|
Leonardo Sciascia
La storia della mafia |
da
“Quaderni Radicali” nn. 30 e 31 -
Anno XV - Gennaio/Giugno 1991
Il primo
vocabolario del dialetto siciliano che registra la parola mafia
è quello del Traina, pubblicato nel 1868: e la dà
come nuova, importata in Sicilia dai piemontesi, cioè
dai funzionari e soldati venuti in Sicilia dopo Garibaldi, ma
proveniente forse dalla Toscana, dove “maffia”
(due effe), vuol dire miseria e “smàferi”
vuol dire sgherri. Il Traina trova che queste due parole, questi
due significati, convergono nel tipo umano che in Sicilia è
detto mafioso. Il mafioso ha baldanza e prepotenza da sgherro,
ma è anche un miserabile, poiché “miseria
vera è credersi grand’uomo per la sola forza bruta,
ciò che mostra invece gran brutalità, cioè
l’essere gran bestia”. Mafia è dunque “apparente
ardire, sicurtà d’animo”. E nient’altro.
Così pensava anche il più grande studioso di tradizioni
popolari siciliane, il palermitano Giuseppe Pitrè:
”La mafia non è setta né associazione,
non ha regolamenti né statuti. Il mafioso non è
un ladro, non è un malandrino; e se nella nuova fortuna
toccata alla parola, la qualità di mafioso è stata
applicata al ladro, ed al malandrino; ciò è perché
il non sempre colto pubblico non ha avuto tempo di ragionare
sul valore della parola, né s’è curato di
sapere che nel modo di sentire del ladro e del malandrino il
mafioso è soltanto un uomo coraggioso e valente, che
non porta mosca sul naso, nel qual senso l’essere mafioso
è necessario, anzi indispensabile. La mafia è
la coscienza del proprio essere, l’esagerato concetto
della forza individuale, unica e sola arbitra di ogni contrasto,
di ogni urto d’interessi e d’idee; donde la insofferenza
della superiorità e peggio ancora della prepotenza altrui.
Il mafioso vuol essere rispettato e rispetta quasi sempre. Se
è offeso non si rimette alla legge, alla giustizia, ma
sa farsi personalmente ragione da sé, e quando non ne
ha la forza, col mezzo di altri del medesimo sentire di lui”.
Il Pitrè anzi, rispetto al Traina, toglie al mafioso
brutalità e prepotenza e le attribuisce agli altri, a
quelli contro cui il mafioso si ribella; sicché la mafia
altro non sarebbe che un sentimento di libertà, un atteggiamento
di fierezza contro le angherie dei potenti e l’inettitudine
della legge e dei pubblici poteri. In conclusione: il Traina
come il Pitrè, come tanti altri studiosi e giudici e
uomini politici siciliani, tendono a negare la mafia in quanto
associazione e ad ammetterla in quanto “ipertrofia dell’io”
(definizione del giurista siciliano Giuseppe Maggiore), dell’io
dei singoli siciliani.
L’invenzione della mafia come associazione per delinquere
ha anzi, secondo un magistrato siciliano, un responsabile: quel
Giuseppe Rizzotto che nel 1862 scrisse la commedia
I mafiusi
di la Vicaria (la Vicaria era una prigione palermitana).
”
L’artista esagerando con la sua arte tragica,
a base di speculazione, i pretesi costumi dei galeotti nelle
prigioni di Palermo, riuscì fatalmente ad accreditare
e diffondere la stolta credenza” che la mafia fosse
un’associazione di delinquenti, scrive il magistrato.
E conclude: ”
Dio perdoni al Rizzotto, che da molti
anni è scomparso dalla scena della vita, il danno enorme
arrecato alla nostra Sicilia. E le conseguenze tristissime di
questo danno io provai quando, nel corso della mia carriera,
ebbi la fortuna della destinazione alla Procura Generale di
Torino”.
E si può essere d’accordo che la sua destinazione
alla Procura Generale di Torino, invece che a quella di Palermo,
sia stata una fortuna anche per la Sicilia, dove all’incirca
in quegli anni c’è stato un procuratore le cui
requisitorie nei processi contro la mafia, acute e implacabili,
si possono leggere come uno dei più seri contributi allo
studio del fenomeno: l’agrigentino Alessandro Mirabile.
