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Anna
Barberi
La controriforma Moratti
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La riforma viene definita dalla legge 53/2003,
anche se in realtà la sua attuazione viene in toto demandata
a successivi decreti attuativi che, in quanto tali, saltano completamente
il passaggio legislativo in Parlamento.
La ministra Brichetto in Moratti fa risalire le sue scelte alla
commissione Bertagna, commissione di “saggi” a cui
era affidata un’analisi della scuola italiana e una definizione
degli obiettivi irrinunciabili per gli alunni. In realtà
la legge stravolge alcune delle risultanze della commissione (peraltro
discutibili, visto che l’analisi della situazione esistente
non è stata condotta con il concerto delle parti in causa,
ma sulla base del parere di “esperti” scelti in modo
unilaterale) per poter introdurre un modello scolastico coerente
con le scelte politiche ed economiche di questo governo.
Di fatto si introducono alcune novità “vetrina”
per stuzzicare il gradimento dei genitori, mentre le novità
sostanziali (mantenute dal decreto 23/01/2004) sono volte alla distruzione del sistema formativo di base, soprattutto
della scuola elementare, così come noi lo conosciamo (scuola
elementare che, non dimentichiamolo, ha ottenuto risultati di
eccellenza, insieme alla scuola materna, nelle classifiche europee
e mondiali).
Inoltre, per la prima volta, su temi così rilevanti non
c’è stato alcun confronto diretto con le parti
in causa, contrariamente a quanto dicono gli spot televisivi.
In realtà anche le novità vetrina risultano creare
non pochi problemi alla gestione didattica della scuola primaria
e, di fatto, impoveriscono non poco l’offerta formativa
della scuola; vediamole nel dettaglio:
1. l’anticipo della scuola materna ai due anni e mezzo, privo di qualsiasi giustificazione pedagogica,
appare solamente un modo per offrire ai genitori un servizio sociale
di custodia dei bambini, che in sé non sarebbe sbagliato,
se non fosse che non sono previsti ampliamenti dell’organico
(anzi, spariscono le compresenze), né servizi a supporto
di bambini così piccoli, né ampliamento delle strutture
per attrezzare, ad esempio, spazi adeguati per il riposo pomeridiano.
La scelta, peraltro, è volontaria ed è significativo
che solo il 29% dei genitori che ne avevano diritto abbia aderito
a tale opportunità nell’anno scolastico 2003/2004.
Inoltre l’anticipo è condizionato all’accordo
con gli Enti Locali e alla disponibilità di posti. Si può
immaginare, quindi, come sia una scelta “per modo di dire”.
2. nella scuola primaria si offre l’opportunità
dell’insegnamento della lingua inglese e dell’informatica dalla prima elementare.
Per quanto riguarda la lingua inglese, questo si ottiene ridistribuendo
le risorse già esistenti in modo didatticamente poco
proficuo proprio allo studio della lingua (si passa da un obbligo
di tre ore per terza, quarta e quinta ad uno di un’ora
in prima e due ore nelle restanti classi; totale 9 in entrambi
i casi = nessun incremento dell’organico). Comunque l’inglese
nel primo ciclo era già da anni avviato in molte scuole
del territorio grazie a progetti come Lingue 2000. Per quanto
riguarda l’informatica sembra che il ministero non si
renda conto dell’esiguità delle risorse: esistono
scuole elementari con tre o quattro macchine, spesso obsolete;
si pensa di far lavorare classi di 20/25 alunni con questa
dotazione?
3. un altro specchietto per le allodole è
la cosiddetta “personalizzazione” del piano
di studi, da concordare con le famiglie e, nella scuola
secondaria, anche con gli studenti. In realtà la riforma
riduce fortemente il tempo scuola obbligatorio, mentre alza enormemente
la soglia di obiettivi prescrittivi (vedremo questi due punti
nel dettaglio in seguito), quindi la “libera scelta”
di famiglie e studenti si potrà attuare solo per quanto
riguarda le non ben definite attività laboratoriali, facoltative,
da realizzare solo con le risorse esistenti e che dovranno necessariamente
svolgersi in due o tre pomeriggi alla settimana, per un totale
di 3 o 6 ore.
