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Giovanni Falcone
Io, Falcone, vi spiego cos'è la
mafia
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Otto giorni dopo la strage di
Capaci, il 31 maggio 1992, l'Unità pubblica questo
articolo in cui il
giudice Giovanni Falcone tracciava con chiarezza un quadro dell'evoluzione
di Cosa Nostra a partire dal dopoguerra e denuncia la sottovalutazione
che ha caratterizzato l'approccio delle istituzioni
al problema mafia.
Nella relazione finale della Commissione d'inchiesta
Franchetti-Sonnino del lontano 1875/76 si legge
che «la mafia non è un'associazione che abbia
forme stabili e organismi speciali... Non ha statuti, non ha
compartecipazioni di lucro, non tiene riunioni, non ha capi riconosciuti,
se non i più forti ed i più abili; ma è piuttosto
lo sviluppo ed il perfezionamento della prepotenza diretta ad
ogni scopo di male». Si legge ancora: «Questa
forma criminosa, non... specialissima della Sicilia», esercita «sopra
tutte queste varietà di reati»...«una
grande influenza» imprimendo «a
tutti quel carattere speciale che distingue dalle altre la criminalità siciliana
e senza la quale molti reati o non si commetterebbero o lascerebbero
scoprirne gli autori»; si rileva, inoltre, che «i
mali sono antichi, ma ebbero ed hanno periodi di mitigazione
e di esacerbazione» e che, già sotto il
governo di re Ferdinando, «la mafia si era infiltrata
anche nelle altre classi, cosa che da alcune testimonianze è ritenuta
vera anche oggidì». Già nel secolo scorso,
quindi, il problema mafia si manifestava in tutta la gravità;
infatti si legge nella richiamata relazione: «Le
forze militari concentrate per questo servizio in Sicilia risultavano
22 battaglioni e mezzo fra fanteria e bersaglieri, due squadroni
di cavalleria e quattro plotoni di bersaglieri montani, oltre
i Carabinieri in numero di 3120.»
Da allora, bisogna attendere i tempi del prefetto Mori per
registrare un tentativo di seria repressione del fenomeno mafioso,
ma i limiti di quel tentativo sono ben noti a tutti.
Nell'immediato dopoguerra e fino ai tragici
fatti di sangue della prima guerra di mafia degli anni 1962/1963 gli
organismi responsabili ed i mezzi di informazione sembrano fare
a gara per minimizzare il fenomeno. Al riguardo, appaiono
significativi i discorsi di inaugurazione dell'anno giudiziario
pronunciati dai Procuratori Generali di Palermo.
Nel discorso inaugurale del 1954, il primo del dopoguerra, si
insisteva nel concetto che la mafia «più che
una associazione tenebrosa costituisce un diffuso potere occulto»,
ma non si manca di fare un accenno alla gravissima vicenda del
banditismo ed ai comportamenti non ortodossi di "qualcuno
che avrebbe dovuto e potuto stroncare l'attività criminosa";
il riferimento è chiaro, riguarda il Procuratore Generale
di Palermo, dottor Pili espressamente menzionato nella sentenza
emessa dalla Corte d'Assise di Viterbo il 3/5/1952: «Giuliano ebbe
rapporti, oltre che con funzionari di Pubblica Sicurezza, anche
con un magistrato, precisamente con chi era a capo della Procura
Generale presso la Corte d'appello di Palermo: Emanuele Pili».
Nella relazioni inaugurali degli anni successivi gli accenni
alla mafia, in piena armonia con un clima generale di minimizzazione
del problema, sono fugaci e del tutto rassicuranti.
Così, nella relazione del 1956 si legge che il fenomeno
della delinquenza associata è scomparso e, in quella del
1957, si accenna appena a delitti di sangue da scrivere, si dice
ad «opposti gruppi di delinquenti».
Nella relazione del 1967, si asserisce che il fenomeno della
criminalità mafiosa era entrato in una fase di «lenta
ma costante sua eliminazione» e, in quella del 1968, si
raccomanda l'adozione della misura di prevenzione del soggiorno
obbligato, dato che «il mafioso fuori
del proprio ambiente diventa pressoché innocuo».