Il procuratore generale Mirabile pensava esattamente il contrario
del Pitrè: cioè che la mafia fosse setta, associazione;
e con precisa costituzione (ovviamente non scritta), con regole
rigorose, con segni di riconoscimento tra gli affiliati. Oltre
che sulla propria esperienza, fondava questa affermazione su
un memoriale (che bisognerebbe ricercare negli archivi giudiziari)
scritto da Bernardino Verro, che nella prima giovinezza pare
fosse entrato a far parte della mafia: e diventato poi socialista
– una delle più belle figure del socialismo siciliano,
in quel movimento detto dei “fasci” che fu duramente
represso dal governo del siciliano Crispi - fu della mafia strenuo
avversario fino alla morte. Nato a Corleone (paese anche oggi
ben noto per fatti di mafia), a quarantotto anni, in pieno giorno,
fu ucciso, in una strada del paese di cui era diventato sindaco,
il 3 novembre 1915.
Questi nomi: Verro, Mirabile e, su tutti, quello di Napoleone
Colajanni, studioso di problemi sociali e deputato del partito
repubblicano, dicono che non tutti i siciliani negavano l’esistenza
della mafia come associazione criminale ne ritenevano fosse
offesa per la Sicilia il parlarne. Pubblicamente anzi la denunciavano
e la combattevano, considerando sciocco e dannoso il principio
che il male di cui una popolazione è afflitta bisogna
nasconderlo o minimizzarlo. I mali sociali sono, infatti, proprio
come le malattie individuali: nasconderli, negarli, minimizzarli
vuole dire soprattutto non volerli curare, non volere liberarsene.
Quei siciliani che come Pitrè, come Luigi Capuana, ancor
oggi ritengono che la mafia sia soltanto atteggiamento di spavalderia
individuale, amor proprio, senso dell’onore, sete di giustizia
e modo di farsi giustizia in un paese afflitto da una secolare
carenza dell’amministrazione statale, naturalmente affermano
che tutti i fatti di delinquenza associata in Sicilia non sono
diversi da quelli che avvengono in altre regioni d’Italia
e in altri paesi europei, né più gravi, né
più numerosi. Per loro, la parola mafia non va applicata
ai fatti delinquenziali.
Alcuni, anche in buona fede, credono che applicando la parola
alla cosa - la parola mafia, o l’espressione, venuta in
uso in questi ultimi anni, di “Cosa nostra” - si
tenda a creare una distinzione razzistica, un pregiudizio, nei
riguardi di tutta la popolazione siciliana, da cui discendono
la denigrazione, la diffidenza, l’irrisione anche verso
il singolo siciliano che si trova a vivere fuori della propria
terra.
È ingiusto, dicono costoro, che una banda di rapinatori
sia considerata una semplice banda di rapinatori a Milano o
a Marsiglia o a Londra e una “cosca mafiosa” (“cosca”
è la corona di foglie del carciofo) a Palermo; che a
Milano o a Marsiglia o a Londra siano indicati come colpevoli
di un fatto delittuoso soltanto coloro che l’hanno effettivamente
preparato ed eseguito, mentre un identico fatto, se accade a
Palermo, si ritiene adombri una concatenazione di responsabilità
e complicità più vasta, sfuggente, indefinibile
- come se tutta la popolazione della città e dell’isola
avesse oscuramente partecipato al fatto e ne proteggesse i colpevoli.
Bisogna dunque, dicono questi difensori del buon nome della
Sicilia, togliere la parola alla cosa, guardare alla cosa per
come si presenta nei limiti dell’esecuzione, al fatto
criminale in sé.
Ma la parola mafia (che in origine avrà avuto il significato
che le attribuisce il Pitrè; e il più antico documento
in cui la troviamo, del 1658, la dà come soprannome di
una “magara”, cioè di una donna dedita a
pratiche di magia), la parola è stata applicata alla
cosa, o la cosa ha preso quel nome, in forza di una distinzione
qualitativa che i fatti criminali assumono in Sicilia rispetto
a quelli di altre regioni, di altri paesi. Non tutti, si capisce;
e non in tutta la Sicilia.