ALCUNE
CONSIDERAZIONI GENERALI
Sulle
questioni di metodo abbiamo già detto alcune cose. Non
solo, però, non sono stati coinvolti gli operatori del
settore nella definizione dei criteri generali; mancano totalmente
un’analisi della situazione pregressa, una verifica dettagliata
dei risultati raggiunti e una considerazione didattica e sociale
di realtà quali il tempo pieno (diffuso nel 40% delle scuole
elementari nazionali, seppur diversamente distribuito tra nord
e sud).
Per quanto riguarda la formazione degli insegnanti,
poi, pare che gli unici piani suggeriti confidino nella potenzialità
e nell’economicità dei metodi e-learning,
mentre scompare dal dettato di legge qualsiasi riferimento alla
ricerca e alla formazione nella scuola autonoma. Di fatto pare
che la formazione avverrà, con un discutibile approccio
di marketing, su documenti preconfezionati dal MIUR, in cui, ovviamente,
non ci sarà traccia di criticità e dialogo. Per
ora sono state avviate la formazione sull’informatica e
quella sull’inglese, ma mancano indicazioni sulla formazione
sulla riforma (siamo alla fine di marzo 2004!), per cui gli Istituti
si organizzano come possono e in modo assolutamente volontario.
Il documento è infarcito di neologismi ad effetto (ologramma, ad esempio), mentre non c’è alcuna chiarezza
sul significato pedagogico e sull’interrelazione di termini
quali “programmi”, “curricoli”, “competenze”,
“personalizzazione”, “individualizzazione”,
“unità di apprendimento”, “standard
di apprendimento”, “standard di prestazione del
servizio”,
termini i cui significati dovrebbero essere riconosciuti e condivisi
attraverso un confronto aperto con gli esperti e con le scuole.
Ovviamente tutto ciò fa riferimento a generici “esperti”,
senza un’esplicita indicazione delle fonti utilizzate
e l’attribuzione dei referenti scientifici ai vari documenti
elaborati. Inoltre l’uso improprio e confuso delle espressioni,
ad una più attenta lettura, trasforma di fatto le “indicazioni
e raccomandazioni” disciplinari in un corpus pesante
ed altamente prescrittivo di obiettivi perlopiù contenutistici
(peraltro non applicabili, visto che non hanno seguito
l’iter
previsto per l’approvazione dei nuovi programmi)
Il testo è infarcito di espressioni dalla forte
connotazione ideologica; temi quali “progetto di
vita”, “dimensioni esistenziali della persona”,
“formazione morale della persona” e, infine, conoscenza
e visione dell’uomo che emergono attraverso il principio
della “sintesi e dell’ologramma” (sic!) risultano
particolarmente dogmatiche quando si riferiscono a bambini della
scuola materna ed elementare e, in generale, lasciano trasparire
l’ipotesi di percorsi educativi che, partendo dai saperi
e dalle discipline, approdino comunque ad una visione “religiosa”
e “spirituale” della vita.
L’idea del piano personalizzato, poi, di cui s’è
già detto il limite, sembra sottendere ad una visione della
scuola come puro servizio alla persona, annullando il
senso e la funzione del sistema educativo pubblico, per
ridurlo ad una mera contrattazione tra le parti (parti forti otterranno
ciò che desiderano, parti deboli si accontenteranno del
minimo previsto).
La riforma introduce il portfolio delle competenze,
nuovo strumento valutativo che dovrebbe raccogliere le produzioni
più rappresentative dell’alunno, le valutazioni di
insegnanti, genitori e degli stessi alunni, e che dovrebbe accompagnare
lo studente il tutto il suo percorso formativo. L’idea in
sé non è peregrina, anche se offre il fianco alla
possibilità di diventare solo un inutile e burocratico
aggravio di lavoro per i docenti ed un terreno di impropria “collusione”
di responsabilità educative di genitori ed insegnanti,
che devono invece restare distinte. Non è per niente chiaro,
invece, quanto tempo dovrà essere dedicato alla sua stesura,
come verranno finanziate le necessarie ore aggiuntive dei docenti
(del docente “tutor”?) quale peso devono avere al
suo interno le istanze provenienti dai diversi soggetti (peraltro,
in fase di sperimentazione, ogni scuola ha prodotto un “suo”
portfolio, non essendoci alcuna indicazione dal ministero).