Questi brevissimi richiami storici danno la misura di come il
problema mafia sia stato sistematicamente valutato da parte degli
organismi responsabili benché il fenomeno, nel tempo,
lungi dall'esaurirsi, abbia accresciuto la sua pericolosità.
E non mi sembra azzardato affermare che una delle cause
dall'attuale virulenza della mafia risieda, proprio, nella scarsa
attenzione complessiva dello Stato nei confronti di questa secolare
realtà.
Debbo registrare con soddisfazione, dunque, il discorso pronunciato
dal Capo della Polizia, Vincenzo Parisi, alla Scuola di Polizia
Tributaria della Guardia di Finanza. In tale intervento, particolarmente
significativo per l'autorevolezza della fonte, il Capo della
Polizia, in sostanza, individua nella criminalità organizzata
e in quella economica i proventi della maggior parte delle attività illecite
del nostro paese tra le quali spiccano soprattutto il traffico
di stupefacenti e il commercio clandestino di armi.
Sottolineando che la criminalità organizzata -
e quella mafiosa in particolare - è, come si
sostiene in quell'intervento, «la
più significativa
sintesi delinquenziale fra elementi atavici... e acquisizioni
culturali moderne ed interagisce
sempre più frequentemente
con la criminalità economica, allo scopo di individuare
nuove soluzioni per la ripulitura ed il reimpiego del denaro
sporco».
L'argomentazione del prefetto Parisi, ovviamente fondata su dati
concreti, ha riacceso l'attenzione sulla specifica realtà delle
organizzazioni criminali e denuncia, con toni giustamente allarmanti,
il pericolo di una saldatura tra criminalità tradizionale
e criminalità degli affari: un pericolo che minaccia la
stessa sopravvivenza delle istituzioni democratiche come ci insegnano
le esperienze di alcuni paesi del Terzo mondo, in cui
i trafficanti di droga hanno acquisito una potenza economica
tale che si sono perfino offerti - ovviamente, non senza contropartite
- di ripianare il deficit del bilancio statale. Ci si
domanda allora, come sia potuto accadere che una organizzazione
criminale come la mafia anziché avviarsi al tramonto,
in correlazione col miglioramento delle condizioni di vita e
del funzionamento complessivo delle istituzioni, abbia, invece,
vieppiù accresciuto la sua virulenza e la sua pericolosità.
Un convincimento diffuso è quello - che ha trovato ingresso
perfino in alcune sentenze della Suprema Corte - secondo cui
oggi saremmo in presenza di una nuova mafia, con le connotazioni
proprie di un'associazione criminosa, diversa dalla vecchia mafia,
che non sarebbe stata altro che l'espressione, sia pure distorta
ed esasperata, di un "comune sentire" di larghe fasce delle popolazioni
meridionali. In altri termini, la mafia tradizionale non esisterebbe
più e dalle sue ceneri sarebbe sorta una nuova mafia,
quella mafia imprenditrice per intenderci, così bene analizzata
dal prof. Arlacchi.
Tale opinione è antistorica e fuorviante.
Anzitutto, occorre sottolineare con vigore che Cosa Nostra
(perché questo è il vero nome della mafia) non è e
non si è mai identificata con quel potere occulto e diffuso
di cui si è favoleggiato fino a tempi recenti, ma è una
organizzazione criminosa - unica ed unitaria - ben individuata
ormai nelle sue complesse articolazioni, che ha sempre
mantenuto le sue finalità delittuose. Con ciò,
evidentemente, non si intende negare che negli anni Cosa Nostra
abbia subito mutazioni a livello strutturale e operativo e che
altre ne subirà, ma si vuole sottolineare che tutto è avvenuto
nell'avvio di una continuità storica e nel rispetto delle
regole tradizionali. E proprio la
particolare capacità della
mafia di modellare con prontezza ed elasticità i
valori arcaici alle mutevoli esigenze dei tempi costituisce una
della ragioni più profonde della forza di tale consorteria,
che la rende tanto diversa.