Questa distinzione già vien fuori nel 1838, quando ancora
non esisteva la parola nel senso oggi in uso, da una relazione
di don Pietro Ulloa (quello stesso che scrisse poi opere storiche
sul regno dei Borboni, cui fu fedelissimo) allora procuratore
generale a Trapani:
“Non c’è impiegato
in Sicilia che non sia prostrato al cenno di un prepotente e
che non abbia pensato a trarre profitto dal suo ufficio. Questa
generale corruzione ha fatto ricorrere il popolo a rimedi oltremodo
strani e pericolosi. Ci sono in molti paesi delle fratellanze,
specie di sette che diconsi partiti, senza riunione, senz’altro
legame che quello della dipendenza da un capo, che qui è
un possidente, là un arciprete. Una cassa comune sovviene
ai bisogni, ora di far esonerare un funzionario, ora di conquistarlo,
ora di proteggerlo, ora d’incolpare un innocente. Il popolo
è venuto a convenzione coi rei. Come accadono furti,
escono dei mediatori a offrire transazioni per il recupero degli
oggetti rubati. Molti alti magistrati coprono queste fratellanze
di una protezione impenetrabile, come lo Scarlata, giudice della
Gran Corte Civile di Palermo, come il Siracusa, alto magistrato...
Non è possibile indurre le guardie cittadine a perlustrare
le strade; né di trovare testimoni per i reati commessi
in pieno giorno. Al centro di tale stato di dissoluzione c’è
una capitale col suo lusso e le sue pretensioni feudali in mezzo
al secolo XIX, città nella quale vivono quarantamila
proletari, la cui sussistenza dipende dal lusso e dal capriccio
dei grandi. In questo ombelico della Sicilia si vendono gli
uffici pubblici, si corrompe la giustizia, si fomenta l’ignoranza...”.
Leggeremo mai, negli archivi della commissione parlamentare
antimafia attualmente in funzione, una relazione acuta e spregiudicata
come questa di don Pietro Ulloa?
Gli elementi che distingueranno la mafia da ogni altro tipo
di delinquenza organizzata, l’Ulloa li aveva individuati
e sottoposti all’attenzione del governo di Napoli (che
naturalmente non ne tenne alcun conto, come poi i governi dell’Italia
unita non tennero alcun conto delle relazioni Fianchetti - Sonnino,
di quella parlamentare del 1875 - 76, dei discorsi di Colajanni
alla Camera dei Deputati, dei rapporti dei prefetti onesti e
dell’Arma dei carabinieri). Questi elementi si possono
riassumere in uno: la corruzione dei pubblici poteri, l’infiltrazione
dell’occulto potere di una associazione, che promuove
il bene dei propri associati contro il bene dell’intero
organismo sociale, nel potere statale.
All’Ulloa non sfugge la causa prima di una tale situazione:
che è la condizione sociale ed economica della Sicilia,
ancora feudale in pieno secolo XIX. E appunto la mafia, che
nasceva dalla feudalità e ne assumeva la forma (il capo
mafia al posto del signore feudale, ad esercitare quel privilegio
detto del “mero e misto impero” che era del signore
feudale: e cioè il diritto di vita e di morte sugli abitanti
dei paesi e delle campagne, il diritto di imporre tasse anche
arbitrarie); appunto la mafia doveva operare un movimento che
si può assomigliare al passaggio da una società
feudale a una società borghese; quel passaggio che in
Francia si realizzò attraverso la rivoluzione del 1789
e in altri Paesi attraverso quello che fu detto “l’assolutismo
illuminato”, cioè quelle trasformazioni che i sovrani
(l’imperatore d’Austria, il granduca di Toscana)
seppero apportare nei loro regni decidendo dall’alto e
spesso contro la stessa classe aristocratica che era stata il
loro sostegno.
La Sicilia non aveva avuto una rivoluzione né aveva conosciuto
“l’assolutismo illuminato”: la terra passò
dai baroni ai “borghesi” (borghesi tra virgolette,
che in Sicilia non si può dire esista una borghesia vera
e propria) attraverso operazioni di tipo mafioso. I contadini
promossi a “campieri” (specie di carabinieri del
feudo alle dipendenze del barone) e da “campieri”,
a “gabellotti”, (cioè ad affittuari delle
terre), intimorendo i baroni, facendo loro dei prestiti con
usure ingenti, derubandoli del reddito, riuscirono ad impadronirsi
della terra.
Ma, servi divenuti padroni, i loro vizi furono quelli dei loro
antichi padroni: volevano soltanto la terra, terra quanto più
estesa possibile; e si contentavano del reddito che la terra
aveva sempre dato. Non volevano trasformarla, bonificarla, migliorarla.