Per quanto riguarda il tempo scuola, il ministero
non ha tenuto in alcuna considerazione il parere dei genitori
(Annali dell’istruzione Stati generali 2001 -
Le Monnier): solo il 18,6% delle famiglie si è espresso
a favore della suddivisione dell’anno scolastico in 25 ore
obbligatorie e 10 facoltative). Nella legge c’è di
fatto una suddivisione tra tempo scuola obbligatorio, destinato
alla trasmissione delle conoscenze tramite l’insegnamento
frontale, e tempo facoltativo, da dedicare ad attività
di laboratorio, cui assegnare un ruolo marginale e secondario,
nonostante nella scuola questo impianto sia stato superato da
almeno un ventennio. Una didattica laboratoriale, operativa e
cooperativa, non può essere relegata solo ai momenti aggiuntivi
del curricolo. Per quanto riguarda la scuola elementare, poi,
il tempo obbligatorio viene affidato quasi totalmente all’insegnante
“tutor”, con orario prevalente, che sarà di
fatto l’unica figura educativa dell’alunno, visto
che gli altri insegnanti entreranno nella classe solo per insegnamenti
specifici (religione, inglese, laboratori), con un ritorno, di
fatto, all’insegnante unico. E come verrà scelto?
Su nomina del Dirigente, sentiti i criteri espressi dai Collegi
dei Docenti. Come si può immaginare, si prefigura una suddivisione
tra insegnanti “di serie A e di serie B”, con buona
pace della collegialità e della necessità degli
alunni di trovare, nella varietà dei docenti, una propria
figura di riferimento “privilegiata”. Peraltro non
è ancora chiaro come e con quali fondi questi insegnati
“tutor” verranno incentivati, visto che nel fondo
d’Istituto non esiste una voce al riguardo e visti gli esigui
fondi a disposizione delle scuole.
Il ciclo di base viene fortemente frazionato,
in base a criteri assolutamente oscuri, secondo lo schema 1+2+2
e 2+1, tra l’altro limitando illegittimamente l’autonomia
delle scuole in materia di organizzazione scolastica e di curricolo
verticale, sanzionando la separatezza tra scuola elementare e
media, disconoscendo il percorso di verticalizzazione e continuità
portato avanti in molti istituti comprensivi (42% delle scuole
di base sono organizzate in questo modo). L’ultimo anno
di scuola media, poi, è tutto strutturato (e definito)
in modo da orientare e canalizzare precocemente le scelte degli
alunni tra filiere formative nettamente separate (licei che danno
accesso all’università e formazione professionale).
Non traspare dalle indicazioni un’interpretazione evoluta
dei modelli di apprendimento e della connessione tra aspetti cognitivi,
sociali ed affettivi (salvo formule comportamentistiche ed un
vacuo moralismo). Non viene mai sottolineato il valore formativo
delle discipline di studio, mentre si coglie un ritorno a pratiche
didattiche minuziosamente contenutistiche ... per non parlare
dell’ “economia domestica”! (riservata solo
alle femmine?).
Quando finalmente l’alunno termina il ciclo primario di
istruzione, si trova costretto a scegliere tra i “licei”
e gli istituti professionali, con modelli di precoce
alternanza scuola - lavoro (comunque uno degli obiettivi della
terza media è la “definizione e argomentazione di
un proprio progetto di vita”, quindi devono sapere cosa
faranno da grandi e perché!). A parte l’evidente
incongruità di tale separazione precoce (visto anche che
negli ultimi anni la scuola è andata esattamente nella
direzione opposta, nella prospettiva di considerare il primo biennio
della scuola superiore come unitario e conclusivo dell’obbligo),
la cosa che desta perplessità è la mancanza di chiarezza
nel rapporto tra stage lavorativi interni alla scuola e apprendistato
(formula quest’ultima che prevede un contratto, una retribuzione
ed una tutela sindacale). Il rischio è quello di trasformare
l’alternanza in un “terzo canale” assai dequalificato
rivolto alla fascia più debole della popolazione giovanile,
senza nessun impegno formativo cogente per le aziende (a questo
concorre anche il silenzio sulle fonti finanziarie utilizzabili
allo scopo), con un’ulteriore precarizzazione dei rapporti
di lavoro.
Nel testo della legge compare un’importante novità:
una quota del tempo scuola, ancora da precisare, viene riservata
alla potestà di ogni Regione, per introdurre
approfondimenti culturali legati ai diversi contesti locali. La
proposta è assai rischiosa, sia per una possibile interpretazione
localistica, sia per la genericità della formulazione (quale
percentuale? chi decide? su quali opzioni? qual è il margine
di accettazione o rifiuto delle varie proposte da parte del POF?).