Se oltre a ciò, si considerano la sua capacità di
mimetizzazione nella società, la tremenda
forza di intimidazione derivante dalla inesorabile ferocia
delle "punizioni" inflitte ai trasgressori o a chi si oppone
ai suoi disegni criminosi, l'elevato numero e la statura
criminale dei suoi adepti, ci si può rendere
però conto dello straordinario spessore di questa organizzazione
sempre nuova e sempre uguale a sé stessa. Altro punto
fermo da tenere ben presente è che, al di sopra
dei vertici organizzativi, non esistono "terzi livelli" di alcun
genere, che influenzino e determinino gli indirizzi di Cosa Nostra.
Ovviamente, può accadere ed è accaduto,
che, in determinati casi e a determinate condizioni, l'organizzazione
mafiosa abbia stretto alleanze con organizzazioni similari ed
abbia prestato ausilio ad altri per fini svariati e di certo
non disinteressatamente; gli omicidi commessi
in Sicilia, specie negli ultimi anni, sono la dimostrazione più evidente
di specifiche convergenze di interessi fra la mafia ed altri
centri di potere.
Cosa Nostra, però, nelle alleanze, non accetta
posizioni di subalternità; pertanto, è da escludere
in radice che altri, chiunque esso sia, possa condizionarne o
dirigerne dall'esterno le attività. E, in verità,
in tanti anni di indagini specifiche sulle vicende di mafia,
non è emerso nessun elemento che autorizzi nemmeno il
sospetto dell'esistenza di una "direzione strategica" occulta
di Cosa Nostra. Gli uomini d'onore che hanno collaborato con
la giustizia, alcuni dei quali figure di primo piano dell'organizzazione,
ne sconoscono l'esistenza.
Lo stesso dimostrato coinvolgimento di personaggi di spicco di
Cosa Nostra in vicende torbide ed inquietanti come il golpe Borghese
ed il falso sequestro di Michele Sindona non costituiscono
un argomento "a contrario" perché hanno una
propria specificità tutte ed una peculiare giustificazione
in armonia con le finalità dell'organizzazione mafiosa.
E se è vero che non pochi uomini politici siciliani
sono stati, a tutti gli effetti, adepti di Cosa Nostra, è pur
vero che in seno all'organizzazione mafiosa non hanno goduto
di particolare prestigio in dipendenza della loro estrazione
politica. Insomma Cosa Nostra ha tale forza, compattezza ed autonomia
che può dialogare e stringere accordi con chicchessia
mai però in posizioni di subalternità.
Queste peculiarità strutturali hanno consentito alla mafia
di conquistare un ruolo egemonico nel traffico, anche
internazionale, dell'eroina.
Ma, per comprendere meglio le cause dell'insediamento della mafia
nel lucroso giro della droga, occorre prendere le mappe del contrabbando
di tabacchi, una delle più tradizionali attività illecite
della mafia. Il contrabbando è stato a lungo ritenuto
una violazione di lieve entità perfino negli ambienti
investigativi e giudiziari ed il contrabbandiere è stato
addirittura tratteggiato dalla letteratura e dalla filmografia
come un romantico avventuriero. La realtà era però ben
diversa, essendo il contrabbandiere un personaggio al soldo di
Cosa Nostra, se non addirittura un mafioso egli stesso ed il
contrabbando si è rivelato un'attività ben più pericolosa
di quella legata ad una violazione di un interesse finanziario
dello Stato, in quanto ha fruttato ingenti
guadagni che hanno consentito l'ingresso nel mercato degli stupefacenti
della mafia ed ha aperto e collaudato quei canali
internazionali - sia per il trasporto della merce sia per il
riciclaggio del danaro - poi utilizzati per il traffico di stupefacenti.
Occorre precisare, a questo proposito, che già nel contrabbando
di tabacchi, si realizzano importanti novità della struttura
mafiosa. È ormai di comune conoscenza che Cosa
Nostra è organizzata come una struttura piramidale
basata sulla "famiglia" e ogni "uomo
d'onore" voleva intrattenere rapporti di affari prevalentemente
con gli altri membri della stessa "famiglia" e solo sporadicamente
con altre famiglie, essendo riservato ai vertici delle varie "famiglie" il
coordinamento in seno agli organismi direttivi provinciali e
regionale.