Il reddito della terra veniva investito in altra terra. “
Terra
quanto vedi e casa quanto stai”, dice un proverbio
siciliano; e cioè contentati di una casa anche piccola,
ma se puoi compra tutta la terra che vedi. Già un viceré
illuminato, il napoletano Domenico Caracciolo che fu in Sicilia
dal 1781 al 1784, aveva notato come questa fosse l’unica
regione d’Europa in cui il denaro guadagnato sulla terra
diventava altra terra, non veniva cioè impiegato per
migliorare la terra o per far nascere industrie o incrementare
i commerci. E così è accaduto fin quasi ai giorni
nostri.
Della mafia come “
forma primitiva di rivolta sociale”,
come la sola possibile rivoluzione borghese che potesse avere
la Sicilia, ha scritto lo studioso inglese Eric J. Hobsbawm
e alla sua analisi si può trovare riscontro nel romanzo
“
Il gattopardo” di Giuseppe Tomasi
di Lampedusa,
e precisamente nel personaggio di Calogero Sedara. Ad un certo
punto del romanzo, il principe scrittore fa dire al principe
protagonista: “
Noi fummo i Gattopardi, i Leoni: chi
ci sostituirà saranno gli sciacalletti, le iene”.
Queste iene, questi sciacalli, hanno saputo soltanto operare
nella dissoluzione della classe aristocratica, e ne hanno approfittato.
E quando si sono trovati al posto degli aristocratici, cioè
a dirigere la cosa pubblica, ad essere classe dirigente, hanno
continuato a comportarsi come sciacalli, come iene: a dilaniare
e divorare i beni pubblici così come avevano fatto coi
beni dei loro antichi padroni. Insomma: la classe borghese -
mafiosa, di cui è campione Calogero Sedara, non sa costruire:
sa soltanto divorare.
Da ciò deriva che all’interno di tale classe c’è
un continuo conflitto, un continuo processo di sostituzione.
Fondandosi sulla violenza e sulla frode, il potere di un gruppo
mafioso è facilmente vulnerabile nel momento in cui sta
per assestarsi, per votarsi all’ordine costituito: basta
una nuova ondata di violenza, di frode. I delitti della mafia
sono perciò, di solito, “interni”: conflitti
tra una nuova generazione e la vecchia, tra gruppi che sono
già arrivati al potere, alla ricchezza, al decoro, e
gruppi che vogliono arrivare. L ‘arrivo, dunque, spesso
coincide con l’annientamento (anche fisico), con la fine.
La più completa ed essenziale definizione che si può
dare della mafia, crediamo sia questa:
la mafia è una
associazione per delinquere, con fini di illecito arricchimento
per i propri associati, che si pone come intermediazione parassitaria,
e imposta con mezzi di violenza, tra la proprietà e il
lavoro, tra la produzione e il consumo, tra il cittadino e lo
Stato. Nata indubbiamente nel feudo, nella campagna, come mediazione
tra il padrone e il contadino, cioè svolgendo funzione
poliziesca e vessatoria sul contadino per conto del padrone,
e al tempo stesso derubando il padrone, abbiamo visto come già
nel 1838 il fenomeno fosse diventato cittadino: di città
come Palermo, come Trapani.
Per avere un’idea di che cosa fosse in origine la mafia,
basta pensare alle considerazioni che il Manzoni, nei
Promessi
sposi, svolge sul fenomeno della “braveria”. Sgherri
del tipo dei bravi, al servizio degli interessi e dei capricci
dei nobili, in Sicilia furono i prototipi dei mafiosi. In Lombardia,
caduto il dominio spagnolo e subentrato quello austriaco, attraverso
riforme sociali e trasformazioni economiche, e soprattutto grazie
alla correttezza dei funzionari statali e quindi di tutto l’apparato
amministrativo dello Stato, la “braveria” fu naturalmente
eliminata dal corpo sociale.
In Sicilia, perdurando le condizioni del dominio spagnolo anche
quando gli spagnoli non ci furono più, resistendo le
strutture sociali della feudalità (e, per di più,
di una feudalità piena di puntigli, avida di privilegi,
rissosa, anarchica), quella che in origine era “braveria”
diventò nel tempo quella che oggi conosciamo come mafia.
Tramontato il “mero e misto impero” dei signori
feudali, l’amministrazione statale che veniva a sostituirlo
si rivelava debole, inefficiente, corruttibile - fatta com’era
di funzionari incapaci e mal pagati, che dovevano il loro impiego
a qualcuno (cui restavano, come dice l’Ulloa, “prostrati”),
o che l’avevano addirittura acquistato e perciò
si ritenevano, ed erano, autorizzati a rivalersi sulla parte
più debole, meno temibile, dei loro amministrati.