E che fine fa la quota percentuale riservata all’autonoma
decisione delle scuole?
Infine, una nota sui famosi decreti attuativi, senza i quali
non c’è riforma. L’unico finora approvato,
relativo alle scuole dall’infanzia alla primaria di primo
grado, non chiarisce molti dei dubbi espressi dalle varie associazioni
di insegnanti e genitori. Primo fra tutti il mantenimento del
tempo pieno: così com’è previsto garantisce
le 40 ore, ma svuotandole proprio di quello che le caratterizzava
(due insegnanti per classe con tempi più distesi per
l’apprendimento
e l’organizzazione di attività laboratoriali e sperimentali).
Cosa ancor più grave, non è affatto chiaro se
la sorveglianza e l’attività nel periodo della
refezione (due ore al giorno!) sarà ancora garantita
dagli insegnanti a partire dall’anno scolastico 2005/2006.
si ritiene forse che i Comuni, soprattutto quelli piccoli,
saranno in grado di garantire questo servizio? E se no, lo
pagheranno le famiglie? Nel decreto non c’è risposta
a queste domande…
solo rassicurazioni verbali del ministro e dei suoi portavoce
nelle varie trasmissioni televisive.
GLI
OBIETTIVI DI APPRENDIMENTO
Abbiamo già detto della loro inapplicabilità, al
momento, a causa del percorso legislativo seguito, ma vale lo
stesso la pena di riflettere sui loro contenuti (non si sa mai
che un domani diventino legge per davvero!)
In generale, il quadro delle conoscenze e delle abilità
appare generico e confuso nella sua descrizione, presenta molte
ingenuità semantiche e spesso sovrappone piani concettuali
diversi: accanto a conoscenze (intese come contenuti e concetti)
figurano strategie, procedure, attività senza alcun nesso
esplicito fra le stesse. In alcuni casi si definiscono “obiettivi
specifici” quelle che invece sono finalità.
Il documento propone, disciplina per disciplina, l’elenco
delle “conoscenze e abilità” che la
scuola deve trasformare in “competenze”; non è
chiaro però se si tratti di “obiettivi di apprendimento”
che le scuole devono trasformare in programmazione, o se siano
“livelli essenziali di prestazione cui tutte le scuole sono
tenute”. Il documento oscilla costantemente tra indicazioni
puramente orientative ed elenchi fortemente prescrittivi.
Visto che il Servizio Nazionale di Valutazione dovrà basarsi
su questi obiettivi, ci si chiede: ma se non sono prescrittivi,
su quali indicatori il SNV tarerà le sue prove? Su obiettivi
considerati in astratto? Appare il fantasma di un sistema di valutazione
che premia un’autonomia della competitività tra le
scuole, impegnate non tanto a far meglio sul piano organizzativo
e didattico, ma a procurarsi preventivamente quegli allievi che
garantiscano risultati migliori, indipendentemente dall’efficacia
degli insegnamenti.
Alla cosiddetta “educazione alla convivenza civile”,
poi, è dedicato un capitolo a parte, quasi che non avesse
alcun legame con le discipline (in primis la storia). Ci si chiede
inoltre con quale criterio siano state scelte le educazioni: perché
trascurare, ad esempio, un’educazione al corretto consumo
o all’intercultura?
SCUOLA
DELL’INFANZIA
Per
questa scuola viene stravolto l’impianto orientativo e non
prescrittivi degli Orientamenti del 1991, dichiarando che quelli
della riforma sono “livelli essenziali di prestazione a
cui tutte le scuole devono conformarsi”, con il rischio
di dare una dimensione valutativa anche a questo grado dell’istruzione.
Anche qui si fa riferimento ad un docente “coordinatore”
a cui i genitori devono far riferimento. E l’altro? Già,
l’altro verrà nominato non sulla sezione degli alunni,
ma secondo l’orario da coprire.
Ci chiediamo poi quale criterio pedagogico abbia ispirato la decisione
di non considerare rilevante la scuola dell’infanzia ai
fini del “profilo educativo, culturale e professionale dello
studente” dai 6 ai 14 anni.
In merito agli obiettivi della scuola dell’infanzia, basti
citarne alcune perle:
1. soffermarsi sul senso della nascita e della
morte, delle origini della vita e del cosmo, della malattia e
del dolore, del ruolo dell’uomo nell’universo, dell’esistenza
di Dio a partire dalle diverse risposte elaborate e testimoniate
in famiglia
2. accorgersi se, e in che senso, pensieri, azioni
e sentimenti dei maschi e delle femmine mostrano differenze e
perché.