Assunta la gestione del contrabbando di tabacchi - che comporta
l'impiego di consistenti risorse umane in operazioni complesse
che non possono essere svolte da una sola famiglia - sorge la
necessità di associarsi con membri di altre famiglie e,
perfino, con personaggi estranei a Cosa Nostra. Per effetto dell'allargamento
dei rapporti di affari con altri soggetti spesso non mafiosi
sorge la necessità di creare strutture nuove di coordinamento
che, pur controllate da Cosa Nostra, con la stessa non si identificassero.
Si formano, così, associazioni di contrabbandieri, dirette
e coordinate da "uomini d'onore", che non si identificavano,
però, con Cosa Nostra, associazioni aperte alla partecipazione
saltuaria di altri "uomini d'onore" non coinvolti operativamente
nel contrabbando, previo assenso e nella misura stabilita dal
proprio capo famiglia.
In pratica, dunque, l'antica, rigida compartimentazione
degli "uomini d'onore" in "famiglie" ha cominciato a cedere il
posto a strutture più allargate e ad una diversa
articolazione delle alleanze in seno all'organizzazione. Cosa
Nostra però non si limita ad esercitare il controllo
indiretto su altre organizzazioni criminali similari, specialmente
nel Napoletano, per assicurare un efficace funzionamento delle
attività criminose. Il fatto che esiste anche
a Napoli una "famiglia" mafiosa dipendente direttamente dalla "provincia" di
Palermo, non deve stupire perché la presenza
di "famiglie" mafiose o di sezioni delle stesse (le cosiddette "decine"),
fuori della Sicilia, ed anche all'estero, è un
fenomeno risalente negli anni. La stessa Cosa Nostra
statunitense, in origine, non era altro che un insieme di "famiglie" costituenti
diretta filiazione di Cosa Nostra siciliana.
Quando Cosa Nostra interviene sul contrabbando presso la malavita
napoletana, dunque, lo fa allo scopo dichiarato di sanare i contrasti
interni ma più verosimilmente con l'intenzione di fomentare
la discordia per assumere la direzione dell'attività.
Ecco perché, nel corso degli anni, sono stati individuati
collegamenti importanti tra esponenti di spicco della mafia isolana
e noti camorristi campani, difficilmente spiegabili già allora
con semplici contatti fra organizzazioni criminali diverse.
Ed ecco, dunque, perché il contrabbando di tabacchi costituì una
spinta decisiva al coordinamento fra organizzazioni criminose,
tradizionalmente operanti in territori distinti; coordinamento
la cui pericolosità è intuitiva.
Nella seconda metà degli anni '70, pertanto, Cosa
Nostra con le sue strutture organizzative, coi canali operativi
e di riciclaggio già attivati per il contrabbando e con
le sue larghe disponibilità finanziarie, aveva tutte
le carte in regola per entrare, non più in modo episodico
come nel passato, nel grande traffico degli stupefacenti.
In più, la presenza negli Usa di un
folto gruppo di siciliani collegati con Cosa Nostra garantiva
la distribuzione della droga in quel paese.
Non c'è da meravigliarsi, allora, se la mafia
siciliana abbia potuto impadronirsi in breve tempo del traffico
dell'eroina verso gli Stati Uniti d'America.
Anche nella gestione di questo lucroso affare l'organizzazione
ha mostrato la sua capacità di adattamento avendo creato,
in base all'esperienza del contrabbando, strutture agili e snelle
che, per lungo tempo, hanno reso pressoché impossibili
le indagini.
Alcuni gruppi curavano l'approvvigionamento della morfina-base
dal Medio e dall'Estremo Oriente; altri erano addetti esclusivamente
ai laboratori per la trasformazione della morfina-base in eroina;
altri, infine, si occupavano dell'esportazione dell'eroina verso
gli Usa.
Tutte queste strutture erano controllate e dirette da "uomini
d'onore". In particolare, il funzionamento dei laboratori clandestini,
almeno agli inizi, era attivato da esperti chimici francesi,
reclutati grazie a collegamenti esistenti con il "milieu" marsigliese fin
dai tempi della cosiddetta "French connection".
