l'esperienza vissuta a fianco
di Falcone e Borsellino, nel ruolo di Capo dell'Ufficio Istruzione
del Tribunale di Palermo.
Di grande
interesse sono anche i libri di Nando Dalla Chiesa, Storie
di boss ministri tribunali giornali intellettuali e Il
giudice ragazzino.
Riferito
ad una mafia di più alto livello, quella legata a Sindona
e alla grande finanza internazionale è il libro di Corrado
Stajano, Un eroe borghese.
Si legge
come un giallo il libro di Marco Bettini, Pentito. Una
storia di mafia, che racconta la vita di un pentito di mafia dall'infanzia
alla decisione di collaborare con la giustizia.
Dello stesso
genere è il diario-racconto raccolto da Pino Arlacchi con
il titolo Gli uomini del disonore. La mafia siciliana nella
vita del grande pentito Antonino Calderone, di maggior rilievo
storico, per l'importanza di Calderone nella gerarchia mafiosa,
ma meno appassionante come lettura.
La vita di
un ucciso dalla mafia spesso dimenticato, Peppino Impastato, è
raccontata con dovizia di particolari da Salvo Vitale, Nel
cuore dei coralli. Peppino Impastato, una vita contro la
mafia, interessant perché racconta una storia minore, meno
nota ma forse più importanti di altre.
Ricco di
numerose testimoniante interessanti, il libro di Enrico Deaglio,
Raccolto rosso. La mafia, l'Italia, mentre ha una prospettiva
particolare, attenta agli aspetti antropologici della mafia, il
libretto di Renate Siebert, La mafia, la morte il ricordo.
2. Le documentazioni ufficiali
Per studiare
la mafia, una cruciale importanza rivestono le relazioni della
Commissione Parlamentare Antimafia in particolare
negli anni della presidenza di Luciano Violante. Ne esistono diverse
versioni in volume (segnaliamo quelle Laterza e Rubbettino), ma
qui rimandiamo soprattutto a quella disponibile in rete su Internet.
La Commissione
Antimafia ha inoltre curato un interessantissimo Dossier mafia
per le scuole, di particolare rilievo nel nostro caso.
La Commissione
Antimafia ha una storia molto lunga, essendo stata istituita per
la prima volta nel 1963. Una selezione dei brani più significativi
delle sue relazioni e di altri documenti ufficiali è stata
curata da N. Tranfaglia, con il titolo Mafia, politica
e affari. 1943-91.
Dall'esperienza
della presidenza della commissione antimafia viene il recente
e molto ben fatto libro di Luciano Violante, Non è la piovra,
che si presenta come un vero e proprio manuale per comprendere
la mafia negli ultimi anni.
Nel campo
della raccolta di documentazioni va segnalato anche il volume
Mafia. L'atto d'accusa dei giudici di Palermo,
curato da C. Stajano, che è un'ampia selezione di brani
della sentenza ordinanza con la quale il pool antimafia di Palermo,
nel 1984, rinviò a giudizio ben 707 presunti mafiosi, in
quello che viene definito il "primo maxiprocesso di Palermo".
Di scottante
attualità è il breve volumetto intitolato Andreotti
e Riina: Il patto. Vent'anni di mafia e delitti nell'atto d'accusa
della Procura di Palermo, che raccoglie i punti salienti della
richiesta di rinvio a giudizio nei confronti del Senatore Andreotti
formulata dalla procura di Palermo.
Più
di recente sono usciti numerosi libri sul processo Andreotti.
Ne segnaliamo tre, la cui lettura combinata consente di farsi
un'idea più precisa della vicenda, in attesa dei chiarimenti
che potrà apportare solo il processo: le tesi dell'accusa
sono sostenute da P. Arlacchi, ne Il processo. Giulio
Andreotti sotto accusa a Palermo, mentre quelle della difesa sono
contenute nell'intervista ad Andreotti fatta da A. Nicaso con
il titolo Io e la mafia. Le verità di Giulio Andreotti.
Infine, un punto di vista particolare, innocentista in relazione
alle responsabilità penali, ma che insiste sulle responsabilità
politiche di Andreotti (e non solo sulle sue) è quello
di Emanuele Macaluso, Giulio Andreotti tra Stato e mafia.
Storia della mafia
Con il titolo
Storia della mafia è uscito
di recente un volume molto documentato di S. Lupo, indispensabile
per chi voglia davvero approfondire l'argomento.
Sui singoli
periodi storici, va segnalato il volume di C. Duggan, La mafia
durante il Fascismo. Per il periodo successivo, ormai un
classico è P. Arlacchi, La mafia imprenditrice,
che spiega il passaggio dalla mafia dei suoli urbani a quella
più moderna, coinvolta nel traffico di droga, negli appalti
pubblici, e nell'alta finanza.
Per la storia
ancora più recente, piuttosto chiaro è I corleonesi.
Mafia e sistema eversivo, di Luciano Violante, tuttavia
difficile da trovare perché edito come supplemento del
giornale "l'Unità".
Di facile
ed a tratti avvincente lettura è il libro di F. Calvi, La vita quotidiana della mafia dal 1950 ad oggi.
Mafia, economia, politica, società
Sugli aspetti
economici dell'imprenditoria mafiosa, sono ricchi di spunti e
di cifre, i libri di M. Centorrino, L'economia mafiosa, I
conti della mafia e Economia assistita da mafia.
Necessita
di un po' di conoscenza di base di economia la bella intervista
di Ada Becchi a Guido Rey, pubblicata da Laterza con il titolo
L'economia criminale.
Sui rapporti
tra mafia e appalti pubblici interessante è lo studio del
caso Catania di G. Piazza, La città degli affari,
che tuttavia richiede discrete competenze giuridiche per essere
letto.
Sui legami
tra mafia e politica, eccellenti spunti si trovano nel libro di
I. Sales, Leghisti e sudisti, dedicato a problemi più
generali della politica del Sud, ma che ovviamente si sofferma
anche sul problema della criminalità organizzata.
La
mafia nel mondo
Il tema dei
rapporti internazionali della mafia non è ancora entrato
- se non marginalmente - nel nostro lavoro. Segnaliamo solo un
libro molto interessante e purtroppo di scarso successo in Italia
di F. Castillo, I cavalieri della cocaina, che racconta
la storia del narcotraffico colombiano.
Alcuni spunti
molto interessanti sono contenuti nei capitoli finali del citato
libro di Violante, Non è la piovra.
Romanzi
Più
difficile segnalare bei romanzi sulla mafia. Al proposito, di
recente, sono nate forti polemiche, alimentate proprio da chi
ha denunciato la reticenza degli scrittori italiani su un argomento
così importante della nostra vita sociale e politica. L'unica
eccezione rilevante è Leonardo Sciascia, ed in particolare
il suo Il giorno della civetta. Sempre
di Sciascia, non direttamente riguardante la mafia, ma comunque
ad essa connessa è la storia di A ciascuno il suo.
Infine, ne Il mare color del vino si può trovare un breve
raccontino a forma di dialogo sull'origine della parola mafia.
Più
di recente, è stato uno scrittore piemontese, Sebastiano
Vassalli, a cimentarsi sul tema della mafia, con un romanzo storico
dal titolo Il cigno, che ricostruisce il caso dell'omicidio
Notarbartolo, forse il primo "omicidio eccellente" della
storia della mafia, avvenuto nel 1893.
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