Non è necessario alcun commento.
Rileviamo infine che non viene mai messo in luce il problema dei
bambini stranieri, o la questione del dialetto
o di una lingua minoritaria, come ignorata è l’educazione
linguistica, come quella logico-matematica, che fa emergere una
madornale sottovalutazione della dimensione cognitiva, ampiamente
presente, invece, nei campi d’esperienza degli attuali Orientamenti.
SCUOLA
PRIMARIA
La
minuziosa indicazione di contenuti apre la strada ad una precoce
secondarizzazione del curricolo, mentre si definisce il ruolo
dell’insegnante “tutor” non solo come coordinatore
del team docente (di fatto scomparso), ma come insegnante tuttologo,
unico responsabile della classe e unica figura di riferimento
e modello per genitori ed alunni.
Per quanto riguarda gli obiettivi vanno segnalate alcune novità
non certo positive:
1. la riflessione sulla lingua torna ad essere prevalentemente formale e grammaticale, quasi
fosse pensata in funzione del latino. È stato addirittura
introdotto un generico grammatica e sintassi, senza che si capisca
quale sia il criterio di classificazione adottato e quale rapporto
ci sia tra questa e le altre voci relative alla grammatica. Si
dimentica completamente quale valore abbia la riflessione sulla
lingua per la crescita complessiva dell’individuo e per
la sua capacità di riflettere sull’atto comunicativo.
2. per la storia si anticipa
agli ultimi due anni della scuola primaria ciò che attualmente
si insegna in prima media, dimenticando ogni indicazione in merito
allo sviluppo psicologico del bambino e alla sua capacità
di sistematizzazione del sapere storico (si parla, infatti di
quadri di civiltà, utilizzo di testi mitologici, uso dei
termini specifici del linguaggio disciplinare). Risultano impoveriti
gli aspetti didattici a vantaggio di quelli nozionistici e viene
riproposta una visione eurocentrica della storia.
3. per quanto riguarda l’area scientifica si rileva un eccesso di contenuti che non può che favorire
un’impostazione superficiale e nozionistica, che non sollecita
un approccio di tipo operativo-laboratoriale.
4. dove sono finite la psicomotricità e l’educazione psicomotoria? Il programma si impernia sulla
conoscenza delle parti del proprio corpo e delle loro funzioni,
con qualche sporadico riferimento al controllo del movimento e
alla coordinazione.
SCUOLA SECONDARIA DI PRIMO GRADO
La
collegialità scompare del tutto, sia per
quanto attiene alla programmazione (impoverita in una mera trasposizione
degli obiettivi specifici in obiettivi formativi), sia per quanto
riguarda la responsabilità dell’azione educativa,
anche qui con l’introduzione della figura del “tutor”
(l’insegnante di lettere?), che dovrà contrattare
con le altre parti le scelte da compiere per la stesura del piano
personalizzato di insegnamento - apprendimento.
La rottura con la scuola elementare si compie
forzando ad arte le conoscenze sullo sviluppo del bambino; presupponendo,
ad esempio, la compiutezza del processo di astrazione e la capacità
ci capire immediatamente il rapporto tra realtà e rappresentazione,
mentre sappiamo che un approccio “modellizzato” si
può collocare solo alla fine del triennio, e non sempre
in ugual misura di consapevolezza.
Questo schematismo di comodo contrappone la scuola elementare
predisciplinare alla scuola media disciplinarizzata. Lo statuto
delle discipline non si “autosospende” per effetto
dell’età degli allievi: il rigore e la coerenza scientifica
rimangono punti di riferimento per qualsiasi azione di insegnamento/apprendimento.
Ciò che si modifica nel passaggio graduale dell’età
evolutiva è la modalità della mediazione didattica.
Si dice nel documento che nella fatica interiore del crescere
ogni preadolescente … ha bisogno di adulti coerenti e significativi
disposti ad ascoltare, aiutare … in particolare i genitori
… devono essere coinvolti nella programmazione e nella verifica
dei progetti educativi …Nella scuola, soprattutto laddove
si riscontrino situazioni di svantaggio, da sempre i docenti tentano
di coinvolgere le famiglie nell’azione educativa e formativa,
ma spesso accade che siano proprio le famiglie a sottrarsi alla
richiesta della scuola.