L'esportazione della droga, come è stato dimostrato da
indagini anche recenti, veniva curata spesso da organizzazioni
parallele, addette al reclutamento dei corrieri e collegate a
livello di vertice con "uomini d'onore" preposti a tale settore
del traffico.
Si tratta dunque di strutture molto articolate e solo apparentemente
complesse che, per lunghi anni, hanno funzionato egregiamente,
consentendo alla mafia ingentissimi guadagni.
Un discorso a sé merita il capitolo del riciclaggio
del danaro. Cosa Nostra ha utilizzato organizzazioni
internazionali, operanti in Italia, di cui si serviva già fin
dai tempi del contrabbando di tabacchi, ma è ovvio che
i rapporti sono divenuti assai più stretti e frequenti
per effetto degli enormi introiti, derivanti dal traffico di
stupefacenti. Ed è chiaro, altresì, che nel tempo
i sistemi di riciclaggio si sono sempre più affinati in
dipendenza sia delle maggiori quantità di danaro disponibili,
sia soprattutto dalla necessità di eludere investigazioni
sempre più incisive.
Per un certo periodo il sistema bancario ha
costituito il canale privilegiato per il riciclaggio del danaro.
Di recente, è stato addirittura accertato il coinvolgimento
di interi paesi nelle operazioni bancarie di cambio di
valuta estera.
Senza dire che non poche attività illecite della mafia,
costituenti per sé autonoma fonte di ricchezza (come,
ad esempio, le cosiddette truffe comunitarie),
hanno costituito il mezzo per consentire l'afflusso in Sicilia
di ingenti quantitativi di danaro, già ripulito all'estero,
quasi per intero proveniente dal traffico degli stupefacenti.
Quali effetti ha prodotto in seno all'organizzazione
di Cosa Nostra la gestione del traffico di stupefacenti? Contrariamente
a quanto ritenevano alcuni mafiosi più tradizionalisti,
la mafia non si è rapidamente dissolta ma ha accentuato
le sue caratteristiche criminali.
Le alleanze orizzontali fra uomini d'onore di diverse "famiglie" e
di diverse "province" hanno favorito il processo, già in
atto da tempo, di gerarchizzazione di Cosa Nostra ed al contempo,
indebolendo la rigida struttura di base, hanno alimentato mire
egemoniche. Infatti, nei primi anni '70 per assicurare un
migliore controllo dell'organizzazione, veniva costituito
un nuovo organismo verticale, la "commissione" regionale, composta
dai capi delle province mafiose siciliane col compito di stabilire
regole di condotta e di applicare sanzioni negli affari concernenti
Cosa Nostra nel suo complesso.
Ma le fughe in avanti di taluni non erano state inizialmente
controllate. Esplode così nel 1978 una violenta
contesa culminata negli anni 1981-1982. Due opposte fazioni si
affrontano in uno scontro di una ferocia senza precedenti che
investiva tutte le strutture di Cosa Nostra, causando centinaia
di morti. I gruppi avversari aggregavano uomini d'onore delle
più varie famiglie spinti dall'interesse
personale -
a differenza di quanto accadeva nella prima guerra di mafia caratterizzata
dallo scontro tra le famiglie - e ciò a dimostrazione
del superamento della compartimentazione in famiglie. La sanguinaria
contesa non ha determinato - come ingenuamente si prevedeva -
un indebolimento complessivo di Cosa Nostra ma, al contrario,
un rafforzamento ed un rinsaldamento delle strutture mafiose,
che, depurate degli elementi più deboli (eliminati nel
conflitto), si ricompattavano sotto il dominio di un gruppo egemone
accentuando al massimo la segretezza ed il verticismo. Il
nuovo gruppo dirigente a dimostrazione della sua potenza, a cominciare
dall'aprile 1982, ha iniziato ad eliminare chiunque potesse costituire
un ostacolo.
Gli omicidi di Pio
La Torre, di Carlo Alberto Dalla
Chiesa, di Rocco Chinnici, di
Giangiacomo Ciaccio Montalto, di Beppe
Montana, di Ninni
Cassarà, al di là delle specifiche ragioni
della eliminazione di ciascuno di essi, testimoniano una drammatica
realtà. E tutto ciò mentre il traffico di stupefacenti
e le altre attività illecite andavano a gonfie vele nonostante
l'impegno delle forze dell'ordine.