Uno Stato quale che sia, quali che siano i principi o la classe
che effettivamente rappresenta, sempre funziona (o non funziona)
attraverso i suoi funzionari. In Sicilia un funzionario che
si mostrasse sagace e onesto, resistente alla corruzione o alla
pressione dei potenti, veniva o isolato o espulso come corpo
estraneo. Il “trasferimento” è stata, e forse
è ancora, l’arma del potere mafioso contro il funzionario
che non stava al gioco.
Una storia della mafia altro non sarebbe, dunque, che una storia
della complicità dello Stato, dai Borboni ai Savoia alla
Repubblica, nella formazione e affermazione di una classe di
potere improduttiva, parassitaria. Questa classe, che già
nella prima metà dell’Ottocento l’Ulloa definisce
e denuncia, nella seconda metà del secolo trova terreno
di più rigoglioso sviluppo nell’unità d’Italia
e nel sistema democratico.
Quando, nelle rievocazioni dell’impresa di Garibaldi,
si parla di “picciotti”, la parola non va intesa
nel senso di una gioventù che spontaneamente corre sotto
le bandiere garibaldine, a combattere contro la tirannide borbonica;
ma nel senso di una coscrizione, di un reclutamento, operato
dalla classe borghese - mafiosa, e dagli ultimi baroni, tra
i contadini del feudo. E del resto anche oggi, nel gergo mafioso,
col termine “picciotti” si indicano gli esecutori
di ordini scellerati, i sicari. “Picciotti” quelli
della battaglia di Milazzo, nel luglio del 1860; e “picciotti”
quelli che nell’ottobre 1970 entrarono, travestiti da
infermieri, in un ospedale palermitano per finire con una raffica
di mitra un ferito la cui sopravvivenza costituiva pericolo
per l’associazione mafiosa. E ancora “picciotti”
quelli che il 16 settembre 1970 hanno rapito il giornalista
Mauro
De Mauro, che stava conducendo un’inchiesta
su
Mattei, e “picciotti” gli esecutori
dell’assassinio del procuratore Scaglione, lo scorso anno.
Si capisce che non mancarono, alla grande avventura di Garibaldi
in Sicilia, volontari veri, consapevoli; ma le bande che venivano
dalla campagna obbedivano soltanto alla volontà dei capi,
del tutto ignorando la causa per cui si combatteva, le aspirazioni
che si volevano realizzare. Le quali aspirazioni, da parte di
quella che Hobsbawm chiama “
la nuova classe dominante
dell’economia agricola siciliana, i gabellotti ed i loro
collaboratori cittadini”, si riducevano in fondo
a una sola: che la Sicilia diventasse una colonia agricola del
Nord commerciale e industriale. Il che, ovviamente, non dispiaceva
alla classe commerciale e industriale del Nord; e da ciò
una più accentuata complicità dello Stato italiano
nell’affermazione e consolidamento della classe borghese
- mafiosa siciliana.
Il “sistema” l’instaurazione della macchina
elettorale, fece il resto. La mafia vi si associò indissolubilmente.
Ed è soltanto col sorgere dei partiti di sinistra che
la lotta elettorale nella Sicilia occidentale assume, da rivalità
di interessi particolari e di “cosche”, carattere
politico. La mafia fu subito contro il nascente partito socialista;
e avversò anche quel partito popolare dei cattolici che
poi divenne la Democrazia Cristiana. Riguardo al fascismo, la
mafia si mantenne in diffidente attesa nei primi anni. Quando
cominciò a muoversi per inserirvisi, era troppo tardi:
Mussolini, che aveva il culto dello Stato, era arrivato a scoprire
che la mafia era come un altro Stato.
Si racconta che la rivelazione gli venne dalla visita a un paese
in provincia di Palermo, dove era sindaco un mafioso; e il sindaco
ebbe l’ingenuità di dirgli che non occorrevano
tanti carabinieri, tante guardie, che a proteggere il capo del
governo, il duce dell’Italia fascista, bastava lui solo,
la sua autorità, il suo prestigio. Mussolini si informò,
seppe chi era il sindaco e cosa era la mafia: e ordinò
una radicale repressione, mandando in Sicilia, con pieni poteri,
il prefetto
Cesare Mori. Funzionario indubbiamente capace, e
disponendo di un’autorità praticamente illimitata,
Mori attaccò la mafia ad ogni livello: a livello degli
esecutori come a livello dei capi. I metodi di cui si servì
repugnano alla coscienza civile: ma considerando che anche oggi,
con l’istituzione della Commissione parlamentare antimafia,
le sole azioni che vengono compiute contro la mafia sono di
tipo repressivo e non rispondenti ai principi della Costituzione
repubblicana, e per di più si svolgono soltanto a livello
degli esecutori, bisogna riconoscere che l’operazione
di Mori fu quanto meno più radicale né si arrestò
di fronte ai mafiosi di rango sociale elevato.