Inoltre, l’attività di programmazione e verifica,
di competenza dei docenti, non può essere estesa ad altri
soggetti senza incorrere nel rischio di svilire la funzione docente
e banalizzare l’impianto culturale della scuola. Né
si può condividere l’idea che la scuola debba farsi
carico di tutti gli elementi di criticità presenti nella
società. Infine non bastano un clima di disponibilità,
ascolto e amore per promuovere apprendimenti significativi e davvero
personalizzati per tutti; c’è bisogno piuttosto di
tempo scuola, continuità, collaborazione tra docenti, strutture
adeguate. Tutti fattori che i documenti ignorano.
In merito ai singoli obiettivi, valgono le considerazioni già
fatte a proposito della scuola primaria, con alcune aggiunte:
1. dalle indicazioni emerge una concezione del
linguaggio priva di elementi emozionali e personali;
gli obiettivi di apprendimento di italiano privilegiano l’analisi
degli usi linguistici funzionali, sottovalutando la dimensione
dell’immaginario. Non si richiama la necessità di
rilevare i bisogni comunicativi e linguistici dei ragazzi, non
si dà spazio alla lettura intesa come attività libera,
finalizzata al piacere di leggere in sé. Le abilità
di comprensione-scrittura, soprattutto nel terzo anno, sono fortemente
incentrate attorno al testo argomentativo e vengono previste alcune
abilità congeniali persino al triennio delle superiori,
come ad esempio esplicitare le principali relazioni extratestuali
con il contesto culturale e le poetiche di riferimento, fino a
quel descrivere, argomentando, il proprio progetto di vita e le
scelte fatte per realizzarlo, che appare persino irridente nei
confronti delle legittime incertezze e dei travagli legati all’età
e che risultano, in tal modo, non riconosciuti e non rispettati.
2. per quanto riguarda la storia,
sembra che l’insegnante debba rincorrere una verità
storica “oggettiva”, inevitabilmente parziale e legata
alla diversità degli approcci. Si ripropone nell’ultimo
anno la storia dell’Ottocento e del Novecento, riducendo
lo spazio che aveva consentito agli insegnanti di trattare in
modo più disteso e approfondito la storia recente. Mancano
infine riferimenti al rapporto tra storia e geografia.
3. l’arte viene intesa
non solo come lettura delle opere, ma anche come conoscenza cronologica
delle epoche storiche, mentre pochissimo spazio è destinato
all’acquisizione di tecniche e competenze produttive.
4. per quanto riguarda le scienze la quantità dei contenuti è veramente eccessiva
e alcuni obiettivi sono addirittura specialistici (sorvoliamo
sulla “scomparsa” di Darwin!).
5. l’insegnamento della matematica ha un impianto decisamente tradizionale (soprattutto per quanto
riguarda la geometria, per la quale si ravvisa un deciso passo
indietro rispetto ai programmi del 1979). La matematica dell’incertezza
è giustapposta in modo poco significativo, manca un approccio
costruttivo e problematico verso la disciplina e non c’è
alcuno spazio per una dimensione operativa e laboratoriale.
Uno spazio a sé merita il cosiddetto profilo educativo,
culturale e professionale dello studente alla fine del
primo ciclo di istruzione (6-14 anni). Parlare di profilo professionale
a conclusione della scuola di base è inopportuno ed eccessivamente
anticipatorio. Sostenere che l’adolescente, a 14 anni, sia
in grado di costruirsi un personale progetto di vita sembra voler
essere solo un pretesto per giustificare la canalizzazione precoce
dei percorsi formativi.
Colpisce la sottovalutazione di quella delicata fase di crescita
che corrisponde ai 13-15 anni; si pensa davvero che il/la nostro/a
adolescente sia in grado di conferire senso alla vita e di ravvisare
la differenza tra il bene e il male?
La debole e non esplicitata connessione tra conoscenze, abilità,
atteggiamenti fa assumere alle pagine dedicate ai comportamenti,
alla conquista dell’autonomia, alle relazioni sociali, un
risvolto del tutto moralistico, ai limiti della precettistica.
È necessario un ripensamento del significato formativo
e culturale di tutto il primo ciclo, con l’obiettivo di
stimolare motivazioni, curiosità e partecipazione degli
allievi, offrendo solidi alfabeti e codici per rappresentare il
loro mondo, comprenderlo e comunicarlo.
Marzo
2004 |