La collaborazione di alcuni elementi di spicco di Cosa
Nostra e la conclusione di inchieste giudiziarie approfondite
e ponderose hanno inferto indubbiamente un duro colpo alla mafia. Ma se la celebrazione tra difficoltà di
ogni genere di questi processi ha indotto Cosa Nostra ad un ripensamento
di strategie, non ha determinato l'inizio della
fine del fenomeno mafioso.
Il declino della mafia più volte annunciato non
si è verificato, e non è, purtroppo, prevedibile
nemmeno. È vero
che non pochi "uomini
d'onore", diversi dei quali di importanza primaria, sono in atto
detenuti; tuttavia i vertici di Cosa Nostra sono latitanti
e non sono sicuramente costretti all'angolo.
Le indagini di polizia giudiziaria, ormai da qualche
anno, hanno perso di intensità e di incisività a
fronte di una organizzazione mafiosa sempre più impenetrabile
e compatta talché le notizie in nostro possesso sulla
attuale consistenza dei quadri mafiosi e sui nuovi adepti sono
veramente scarse.
Né è possibile trarre buoni auspici dalla drastica
riduzione dei fatti di sangue peraltro circoscritta al Palermitano
e solo in minima parte ascrivibile all'azione repressiva. La
tregua iniziata è purtroppo frequentemente interrotta
da assassinii di mafiosi di rango, segno che la resa dei conti
non è finita e soprattutto da omicidi dimostrativi che
hanno creato notevole allarme sociale; si pensi agli omicidi
dell'ex sindaco di Palermo, Giuseppe
Insalaco e dell'agente della PS Natale Mondo, consumati appena
qualche mese addietro. Si ha l'eloquente conferma che
gli antichi, ibridi connubi tra criminalità mafiosa e
occulti centri di potere costituiscono tuttora nodi irrisolti
con la conseguenza che, fino a quando non sarà fatta luce
su moventi e su mandanti dei nuovi come dei vecchi "omicidi eccellenti",
non si potranno fare molti passi avanti.
Malgrado i processi e le condanne, risulta da inchieste giudiziarie
ancora in corso che la mafia non ha abbandonato il traffico di
eroina e che comincia ad interessarsi sempre più alla
cocaina;
e si hanno già notizie precise di scambi tra eroina e
cocaina già in America, col pericolo incombente di contatti
e collegamenti - la cui pericolosità è intuitiva
- tra mafia siciliana ed altre organizzazioni criminali italiane
e sudamericane.
Le indagini per la individuazione dei canali di riciclaggio del
denaro proveniente dal traffico di stupefacenti sono rese molto
difficili, sia a causa di una cooperazione internazionale
ancora insoddisfacente, sia per
il ricorso, da parte dei trafficanti, a sistemi
di riciclaggio sempre più sofisticati.
Per quanto riguarda poi le attività illecite, va registrato
che accanto ai crimini tradizionali come ad esempio le estorsioni
sistematizzate, e le intermediazioni parassitarie, nuove
e più insidiose attività cominciano ad acquisire
rilevanza. Mi riferisco ai casi sempre più frequenti
di imprenditori non mafiosi, che subiscono da parte dei
mafiosi richieste perentorie di compartecipazione all'impresa e
ciò anche allo scopo di eludere le investigazioni
patrimoniali rese obbligatorie dalla normativa antimafia.
Questa, in brevissima sintesi, è la
situazione attuale che, a mio avviso, non legittima alcun trionfalismo.
Mi rendo conto che la fisiologica stanchezza seguente ad una
fase di tensione morale eccezionale e protratta nel tempo ha
determinato un generale clima, se non di smobilitazione, certamente
di disimpegno e, per quanto mi riguarda, non
ritengo di aver alcun titolo di legittimazione per censurare
chicchessia e per suggerire rimedi. Ma ritengo mio preciso dovere
morale sottolineare, anche a costo di passare per profeta di
sventure, che continuando a percorrere questa strada, nel
futuro prossimo, saremo costretti a confrontarci con una realtà sempre
più difficile.
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