Colpiti dal fascismo, i mafiosi si diedero all’antifascismo.
Se in Sicilia si fosse verificata, dopo la caduta di Mussolini
e durante l’occupazione tedesca, la lotta armata contro
il nazifascismo, la costituzione di brigate partigiane, e insomma
quel movimento di Resistenza che si è verificato nel
nord d’Italia, i mafiosi indubbiamente ne sarebbero stati
i capi più autorevoli e valorosi. In Sicilia invece sbarcarono,
il 10 luglio del 1943, quindici giorni prima che Mussolini venisse
destituito, le truppe anglo - americane.
Nella Sicilia occidentale, prevalentemente occupata dalle truppe
americane, i mafiosi furono subito chiamati all’amministrazione
civile. Pare che i servizi segreti dell’esercito americano,
tramite i mafiosi siciliani d’America, avessero già
da prima stabilito contatti con loro, ricevuto informazioni.
Famosi gangster siculo - americani, come quel Salvatore Lucania
detto Lucky Luciano, oriundo di Lercara in provincia di Palermo,
avevano creato rapporti di collaborazione tra mafia siciliana
e servizio segreto americano: e infatti Lucania, che si trovava
in prigione negli Stati Uniti, fu poi liberato e restituito
all’Italia (dove trascorse, da rispettato benestante,
i suoi ultimi anni di vita).
I rapporti tra la mafia siciliana e quella degli Stati Uniti,
fondata e prevalentemente diretta da siciliani, sono stati sempre
continui e intensi.
Chi vuol saperne di più, cerchi il
libro del giornalista americano Ed Reid, intitolato “
La
mafia”, pubblicato in edizione italiana nel 1956.
Secondo il Reid, la mafia fu esportata dalla Sicilia negli Stati
Uniti dai fratelli Vito e Giovanni Giannola e dal loro amico
Alfonso Panizzola, nel 1915; e la prima città americana
cui fu applicato il sistema di sfruttamento della mafia, Saint
Louis nel Missouri. Noi siamo del parere che bisognerebbe andare
più indietro nel tempo, alla fine del secolo XIX e ai
primi del nostro. Comunque, la mafia, che si riteneva prodotta
da una società contadina arretrata e miserabile, quale
quella siciliana, radicandosi e prosperando nella società
americana, ad alto livello d’industrializzazione e a un
grado di benessere il più alto del mondo, si rivelò
fenomeno più complesso e vitale: un sistema analogo al
sistema capitalistico.
Per dare un’idea di come uno Stato possa divenire inefficiente
di fronte alla mafia vale la pena riportare un episodio che
riguarda Vito Genovese, mafioso siciliano d’America. Vito
Genovese, in America ricercato per omicidio, si trovava in Sicilia
nel 1943 - 44, sistemato come interprete presso il Governo Militare
Alleato. Un poliziotto di nome Dickey, che gli dava la caccia,
riesce finalmente a trovarlo. Facendosi aiutare da due soldati
inglesi (inglesi, si badi, non americani) lo arresta; gli trova
addosso lettere credenziali, firmate da ufficiali americani,
che dicevano il Genovese “
profondamente onesto, degno
di fiducia, leale e di sicuro affidamento per il servizio”.
Una volta arrestato, cominciano i guai: non per il Genovese,
ma per il Dickey. Né le autorità americane né
quelle italiane vogliono saper niente dell’arresto. Il
povero agente si trascina dietro per circa sei mesi l’arrestato;
e riesce a portarlo a New York soltanto quando il teste che
accusava di omicidio il Genovese è morto di veleno (come
il luogotenente del bandito Giuliano, Gaspare Pisciotta, nel
carcere di Palermo) in una prigione americana. Soltanto allora,
cioè quando Genovese poteva essere assolto, Dickey poté
assolvere il suo compito. E ci fermiamo a questo solo episodio
“americano”: e non, come si suol dire, per carità
di patria; ma perché troppi, e ugualmente esemplari,
dovremmo raccontarne di casa nostra.